Il terzo libro è forse il più “odissiaco” dell’Eneide, quello più denso di riferimenti geografici. E infatti fra gli elementi di maggiore interesse del libro vi sono proprio gli accenni agli specifici luoghi toccati dalla peregrinazione di Enea e dei suoi. Dalla Tracia, con la terribile comparsa di Polidoro, a Delo, con l’oracolo e la profezia dell’oracolo d’Apollo, alla sosta in Creta a causa dell’errore di interpretazione dell’oracolo compiuto da Anchise. Grazie a un sogno in cui i Penati rivelano che l’antica madre è nientemeno che l’Italia, riprendono il viaggio, toccando le Strofadi prima, Azio poi - luogo della celebre battaglia e scelto da Virgilio per ovvie ragioni politico-propagandistiche dettate dall’intento celebrativo del poema, dietro cui si cela l’ombra di Augusto – e infine a Butroto, dove avviene l’interessante incontro con Andromaca. Il passaggio per la Sicilia, evitando Scilla e Cariddi, offre poi l’occasione a Virgilio di fare un ponte con l’opera omerica e i suoi celeberrimi riferimenti mitologici – sia Scilla e Cariddi, ma pure prima le Arpie presso le Strofadi, come anche i Ciclopi, che sono però solo citati. Ripartiti dalle pendici dell’Etna, fanno ultima tappa prima di Cartagine a Drepano, ove il vecchio Anchise muore. Drepano diventa quindi sosta funzionale alla sola morte del padre d’Enea, necessaria forse a fini meramente narrativi. Quanto in conclusione tengo a evidenziare è che dietro la scelta di ciascuno di questi luoghi è possibile rinvenire una precisa esigenza dell’autore, che sia narrativo-poetica, politica, ideologica, mitologica o di altra natura.
Virgilio, fin dai primi versi in cui parla di Andromaca, mette in luce l’atteggiamento di perpetua fedeltà della donna nei confronti del marito defunto: “Andromaca libava rituali vivande e mesti doni al cenere e invocava i Mani sul tumolo d’Ettore”. La donna infatti, pur avendo trascorso un periodo di schiavitù sotto Neottolemo e aver sposato Eleno, vive costantemente nel ricordo dell’amato Ettore. Questo aspetto emerge anche durante l’incontro della donna con Enea, che crede inizialmente fantasma e a cui chiede subito del defunto marito («Hector ubi est?», "Dov'è Ettore?").
Virgilio presenta Andromaca come amens (“priva di senno”) e furens (“furiosa”), anche Omero nell’Iliade descrive la donna come pazza e come una Menade. La scelta di questi termini rivela come l’amore per Ettore abbia mandato fuori di senno Andromaca; Omero vuole sottolineare lo strazio per aver perso la persona che dà senso alla propria vita, Virgilio mostra come il grande dolore provato la fa vivere in un mondo illusorio fuori dalla realtà. Una scena in particolare mette in risalto questo aspetto, quando Enea trova la donna da sola nel bosco (luogo isolato dalla città) intenta a onorare il ricordo di Ettore.
Virgilio fa esprimere ad Andromaca tutto il suo risentimento verso gli uomini che l’hanno umiliata ed usata prima come bottino di guerra (Neottolemo) e poi scaricata allo schiavo Eleno quando non era più utile al proprio prestigio. “Noi, incendiata la patria, portate per mari lontani, forzate alla schiavitù, sopportammo l’insolenza del figlio di Achille, giovane superbo: il quale in seguito mirando a Ermione ledea e alle nozze spartane, trasmise in possesso me serva al servo Eleno.”
Il libro III dell’Eneide si concentra sui viaggi e le peripezie di Enea alla ricerca del luogo ideale per la fondazione di una nuova città. Possiamo definire questo libro il più “odissiaco” dell’Eneide, infatti i riferimenti a Omero sono molteplici tra luoghi e personaggi. Enea, però, è completamente diverso da Odisseo: l’eroe troiano non ha la sete di conoscenza e lo spirito d’avventura di Odisseo, i suoi sono spostamenti intrapresi sostanzialmente per obbedienza. Ogni luogo è vissuto con la speranza che questa sia la destinazione e l’ignoto genera paura, non curiosità.
