Antonio D'Achiardi, 1877-1878

DISCORSO INAUGURALE NELLA R. UNIVERSITÀ DI PISA

È consuetudine, confermata da legge, che l’oratore per la solenne inaugurazione degli studj debba essere, e sia pur suo malgrado, reclutato con annuale vicenda dalle varie facoltà, che compongono quest’insigne ateneo. E quest’anno era la volta della facoltà di scienze fisico-matematiche e naturali, e ben ricordo la sera che voi, illustri e cari colleghi, con quasi unanime voto e con lusinghiere parole su me, che tentava fuggirvi, gettaste il non ambito fardello, come che per essere degli ultimi nominati all’insegnamento e fra i più giovani dovessi meglio reggere al peso, quasi si trattasse delle forze del corpo e non dello intelletto.

Non valse farsi schermo; ma d’altronde eletto al difficile quanto onorevole ufficio io non doveva e non volli per viltà rifiutare; ond’eccomi ora innanzi a voi non pieno di baldanza per me, ma sì e solo di fiducia nel vostro animo benevolo e gentile. E dirò dunque e dirò secondo che voi me ne additaste la via, quando alla scelta che faceste di me null’altra ragione vi potea muovere che l’indole dei miei studj. Apertamente anzi così diceste, quasiché il linguaggio delle fredde pietre, mute l’ei più, potesse avere maggior virtude d’intrattenervi senza noja che l’abito proteiforme della vita, che le armonie mirabili rivelateci delle scienze esatte.

E così come voleste sia pure, non uscirò dal mio campo; ma parlerò solo per costoro qua convenuti ad ammaestrarsi nelle scientifiche discipline, per costoro che pieni di fiducia, ed ardire entrano ora in questa palestra di studj, in cui noi dobbiamo esserne i duci. Né per ciò vorrei che voi, onorevoli colleghi, credeste essere in me l’animo di far cosa sconvenevole, ché anzi a così fare mi mosse la conoscenza di me medesimo e la stima riverente di voi, non sembrandomi al caso che io non ha guari discepolo vostro dovessi oggi parlarvi ex cattedra di cose, di cui mi potreste essere maestri.

A voi quindi, o giovani, la mia parola, che sarà facile e breve come si conviene a simile solennità.

Risoluto di non dipartirmi dai miei studj, io non dirò dei mille e mille fenomeni, che sorprendono la vista e l’animo del naturalista; non sarò né poeta, né pittore, benché sia comune con essi il campo del geologo. E dovrei forse qui e ora descrivervi il lurido laberinto di una miniera, gli orrori di un terremoto, l’incendio di un vulcano? E dovrei forse dettarvi le mirabili leggi della cristallizzazione, della metamorfosi dei minerali? No, mai no: che non sono oggi chiamato a farvi lezione, né voi ad ascoltarla. Null’altro quindi mi resta che intrattenervi sul modo d’interpetrare ora e prima di noi quei fenomeni e sul progresso di questa, scienza, che concerne la Terra, la cui conoscenza ben è che sia fondamento di ogni savia educazione, tentando d’instillarvene in petto l’amore col mostrarvi quanta dolcezza e soavità di sentimenti inspirino nell’animo nostro la contemplazione e lo studio dei fenomeni e delle leggi della natura. E il subietto mi sembrò opportuno parlando a voi, ignari o consapevoli appena delle lotte della vita, dappoiché fra le tante amarezze, di che pur troppo se ne asperge il sentiero vi additi una sorgente, onde attingere un balsamo che ne rintuzzi l’acume.

Perduti in mezzo all’oceano o rintanati nel cuore dei continenti vivono oggi uomini selvaggi, diversi per aspetto e costumi, ma uguali per la ignoranza delle leggi della natura, di cui osservano i fenomeni o con sacro terrore o con stupida indifferenza; e da costoro si sale grado a grado fino alle più colte e incivilite genti, che con ardir da Prometeo, armate d’intelligenza e di studio, rubano a proprio benefizio il segreto di quelle leggi e la virtù di quei fenomeni. Dallo spazio traete l’immagine per giudicare nel tempo, e pari ai primi vi si parranno dinanzi i nostri padri in queste piaghe boreali, ove ora invece lo spirito umano è irresistibilmente tratto allo studio della natura. Se anche più selvatici tralascio; se mai vedessero senza osservare non so; né la distinzione vi sembri vana: in ogni modo quali che essi fossero, in questa fuga di persone e di idee, che mi turbinano per la mente, mi giova prender le mosse dall’uomo, che vedendo osserva, che osservando considera.

