La geologia diventa una scienza

Il nano e i giganti: le idee della geologia tra il ‘700 e il ‘900

Un difficile cammino tra scienza e filosofia, tra biologia e fisica

di Marco Tongiorgi

articolo pubblicato sul numero ** di Naturalmente **-**

Figure e didascalie inserite dal redattore...

Premessa

Il geologo classico è un essere eminentemente pratico. Il suo interesse principale risiede nella puntiforme osservazione delle rocce, il suo metodo è sostanzialmente analitico-descrittivo, il suo obiettivo la ricerca per via induttiva di possibili esplicazioni. Questa immagine del geologo come pratico indagatore della natura delle rocce, più portato alla esperienza sul campo che all’astratta riflessione teorica, si era già consolidata fin dal ‘700, se il mineralista e geologo francese Déodat de Dolomieu (proprio quello cui si deve il nome delle nostre Dolomiti) poteva scrivere nel 1794: “Un Géologue est essentiellement un lithoclaste, ou rompeur de pierre, et à peine résiste-t-il au plaisir d’ecorner les monuments des arts pour mieux determiner la nature des substances dont ils sont faits”.

Ma è tutto questo ancora vero? 

Come vedremo, da pochi anni, alla fine di un percorso culturale difficile e talora contorto, una vera e propria rivoluzione scientifica ha profondamente modificato l’atteggiamento delle Scienze della Terra. É stata una rottura drastica, un vero e proprio rapidissimo capovolgimento delle basi metodologiche e delle prospettive cognitive. La geologia di oggi non è più essenzialmente esplicativa; da poco più di due decenni essa è entrata nel novero delle scienze predittive, è a tutti gli effetti una moderna scienza sperimentale. 

É accaduto da così poco tempo e così in fretta, che molti degli stessi geologi hanno spesso durato fatica a cogliere la portata del cambiamento. Le persone e le intere comunità scientifiche portano con sé un bagaglio storico di idee che è difficile da modificare in poco tempo. La stessa terminologia in uso non cambia subito: e vecchi termini nascondono spesso vecchie idee, se non vecchi pregiudizi. 

Osservava Max Plank (1949): “Una verità scientifica nuova non trionfa convincendo i suoi oppositori e rivelando loro la luce, ma piuttosto perché a un certo punto gli oppositori muoiono e cresce una nuova generazione che ha familiarità con essa”. L’enorme bagaglio di cognizioni accumulate dalla geologia classica non deve però essere disperso. Per salvarlo, va ricollocato in una prospettiva storica, nei diversi contesti culturali ove si è andato formando.

La stratigrafia: una esigenza pratica di classificazione

Come molte branche della scienza, anche la stratigrafia è nata da necessità pratiche, soprattutto legate allo sviluppo dell’attività mineraria. Non fa dunque meraviglia che i fondamenti della stratigrafia siano stati posti da uomini come Johann Gottlob Lehmann (1719-1767), mineralista e ingegnere minerario tedesco, che nel 1756 pubblicò una classificazione delle rocce della crosta terrestre: Urgebirge (montagne primitive), rocce di origine chimica, cristalline, anteriori all’avvento della vita e prive di fossili); Flötzgebirge (montagne stratificate), rocce fossilifere, stratificate, formate da particelle erose dalle precedenti); Aufgeschwemnte Gebirge (montagne di trasporto, alluvionali), rocce superficiali, poco cementate, recenti). 

L’influsso della classificazione di Lehmann fu grandissimo. Anche perché, come spesso accade alle opere che si collocano tra quelle che hanno posto storicamente i fondamenti di una scienza, l’opera di Lehmann coglie i frutti di un intensissimo dibattito, centrato soprattutto sulla natura dei fossili e sull’origine delle montagne e dei continenti, dibattito che aveva coinvolto scienziati, filosofi e uomini di chiesa già da almeno un secolo. Basti pensare all’abate veneziano Anton Lazzaro Moro che fin dal 1740 aveva proposto la divisione tra Monti primari (composti “di gran massi di pietre”) e Monti secondari (composti “strati sopra strati, di una o di varie sorte di materia”).

Certo la classificazione di Lehmann si colloca in un contesto diverso (“plutonista” il Moro e “nettunista” Lehmann), è meno “filosofica” ed è più organicamente legata ad ipotesi operative. Tant’è vero che una analoga classificazione delle rocce in Primitive, Secondarie e Terziarie fu ben presto (1759) introdotta in Italia proprio da un altro “tecnico”, Giovanni Arduino (1714-1795), dapprima “metallurgo” e “minerista” in Tirolo, poi Soprastante alle Miniere di Schio, quindi consulente minerario e scienziato di fama internazionale.

Tuttavia, sarebbe riduttivo il considerare queste classificazioni come meri “strumenti” tecnico-operativi. Esse hanno a comune il fatto di ordinare le rocce in base a criteri genetico-temporali piuttosto che puramente composizionali. La qual cosa è, del resto, evidente nella terminologia di Arduino (rocce Primarie, Secondarie, Terziarie), terminologia che, tra parentesi, solo recentissimamente ha cominciato a scomparire dalla letteratura geologica, anche se l’analogo “Quaternario” sussiste incorruttibilmente. Proprio i criteri genetico-temporali collocano le classificazioni di Moro, di Lehmann, di Arduino nel pieno di quel dibattito eminentemente filosofico (o filosofico-religioso) nel quale il problema del tempo aveva il posto centrale.

Il tempo geologico: un problema scientifico e filosofico

Uno dei problemi più grossi cui si trovavano di fronte i primi stratigrafi del ‘700, insieme certamente a coloro che si sforzavano di ricostruire la storia della vita sulla Terra, era il problema del “tempo geologico”. 

Quanto era vecchia la Terra? Quanto tempo avevano a disposizione il geologo e il paleontologo per collocarvi fenomeni che la semplice osservazione dimostrava lentissimi? 

Ancora intorno al 1650 si calcolava l’età della Terra attraverso il computo delle generazioni successive e degli avvenimenti registrati nella Bibbia. L’arcivescovo di Armagh, James Ussher, poneva così l’origine del mondo nell’anno 4004 a.C. E questo calcolo non va preso alla leggera. L’arcivescovo Ussher era persona coltissima ed il calcolo aveva implicato lo studio comparato degli antichi calendari, cui aveva collaborato lo stesso Isaac Newton. Si cercava di quantizzare quella che avrebbe dovuto essere l’età della Terra, secondo la visione cosmogonica più diffusa, ed era certamente un buon punto di partenza.

Tuttavia molti dubbi cominciavano a sorgere. La figura più geniale del ‘600, in questo campo, è probabilmente quella di John Ray (1627-1707), un sacerdote naturalista inglese, osservatore attentissimo della natura e capace di lucida e sofferta riflessione filosofica. Coloro che vennero dopo di lui, da Linneo a White, fino a Lyell e Darwin, debbono molto al suo pensiero, e glielo riconobbero tutti. 

La motivazione centrale di Ray è certamente il tentativo, sollecitato anche dalla Chiesa, di ricercare nell’ “ordine meraviglioso della Natura” la testimonianza della Creazione divina. A questo proposito, possiamo fare una riflessione: paradossalmente, si può dire che tutta la ricerca scientifica moderna ha la sua origine in un convincimento assolutamente irrazionale. Alla base dell’atteggiamento dell’uomo moderno (o, per meglio dire, dell’uomo dell’occidente cristiano), così come si andava configurando tra ‘500 e ‘600, vi era infatti “il semplice atto di fede che l’Universo possedesse un ordine e potesse essere interpretato da menti razionali” (Withehead, 1948). “E’ certo uno fra i paradossi più curiosi della storia che la scienza, che sul piano professionale ha ben poco a che fare con la fede, debba le sue origini all’atto di fede che l’universo possa essere interpretato razionalmente e che la scienza oggi sia sostenuta da tale assunto” (Eisely, 1958). 

John Ray, dunque, osservando nel 1663 una foresta quaternaria sepolta che tornava alla luce dopo esser stata sommersa dal mare, scriveva che: “in tempi antichi il fondo del mare era stato più profondo e che uno spessore di cento piedi di terra era stato formato dai sedimenti di quei grandi fiumi che si gettavano là in mare...” “É una cosa strana, considerando la giovinezza del mondo, la cui età, secondo il computo usuale, non supera i 15.600 anni”. E, considerando anche la formazione delle montagne: “...o il mondo è molto più antico di quanto si immagina, dal momento che tali mutamenti richiedono uno spazio di tempo incredibile... oppure, nei tempi primitivi, la creazione della terra si accompagnò a scosse e mutamenti della sua parte superficiale molto più numerosi di quelli intervenuti in seguito”. 

Uniformismo e catastrofismo: nel brano sopra riportato sono lucidamente anticipate le idee di due correnti scientifico-filosofiche che dominarono la geologia tra il ‘700 e la prima parte dell’800, e delle quali restano ancora oggi tracce, quantomeno nella terminologia geologica. Ma nel pensiero di John Ray c’è una ancora più profonda consapevolezza. Il sospetto di una grande antichità della Terra aveva risvolti sconvolgenti: ammettere l’estrema antichità di talune rocce implicava quella dei fossili in esse contenute. Tanto più se questi non avevano corrispondenze con gli esseri viventi e sembravano quindi appartenere a creature totalmente estinte. Così che Ray arrivava a dire, nel 1695: “ Ma d’altra parte si arriva ad una serie di conclusioni che sembrano scuotere la Scrittura: la storia della giovinezza del mondo; quanto meno, esse rovesciano l’opinione comunemente accettata, e non senza buone ragioni, fra i teologi e i filosofi, che dopo la prima creazione non sono andate perdute specie di animali o di vegetali, né che ne siano state create di nuove”. 