Molto interessante è la figura di Andromaca: ella ha perso il figlio e colui che era per lei «padre, madre, fratello e sposo», infatti è molto toccante l’incontro con Enea poiché lei si aspettava il fantasma di Ettore. Andromaca ha perso Troia, la sua patria, per questo può essere considerata il simbolo dell’esule. Andromaca cerca di colmare questi vuoti sposando la persona più vicina a Ettore, crescendo un altro figlio e costruendo una "nuova" Troia. Nonostante ciò rimane ingabbiata nel passato, al contrario di Eleno che invece è soddisfatto, guarda al futuro; infatti tra i due non c’è dialogo, sono completamente diversi.
Il racconto delle vicende è destinato a Didone e questo crea un interessante legame con il lettore; la descrizione dei luoghi crea un rapporto spazio-tempo suggestivo, poiché si sovrappongono vicende omeriche, vicende virgiliane e anche tutte quelle leggende che sono state associate a quei luoghi nel corso dei secoli; leggere il libro III è come osservare le stratificazioni in un sito archeologico, stratificazioni che variano da lettore a lettore, in base all’epoca in cui vive.
Anche se il terzo libro dell’Eneide parla sostanzialmente del viaggio di Enea, non è privo di elementi peculiari. Toccanti sono infatti le scene di Polidoro, Andromaca ed Eleno e la morte del padre Anchise. Non privi di avventura sono poi i momenti legati alla pestilenza, alle arpie e a Scilla e Cariddi. I due passi analizzati (vv. 420-432 e 555-570) presentano la celebre vicenda dei due mostri Scilla e Cariddi. È interessante la scelta degli efficaci vocaboli scelti dal poeta: inplacata per descrivere Cariddi come se volesse rafforzare la percezione della sua grandissima voracità. Per Scilla invece è singolare il nome pistrix che sottolinea la forma mostruosa del suo corpo. Ai versi 421-423 è presente poi l’allitterazione della “s” rendendo il suono quasi onomatopeico. I suoni cupi delle “r” aiutano a rendere tenebrosa l’esperienza dei due mostri. Con l’utilizzo delle molte consonanti, si ottiene poi una musicalità spezzata, interrotta e di difficile lettura. Grazie alla “s” si può percepire il sibilo aspro del mare mosso in vicinanza dello stretto: obSidet, atque imo barathri ter gurgite vaStoS / Sorbet in abruptum fluctuS rurSuSque sub auraS / erigit alternoS, et Sidera verberat unda. L’esperienza dei due mostri Scilla e Cariddi genera paura per tutti i condottieri passati per lo stretto, partendo dagli Argonauti fino a giungere ad Enea. Anche se gli eroi epici più famosi riusciranno, bene o male, a scampare a questi ostacoli, i due mostri rimarranno sempre pericolosi per tutti coloro che decideranno di percorrere la rotta dello stretto di Messina
Il terzo libro dell’Eneide è interamente dedicato al viaggio, all’avventura e alle peripezie dell’eroe e del suo popolo per trovare il luogo giusto dove fondare una nuova città e ricominciare a vivere dopo lunghi anni di guerra. Proprio per il tema della vicenda, sono presenti dei parallelismi con il libro IX dell’Odissea, anch’esso incentrato sul viaggio e sulla ricerca di un approdo sicuro in patria. Inoltre, in entrambi i poemi, il mare gioca un ruolo importante come antagonista degli eroi ed è in grado, con i suoi moti improvvisi, di far cambiare rotta alle navi e gettare gli uomini in terre sconosciute. La descrizione della tempesta (vv. 192-210) è significativa sia per i riferimenti all’Odissea sia per l’uso di espressioni formulari tipico di Omero come il verso 208 “adnixi torquent spumas et caerula verrunt” che è ripetuto al verso 583 del libro IV. Il mare assume anche il significato simbolico dell’incerto vagare degli esuli Troiani e viene indicato con diversi vocaboli (pelagus, fretum, aequor…) per esprimerne le varie sfaccettature. Altro elemento chiave del terzo libro sono i molti personaggi mitologici che Enea incontra o che vengono citati come le Arpie, i Ciclopi e la Grande Madre.
La Grande Madre, in particolare, è spesso menzionata nel poema e la sua figura ritorna in vari passi. Infine, il senso di smarrimento che permea l’intera narrazione raggiunge il culmine negli ultimi versi dove è raccontata la morte di Anchise che per Enea rappresentava un punto di riferimento e conforto nelle sventure “omnis curae casusque levamen”.