Quei primi osservatori lungi dal penetrare nel segreto delle cose fermavansi alle apparenze, e presi dalle forme non ne cercavano le cagioni e i legami o cercandoli fantasticavano a seconda che il pregiudizio o l’immaginazione li trascinava. Meraviglia e terrore se ne dividevano l’animo; era come un delirio di poesia, e parto di poeta sono di fatti le antiche cosmogonie orientali, in cui si cercarono e si cercano ancora da tal uno i primi germi della Geologia, quantunque né Mosè, né Manou abbiano certo mai aspirato al vanto di esserne chiamati i padri.

D’Oriente e dall’Egitto in Grecia, di Grecia nuovamente in Egitto e nel Lazio le strane teoriche sull’origine e sulle vicende della Terra si propalarono, e a seconda dello spirito e della coltura delle genti attecchirono più o meno e più o meno si modificarono; e poiché sognate da fantasia immaginosa, ogni mente le foggiava e mutava a suo modo, quindi altrettante scuole quanti i propalatori. E in Grecia e nella Magna Grecia fu allora e poi una smania di filosofare; la scuola levò quasi la mano al campo d’Olimpia; e qui e sull’istmo altrove agli esercizi del corpo s’aggiungono quelli dell’intelletto, e il poema d’Empedocle sulla natura e i principj delle cose fura gli applausi ai coronati atleti.

Né fu solo il filosofo d’Agrigento ad attingere scienza in Elicona; Parmenide l’aveva preceduto, lo seguivano altri, e prima e dopo e con essi tanti e tanti apersero scuola, ché non vi fu quasi città, ove sonasse la greca favella, che non avesse la sua; e la storia di quei tempi leva al cielo i nomi di Talete, Senofane, Anassimene, Teofrasto, Democrito, Pitagora e più che tutti famoso di Aristotile. E costoro furono a un tempo poeti e scienziati, filosofi e geometri, enciclopedici antichi, e con l’eloquenza non meno che col sapere traevano le moltitudini ad ascoltarli, ond’ebbe Cicerone a dir d’Aristotile,

Flumen orationis aureum fundens

e Tirtamo di Lesbo cambiava suo nome in quel di Teofrasto.

Mentre l’idolatria figurava un Dio in ogni oggetto, e non contenta d’empirne il cielo, il mare, i fiumi e le selve, ne collocava una spaventevole coorte sotterra, mentre le muse e gli oracoli ajutavano a propalare le astute finzioni nel volgo, cui tutto è facile spiegare con la mano di un nume, costoro desiosi di luce, non davano tregua alla mente nel ricercarla, e non di rado la raggiungevano, per modo che molte delle dottrine da essi professate sono anche oggi indiscutibili assiomi. 

Senofane, osservando conchiglie e pesci impietriti nelle cave di Siracusa, ne argomenta l’origine marina della roccia; Pitagora getta i primi germi della teorica delle trasformazioni, e le sue dottrine geologiche, mirabilmente cantate da Ovidio, ne fanno ammirare l’acume dello intelletto; Aristotile considera con esso i cambiamenti moderni della terra come norma e misura dei passati; Strabone accagiona i movimenti del suolo del mutar di posto e di livello delle acque; e chi volesse spigolare nei trattati o nei, brani che ci rimangono degli scritti dei filosofi greci, che precedettero l’era cristiana, ben avrebbe da provveder larga messe, non anche resa stantìa dal corso di tanti secoli!

Ben si può dir dunque di costoro che precorressero il proprio secolo; ma d’altra parte non ne erano affatto franchi dai difetti; e il difetto principale ora, che lunge dal cercare e sempre la ragione delle cose nell’osservazione e nell’esperimento, la spremevano volentieri dal fondo dell’intelletto, e la conoscenza della natura la si faceva risultare, come dice l’Humboldt, più di contemplazioni interiori che della percezione dei fenomeni; onde le favole, le virtù miracolose, le ipotesi senz’altra base che il cervello in cui nascevano, e onde pure paragonate alle passioni umane le proprietà della materia, quasiché l’amicizia e l’odio commovessero in vario modo l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra giudicati elementi di ogni cosa.