L’onesto reverendo Ray, sgomento, vede ora vacillare la teoria - quasi un dogma - del plenum, che aveva guidato per secoli l’atteggiamento dei cristiani verso la natura: ogni cosa creata ab initio da Dio al suo posto, a riempire tutti gli spazi possibili della Creazione, in un insieme ordinato e immutabile, che dagli esseri inanimati alle forme inferiori di vita, su su fino all’Uomo costituiva una lunga catena, una scala continua tendente verso l’alto. In cima alla scala, l’Uomo, partecipante sia della natura materiale degli esseri inferiori che di quella spirituale degli Esseri celesti, testimoniava dell’anelito di tutta la Creazione verso il suo Creatore. Ancora nel 1635, nella sua “Religio Medici”, Sir Thomas Browne scriveva: “In questo Universo c’è una scala che non sale in modo disordinato e confuso ma con metodo e proporzioni convenienti”. C’è voluto però quasi un secolo, dai tempi del reverendo Ray, affinché ai suoi sofferti dubbi si cominciasse a dare una risposta organica, all’interno di quella vera e propria rivoluzione scientifica che culminerà con l’opera di Lyell e di Darwin. Osserva Eiseley (1961): “ E’ un fatto curioso e interessante che il rigido ordine gerarchico che aveva dominato la biologia cominciasse a venir meno quasi contemporaneamente alla scomparsa della scala sociale feudale nelle tempeste della rivoluzione francese”.

I fossili: la chiave della macchina del tempo

Nella seconda metà del ‘700 le scoperte paleontologiche avevano ormai provato che esseri vissuti in passato erano scomparsi. L’immagine di un mondo immutabile e relativamente giovane era stata ormai definitivamente compromessa. Le collezioni naturalistiche di prìncipi e signori si arricchivano di fossili; le scoperte di animali “pre-adamitici” appassionavano chiunque avesse un minimo di cultura; ed anche nei salotti borghesi si seguiva con attenzione il dibattito filosofico che ne scaturiva. 

Ovunque gli appassionati divenivano cercatori e collezionisti. Particolare sensazione destò, nell’anno 1770, il ritrovamento di una enorme mandibola di un “mostro pre-adamitico” (in realtà un Mosasauro), avvenuto a Maastricht, in Olanda, in una cava di gesso a 450 m di profondità. Questo fossile ebbe storia avventurosa. Fu scavato dal Dr. Hoffmann, un medico militare tedesco in pensione, collezionista e Corrispondente del Museo Teyler di Haarlem. Per studiarlo, Hoffmann ricorse all’aiuto dell’anatomista olandese Pieter Camper, che lo prese per una balena. Ma Camper fu presto smentito dal suo stesso figlio Adrien Camper che, con grandissimo scalpore di tutti, dichiarò trattarsi di una mostruosa lucertola marina oggi scomparsa. Intervenne allora il Canonico Godin, padrone del terreno sopra alla cava, che, invocando i suoi diritti feudali (ma la rivoluzione francese era alle porte, come vedremo ben presto!), trascinò in giudizio Hoffmann e gli sottrasse il fossile, per esporlo in un’urna di vetro e mostrarlo ai curiosi, ovviamente a pagamento. Il fossile pre-adamitico era dunque sottratto alle elucubrazioni blasfeme degli scienziati, con vantaggio della Chiesa e, quel più conta, del Canonico Godin. 

Giustizia fu fatta, come abbiamo anticipato, dalla rivoluzione francese, quando i repubblicani invasero la città e il Cittadino Generale Pichegru promise 600 bottiglie di vino pregiato a quel soldato che gli avesse portato il famoso fossile. La qual cosa avvenne ben presto, così che il “mostro” fu portato a Parigi, dove il grande anatomista Cuvier poté esaminarlo e riconoscerne la natura. Tanto, dunque, le vecchie idee erano in crisi che perfino i soldati di un esercito rivoluzionario avevano la piena coscienza della importanza dei ritrovamenti paleontologici, del potenziale dirompente che essi costituivano nello scontro tra due diversi modi di vedere il mondo. Ma prima che nuove idee si affermassero in geologia, notevoli tentativi furono fatti per conciliare il vecchio ed il nuovo senza che la sostanza del primo ne fosse intaccata.

La macchina perfetta: Hutton e l’uniformismo

Ma aspettiamo ancora un momento a inoltrarci nel clima tumultuoso della rivoluzione francese: bisogna, anzi, tornare indietro, in pieno Illuminismo, ove troviamo lo scozzese James Hutton (1726-1797), ritenuto il fondatore della geologia storica. Hutton operava in un contesto culturale ancora fortemente influenzato “dall’abilità dimostrata dai grandi costruttori di sistemi del Seicento - Galileo, Descartes, Newton e Leibniz - nell’individuare l’ordine razionale complessivo del mondo celeste” e condivideva con molti naturalisti suoi contemporanei “l’ambizione di diventare i Descartes o i Newton del globo terrestre” (Porter, 1992). In altre parole, Hutton credeva fermamente che la storia della Terra potesse essere spiegata sulla base di poche leggi naturali, universali e semplici, valide per tutti i momenti della storia geologica e per tutte le parti del globo, escludendo il ricorso ad eventi straordinari o miracolosi.

Il sistema di Hutton tendeva a immaginare la Terra come una newtoniana “macchina perfetta”, regolata da leggi proprie ed immutabili, una macchina autoregolantesi e funzionante in tempi senza principio e senza fine, come l’universo degli astronomi. In questo senso va capito il suo “il presente è la chiave per spiegare il passato”, e il suo atteggiamento non va confuso con l’“attualismo” che verrà più tardi introdotto da Lyell. 

La filosofia (perché di questo si tratta) di Hutton è piuttosto quella dell’  “uniformismo” ed in questo senso il suo modo di pensare (come quello di Newton, del resto) è fortemente venato di teismo. Come non rischiare di confondere, infatti, un Universo perfetto, eterno e autosufficiente con la figura stessa della Divinità? Non a caso, anche per questo (e non solo per le sue affermazioni sulla antichità della Terra) Hutton fu aspramente accusato di eresia. Mentre ancora Georges-Louis Buffon (1707-1788), biologo francese dell’Illuminismo, stimava - cosa ardita allora - l’età della Terra a soli 72.000 anni, Hutton arrivava a ipotizzare tempi di durata infinita. 

A Hutton si possono attribuire scoperte ed intuizioni veramente innovative per i suoi tempi. Con osservazioni di campagna e di laboratorio, provò, ad esempio, che quelle che verranno chiamate “rocce ignee” derivavano dal raffreddamento di materiali fusi; sua è la prima accurata distinzione tra rocce ignee e rocce sedimentarie e, si potrebbe dire oggi, forse anche l’intuizione del metamorfismo. 

Ma il merito principale, ed il limite, di Hutton è nella sua teoria generale, che ambiva a spiegare in modo unitario tutti fenomeni che oggi chiameremmo della “geodinamica” terrestre, senza “interventi preternaturali”. Secondo Hutton, i materiali strappati dall’erosione ai continenti sono trasportati dai fiumi fino al mare, dove si solidificano; l’erosione distrugge progressivamente i continenti, che vengono così sommersi dalle acque, mentre altri continenti si formano per il sollevamento delle rocce marine ad opera di “una forza che ha per principio il calore sotterraneo” (Hutton ed i suoi seguaci vennero per questo chiamati “plutonisti”, in opposizione, come vedremo, ai werneriani, detti “nettunisti”). Il sollevamento dei continenti avrebbe prodotto, secondo Hutton, strati inclinati e distorti, strati che originariamente si erano deposti regolarmente l’uno sull’altro, dal più antico al più recente (principio della sovrapposizione stratigrafica, un’altra brillante intuizione di Hutton, allora tutt’altro che scontata). 

In quanto uniformisti, Hutton ed i suoi seguaci si interessarono soprattutto ai fenomeni quotidiani della dinamica terrestre, immediatamente accessibili alla osservazione, come l’erosione e la sedimentazione. A loro si debbono notevoli osservazioni sulle strutture e la genesi delle rocce sedimentarie. Ma erano poco interessati al tempo e alla geologia storica, poco rilevanti in un mondo senza fine. Scriveva Hutton nel 1788: “Il risultato della nostra ricerca attuale è che non troviamo alcuna traccia di inizio, sicura prospettiva di fine”. 

Paradossalmente, gli uniformisti sono stati innovatori e conservatori insieme (ma capita di frequente): la loro macchina autoregolantesi mal tollerava drastici mutamenti e avvenimenti catastrofici. In paleontologia, ad esempio, preferivano pensare a migrazioni delle faune da un continente all’altro piuttosto che a estinzioni più o meno generalizzate (Jean-Baptiste Lamarck, 1744-1829, fu un uniformista). Erano dunque poco interessati al dibattito che in quel momento appassionava specialisti e profani, centrato proprio sul problema delle estinzioni e già foriero delle nuove idee evoluzioniste.

Il nettunismo e l’origine del catastrofismo

In contrasto con Hutton e più o meno negli stessi anni, una teoria “più moderna” (meno legata al razionalismo seicentesco), ma per altri versi, come vedremo, assai più conservativa, veniva proposta da Abraham Gottlob Werner (1743-1815) (vedi lezione), un professore tedesco dell’Accademia Mineraria di Freiberg. Questi influenzò col suo “nettunismo” tutta la geologia della fine del ‘700 e della prima parte dell’800. Il grande naturalista toscano Paolo Savi era appunto un nettunista. 

La teoria nettunista di Werner assegnava un’origine marina a tutte le rocce. Solo più tardi Werner aggiunse alla sua classificazione le “serie vulcaniche”, comprendenti però solo alcune colate di lava, ritenute il prodotto recente, e poco importante, della “cottura” di strati carboniosi (“fuochi superficiali per autocombustione dei carboni”). 

La teoria postulava un grande Oceano primitivo circondante una terra emersa di piccole dimensioni. Il ritiro progressivo di questo mare avrebbe determinato l’emergere di nuove terre e la conseguente deposizione di tutti i materiali della crosta terrestre, secondo lo schema già proposto da Lehmann.