Il libro III dell’Eneide è caratterizzato senza dubbio da una grandissima varietà poiché, essendo Enea in fuga da Troia, l’ambientazione muta frequentemente e si incontrano scenari differenti. La narrazione inizia con l’approdo di Enea in Tracia la quale fin da subito appare una regione infausta e inadatta a essere la sede della nuova città. Il rito di fondazione appare ben codificato: essenziale è l’invocazione agli dei affinché la nuova città possa avere la loro approvazione e protezione. Nella meticolosità con cui compie questi riti si esplicita la pietas di Enea il quale presta molta attenzione ai segni divini: l’horrendum et…mirabile monstrum lo scuote; questi sentimenti forti vengono espressi tramite immagini significative e pregnanti: l’eroe virgiliano è attraversato da un frigidus horror tanto che quasi il suo sangue si ghiaccia. In questi versi compare frequentemente il motivo del sangue che allude all’atroce delitto commesso da Polimestore ai danni dell’innocente Polidoro; quest’ultimo è vittima dell’auri sacra fames che a volte porta l’uomo a infrangere le leggi non scritte come la fides. Il verso Heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum manifesta la preoccupazione di Polidoro che mette in guardia il conterraneo sui rischi del luogo: questo esametro risulta caratterizzato dall’iterazione martellante di fuge che conferisce solennità all’espressione. Le parole di Polidoro contengono un’implicita sollecitazione rivolta a Enea che è invitato a recare gli opportuni onori funebri al defunto. Il funus di Polidoro converte l’iniziale racconto di una ktísis nell’eziologia di una celebre sede sepolcrale. Questo rito non rappresenta soltanto il funerale dell’ultimo dei Priamidi ma anche il simbolico funerale di Troia che non esiste più
Durante tutta la lettura del terzo libro dell’Eneide ho notato come Virgilio abbia evidenziato il fatto che Enea non avesse deciso in prima persona di intraprendere viaggi, spesso pericolosi, alla ricerca della città “perfetta”. Enea ha dovuto compiere i viaggi in questione per obbedienza e devozione alla famiglia e alla patria e, di conseguenza, ogni tappa era condita da paura e speranza. Un altro aspetto che mi ha colpito particolarmente è stata la fiducia da parte di Enea verso Eleno e Andromaca. Loro ospitano l’eroe e si fidano di lui: gli raccontano la loro storia senza provare alcuna paura. Andromaca racconta le sue sventure ad Enea poiché si sente al sicuro e non giudicata e trova così conforto e una spalla su cui piangere. Infine, ad accendere in me molta curiosità è stato l’episodio di Polidoro al quale, durante prima lettura del libro, ad essere sincera non ho prestato grande attenzione. L’episodio, invece, è ricco di forza comunicativa perché i verbi e le parole utilizzate rendono perfettamente l’idea delle emozioni provate da Enea: “mihi frigidus horror/membra quatit gelidusque coit formidine sanguis”. Ciò che mi ha colpito di più, però, è la maestria con cui Virgilio scrive questi versi: le parole sono a disposizione dell’autore, egli sceglie quali usare e soprattutto quando usarle; entrano in armonia con l’idea del poeta e aiutano soltanto a descrivere quello che l’autore ha in mente senza però prendere il sopravvento sulla narrazione.
Quando parliamo della profezia di Eleno che narra di una terra chiamata Esperia, considerata la terra madre dei Teucri e il luogo in cui Enea ora vuole approdare con il fine di ricongiungersi con il proprio passato e su questo fondare il proprio futuro, è importante citare il nome di un’altra figura: Cassandra.