E così come i Greci i Latini, nel Lazio come in Grecia il poeta precede il prosatore scienziato: Lucrezio muore che Plinio non era anche nato e la fama d’entrambi sopravvive gloriosa alle rovine di Roma. La poesia ha spiegato tutte le sue ricchezze nel poema di Lucrezio sulla natura, in cui dall’immaginazione del poeta non si scompagna lo spirito audace del filosofo; e per quanti cardinali di Polignac sorgano a combatterne le dottrine, ne rimarrà pur sempre il poema uno dei migliori monumenti della letteratura latina. Plinio è il naturalista dell’antichità; irrequieto nelle ricerche, a tavola, nel bagno, in lettiga sempre inteso a prendere note, divide le cure del magistrato con la contemplazione e lo studio della natura. La fatica e il pericolo non lo rimuovono, e come già Empedocle sull’Etna, paga sul Vesuvio con la vita l’audacia di averne sfidata la ridestatasi ira.

l suoi libri di Storia Naturale racchiudono quanto si sapeva allora d’arti e di scienze, onde costituiscono, come già disse Plinio stesso, una vera enciclopedia, a dir del nepote ampia e svariata come la natura stessa. Ma se ne sapeva allora forse più che non sapessero Pitagora, Aristotile, Teofrasto? Certo con l’estendersi dei commerci e del dominio latino si allargava anche il campo d’osservazione, si moltiplicavano le notizie, e Plinio e i suoi contemporanei furono per ciò in condizioni forse più favorevoli dei loro predecessori; ma lo spirito che animava quelle menti era pur sempre lo stesso e Aristotile, morto quattro secoli innanzi, rimaneva tuttora il principe dei filosofi; e rimarrà ancora lungamente, verrà anzi un tempo e lontano, in cui sarà detto

... maestro di color che sanno e dell’umana ragione, 

del maggior poeta d’Italia, cui nel gran sogno della divina commedia apparrà “seder tra filosofica famiglia”

ammirato da Socrate ed Averroe, che il gran commento feo.

Indi si sfasciava l’impero romano e là, dove fiorivano le arti e le scienze, si scatena, tale una tempesta d’armi e di rovine, e tante e sì fitte tenebre s’addensano, che è invano cercare un barlume dell’antico splendore, invano nelle scuole deserte un discepolo solo degli antichi maestri. Alle invasioni barbariche succedono fra noi le discordie intestine, e in un tempo in cui la ragion del più forte era maestra del mondo, l’istoria, che men cura gli effetti della scienza che della guerra e della politica, per lunghi secoli tace di cose che non sapessero di odj fraterni, di rapine, di sangue, di guerre senza tregua, di sterminj di genti e di cose. - E passa il medio evo con le sue repubbliche, i suoi principi, i suoi feudatarj; ed è ventura se in questo

rovinio di ogni cosa taluno nella solitudine del chiostro lavora a scampare dallo sterminio un qualche brano della sapienza antica.

Ma intanto gli Arabi invadevano il campo delle scienze abbandonato dai nostri e ne oltrepassavano i vecchi confini. Non contenti di osservare la natura e i suoi fenomeni, non paghi della ricerca e dell’analisi loro, intendono a studiare le forze che li producono e le trasformazioni a cui esse lavorano: a scomporre e comporre col soccorso di queste medesime forze; in poche parole ciò che fu poi insegna e nome di una celebre accademia italiana, il Cimento, divenne per essi un nuovo mezzo, un nuovo sistema di studio. L’esperimento li conduce innanzi, molto innanzi nella Farmacia e nella Materia Medica, nell’arte cioè di guarire; e Avicenna e Averroe furono di fatti medici di gran valore e di altissima fama. La Chimica e la Botanica si avvantaggiano specialmente di questo nuovo indirizzo degli studj, ma non per questo le altre scienze rimasero indietro; e Avicenna scrive sull’origine delle montagne, sull’ordinamento dei minerali; Omar sul ritirarsi del mare, Moahmmed Kazwini sulle aeroliti, sui terremoti, sui cambiamenti del suolo, mentre Al-Mamoun in Bagdad fonda accademie, fa tradurre le migliori fra le opere greche e tien corte bandita a quanti sapienti stranieri si presentano a lui.