L’enfasi posta da Werner sull’origine marina di tutte le rocce, anche di quelle cristalline (le moderne rocce ignee intrusive e metamorfiti di alto grado), queste ultime per precipitazione chimica dalle acque oceaniche, ha qualcosa di primitivo e profondamente irrazionale: il fascino che questa visione ha esercitato sta forse anche nel suo richiamarsi ad archetipi sepolti ma profondamente radicati in tutti noi. Come altro si potrebbe, del resto, spiegare oggi il fascino della Pangea, circondata dal suo grande Oceano Pantalassico, presentata da tanta divulgazione come la configurazione de “la Terra Primitiva”, quando non si tratta altro che di “una” configurazione, realizzatasi più o meno tra 300 e 200 milioni di anni or sono, e preceduta da altre e diverse configurazioni, lungo un arco di tempo di centinaia di milioni di anni? All’inizio era la Pangea.... 

Ma torniamo a Werner. La sua classificazione genetico- storica delle rocce così era articolata: 

Come si vede, la teoria werneriana aveva una forte coloritura “teologica”: la comparsa progressiva della vita segue l’ordine della Genesi e si conclude con l’Uomo. Le sue basi teoriche erano debolissime. Nessun “Nettunista” rispose mai seriamente alla domanda dove mai fossero andate a finire le acque del primitivo Oceano, anche se fu pensato a tutto, ed in particolare ad un gorgo immane che avrebbe progressivamente riversato le acque oceaniche in enormi caverne sotterranee (e anche questa bizzarra idea esercitò a lungo un grande fascino, fino alla seconda metà dell’800 almeno, come testimonia ancora la “fantascienza” popolare di Giulio Verne). 

Ma proprio questa debolezza teorica fu alla radice del successo del nettunismo. Esso forniva una visione organica di insieme abbastanza innovativa per accogliere le nuove scoperte: poteva ben accettare, ad esempio, la scomparsa di antiche specie e la comparsa di nuove, nella sua visione di una Creazione dilazionata su tempi lunghissimi. In contrasto con le idee uniformiste di Hutton, proponeva inoltre una visione “progressiva” della storia, che faceva eco alle diffuse speranze di rinnovamento sociale. Ma era anche abbastanza conservativa (il suo richiamarsi alla Genesi) da non allarmare chi già viveva in tempi di grandi sconvolgimenti. E soprattutto, proprio perché non vincolata a basi teoriche rigorose, era flessibile; e abbiamo già visto, fin dalla premessa, l’atteggiamento “pratico” dei geologi classici, da cui deriva la propensione per quello che “funziona comunque”. 

Hutton aveva ragione sulle rocce ignee. Tanto che molti nettunisti ne furono toccati e, senza abbandonare una teoria così “comoda”, la ritoccarono quel tanto che bastava: erano i vulcani a sollevare le terre, non il mare a ritirarsi (e furono per questo chiamati “vulcanisti”). 

Ma sono semplici variazioni su tema. La visione di insieme restava e Hutton fu egualmente sconfitto. Soprattutto da un elemento, marginale forse nel nettunismo delle origini, ma destinato ad essere sempre più enfatizzato in seguito: quello degli avvenimenti “catastrofici” all’origine della Terra attuale. Il ritiro dell’Oceano primitivo, o il sollevamento dei continenti ad opera di immensi vulcani, sono appunto avvenimenti “catastrofici” che non hanno riscontro nel mondo moderno. E verso la fine del ‘700, in piena rivoluzione francese, l’esistenza di “catastrofi” nella Storia non poteva più essere ignorata. 

Hutton e la sua visione razionalista di un mondo in perenne, ma conservativa, trasformazione, senza catastrofi o palingenesi, furono dunque travolti, nell’Inghilterra impaurita dai non lontani rumori della rivoluzione francese, proprio dal “catastrofismo”, una ideologia (non certo una filosofia) che aveva il pregio, come presto vedremo, di registrare l’esistenza di “rivoluzioni” catastrofiche, ma anche di ricomporle all’interno di una visione in cui l’ordine naturale veniva ogni volta ristabilito.

Venti di tempesta: il catastrofismo

Abbiamo già incontrato Cuvier al Jardin del Plantes di Parigi, intento a esaminare, in piena rivoluzione francese, il Mosasauro di Maastricht inviatogli dal Cittadino Generale Pichegru. Georges Cuvier (1769- 1832) era figlio di un ufficiale svizzero; aveva studiato biologia a Stoccarda e aveva fatto in seguito, dal 1788 al 1794, il precettore di un Conte francese in Normandia. Fu chiamato a Parigi dal grande Lamarck, nel 1795, appena in tempo per ricevere in studio il famoso “mostro pre-adamitico” di Maastricht. 

Cuvier era uomo d’ordine. Sotto Napoleone, divenne addirittura Vicepresidente del Ministero dell’Interno. Ma, alla ricerca di un ordine preciso nelle confuse conoscenze e ideologie dell’epoca, finì per portare contributi essenziali al progresso scientifico e, suo malgrado, all’Evoluzionismo. 

Quattro mesi dopo il suo arrivo a Parigi, ad esempio, ebbe occasione di esaminare i resti di un Mammuth provenienti dai suoli perennemente congelati della Siberia. E si convinse che si trattava di un animale oggi completamente estinto. Probabilmente stava vivendo in un momento psicologicamente assai favorevole per far sapere al mondo che grandi animali del passato, come i Mammuth, si erano estinti: a Parigi, in pieno Terrore, dove cadevano sotto la ghigliottina le teste coronate, non era difficile credere alla scomparsa di maestosi animali, un tempo signori delle steppe glaciali.... Ma in ogni caso, questa acquisizione fu da allora sancita indiscutibilmente. 

Riassumiamo, assai schematicamente, alcuni dei fondamentali contributi di Cuvier: 

Il nuovo schema interpretativo, cui Cuvier aveva dato un apporto sostanziale, fu chiamato “catastrofismo” ed esercitò influenza grandissima per tutto l’800 ed oltre. 

E’ significativo, a dimostrare quanto il problema filosofico della storia della vita sulla Terra fosse rilevante a cavallo tra ‘700 e ‘800 (a solo pochi decenni dall’opera di Darwin), che il catastrofismo sia stato introdotto in geologia proprio da tre biologi (anche se allora le partizioni del sapere, all’interno delle scienze naturali, erano assai poco definite). 

Sta di fatto che Cuvier (anatomo comparato dei Vertebrati) e Brognart (Molluschi) studiarono a fondo il Bacino di Parigi, con l’aiuto del grande biologo Lamarck, e vi distinsero 11 formazioni geologiche, separate da altrettante regressioni/trasgressioni marine, cioè da eventi ritenuti istantenei e catastrofici. 

Il catastrofismo si consolidò, ai primi dell’800, in una Inghilterra dominata dalla reazione alla rivoluzione francese, e vi assunse una più spiccata connotazione religiosa. Ci sono sì le rivoluzioni (e chi poteva più negarlo?) ma:

Nonostante il suo carattere conservativo, e proprio grazie a questo, il catastrofismo ebbe l’effetto di chiudere, almeno per un po’, una questione lacerante, quella cioè dei tempi geologici: ora, nel nuovo contesto, si poteva più serenamente discutere di “quanto” fosse antica la Terra, ma non “se” fosse antica. Le creazioni ripetute avrebbero comunque rimesso tutto a posto.

Geologi e biologi: lo scambio del testimone

Se tra il ‘500 e il ‘700 non si può a rigore parlare di “geologi” e “biologi” in senso stretto, ma piuttosto di interessi prevalenti di questo o quello studioso rerum naturalium, con la seconda metà del ‘700 e, soprattutto, a partire dall’inizio dell’800, siamo sempre più legittimati a distinguere tra le diverse partizioni del sapere scientifico naturalista e tra i rispettivi specialisti. 

Studiosi come Buffon, Lamarck, Cuvier sono da considerare a tutti gli effetti biologi. E i biologi erano allora impegnati in quel grande dibattito culturale che portò ben presto alla sintesi darwiniana delle già presenti teorie evoluzioniste. 

Quanto sopra si osservava a proposito della nascita del catastrofismo sembra proprio suggerire una particolare chiave di lettura dei rapporti che si sono andati configurando allora, alle soglie dell’800, tra geologia e biologia. Sia Cuvier che Lamarck erano convinti (per ragioni tra loro diverse: al contrario di Cuvier, Lamarck era un uniformista e pensava a lenti, continui e graduali mutamenti nel mondo vivente) che la complessa storia della vita sulla terra si fosse necessariamente svolta nell’arco di tempi lunghissimi. 

Era questa una opinione ormai diffusa, soprattutto tra i biologi più o meno dichiaratamente evoluzionisti, se fin dalla seconda metà dal ‘700, Buffon poteva scrivere nella sua Histoire Naturelle (il primo volume è del 1749): “Il grande Artefice della Natura è il tempo” e il padre di Darwin, Erasmus Darwin (1731- 1802) nel 1803 (?) arrivava a stimare l’antichità della Terra nei termini di milioni di secoli. 

Con la sistemazione catastrofista, i biologi hanno il campo libero per la discussione sui problemi della trasformazione del mondo vivente nei tempi geologici. Restava da vedere “quanto” lunghi dovessero essere questi tempi, affinché i diversi meccanismi proposti potessero dar conto di quei cambiamenti biologici che ormai tutti ammettevano fossero avvenuti. 

Il tempo geologico veniva valutato soprattutto in rapporto ai tempi richiesti dalla evoluzione biologica. Il problema dell’età della Terra era dunque ormai saldamente in mano ai biologi. Non è questo il luogo per ripercorrere il cammino iniziato dalla biologia settecentesca, quel cammino che porterà a Darwin, a Mendel e alla moderna biologia. Ci basti qui ribadire che, a partire dal primo ‘800, evoluzionismo ed antichità della Terra faranno, almeno per un bel po’, parte di un dibattito culturale nel quale i geologi veri e propri avranno un ruolo minore. Un ruolo l’avranno semmai i fisici, come vedremo. 