Quest’ultima, sorella gemella di Eleno, era anche lei dotata di capacità profetiche, ricevute in dono da Apollo, ma, secondo una versione del mito, poiché non ricambiava l’amore del dio, fu destinata a non essere mai presa sul serio, sebbene le sue predizioni fossero vere (Virgilio lo dice ad esempio nei vv. 246-247 del secondo libro). In una delle scene che precede la profezia del fratello Eleno, nei vv. 182-185, Anchise ricorda che Cassandra, ancora prima della caduta della città di Troia, era solita rievocare l’ ‘Hesperiae’ e gli ‘Itala regna’ come luogo di origine della stirpe dei Teucri. Poi nei versi successivi (vv. 186-187) Anchise esordisce con “Sed quis ad Hesperiae venturos litora Teucros/ crederet? Aut quem tum vates Cassandra moveret?”, proprio a ripetere questo suo ‘difetto fatale’, che le aveva impedito di salvare la vita dei Troiani. Il ruolo dei profeti e degli indovini nel mondo antico risultava determinante in quanto questi erano dotati di un sesto senso che conferiva loro la capacità di prefigurare con certezza il futuro degli uomini. Essi erano dunque portatori di una verità assoluta e incontrovertibile che risultava però inevitabilmente subordinata a quella divina. Forse è proprio il mancato rispetto e la mancata accettazione da parte della profetessa di tale condizione di inferiorità che instillò negli uomini sfiducia nei suoi riguardi. Potremmo dunque descrivere Cassandra come una sorta di eroina tragica, destinata a non essere mai creduta dagli uomini, seppur possedesse il raro dono di poterli avvertire circa le sventure incombenti.
Eleno d’altro canto, riconoscendo la propria natura umana e la sua subordinazione rispetto alle divinità, giunge a tal punto da mettere lui stesso in dubbio le sue doti profetiche ai vv 433-434: praeterea, si qua est Heleno prudentia vati,/si qua fides, animum si veris implet Apollo. Questo sarà sufficiente per far sì che Enea consideri la sua profezia come proveniente da una “bocca amica” e dunque come inevitabilmente vera.
Scilla è una ninfa innocente, trasformata da una Circe rancorosa mentre si sta bagnando nelle acque placide del mare. È stata infatti Circe a trasformare in mostro Scilla, una giovane ninfa bella e seducente macchiatasi della colpa di aver provato a sedurre Glauco, il pescatore amato dalla strega e da lei trasformato in dio del mare. Allo stesso modo anche Cariddi, la sua letale compagna, sarebbe il risultato di una trasformazione. Lei è una naiade dall’insaziabile appetito che ha rubato a Eracle i famosi buoi di Gerione, divorandone una parte. Per tale ragione Zeus la fulmina e la getta tra i flutti, dove diviene un mostro simile a una lampreda, che inghiotte i marinai. Le due sono appostate a entrambi i lati dello stretto di Messina, di cui sono implacabili guardiane: Scilla in terra calabra, in corrispondenza del promontorio Scilleo, Cariddi a distanza di un dardo, in terra sicula. Scilla, tratteggiata quale mostro a volte antropomorfo, a volte chimerico, divora gli uomini, Cariddi risucchia le navi tre volte al giorno, facendole naufragare. Scilla è il mare che lacera, Cariddi il mare che inghiotte. E se Cariddi è un mostro quasi invisibile, amorfo, Scilla è invece descritta in modo preciso: «I piedi son dodici, tutti invisibili: / e sei colli ha, lunghissimi: e su ciascuno una testa / da fare spavento; in bocca su tre file i denti, / fitti e serrati, pieni di nera morte» (Odissea, XII canto).
Scilla latra orrendamente, giacché la sua voce è simile a quella di una cagna neonata e, in effetti, secondo una possibile etimologia, il termine Scilla rimanderebbe al greco skylos, “cane”. “Donna cagna” ma anche pelor deinos, mostro tremendo, al pari di Cariddi, evocata più tardi e frettolosamente da Strabone, Apollonio Rodio e Sallustio.
Si può dire che entrambe siano la personificazione fantastica di realtà esistenti, nonché geograficamente circoscritte, che, soprattutto nel mondo greco, si cercava di dominare e controllare tramite il ricorso al mito. Pare infatti che lo stretto di Messina, per i suoi scogli, come quello dove si nasconde Scilla, e per le sue correnti vertiginose, quale quella che scatena Cariddi, fosse nell’antichità un passaggio piuttosto pericoloso, che incuteva timore e riverenza nei marinai.