E costoro si chiamavano barbari e santa la crociata bandita contro di essi! E pure la stessa Spagna, che gli ebbe a padroni, con la fortuna di cacciarli di casa, non ne ritrasse meno per questo notevoli benefizi; l’Europa tutta ne attinse larga copia di dottrine scientifiche, che fecondate di poi dalla nuova civiltà che sorgeva nel suo seno furono i germi dell’odierno sapere. - Ma non era certo tutt’oro la sapienza arabica; fu anzi senza dubbio non ultima cagione di tante superstizioni, cabale e magie, che nell’ignoranza delle razze europee trovarono terreno facile ad attecchire e lordarono per sì lungo tempo gli scritti di tanti, che pur si stimarono sommi maestri.

E quanto tempo non corse ancora prima che si risvegliasse fra noi lo spirito scientifico! Purtroppo col sorgere delle libertà dei comuni non risorsero anche le scienze, così come erano risorte le arti e le lettere, che in quegli uomini pieni di baldanza e di fede fino all’entusiasmo, ardenti di odio e di amore, sitibondi di gloria e di sangue, in quegli uomini, che la storia esalta come magistrati, guerrieri, eroi, martiri e santi, ben più poteva il cuore che la mente e per essi ben altro linguaggio aveva la parola della passione, viva, irrequieta, ardente, che quella placida, armoniosa e dolce della natura. Più forse allora che prima un colpo ben vibrato di spada valeva meglio che un esperimento, una canzone, un inno, una parete istoriata più che un trattato od una scoperta scientifica; un’ora di astrazione nell’ignoto, nell’incomprensibile più che una vita intera tutta intesa alla ricerca del vero.

E le scienze giacevano a terra, e il volgo della plebe e dei nobili, nei tuguri come nelle corti, non raccattava che il fango ond’erano lorde. L’Alchimia ciurmava la gente, e benché la si riguardi, e a ragione, come madre della Chimica, non è per questo men vero che non fosse allora quasi sempre arte da negromanti e falsarj, degni dell’ultima chiostra di Malebolge. Pure a forza di sperimentare qualche cosa si trovava e qualche cosa restava; così come per ottenere spezie e farmaci si cercavano, osservavano e distinguevano piante da piante e la Botanica ne faceva suo prò. Era l’impulso dato dagli Arabi; del resto tutto nelle tenebre; la nuova fede, le imposture d’Ermete, le cabale d’Artemidoro, frutti d’oriente perpetuati di generazione in generazione, tenevano luogo di scienza. Lo stesso Alberto il Grande, detto l’Aristotile del medio evo e posto da Dante a fianco di Tommaso d’Aquino, può domandarsi se fosse più filosofo o negromante, così come qualche secolo dopo se Paracelso più chimico o ciarlatano.

Le cosmogonie orientali erano ancora l’unico trattato di Geologia; délle pietre e dei metalli non si indagavano le proprietà, la composizione, l’origine; sì bene le une e le altre si dichiaravano quali la fantasia, la superstizione o il tornaconto voleva.

Come oggi in oriente se ne facevano allora in Europa (e ne fosse almeno dimesso l’uso!) farmaci immaginari, amuleti e anelli magici, altrettanti anelli di Gige, che almeno avessero avuto la virtù di nasconderei le ciurmerie di costoro, che furono barattieri della scienza, e dei grandi, principi o re, che ne fomentavano con la loro ignoranza la frode e la menzogna.

Ma ecco che come già nel campo delle lettere e delle arti, così anche in quel delle scienze fisiche ricomincia la luce e risorge qui per primo in Italia, antesignana dell’odierno incivilimento, qui nel bel paese, che come disse D’Archiac fu al XV secolo nel dominio dell’intelligenza l’erede di Bisanzio, come altra volta era stata di Grecia. Ed ecco, senza uscire dalla storia della Geologia, sul finire di quello stesso secolo Leonardo da Vinci, non ascoso nel velo dell’allegoria come già il Boccaccio, a viso aperto scaglia la prima freccia avvelenata di ridicolo contro coloro, astrologhi o visionarj che dir si vogliono, i quali credevano ed insegnavano (ed era generale credenza) si fossero prodotte per influsso delle stelle le conchiglie fossili sepolte nelle colline, ricacciando essi in tal modo la scienza della Terra ben addietro ai tempi, in cui Pitagora e gli altri filosofi dell’antichità professavano quelle stesse dottrine, che ora pareva audacia bandire di nuovo.

