Il culto della dea Cibele trova delle corrispondenze anche in altri autori antichi quali Ovidio e Catullo. Ovidio la menziona nel libro IV (vv. 179-372) dei Fasti. Quest’opera aveva l’intento di illustrare l’origine e i miti legati alle feste di Roma e sarebbe dovuta essere composta da dodici libri, uno per ogni mese dell’anno, tuttavia venne interrotta al VI libro perché Ovidio, vittima di esilio, fu costretto a lasciare la città. Il poema ha come modello la poesia eziologica degli Aitia di Callimaco. All’inizio del brano vengono evocate le feste in onore della dea, dominate da musica e danze sfrenate. Nella processione è presente la stessa Cibele, seduta su un trono e circondata dai Galli, suoi sacerdoti Ipsa sedens molli comitum cervice feretur/ urbis per medias exululata vias. Ovidio, che sta assistendo alla celebrazione, desidera porre delle domande alla divinità e chiede, a causa del forte rumore, di porle in privato. Allora Cibele ordina alle Muse (definite nipoti della dea poiché viene assimilata a Rea, moglie di Saturno e madre di Giove) di soddisfare le curiosità del poeta. La prima è il motivo della forte musica che la circonda sempre e così viene raccontato il mito dell’infanzia di Giove sul monte Ida a Creta. Saturno divorava uno per uno i propri figli appena nati per paura che un giorno potessero spodestarlo. La moglie Rea, che non poteva più sopportare ciò, decise di nascondere l’ultimogenito in una grotta per tenerlo al sicuro dal padre e incaricò i Coribanti di camuffare i vagiti del bambino con il rumore dei loro strumenti. Per questo, strepiti e musica accompagnano sempre le feste in onore della dea Res latuit, priscique manent imitamina facti:/ aera deae comites raucaque terga movent. In seguito vengono poste altre domande e una in particolare, che riguarda il rituale di evirazione dei sacerdoti della dea, introduce la storia di Attis. Attis era un giovane pastore amato da Cibele ed ella volle tenerlo con sé a condizione che rimanesse fedele e legato solo a lei. Il pastore non mantenne la promessa e si innamorò di una ninfa scatenando le ire della dea che uccise la fanciulla. Attis allora, in preda alla follia, si sfigurò con un sasso aguzzo e si evirò. In seguito viene rievocata la storia del culto di Cibele, dalla Frigia fino a Roma, dove venne introdotto nel 204 a.C. Infine, vengono menzionati altri elementi di esso: i Megalesia e le offerte dei fedeli. Il secondo componimento che riguarda la figura di questa divinità è il carme LXIII del Liber di Catullo che è uno dei carmina docta scritti secondo il gusto della poesia alessandrina. In esso è raccontata la vicenda di Attis. Il momento iniziale lo ritrae in preda all’ira e nell’atto di compiere l’evirazione, dopo ciò, chiama gli altri sacerdoti della dea percuotendo il timpano. Così, in un’atmosfera di invasamento, si recano velocemente al tempio di Cibele e lì vengono presi dal sonno. Quando poi Attis si sveglia e va verso la spiaggia, il furore lo ha ormai abbandonato e con la mente limpida ripensa a tutto ciò che ha abbandonato per seguire la divinità: la patria, i beni, le persone care Patria, bonis, amicis, genitoribus abero. Da quel momento in poi sarà condannato a vivere nei boschi e a diventare servo della dea e, di fronte a questa consapevolezza, si pente di ciò che ha fatto. La stessa Cibele, impietosa, dopo aver udito queste parole, ordina a uno dei leoni che trainano il suo carro di avventarsi su di lui per farlo ritornare nella selva. Attis allora, terrorizzato, scappa nel bosco e lì rimane come sacerdote per il resto della vita ille demens fugit in nemora fera;/ ibi semper omne vitae spatium famula fuit. Negli ultimi versi, infine, Catullo prega la dea di non renderlo vittima della stessa esaltazione e furore.