Nell’Eneide, però, Eleno e poi Anchise, padre di Enea, suggeriscono all’eroe di evitare i due scogli, circumnavigando l’isola di Trinacria, ovvero la Sicilia. Sembra perciò che Scilla e Cariddi perdano man mano vigore, destinate non più a essere terribili e verosimili creature, bensì frutto di credenze e, in quanto tali, sospese tra realtà e fantasia, infatti tenderanno a scomparire dalla letteratura, tranne per qualche sporadica e fugace comparsa, come in Dante, in Dumas o in Joyce , per rimanere invece nel lessico quotidiano quale modo di dire: quando si afferma di «trovarsi tra Scilla e Cariddi», ossia in una situazione d’impasse, si mettono in rilievo l’incapacità di trovare una via d’uscita e la necessità di prendere una decisione
Polidoro è figlio di Priamo, re di Troia, e di Ecuba, di cui riferiscono Virgilio nell'Eneide ed Euripide nella tragedia Ecuba. Virgilio, rispetto all’Ecuba, dà una versione differente sulle modalità dell'uccisione di Polidoro e sulla sorte del cadavere. Come narra Enea e Didone nel terzo libro dell'Eneide, l'eroe troiano, giunto nel Chersoneso Tracico, strappò alcune fronde per coprire l'area dell'altare appena eretto; da esse vide colare un fiotto di sangue nero e sentì la voce del giovane principe che gli raccontò la propria tragica fine. Le fronde altro non erano che il risultato della metamorfosi delle frecce con cui il giovane era stato trafitto: il cadavere giaceva lì sotto, ma non perfettamente sepolto, sicché l'anima non era entrata nell'Ade. Enea si affrettò a tumulare degnamente Polidoro e ripartì, lasciando per sempre quel luogo maledetto. Dante riprende il III libro dell’Eneide nel canto XIII dell’Inferno in cui il Dante viator viene più volte confrontato dal Dante auctor con la figura di Enea. Nella selva dei suicidi, Dante coglie un ramo «da un gran pruno», vede uscire del sangue e, nel contempo, sente una voce che domanda: «Perché mi schiante?». L’allusione di Dante al testo virgiliano ci vuole introdurre in un’atmosfera di misfatto, di oltraggio nei confronti dell’ordine naturale e divino. Il lettore del canto dantesco richiama alla memoria l’azione scellerata compiuta dallo zio Polimestore nei confronti di Polidoro, delitto che viola la pietas e i naturali rapporti di parentela. Le Arpie, invece, nella mitologia greca, sono creature mostruose, con viso di donna e corpo d'uccello. L'origine del loro mito deve forse ricondursi a una personificazione della tempesta. Le arpie, figlie di Taumante ed Elettra, sono citate nell'Odissea di Omero (libro XX): in una preghiera ad Artemide Penelope ne parla come di procelle e ricorda che rapirono le figlie di Pandareo per asservirle alle Erinni. Dante Alighieri cita anche le Arpie nel Canto XIII dell'Inferno: esse rompono i rami e mangiano le foglie degli alberi al cui interno si trovano le anime dei suicidi, che, in questo modo, provano dolore e hanno dei pertugi attraverso i quali lamentarsi. Infine, il Ciclope compare anche nell’Odissea: Polifemo è un ciclope figlio di Poseidone e di Toosa. Polifemo è anche il protagonista dell'unico dramma satiresco a noi pervenuto, Il ciclope, di Euripide, dove viene caratterizzato in modo conforme al poema omerico, esagerando nei caratteri grotteschi e comici che già erano presenti nella Odissea. Queste tre figure, quindi, si ritrovano spesso in varie opere letterarie e assumono di volta in volta, pur mantenendo dei tratti comuni, caratteristiche particolari a seconda dell’autore.
Quando parliamo della profezia di Eleno che narra di una terra chiamata Esperia, considerata la terra madre dei Teucri e il luogo in cui Enea ora vuole approdare con il fine di ricongiungersi con il proprio passato e su questo fondare il proprio futuro, è importante citare il nome di un’altra figura: Cassandra.