E i geologi?

William Smith, l’uomo degli strati

Una figura emblematica e singolare di “geologo puro” a cavallo tra ‘700 e ‘800 è quella di William Smith (1769-1839), inglese, topografo-ingegnere addetto alla escavazioni di canali per il trasporto di carbone e geologo autodidatta. 

Nel suo lavoro ai canali, Smith si convinse ben presto che progetti implicanti grandi spostamenti di terra e scavi di notevole importanza dovessero esser preceduti dall’acquisizione di adeguate conoscenze sulla geologia dei luoghi. Per anni, dunque, Smith percorse in lungo e in largo la campagna inglese per compilare quella che fu la prima “Carta geologica dell’Inghilterra, del Galles e di parte della Scozia”. 

Conosciuto ovunque col soprannome di “Strata” Smith, non c’era Compagnia di scavo che non lo chiamasse prima di iniziare un qualunque lavoro. A tutti gli effetti, dunque, l’equivalente di un moderno geologo applicato, libero-professionista. 

“Strata” Smith non prestò grande attenzione alla disputa tra nettunisti e plutonisti. Di cultura per certi versi modesta, Smith conosceva le teorie del suo tempo, ma aveva soprattutto interessi pratici. La sua scoperta più interessante fu quella che strati diversi potevano esser distinti in base al loro contenuto fossilifero, anche nel caso in cui fossero simili per litologia. Sembrerebbe banale; ma non lo è affatto, per l’epoca in cui questo principio fu formulato. Abbiamo infatti visto come nei “sistemi” di nettunisti e plutonisti litologia ed età fossero identificate: “rocce cristalline” e “rocce primitive” erano sinonimi, come lo erano “rocce stratificate” e “rocce secondarie”. 

Smith introdusse dunque una classificazione stratigrafica basata su unità litologiche caratterizzate da fossili diversi. Nel suo The Stratigraphical System of Organized Fossils (1817), egli distinse 31 diverse unità litologico- paleontologiche, con molte ulteriori suddivisioni minori. Per questo ebbe nel 1831 la prima Wollaston Medal della Geological Society di Londra, e fu una medaglia certamente meritata. Le sue unità furono accolte da Lyell, come vedremo, e sono in parte ancora oggi in uso, col valore di unità cronostratigrafiche. 

Purtroppo Smith era un uomo pratico, solo modestamente colto e poco incline alle Lettere. Parlava a tutti, e volentieri, delle sue scoperte, ma scriveva poco. Furono i suoi amici colti che lo spinsero a scrivere e fecero notevoli pressioni affinché, nel clima inglese della Restaurazione, “Strata” Smith sposasse il catastrofismo. Ed alla fine, nella sua opera principale, Smith pose l’accento, anche se un po’ controvoglia, più sulle discontinuità che sulle transizioni tra le sue unità geologiche. Con conseguenze che non si fecero attendere.

Charles Lyell e l’attualismo

Cuvier aveva dato basi scientifiche al criterio di datazione su basi paleontologiche. Il catastrofismo ed il lavoro paziente di Smith ponevano le basi per una periodizzazione della storia della Terra. E’ su questa base culturale che operò Charles Lyell (1797-1875) (vedi lezione), appartenente per nascita alla nobiltà terriera scozzese e ritenuto da molti, forse enfatizzando, il fondatore della moderna geologia. 

Lyell seppe raccogliere la lezione uniformista di Hutton, ricollocandola nel quadro della nuova stratigrafia. Pubblicò nel 1833 quei Principles of Geology che ebbero una influenza assolutamente determinante sullo stesso Darwin, tanto che questi ne testimoniò più volte. 

Lyell aveva studiato Legge ed era un ottimo scrittore; il suo libro divenne ben presto un vero best-seller. Vi anticipò, tra l’altro, pur non traendone le debite conseguenze, quasi tutti i principi cui Darwin dette forma nell’evoluzionismo, a cominciare da quella “guerra di natura” che anticipava la darwiniana “selezione naturale”. 

In geologia introdusse il principio dell’attualismo (gli eventi del passato si spiegano con forze ancora operanti e osservabili), principio che ricorda l’huttoniano “il presente è la chiave per spiegare il passato”; ma se per Hutton questo implicava “uniformità dei fenomeni” (di oggi e del passato), per Lyell è piuttosto uniformità delle leggi di natura, uniformità che non esclude trasformazioni e cambiamenti della Terra, nel tempo. 

Osserva S. J. Gould (1980): “Quando le monarchie caddero ed il 1700 si concluse in un’era di rivoluzioni, gli scienziati cominciarono a vedere il cambiamento come parte normale dell’ordine universale, non più come qualcosa di aberrante ed eccezionale. Gli eruditi allora trasferirono alla natura il programma liberale di cambiamento lento e ordinato che invocavano per le trasformazioni sociali della società umana. A molti scienziati i cataclismi naturali sembravano minacciosi come il regno del terrore di cui era stato vittima il grande collega Lavoisier”. 

L’insegnamento uniformista di Hutton è evidente nelle meticolose osservazioni di Lyell, come quando, studiando gli occhi dei Trilobiti, argomenta: “l’oceano doveva essere trasparente come oggi, e doveva consentire il passaggio ai raggi di luce, e lo stesso vale per l’atmosfera; ciò ci conduce a concludere che il sole esisteva allora come oggi e a una grande varietà di altre inferenze...”. O come quando, studiando le impronte fossili di gocce di pioggia, scriveva: “le ..... gocce erano simili nelle loro dimensioni a quelle medie che cadono oggi dalle nubi”, deducendone che “l’atmosfera di uno fra i periodi più remoti noti in geologia corrispondeva per densità a quella che circonda oggi il globo”. 

Queste considerazioni sembrano appunto scritte da Hutton; Lyell ne ha raccolto l’insegnamento ed è stato capace di divulgarlo in uno stile piano ed elegante, ancorché rigoroso. 

Sono però i Principles di Lyell che contengono il vero atto di nascita della geologia come scienza positiva. In stratigrafia, Lyell accolse le unità litologico-paleontologiche di Smith; e ne aggiunse altre, dello stesso tipo ma tipizzate in alcune località del continente. Le unità smithiane furono raggruppate da Lyell in “Sistemi”, definiti su base litologica (es. Sistema Oolitico, Sistema Carbonifero) o indicati con il nome della località-tipo (es. Sistema Giurassico), e a loro volta divisi in “Periodi”. 

Questa classificazione stratigrafica fu accolta e seguita per più di cento anni. 

Come si vede, permangono tracce del nettunismo nella equiparazione litologia-età e nel sincronismo che viene ammesso per la deposizione di certe litologie (rocce carbonifere, rocce oolitiche). 

Nonostante l’enorme influenza che Lyell ebbe sul pensiero geologico del suo secolo, la componente ideologica per certi versi sei-settecentesca (deismo huttoniano) ancora sottilmente presente nel suo modello interpretativo, la sua avversione per qualunque idea di “progressione” o direzionalità nella storia della Terra (e quindi anche per i concetti evoluzionisti) finivano per contrastare col progressivismo positivista ottocentesco. 

D’altra parte, l’esperienza delle rivoluzioni sociali faceva ancora propendere il pensiero dell’epoca, soprattutto in Inghilterra, verso visioni in cui le “catastrofi” trovavano ancora una volta adeguata sistemazione: vere e proprie palingenesi universali, venivano recuperate in un disegno complessivo che vedeva al suo centro il “nuovo ordine”, espressione di nuovi e più avanzati livelli di organizzazione del sistema. 

Il catastrofismo, nato in un contesto assai diverso e affermatosi in una particolare ed irrepetibile congiuntura, assumeva ora sfumature “progressive”. Non fa dunque meraviglia il contrasto tra l’ispirazione originale di Lyell e un certo uso che poi fu fatto delle sue idee. 

A proposito delle “catastrofi”, ancora nel 1830 Lyell scriveva: “Non vi è dubbio che in ogni regione del globo si sono susseguiti periodi di sconvolgimenti e di quiete, ma forse è altrettanto vero che, per quanto riguarda tutta la Terra, l’energia dei movimenti sotterranei è sempre stata uniforme. Può darsi che per cicli di anni la forza dei terremoti sia stata sempre confinata, come lo è ora, a zone estese ma finite e poi sia sia spostata gradualmente così che un’altra regione, che era stata a lungo in quiete, sia divenuta a sua volta il grandioso teatro della sua azione”. 

Ma gli epigoni di Lyell, e in suo nome, colsero soprattutto un aspetto, probabilmente marginale e in qualche modo casuale e contraddittorio, del suo sistema che, accogliendo le unità stratigrafiche di Smith, ne postulava anche la originaria discontinuità (ammessa, si ricordi, di malavoglia dallo stesso Smith!). I Sistemi o i Periodi erano quindi separati da “intervalli mancanti”, sottolineati dal cambio brusco di litologia e da discordanze più o meno marcate tra gli strati sotto e sopra giacenti, a testimonianza di parossismi tettonici. 

Dopo Lyell si è così andato fissando quel criterio di partizione della storia della Terra che, ancora nel 1909, faceva dire al geologo americano T. C. Chamberlin (1843-1928): “Il diastrofismo è la base definitiva di correlazione”. In contrasto con la lucida intuizione di Lyell, si preferiva infatti pensare, e lo si è pensato a lungo, a intermittenti orogenesi estese a tutto il globo, durante le quali i continenti si sollevavano, i mari arretravano, si formavano le montagne e mutavano gli organismi animali e vegetali. Tant’è vero che ancora nel 1955 il geologo tedesco Stille si assicurava una non piccola notorietà, pubblicando la sua periodizzazione del Paleozoico, basata su ben 42 distinti episodi orogenetici, sincroni ed estesi a tutto il globo. 