Dopo Leonardo altri molti, e qui in Italia, ove Galileo apre la nuova scuola, la scuola italiana dell’osservazione e dell’esperimento, qui comincia acerrima la lotta, di cui prima vittima lo stesso maestro.

Da una parte si studiano le conchiglie, i crostacei, i pesci, i coralli sepolti o impietriti nel suolo; se ne paragonano le specie, i generi, le famiglie a quelli viventi nel mare·e nei laghi; si osservano gli strati diversi o diversamente inclinati, l’invasione degli oceani, il protendersi delle terre, il prorompere delle lave, e ad una ad una si aprono e leggono le pagine della storia del nostro pianeta; dall’altra tutti gli sforzi dell’umano intelletto tendono a interpretare contro natura quei caratteri, che portano incancellato ed incancellabile il marchio della verità. Tre secoli interi si perdono in inutili dispute sul diluvio, sul sole obbidiente alla parola di Giosuè; gli uni vogliono la bibbia il primo infallibile trattato di Geologia, gli altri non ammettono che i documenti della natura a indagarne e scriverne l’istoria; fra questi e quelli chi vuol conciliare le opposte sentenze inceppa vie maggiormente il progresso della Scienza.

Nel secolo decimo settimo la lotta è al colmo; entrano nell’agone i teologi di Francia, di Germania e d’Inghilterra; le ipotesi più fantastiche si succedono una all’altra, e si proscrivono le nuove dottrine, che maledette e combattute senza tregua si reggono appena sul conquistato terreno. Per onore d’Italia i più valorosi soldati della scienza furono i suoi e in quei primi secoli del risorgimento scientifico ne contava più essa sola che tutti gli altri paesi insieme. 

Da Leonardo, da Fracastoro a Spallanzani, a Fortis, a Brocchi è un’intera ed onorata legione, che la brevità del tempo nè men mi consente di passare in rassegna; basti ricordare come fino al cadere del secolo passato l’Italia per essi era pur sempre all’antiguardo, onde scriveva il Lyell che i geologi italiani dopo aver preceduto i naturalisti degli altri paesi nelle loro ricerche sull’istoria antica della Terra, conservavano ancora sopra essi una preminenza notevole, rifiutando e volgendo in ridicolo, sistemi fisico-teologici di Burnet, Whiston e Woodward.

E di fatti oltr’Alpe durava più che mai prepotente la mania dei trattati o sistemi così giustamente qualificati dal Lyell; e se si tolgano uomini come i Palissy, i Gesner, i Leibnitz, i Lister, i Brander e altri pochi, che pur non andarono affatto immuni dal vizio del secolo loro, i più affaticavano l’intelletto e sciupavano tempo e lavoro per tentare un connubio contro natura, che non poteva a meno di riuscire infecondo. E ciò più che in qualunque altro paese in Inghilterra, ove il fanatismo delle sette inciprigniva la lotta fra il vecchio e il nuovo, fra il dogma e la geologia, che pur vi doveva radicare meglio cha altronde; e là i Woodward, i Burnet, i Whiston, gli Hutchinson, i Michell, i Catcott, i Buckland, e là i premi di migliaia di sterline per chi fosse efficace pronubo dell’impossibil connubio.

Lo studio dei minerali, come meno facile ai voli della fantasia, procedeva intanto più calmo·e da Biringuccio a Romé de Lisle è tutta una serie non interrotta di scoperte e di nomi gloriosi, ma qui pure continuamente imbandita una farragine di notizie e di giudizi, che vien fatto di domandarci se fossero meditati o sognati! Né vale chiamarsi Agricola, Aldovrando o Boyle, anche i maggiori maestri qualche cosa ritengono dei Cardano, dei Konig, dei Baglivo, dei Crosset de l’Haumerie, che pur ebbero fama di sommi! Né può recar meraviglia se in tempi che s’incarcerava Galileo e la facoltà teologica della Sorbona faceva sconfessare le sue teoriche a Buffon, (mentre non si dovea credere che lunga di migliaia di secoli fosse la storia della Terra e le reliquie del mare porgessero testimonianza della presenza dell’oceano, si potesse credere e liberamente professare che le pietre partorissero (e si distinguevano i maschi dalle femmine!), che uno spirito le animasse, che le stelle o la terra avessero virtù di plasmare fossili d’ogni sorta, e taccio del resto per rispetto alle generazioni che furono.