Quest’ultima, sorella gemella di Eleno, era anche lei dotata di capacità profetiche, ricevute in dono da Apollo, ma, secondo una versione del mito, poiché non ricambiava l’amore del dio, fu destinata a non essere mai presa sul serio, sebbene le sue predizioni fossero vere (Virgilio lo dice ad esempio nei vv. 246-247 del secondo libro). In una delle scene che precede la profezia del fratello Eleno, nei vv. 182-185, Anchise ricorda che Cassandra, ancora prima della caduta della città di Troia, era solita rievocare l’ ‘Hesperiae’ e gli ‘Itala regna’ come luogo di origine della stirpe dei Teucri. Poi nei versi successivi (vv. 186-187) Anchise esordisce con “Sed quis ad Hesperiae venturos litora Teucros/ crederet? Aut quem tum vates Cassandra moveret?”, proprio a ripetere questo suo ‘difetto fatale’, che le aveva impedito di salvare la vita dei Troiani. Il ruolo dei profeti e degli indovini nel mondo antico risultava determinante in quanto questi erano dotati di un sesto senso che conferiva loro la capacità di prefigurare con certezza il futuro degli uomini. Essi erano dunque portatori di una verità assoluta e incontrovertibile che risultava però inevitabilmente subordinata a quella divina. Forse è proprio il mancato rispetto e la mancata accettazione da parte della profetessa di tale condizione di inferiorità che instillò negli uomini sfiducia nei suoi riguardi. Potremmo dunque descrivere Cassandra come una sorta di eroina tragica, destinata a non essere mai creduta dagli uomini, seppur possedesse il raro dono di poterli avvertire circa le sventure incombenti. Eleno d’altro canto, riconoscendo la propria natura umana e la sua subordinazione rispetto alle divinità, giunge a tal punto da mettere lui stesso in dubbio le sue doti profetiche ai vv 433-434: praeterea, si qua est Heleno prudentia vati,/si qua fides, animum si veris implet Apollo. Questo sarà sufficiente per far sì che Enea consideri la sua profezia come proveniente da una “bocca amica” e dunque come inevitabilmente vera.
Il terzo libro dell’Eneide si potrebbe intitolare “il libro della ricerca”. Il lungo peregrinaggio di Enea infatti ha come fine unico la ricerca della terra assegnata dal Fato, che però resta oscura e misteriosa, celata e allontanata dalla volontà delle divinità avverse. In questi passi del poema affiorano tutte le incertezze, insicurezze e dubbi che assalgono Enea. Il viaggio che è costretto ad affrontare è lungo e pieno di pericoli, ma il suo coraggio e la sua determinazione lo aiutano a superare ogni ostacolo. In ciascuna tappa del viaggio, Enea incontra nuovi personaggi e affronta nuove sfide, che lo rendono sempre più forte e risoluto. La ricchezza di simboli e di riferimenti mitologici conferiscono alla storia un tocco di mistero e di magia e immergono completamente il lettore nella storia.
Virgilio descrive con grande precisione le ambientazioni, le battaglie e le vicende dei personaggi, creandone un'immagine dettagliata, ma non fa mancare anche fatti emozionanti e commoventi. Tale è l’episodio dell’incontro con Andromaca che, chiusa nel suo dolore, alla vista di Ascanio ricorda il piccolo figlio defunto. Le emozioni che questo passo dona, arrivano come una freccia in pieno petto, lacerando il cuore struggente all’ascolto delle parole della donna.
Penso che questo libro possa insegnare molto ad ognuno di noi. Come Enea, ci può sembrare che la nostra vita non abbia uno scopo, ma solamente provando ad imboccare decine di strade riusciremo a trovare quella giusta, quella che ci porterà alla meta finale. L’uomo non è altro che una piccola barchetta scombussolata dalle onde e trascinata dal vento, finché questa non approda nella terra destinatagli, nella quale piantare le radici nate dalle fatiche e dagli sconforti del lungo viaggio.
Il libro terzo dell’Eneide si concentra sul viaggio che Enea compie per trovare una terra dove fondare la sua città. Insieme ai suoi compagni supera molti pericoli e sofferenze ma non perde mai la speranza di trovare la terra madre che si rivela essere l’Italia. Nel libro non solo si racconta di avventure ma è soprattutto una narrazione delle profezie per eccellenza: la profezia dell’oracolo di Apollo insieme al sogno di Enea in cui gli viene rivelato dove andare, la previsione di Eleno che ha già trovato la sua “Troia” e che non vaga più in cerca di una meta come invece Enea è destinato a fare ancora per lungo tempo; il malaugurio che funge da profezia fatta da Celeno, capo delle Arpie, mostri-creature indefinite che personalmente non riesco a definire. Le Arpie non hanno un ruolo fondamentale nel viaggio di Enea in quanto hanno funzione principalmente di elemento disturbatore di una pace che Enea aveva trovato dopo la tempesta. Eppure queste creature sono interessanti: non hanno nessun motivo apparente per attaccare l’eroe e i suoi compagni ma persistono per ben tre volte.