Potremmo forse azzardare l’ipotesi che al fissarsi di questa idea non fossero state estranee, nell’epoca delle conquiste coloniali, nascoste propensioni euro-centriche: indubbiamente, la sincronia globale degli eventi orogenetici avrebbe permesso di estendere a tutto il mondo le partizioni stratigrafiche codificate negli strato-tipi smithiani, come in effetti è avvenuto (e la Repubblica Popolare Cinese lo ha fatto rilevare, alcuni anni fa, in una formale lettera di protesta all’UNESCO). 

Tra il 1830 ed il 1880 circa,  furono definiti quasi tutti gli attuali “Sistemi”. Poiché cambiamenti maggiori erano stati osservati tra alcuni gruppi di Sistemi, si introdussero le “Ere”, wernerianamente chiamate “Primaria”, “Secondaria”, “Terziaria”. Se questi termini avevano ancora una connotazione “litostratigrafica”, cioè si riferivano a intervalli di tempo caratterizzati da certe tipiche litologie, i termini “Paleozoico”, “Mesozoico”, “Cenozoico”, coesistenti con i primi e con questi intercambiabili, si riferivano invece alle caratteristiche paleontologiche di ciascuna Era ed avevano pertanto una valenza più strettamente cronologica o biocronologica. 

Ma, come abbiamo detto, tutti i termini coesistevano, e sarebbe una forzatura volerci trovare significati che in realtà si sono andati precisando solo nel corso di questo secolo. La periodizzazione dei tempi geologici iniziata da Lyell e completata dai suoi epigoni ottocenteschi trovò infine una adeguata sistematizzazione nel Codice Stratigrafico di Grabau, del 1913.

Ancora il tempo, i biologi, i fisici

Torniamo, però, ancora un po’ indietro, al problema del tempo geologico verso la metà dell’800. Darwin ed i biologi evoluzionisti avevano bisogno di tempi geologici lunghi , affinché il lento meccanismo della selezione naturale potesse essere accettato come causa adeguata ed efficiente dell’evoluzione biologica. E’ così che Darwin nel 1859 si cimenta in prima persona con i problemi geologici e tenta una stima del tempo necessario per l’avvenuta erosione della regione di Weald, in Inghilterra: almeno 300 milioni di anni dalla seconda parte del “Periodo Secondario”, una stima certamente in eccesso, che fa capire quanto fosse grande in Darwin il “bisogno di tempo”.

In quegli stessi anni (1860), l’inglese John Phillips (contrario sia alle teorie di Lyell che a quelle di Darwin), basandosi sullo spessore di strati di varia età e sulla presumibile velocità della loro deposizione, stimava invece, in risposta a Darwin, l’età della Terra intorno a 96 Milioni di anni. Ma il parere dei geologi era, tutto sommato, poco rilevante. Quello che contava di più, per le implicazioni che aveva, era quello di Darwin. E contro la nuova biologia scese in campo la fisica classica, impersonata da William Thomson (1824-1907), meglio noto a tutti col nome di Lord Kelvin

Kelvin, arrivato giovanissimo, a soli 22 anni, alla Cattedra di Filosofia Naturale dell’Università di Glasgow, era il tipico scienziato vittoriano di grande successo, profondamente religioso e convinto che la Natura fosse espressione di un preciso ordine divino. L’atteggiamento scientifico-filosofico di Kelvin potrebbe essere descritto prendendo a prestito un paragrafo di Eistein (1919), che si riferisce alle teorie della fisica classica: “La maggior parte sono teorie costruttive. Attraverso un sistema di formule relativamente semplice situato alla base, esse cercano di costruire un’immagine di fenomeni relativamente complessi. (..) Quando si dice che si è pervenuti a comprendere un insieme di processi naturali, ciò significa sempre che si è trovata una teoria costruttiva che abbraccia i fenomeni in questione”. E Darwin si era mosso in senso diametralmente opposto: partendo da alcune proprietà generali di processi naturali, dedotte dalla osservazione diretta di fenomeni in atto (il suo famoso viaggio sulla Beagle) ne aveva dedotto le possibili conseguenze sui processi particolari, pur non possedendo le necessarie informazioni per fare ipotesi dettagliate sui meccanismi più intimi di questi processi (non si sapeva praticamente niente dei meccanismi dell’ereditarietà). 

Anche la fisica della seconda metà dell’800 vedeva nascere al suo interno un atteggiamento simile, che prenderà forma nel quadro concettuale einsteiniano della “fisica dei principi”. Ma Lord Kelvin, pur validissimo scienziato, era un fisico classico e filosoficamente un conservatore, e se la prese con i biologi evoluzionisti, aprendo una controversia che durò molto di più di mezzo secolo. 

Nel 1861, in una corrispondenza con Phillips, disse subito che “i calcoli di Darwin sono qualcosa di assurdo”. A partire dall’anno successivo cominciò a pubblicare una serie di articoli sempre più duri e dogmatici contro coloro che computavano l’età della terra in centinaia di milioni di anni. 

Il succo del ragionamento di Kelvin si basava sul convincimento che il Sole fosse una massa liquida incandescente che sta dissipando rapidamente la sua energia; e che l’origine del calore solare non potesse essere che gravitazionale, essendo da escludere come inadeguata quella chimica.

Il punto di partenza di Kelvin è pertanto la formazione di una massa fusa, derivata dal collasso gravitazionale di una nebulosa, come quella postulata da Kant-Laplace. Se si conosce la massa globale del sistema (inferita dalla massa stimata attuale del Sole), sistema che è immaginato all’inizio a riposo in tutte le sue parti, si può facilmente calcolare la quantità di calore che sarebbe stato generato come equivalente della energia meccanica delle collisioni avvenute in conseguenza del collasso gravitazionale. In base alla conoscenza del flusso di calore emanato oggi dal Sole e dell’energia disponibile all’inizio, si può risalire alla data di questo inizio. 

Da semplici leggi fisiche si può derivare il funzionamento dei grandi sistemi. Peccato che allora non si avesse la minima idea della esistenza di sorgenti radioattive di energia. L’assoluta supremazia delle “leggi fisiche note” su un qualunque altro ragionamento, portava appunto a bollare come assurde le ipotesi di Darwin e dei geologi. Calcoli matematici sulla presunta velocità di raffreddamento del Sole e della Terra, appoggiati più tardi anche da calcoli sull’effetto frenante delle maree sulla rotazione terresre, inducevano Kelvin a postulare, senza possibilità di smentita, un’età della Terra con tutta probabilità inferiore ai 100 milioni di anni. 

Che fosse un problema di “guerra ideologica” piuttosto che una questione meramente scientifica è messo in evidenza anche dall’arena su cui Kelvin aveva deciso di aprire le ostilità: il Macmillan’s Magazine, una rivista popolare. Kelvin parlava quindi direttamente al grande pubblico, verso il quale si poneva come un moderno “opinion maker”. 

E non bisogna credere che questo pubblico fosse solamente quello delle persone colte: la Palentologia era allora molto più di moda di oggi, come testimoniano i quarantamila spettatori, alla cui presenza la Regina Vittoria ed il Principe Alberto avevano inaugurato al Crystal Palace, il 10 giugno 1854, una grandiosa mostra all’aperto di modelli in grandezza naturale di animali preistorici. I visitatori erano accorsi a migliaia, per mesi e mesi, arrivando a danneggiare seriamente l’esposizione, per la smania di accaparrarsi qualche souvenir strappato ai mostri preistorici. 

Ma ben presto (1865) Kelvin si rivolse direttamente ai geologi, attaccandoli frontalmente in una comunicazione (The Doctrine of Uniformity inGeology Briefly Refuted) letta dinanzi alla Royal Society di Edimburgo. L’obiettivo apparente era Lyell, ma quello vero era Darwin, che del resto Kelvin aveva direttamente chiamato in causa (a proposito dell’erosione del Weald e dei famosi 300 milioni di anni), fin dal suo primo articolo. Tant’è vero che da parte dei geologi non vi fu praticamente alcuna reazione, mentre scese in campo (1869) Thomas Huxley a difendere il suo amico Darwin. Ma senza la sua solita abilità di polemista. 

Darwin stesso era restato assai scosso dall’attacco di Kelvin: “Da qualche tempo le critiche di Thomson [Kelvin] sull’età recente del mondo sono una delle mie più grosse preoccupazioni” (1869), e ancora: “... sono molto turbato a causa della breve durata del mondo secondo Sir W. Thomson, poiché io ho bisogno per le mie concezioni teoriche di un periodo molto lungo prima della formazione cambriana” (1869). Tanto turbato, da arrivare a ridurre le sue stime sul Weald “di un fattore di due o tre” nella seconda edizione dell’Origine delle Specie, per toglierle poi del tutto nella terza edizione. 

A partire da queste sue prime vittorie, Kelvin fu sempre più esplicito e sempre più evidente fu il suo obiettivo. I geologi contavano poco; era la selezione naturale che veniva direttamente confutata. Perché fosse chiaro a tutti, Kelvin scrisse nel 1894 sul Popular lectures and Addresses: “La limitazione della durata dei periodi geologici imposta dalla scienza fisica non può ovviamente confutare l’ipotesi della trasmutazione delle specie; ma appare sufficiente a confutare la dottrina secondo cui la trasmutazione avrebbe avuto luogo attraverso la ‘discendenza con modificazione per mezzo della selezione naturale’”. 

Kelvin passò da una vittoria all’altra (“Troviamo ogni volta qualcosa per dimostrare... l’estrema futilità della filosofia [di Darwin]”, aveva scritto fin dal 1873). E ne approfittò per ridurre ulteriormente le sue stime sull’età della Terra, arrivando a valori intorno a 20 milioni in totale. Il suo collega P.G. Tait, entrato in campo anche lui (1876), scese addirittura a 15 milioni di anni, al massimo. 

Alla morte di Darwin, la teorie dell’evoluzione per selezione naturale sembrava divenuta piuttosto fragile. Lo testimoniano anche le continue contraddittorie aggiunte e i ritocchi alle ultime edizioni dell’Origine delle Specie, introdotti per parare i colpi di Kelvin. Ma lo sconcerto dei biologi, indusse questi ultimi anche ad esplorare nuovi approcci, fino alla riscoperta di Gregor Mendel. Ma questa è una storia diversa, da vedersi in altra sede. Torniamo ai geologi.

Solo un paio di geologi, tra quelli che avevano un qualche peso, si schierarono con i fisici. Ma anche loro furono solo usati strumentalmente, come testimonia, nel 1895, Sir Archibald Geikie, che pure era stato, tra i geologi, il principale alleato di Kelvin: “i fisici sono stati insaziabili e inesorabili. Spietati come le figlie di Lear, hanno tagliato la loro assegnazione di anni in porzioni successive, finché alcuni di essi hanno portato il numero a un po’ meno di dieci milioni”. Davanti questi a nuovi “tagli”, anche lo stesso Geikie era costretto a protestare su Nature (1895) contro “un vizio in una linea di ragionamento che tende a risultati così totalmente diversi dalle prove [geologiche] incontrovertibili di una maggiore antichità”, ipotizzando prudentemente, per suo conto, un valore di cento milioni anni. 

D’altra parte, lo stesso Lyell non aveva trovato altri argomenti contro Kelvin se non quello di auspicare, negli ultimi anni della sua vita, la scoperta di nuove fonti di energia solare, ove non si volesse ricorrere a leggi divine in contrasto con quelle di natura. Ma per le prime era troppo presto e per le seconde troppo tardi. Alcuni geologi avevano tentato stime indipendenti dell’età della Terra, usando vari parametri geologici dedotti da conoscenze spesso assai incomplete e teorie assi fragili. Così J. Croll, basandosi sulla teoria delle glaciazioni (1868), T. Mellard Reade, sulla velocità dell’erosione chimica (1878), e con loro alcuni altri. Non pochi tra questi, per prudenza o per difetto di conoscenze, arrivarono a stime che finirono per portare acqua al mulino di Kelvin. Tra questi ultimi, vale la pena di citare, per l’influenza che ebbe, John Joly (1857-1933), in cattedra a Dublino, che si basava sul supposto graduale formarsi della salinità marina, arrivando (1899) a stime di 90-95 milioni di anni da quando gli oceani sarebbero scesi al di sotto di 100° C. 

Ma, nel complesso, le Scienze della Terra rimasero ai margini della contesa, finendo comunque per condividere con i biologi la sconfitta. Nel 1895, l’eminente geologo inglese W.J. Sollas doveva così ammettere in un articolo su Nature: “a quanto posso vedere oggi, l’intervallo di tempo trascorso dall’inizio del sistema cambriano è probabilmente inferiore a 17 milioni di anni...”. E nel 1895, il grande geologo americano Charles Walcott arrivava arditamente a pensare soltanto a “decine di milioni di anni” (1895).

Non solo un epilogo: verso la “geologia dei principi”

Per tutto l’800 e fino alla prima metà del ‘900 la geologia è stata essenzialmente “nazionale”, legata ai singoli luoghi ed a problemi applicativi circoscritti nello spazio: strade, canali, gallerie, miniere. Gli stessi dibattiti teorici avevano avuto in certo qual modo carattere localistico, muovendosi strettamente all’interno dei climi culturali specifici di ciascuna nazione. Lo scontro promosso da Kelvin sulla durata dei tempi geologici, ad esempio, era stato un fatto specificamente inglese, che aveva trovato sul continente assai più scarsa eco. 

A cavallo del cambio di secolo, lo sviluppo impetuoso dell’industria e delle comunicazioni aveva certamente apportato nuove conoscenze, prima impensabili, come quelle sulla struttura profonda delle Alpi, messa in luce dalle grandi gallerie transalpine. La scoperta della radioattività aveva posto le basi per superare definitivamente la querelle circa la durata dei tempi geologici, superamento sanzionato da una celebre conferenza di Rutheford alla Royal Institution di Londra (1904), ove il conferenziere si era addirittura aggiudicato la benevolenza dell’ormai vecchio Lord Kelvin, assicurando l’uditorio che le basi per questo cambiamento di prospettive erano già profeticamente contenute in alcuni passi dei lavori dello stesso Kelvin. 

Ma il carattere essenzialmente osservativo e descrittivo della geologia classica non era mutato sostanzialmente, né era mutata la propensione essenzialmente “induttivista” dei geologi. Le grandi esplorazioni geografiche avevano però allargato il campo del dibattito: una visione globale dei problemi si sarebbe, o prima o poi, comunque imposta. 

All’alba del ‘900, già si vedevano le premesse di quella che sarebbe stata una “teoria generale”, capace di predire i risultati sperimentali piuttosto che essere da questi indotta. I punti di forza di questa vera e propria rivoluzione nelle Scienze della Terra saranno costituiti soprattutto dalla geofisica e dalla moderna stratigrafia

La geofisica vera e propria è scienza del ‘900. Nel secolo precedente erano peraltro stati fatti tentativi di individuare le forze motrici della dinamica terrestre, a partire dalle teorie chimiche del sollevamento, opera dei nettunisti, o dai “crateri di sollevamento” del catastrofista von Buch (1815). Se quest’ultima teoria ancora postulava forze a direzione verticale, l’idea di una Terra evolutasi a partire da uno stadio primordiale di completa fusione (idea che avrebbe finito per dominare tutto il diciottesimo secolo), aveva suggerito a Léonce Élie de Beaumont (1829) una spiegazione delle orogenesi basata su sforzi laterali, connessi a loro volta con la contrazione della Terra per raffreddamento (la famosa immagine della mela che si raggrinziva, disseccandosi). 

Verso la metà del secolo, uno sviluppo della concezione di Élie de Beaumont aveva portato l’americano James Dwight Dana a sviluppare la sua teoria delle “geosinclinali”, enormi depressioni, corrispondenti agli oceani e frutto della contrazione primitiva della Terra. Le geosinclinali erano aree stabilmente depresse, che avrebbero raccolto, dunque, tutti i sedimenti prodotti dall’erosione subaerea; il proseguire della contrazione terrestre avrebbe determinato la deformazione dei loro margini continentali e la nascita di catene di montagne affacciate sull’oceano (gli Appalachi). 

Teorie fissiste e mobiliste

Questa idea, più o meno rimaneggiata e aggiustata, sarebbe sopravvissuta per almeno un secolo e non è l’ultima delle ragioni della decisa opposizione degli americani alle teorie di Wegener. Con Dana si sviluppa quella visione fissista della Terra che non fu certo scalfita da episodiche ricostruzioni mobiliste, ove i continenti appaiono aver subìto forti spostamenti laterali. Ma erano considerate poco più che fantasiose produzioni di menti eccentriche, come la cosmogonia biblica di quell’Antonio Snider Pellegrini che nel 1857 pubblicò una ricostruzione della primitiva configurazione dei continenti, sorprendentemente simile a quella che oggi chiamiamo la Pangea (il “Bullard’s fit”) e postulò una apertura recente dell’Atlantico, “causa del Diluvio biblico”. Un tentativo molto più serio di sintesi in senso “mobilista” fu fatto da Eduard Suess alla fine del secolo. 

Suess era nato a Londra da famiglia boema ed aveva studiato a Vienna e a Praga, per divenire professore di geologia a Vienna nel 1861. Il risultato dei suoi multiformi interessi e studi (dalla paleontologia, alla tettonica, alla sismologia), fu un testo che divenne famoso: Das Antliz der Erde (1883-1909), un’opera rivolta proprio alle cause fisiche dei mutamenti fisiografici della Terra. 

L’aspetto più innovativo è costituito dal riconoscimento (frutto dello studio delle Alpi) di fortissime compressioni laterali nelle catene montuose, capaci di creare rotture nella crosta (le “faglie di carreggiamento”), con scorrimento orizzontale e sovrapposizione dei lembi disgiunti. Ne derivava la mobilità orizzontale delle masse continentali sui versanti opposti delle catene montuose, nozione questa che fu ampiamente sviluppata dai geologi della scuola svizzera, primo fra tutti Émile Argand (nato a Ginevra nel 1879), quando il traforo del Sempione (iniziato nel 1898) avrebbe fornito sorprendenti conferme delle idee di Suess. 

Suess trasse dalla sua visione mobilista anche conseguenze più generali, fino ad arrivare alla ricostruzione di quel supercontinente paleozoico, formato dall’unione di molti degli attuali continenti meridionali, che lo stesso Suess chiamò la Terra di Gondwana e il cui significato fu in seguito ampliato a comprendere anche Australia, America del Sud e Antartide. 

Si consolidavano così due scuole opposte: quella mobilista, soprattutto europea continentale e frutto dello studio delle Alpi, e quella americana, legata alle idee di Dana sugli Appalachi e alle sue “geosinclinali” (vale forse la pena di ricordare, per onor di cronaca, anche le idee “ultrafissiste” di Thomas C. Chamberlin, geologo del Wisconsin Geological Survey e poi professore di geologia a Chicago, fino al 1918). In realtà, il classificare come “fissista” la scuola americana (o piuttosto anglo-americana, come vedremo) rappresenta una semplificazione eccessiva che porta a mascherare la vera portata della problematica in atto. 

Il problema cui inglesi e americani erano interessati era piuttosto quello della “natura” degli oceani: se la crosta oceanica avesse avuto natura diversa da quella continentale, allora si sarebbe dovuta definitivamente mettere da parte l’idea di periodici sprofondamenti e sollevamenti dei continenti, ora sommersi, ora emergenti di nuovo. Il concetto di continenti e oceani perfettamente “intercambiabili” era un tipico concetto uniformista, huttoniano, che era stato reso popolare da Lyell; il mondo anglosassone, sempre diffidente rispetto alla tradizione uniformista, era predisposto ad accettare oceani con una storia propria e, quindi, carattere di permanenza. Questo era il senso profondo della teoria di Dana, ad esempio. Dunque, un problema eminentemente geofisico. E all’origine di questa disciplina si trovano appunto due anglosassoni: il reverendo Osmond Fisher in Inghilterra e il geologo Clarence Dutton in America. 