Il libro III si caratterizza per la molteplicità e la varietà sia sul piano contenutistico che su quello formale. La narrazione è infatti destinata a Didone, si crea dunque un implicito dialogo con il lettore: personaggio e narratore per un attimo si sovrappongono e la descrizione delle creature diventa surreale, un’eco dei viaggi di Odisseo. L’incertezza del viaggio emerge nel frequente utilizzo di espressioni legate al verbo fero, nell'alternanza dei punti di vista (si pensi a “portu terraeque urbesque recedunt” v.72), nonché nello stretto rapporto dei luoghi scelti con la contemporaneità (Si pensi alla vicinanza di Butroto ad Azio). Il libro alterna toni solenni ad espressioni patetiche, plurimi sono gli spunti di analisi sviluppabili, dall’attenzione ai termini utilizzati nelle profezie, alle espressioni divenute quasi proverbiali e riprese da molteplici autori successivi. (Si veda p.e. “parce sepulto” v.41). L’incontro forse più interessante, per la compresenza di vari fra gli elementi sopra citati, è l’arrivo a Butroto luogo nel quale si trova Andromaca. La scena è straziante: la donna si trova dinnanzi ad un’ara geminas mentre compie sacrifici, ed ecco che le appare Enea in armi troiane. L’arrivo del protagonista viene interpretato come un prodigio e la povera donna non può fare a meno di domandare “Hector ubi est?” (v.312). Il patetismo della scena raggiunge il suo culmine nel dialogo fra Andromaca e Ascanio, "imago" di Astianatte, e sancisce l’ormai necessario distacco dalle origini troiane (Butrinto è indubbiamente una parva Troia ma non sarà mai pareggiabile all’antica città) che terminerà con la morte di Anchise, simbolo di una storia ormai conclusa.
Nel terzo libro delle Eneide, ad un certo punto Enea approda a Butroto, cittadina della odierna Albania, luogo in cui incontra Andromaca, moglie fedele del coraggioso Ettore; Andromaca (in greco antico: Andromáche, "colei che combatte gli uomini") è un personaggio della mitologia greca prima di comparire nelle Eneide. Fu principessa di Tebe Ipoplacia. I miti e la tradizione hanno delineato un ritratto sconsolato, rammaricato ed eternamente perseguitato di Andromaca, una figura toccante per essere destinata a perdere tutti i suoi cari. In contrasto con la relazione tra Elena e Paride, quella tra Andromaca ed Ettore coincide con l'ideale greco di un matrimonio d'amore felice e di reciproca fedeltà, che intensifica la tragedia che condivideranno. Andromaca fu mandata dal padre a Troia per dare un erede a Ettore in un matrimonio combinato come era costume ai tempi, ma subito se ne innamorò. In altre fonti fu Ettore stesso ad andare a Tebe, portandole numerosi doni e chiedendole la mano. La figura di Andromaca compare per la prima volta nell'Iliade (libro VI), mentre scongiura il marito Ettore di combattere rimanendo sulla difensiva contro Achille e di fermarsi all'albero di caprifico, nel punto in cui le mura di Troia sono più deboli, ma egli riesce a farla desistere dai suoi intenti, ricordandole il suo ruolo di sposa e di madre, e di non abbattersi e lasciare le faccende riguardanti la guerra a lui, poiché Ettore, in qualità di principe ereditario, è costretto a combattere. Andromaca perse nel giro di pochi giorni sia Pode che Ettore, uccisi nel decimo anno della guerra di Troia rispettivamente da Menelao e Achille, ma le sue tragedie continuarono anche dopo che gli Achei conquistarono la città: il figlio Astianatte le fu strappato da Neottolemo, che seguendo il consiglio di Odisseo lo gettò dalle mura della città per evitare che la stirpe di Priamo avesse una discendenza. Una volta che la città fu rasa al suolo, gli Achei si spartirono le donne della casa reale ed Andromaca fu fatta schiava di Neottolemo che fece di lei la sua concubina. Ma Andromaca non dimenticò mai l'amore che provava per Ettore, e questo generò in Neottolemo una grande rabbia. La bellezza di Andromaca scatenò anche la gelosia di Ermione, la promessa sposa di Neottolemo. Dopo che fu abbandonata da Neottolemo sposò Eleno e divenne madre di Cestrino. Nell'Eneide virgiliana Enea incontra Andromaca che ha ritrovato la pace elevando un cenotafio al defunto Ettore e sposando in terze nozze Eleno, il fratello indovino di Ettore, che regna sulla rocca di Butrinto. Gli esuli vi hanno costruito una piccola Troia per ritrovare quella patria e quella famiglia dalla quale le vicende di una rovinosa guerra li avevano allontanati con violenza. Seppur si sia ricostruita una vita apparentemente uguale a quella che aveva con il marito defunto, tuttavia rimane legata al passato e follemente innamorata di Ettore poiché dell’eroe non ci sono copie.