Il primo aveva pubblicato nel 1881 la sua Physics of the Earth’s Crust, un’opera che si può considerare come l’atto di nascita stesso della geofisica e che contiene sorprendenti anticipazioni di teorie modernissime. Fisher contestò la contrazione della Terra per raffreddamento come motore della formazione delle grandi catene montuose (contestò anche le stime di Kelvin sull’età della Terra, basate appunto sul raffreddamento) e postulò un interno del pianeta caldo e relativamente fluido, con correnti convettive risalenti sotto gli oceani (specialmente in corrispondenza della dorsale medio-atlantica) e in discesa sotto i continenti. Gli oceani erano il prodotto di questa convezione, e in questo senso “permanenti”, ma si espandevano per aggiunta di nuove rocce vulcaniche al centro, mentre, per converso, i continenti si corrugavano ai margini. 

Dutton è il padre di un concetto assolutamente basilare nella geologia globalista moderna: quello dell’“equilibrio isostatico”. Dutton pensava a continenti costituiti da materiale leggero, galleggianti sulle rocce più dense dei fondi oceanici, rispettivamente il “sial”e il “sima”. E con il termine di “isostasia” indicava la tendenza della crosta leggera e di quella pesante, a fronte di erosioni o sedimentazioni, a stabilizzarsi a determinati livelli di equilibrio in rapporto alla gravità. L’aspetto importante, e foriero di successivi sviluppi e ampliamenti, è quello del riconoscimento di equilibri dinamici. Anche qui un qualche aspetto di “permanenza”, ma come riaggiustamento dinamico, appunto. 

Wegener e la teoria della deriva dei continenti

La scuola continentale europea, soprattutto dell’area di lingua tedesca, aveva un approccio diverso: l’accento era posto di più sulle variazioni, rielaborando l’enorme massa di osservazioni accumulate dalla geologia classica in tentativi di sintesi che integravano diverse discipline, dalla tettonica, alla paleobiogeografia, alla paleoclimatologia. Non fa dunque meraviglia l’apparente paradosso che la prima sintesi veramente rilevante, quella di Wegener (1880-1930), ci sia venuta proprio dal mondo tedesco: la geofisica anglosassone era ancora troppo “normativa”, vicina alla “fisica costruttiva”, cioè all’approccio caratteristico della fisica classica, per costituire la base culturale per un rovesciamento del metodo di lavoro della geologia, da una geologia osservativa, induttivista e descrittiva, a una geologia delle idee generali, dei modelli globali. 

Le basi analitiche geofisiche della sintesi di Wegener erano fragili, ma la “necessità” generale del mobilismo continentale era imposta proprio da una visione di insieme del patrimonio di conoscenze accumulato dalla geologia. Wegener stesso non lo capì e dette nel suo lavoro rilevanza maggiore al tentativo di giustificare preliminarmente, con argomentazioni geofisiche dettagliate, quella che era stata in realtà una intuizione “a priori”, confermata poi largamente dalla integrazione di una massa enorme di indizi, provenienti da tutte le discipline delle Scienze della Terra. Per questo fu, in pratica sconfitto: le sue idee saranno poi ampiamente rivalutate, ma solo in un contesto culturale assai diverso, ove il riduttivismo metodologico ottocentesco era stato ormai sostituito da una cultura della complessità. 

Non è il caso di dilungarci qui sull’apporto scientifico di Wegener, su cui è stato scritto tantissimo negli anni della sua rivalutazione. Basti pertanto ricordare le date principali della divulgazione della sua “deriva dei continenti” (in realtà “Verschiebung der Kontinente” significa piuttosto “spostamento” dei continenti): 

Sviluppando idee già sostenute da geofisici come Fisher e Dutton, Wegener (che era lui stesso professore di metereologia e geofisica a Graz) rifiutò decisamente l’ipotesi stravagante (di moda fino a buona parte del ‘900) dei “ponti continentali” per spiegare le somiglianze paleofaunistiche sulle sponde opposte dell’Atlantico e di altri oceani; ricostruì il supercontinente tardo-paleozoico detto Pangea e ne periodizzò la dispersione, a formare i continenti attuali, nel corso del Mesozoico e fino al presente; postulò collisioni continentali, come quella dell’India con la massa eurasiatica, all’origine delle catene intracontinentali. 

Nonostante tutte le apparenze dei suoi scritti, Wegener sapeva perfettamente che il suo non era un approccio ortodosso, di tipo classico, perché era certo che le cose dovevano essere andate proprio così, anche se la complessità del problema non permetteva ancora di definire i meccanismi elementari alla base del processo: “Il Newton della teoria della deriva non è ancora apparso.... E’ probabile che la soluzione completa del problema sia ancora lontana a venire, perché significa districare un groviglio di fenomeni interdipendenti in cui spesso è difficile distinguere la causa dall’effetto”. 

Anche se all’inizio avversata da molti geologi e accolta con un certo interesse, invece, dai geofisici, a partire dal 1922 furono soprattutto i geofisici inglesi ad attaccare frontalmente quelle che Wegener stesso aveva imprudentemente voluto presentare come le “basi analitiche” della sua teoria. 

Tra i suoi accaniti demolitori, ricordiamo qui soltanto, a titolo di esempio, Philip Lake e la sua recensione critica sul Geological Magazine del 1922; ed anche Sir Harod Jeffreys (ritenuto il fondatore della geofisica matematica) e le veementi critiche contenute nel suo trattato The Earth, its Origin, History and Physical Constitution, del 1926. Il simposio dell’American Association of Petroleum Geologists, tenutosi a New York nel ’26, fu l’inizio dello schierarsi a fianco dei geofisici inglesi della quasi totalità dei geofisici ed anche dei geologi americani: Charles Schuchert, di Yale, il geologo strutturale Bailey Willis, il geologo R.T. Chamberlin, e con loro tanti altri. Il succo delle critiche è ben esemplificato da questo brano di E. W. Berry, che ne riassume il contenuto essenzialmente metodologico: “[Il metodo di Wegener], a mio parere, non è scientifico; segue il corso familiare di un’idea iniziale, con una ricerca selettiva nella letteratura esistente di prove a favore, ignorando la maggior parte dei dati in contrasto con l’idea stessa e terminando in uno stato di autoebbrezza in cui l’idea soggettiva giunge ad essere considerata un fatto oggettivo”. 

Berry aveva parzialmente ragione sul metodo, in quanto è proprio questo il metodo di Wegener, ma bisogna dire che lo presenta in modo arbitrariamente ed emotivamente negativo, anche se trascuriamo il fatto che nel merito aveva torto. Wegener ebbe anche sostenitori che lo appoggiarono, anche se talora con alcune varianti, come l’americano A. Daly, nella sua Our Mobile Earth del 1926, il geologo strutturalista inglese E. B. Bailey e, soprattutto, il geologo e petrografo Arthur Holmes (che propose, per la “deriva”, meccanismi assai più convincenti di quelli di Wegener) e il sudafricano Alex du Toit, noto soprattutto per il libro Our Wandering Continents

Ma le critiche a Wegener si rafforzarono ulteriormente dopo la sua morte, soprattutto in America: vi intervennero il paleontologo Simpson, ancora nel 1943, di nuovo Bailey, nello stesso anno, insieme a molti altri. Tanto che ad un simposio organizzato a New York dalla Società per lo studio dell’evoluzione, nel 1949, solo tre partecipanti su 17 si schierarono dalla parte della deriva. In conclusione, negli anni ’50 la deriva dei continenti veniva ricordata nelle lezioni universitarie, anche in Europa, come una stravaganza da menzionare solo per amor di cronaca. Aveva finito dunque per prevalere il lapidario giudizio di Bailey che nel 1943 aveva definitivamente sentenziato: “la teoria della deriva dei continenti è una favola (ein Märchen)”. 

La seconda guerra mondiale segna una decisa svolta rispetto a questi problemi. Lo sviluppo di nuove strumentazioni, anche per esigenze belliche, dette il via a ricerche assolutamente rivoluzionarie. Il gruppo di Blackett dell’Imperial College di Londra e quello di Runcorn, Creer e Irving di Cambridge giunsero a risultati concordanti, verso la metà degli anni ’50, circa il paleomagnetismo delle rocce, che indicava un apparente spostamento dei poli nel corso dei tempi geologici

Runcorn, nel 1956, dimostrò che i poli apparenti, se misurati in continenti diversi, non mostravano lo stesso percorso storico. Ciò implicava spostamenti differenziali dei continenti. La geofisica era diventata ora la solida base di teorie mobiliste. E questo fu sanzionato dal gruppo di Blackett, in una celebre comunicazione sui Proceedings della Royal Society of London del 1960. La geofisica americana dette il contributo determinante agli ulteriori sviluppi delle conoscenze. Nuove tecniche analitiche furono sviluppate. Le grandi campagne oceanografiche degli anni 60-70 servirono alla integrazione di tutti le metodologie di ricerca, da quelle geofisiche a quelle geocronologiche e biostratigrafiche. 

Nasce la teoria della tettonica a placche

Con la conferma della espansione dei fondi oceanici e dell’esistenza di correnti convettive nel mantello, poteva nascere la moderna teoria globale della dinamica terrestre, nota ormai a tutti col nome di “tettonica a placche”. Furono F. J. Vine, che era stato allievo di Bullard a Cambridge, e D.H. Matthews, suo supervisore, a pubblicarne per primi le basi nel 1963, in un famosissimo articolo su Nature. Che si sia trattato di una vera e propria rivoluzione, una rottura drastica col passato, è dimostrato dalla sorte subita da un articolo di Lawrence Morley, un paleomagnetista del Geological Survey of Canada, che era giunto ad analoghe conclusioni. Inviato al Journal of Geophysical Research, l’articolo di Matthews fu respinto con questo laconico commento: “É il tipo di cose di cui si potrebbe parlare a una festa ma su cui non si scrive un articolo”. 