Il terzo libro dell’Eneide rappresenta uno snodo fondamentale nelle vicende degli esuli troiani. Con esso, infatti, Virgilio racconta in modo dettagliato il percorso di Enea e dei suoi attraverso il Mar Egeo, dalla Tracia a Creta all’Epiro, i diversi tentativi di fondazione di una nuova patria, tutti andati a vuoto, gli incontri con personaggi e creature mitologiche, Polidoro, le Arpie. Vi è poi il fondamentale passaggio dalle coste balcaniche all’Italia, l’Esperia tanto agognata, destinazione ultima voluta dal fato e futura culla della grande potenza che nascerà dai profughi di Ilio. In questo libro compaiono solo le terre più meridionali della penisola, nonché la Sicilia, isola dei ciclopi. Proprio da qui, a causa di una tempesta improvvisa, la flotta troiana sarà sospinta sulle coste africane, dove si aprirà la cruciale parentesi punica. Ma in parallelo a questo avventuroso viaggio odissiaco se ne può scorgere un altro, meno evidente ma non per questo meno rilevante: l’allontanamento da Troia non avviene esclusivamente da un punto di vista geografico, bensì anche in un’ottica identitaria. Punto fondamentale di questo percorso è la tappa a Butrinto, città dell’Epiro e ultimo simulacro della grandezza di Ilio, ormai bruciata e persa per sempre. Salpando dal suo porto Enea si lascia alle spalle definitivamente l’antica patria perduta e fissa lo sguardo sull’Esperia che sta davanti a lui. Là egli dovrà stabilirsi affinché dalla sua discendenza possano avere origine Roma, il suo impero e la sua cultura. Non per nulla il terzo libro si conclude con la morte dell’anziano Anchise, indissolubilmente legato all’antica città dell’Anatolia. Si tratta di un episodio doloroso, ma che apre la strada alle nuove generazioni e in particolare al giovane Ascanio.
“Siamo spinti da auspici divini a cercare lontano terre d’esilio poco abitate” (vv. 4-5). Così già dai primi versi viene subito focalizzato l’obbiettivo del libro terzo, il libro di un Enea esule e intraprendente di un lungo viaggio indesiderato perché schiavo del fato. Sicuramente notiamo notevoli uguaglianze con i poemi omerici, come ad esempio l’incontro di Enea con figure mitologiche, quali le arpie e il ciclope già precedentemente affrontate da Odisseo. In particolare, l’episodio dell’incontro alle falde dell’Etna tra il protagonista e Achemenide rappresenta un efficiente “ponte” tra Virgilio e Omero, tra i poemi greci e romani, tra “l’antico” e il “nuovo” per l’epoca. I due poemi sembrano intrecciarsi con un'analessi che per un momento ferma il tempo della storia grazie alla commovente e macabra descrizione da parte del greco narratore interno, riguardante la violenza e le abitudini degli abitanti di quella terra e soprattutto del ciclope Polifemo ormai cieco. Nonostante ciò, noto tra il personaggio di Enea e quello di Ulisse alcune differenze: entrambi perseguono un importante obiettivo e tutte le loro mosse sono volute da forze maggiori, anche degli stessi dei e le fasi del viaggio sono tuttavia simili ma nell’Odissea è presente una dimensione eroica ed epica invece nell’Eneide risulta un’“atmosfera” più drammatica e religiosa. L’esule non sembra avere curiosità e il desiderio di rischiare. È però notevole come le sue tappe siano intraprese con adempimento alla sorte, agli dei e agli oracoli e la sua unica finalità sia raggiungere l’ “antica madre”. Si percepisce sempre in lui la speranza che la terra dove è approdato sia la destinazione nonostante ponga sempre la fondazione della nuova città ai suoi interessi personali, raggiungendo così l’appellativo di pius.