La teoria della tettonica a placche è ormai nota, e non è il caso di riassumerla qui. Ma è importante sottolineare come non si debba pensare a questa teoria solo come ad una postuma riabilitazione di Wegener. Non può essere ridotta al mobilismo continentale ed alla espansione dei fondi oceanici. É qualcosa di molto di più (anche se Wegener ne ha aperto la strada, in tempi tutt’altro che favorevoli): è un nuovo modo di pensare nell’ambito delle Scienze della Terra. 

Ma qual è l’aspetto più rivoluzionario delle nuove teorie? Sembrerebbe proprio quello metodologico: il carattere, cioè, integrato del processo di formazione della teoria generale. Da questo deriva il fatto che la moderna teoria geodinamica non ha soltanto una funzione esplicativa dei fatti osservati, ma è soprattutto strumento di predizione negli esperimenti e nelle ricerche che possono essere immaginate. In questo senso, è la prima volta che la geologia può definirsi scienza sperimentale. Siamo passati, potremmo dire parafrasando il titolo di un bel libro di M. Cini (1984), dall’“universo delle leggi di natura al mondo dei processi evolutivi”. 

Se la geofisica ha fornito le leggi generali e la dinamica dei fenomeni, la stratigrafia li ha collocati entro precise coordinate spaziali e temporali, permettendo di ricostruirne la cinematica. Senza la stratigrafia la sintesi che abbiamo sopra delineato non sarebbe potuta avvenire. E’ intorno agli anni ’30 di questo secolo, col nascere della moderna industria petrolifera, che la stratigrafia classica comincia ad entrare in crisi. I pozzi petroliferi si contano a migliaia (72.000 km di sedimenti perforati in un anno solo in U.S.A. e in Canada) ed i problemi di correlazione si pongono su nuove basi, anche per l’allargarsi a scala globale delle esigenze di una industria divenuta ben presto multinazionale. Il rinnovato interesse per la stratigrafia induceva fin dal 1933 l’americano Ashley ed i suoi collaboratori a stendere un nuovo “Codice Stratigrafico”. E subito dopo, un gruppo di stratigrafi dell’Università di Stanford si mise all’opera per rivedere le stesse basi teoriche della stratigrafia classica. Ricordiamo che, per quest’ultima (almeno fino a tutto l’800), litologia, contenuto fossilifero ed età delle rocce finivano per coincidere e che le unità stratigrafiche relative a questi diversi aspetti dei depositi sedimentari coesistevano ed erano tra loro più o meno intercambiabili. Non che non fossero stati fatti tentativi in senso diverso. Ma contributi che vennero poi ampiamente valorizzati in seguito, avevano avuto scarsa influenza sui contemporanei, come la enucleazione del concetto di facies da parte dello svizzero Amanz Gressly (1838), caduta praticamente nel vuoto (almeno per i suoi aspetti più innovativi), in pieno clima nettunista; o la formulazione della “Legge di Correlazione delle Facies” (nota soprattutto come “Legge di Walther”) da parte del tedesco Johannes Walther (1894), che implicava, tra l’altro, la mancanza di parallelismo tra superfici isocrone e limiti litologici

La Legge di Walther recita testualmente: “Possono trovarsi sovrapposte in continuità di sedimentazione soltanto quelle facies che si depongono attualmente in ambienti contigui”. E’ assolutamente sorprendente, per il suo carattere esplicitamente “predittivo”, la modernità di questa formulazione. La “Legge di Walther” è entrata a far parte, a pieno titolo, della moderna geologia. Ai suoi tempi, essa non fu pienamente compresa, soprattutto in America, dove ancora nel 1934 Caster proponeva una classificazione in cui le unità litologiche maggiori (denominate “magnafacies”), erano delimitate da superfici che, pur corrispondendo a regressioni e trasgressioni, venivano tuttavia considerate isocrone.

 I risultati del lavoro del gruppo di Stanford furono pubblicati da Schenk e Muller nel 1941. L’aspetto più innovativo del nuovo codice è la rigorosa distinzione tra unità stratigrafiche che sono il frutto di osservazione diretta e sono quindi basate sui caratteri osservabili delle rocce (litologia, contenuto paleontologico), e unità che discendono da inferenze e deduzioni (unità deduttive), in quanto implicanti stime temporali. Dopo la seconda guerra mondiale, la Commissione Nord Americana per la Nomenclatura Stratigrafica (U.S.A., Canada, Messico) raffinò ancora questi concetti, soprattutto per quanto riguarda la definizione formale e la tipizzazione delle singole unità, pubblicando una serie di Rapporti a partire dal 1947 e concludendo i suoi lavori con l’American Stratigraphic Code del 1961 e del 1970. A seguito della pubblicazione dell’International Stratigraphic Guide del 1976, il lavoro fu ripreso da una seconda Commissione, tra il ’78 e l’82. Il risultato è l’attuale North American Stratigraphic Code. Può essere significativo ricordare che la prima adozione in Italia di un codice simile è del ’93 e che, non esistendo un codice internazionale riconosciuto universalmente, i geologi di molte nazioni sono restati ancora praticamente vincolati ai concetti della stratigrafia classica (ad esempio, in Svezia). 

Ma ormai quello che Kuhn chiamerebbe il nuovo “paradigma” è stato introdotto. La nuova stratigrafia ha ricomposto quella antinomia tra uniformità delle leggi naturali ed episodicità dei fenomeni, in nome della quale si erano scontrate generazioni di geologi “classici”. Attraverso la ricerca di regolarità fisiche nella intrinsecamente discontinua documentazione stratigrafica, la moderna stratigrafia opera la trasformazione del discontinuo in continuo, della concreta documentazione, spazialmente puntiforme e localmente difforme, in astratte scale temporali continue. 

É questo il senso, in particolare, della “stratigrafia sequenziale”, una metodologia che è stata introdotta per la prima volta da Vail e da altri autori fin dalla metà degli anni ’70 per interpretare le ricorrenti regolarità in successioni sedimentarie diverse. Questo tipo di analisi stratigrafica (che ingloba anche concetti già espressi da Walther) si basa sui rapporti spaziali tra corpi geologici contigui, sulla geometria delle relative stratificazioni e sulla loro composizione, per ricostruire successivi cicli sedimentari, controllati da variazioni globali del livello marino. In questo contesto, il riconoscimento di cicli sedimentari correlabili alla scala di tutta la Terra fornisce anche uno strumento di datazione relativa e la stessa distinzione rigida tra unità stratigrafiche osservative e deduttive viene a perdere il suo significato metodologicamente provocatorio e già tende ad esser messa da parte. 

Anche lo strumento classico di datazione puntiforme, la paleontologia, proprio perché per sua natura puntiforme, non serve più alla moderna stratigrafia. La paleontologia migliore ha cessato di essere un semplice strumento di lavoro dei geologi ed è tornata parte della biologia (si pensi a nomi come Simpson, Elredge, Gould). Mentre è patrimonio indispensabile del moderno geologo la biostratigrafia, intesa come strumento di misura relativa di intervalli di tempo, marcati o separati da specifici eventi biologici; strumento, dunque, indispensabile ai fini della costruzione di una scala di riferimento temporale che può essere confrontata e integrata con scale diverse, basate su fenomeni fisici cronologicamente identificati. E questa trasformazione del discontinuo in continuo implica metodologie rigorose, quasi sempre anche strumenti matematici. Quantunque in ritardo sulle altre Scienze, anche la geologia, dunque, ha decisamente imboccato una strada nuova: quella delle leggi generali, del modello globale, da cui ricavare rigorosi progetti di verifica sperimentale. Diremmo dunque, parafrasando Einstein, una “Geologia dei Principi”. I moderni geologi sono certamente debitori di questo atteggiamento mentale, almeno in gran parte, ai fisici. Quantunque il termodinamico Kelvin avesse torto nel merito delle sue asserzioni, certamente la sua lezione metodologica, anche se spesso nella forma di una avversione preconcetta, non è comunque andata persa.

Riferimenti bibliografici

Vengono qui riportati solamente alcuni testi generali di storia della Geologia, dai quali sono tratte anche quasi tutte le citazioni nel testo e ai quali si rimanda.

Per l’impostazione interpretativa (specialmente per i riferimenti alla storia della Fisica), si vedano anche: 

Alcuni spunti storici minori si sono trovati anche in: 

Johann  Gottlob Lehmann a 42 anni

Disegno tratto dall'avventura a fumetti "Gary e Spike e il Tesoro Dolomitico", nato dalla matita di Fulber, sulla scia del riconoscimento in sede UNESCO dell'entrata delle Dolomiti nel Patrimonio Mondiale dell'Umanità.

John Ray

il cranio di Mosasaurus esposto a Parigi

ricostruzione del Mosasauro

incisione raffigurante la scoperta del cranio di Mosasaurus hoffmanni

Hutton in un dipinto di Sir Henry Raeburn

Reproduction of a Watercolor print done by geologist James Hutton (Credit: U.S. Geological Survey)

Hutton Unconformity at Jedburgh, Scotland, illustrated by John Clerk in 1787.

Abraham Gottlob Werner

Statue sul cornicione del Palazzo Universitario di Strasburgo:

Niccolò Copernico,

Abraham Gottlob Werner,

Leopold von Buch,

Alexandre von Humboldt

Georges Cuvier

Erasmus Darwin

William Smith

Carta geologica dell'Inghilterra, del Galles e di parte della Scozia, di W. Smith

Charles Lyell

Principles of Geology (1833)