Così ci si avvia ai tempi presenti; l’impulso partito d’Italia si propaga al di fuori; valica mari e monti; si diffonde e s’allarga, e noi primi partiti già incalzano, già oltrepassano coloro che fermi assisterono alle nostre mosse. Ad uno ad uno cadono i vecchi errori e la mente umana destata come da un sogno, fugando le larve menzognere del pregiudizio, prende a guida l’osservazione e l’esperimento. Ma non fu questa l’opera né di un sol giorno, né di un·sol uomo; né lo spirito di lotta, che tanto aveva agitato gli animi, si calmava ad un tratto. Mutate le armi, si brandivano ancora; solo il terreno diverso rendeva utile e feconda la battaglia, ora ingaggiata soltanto sotto il vessillo della scienza.

Sul finire del secolo decimottavo, vinti o non curati i teo-geologi, Nettuniani e Vulcanisti si divisero il campo, Werner in Germania duce ai primi, Hutton in Scozia ai secondi, gli uni contro gli altri accapigliati da vero furore di Betta, che li fé spesso brancolar come ciechi nel cammino del vero. Con questi auspicj sorgeva il secolo decimonono; il calore della lotta aveva procacciato proseliti, l’eloquenza e l’entusiasmo dei maestri diffuso l’amore della scienza. Per ogni parte d’Europa si moltiplicano le scuole; si salgono e percorrono dirupi e valloni, si misurano strati e cristalli, si raccolgono fossili e minerali, se n’empiono i musei, che già cominciano a trasformarsi in laboratorj, e la stampa diffonde le nuove scoperte, le nuove e rinnovellate dottrine. Berzelius analizza a cento a cento i minerali e dal modo di scomporsi ne deduce la formula chimica; Hauy ne intravede la fisica costituzione nelle particelle di sfaldatura e fonda quasi una nuova scienza, la Cristallografia; Weiss ne stabilisce le leggi assinometriche; Mischerlich quelle dell’isomorfismo, altri altre! 

E così per la Geologia; se non che la contemplazione della natura genera ancora stupore e dalla grandiosità degli effetti s’inducono cause maggiori o diverse dalle presenti; e Werner suppone mari caotici, Hutton torrenti sotterranei di fuso granito, Cuvier straordinarj cataclismi, De Beaumont periodici e preordinati sollevamenti di catene montuose. Di cielo, è vero, siamo discesi in terra, non  son più gli Dei, ma son pur sempre i Giganti, che sollevano le montagne!

La strada peraltro era presa; lo stesso Hutton già aveva insegnato che gli antichi cambiamenti del globo dovevano accagionarsi ad azioni lente pari all’odierne; la Società geologica di Londra, diventata focolare di studj, moltiplicando e raccogliendo osservazioni di ogni sorta, preparava il terreno ai principj, che oggi guidano l’umano intelletto nello studio della Terra; e qui fra tanti un nome solo voglio ricordato, quello di Lyell, che coi suoi Principj di Geologia può dirsi di aver gettate le vere fondamenta di quella scienza.

La quale cominciò appunto a potersi dir tale quando, dismessi gli antichi sistemi, e principalmente per lui prese a rifare l’istoria della Terra con la sola scorta del presente. E tale è il suo compito anche oggi. Tutto che cade sotto i nostri occhi fà mestieri osservare e considerare; dal pigmeo al gigante nulla deve sfuggirci. Così osserviamo la goccia d’acqua che stilla dalla roccia come il torrente che s’inabissa, come il ghiacciaio che discende, come il mare che flagella la sponda; le lenti oscillazioni del suolo come i sussulti del terremuoto; i fuochi di Pietramala, di Barigazzo e di Baku come gli incendi del Vesuvio, dell’Ecla e dell’Aconcagua; i tartari delle sorgenti termali come le costruzioni madreporiche, come la melma calcare che s’accumula in fondo all’oceano; il limo giallo che la Gallionella depone nelle paludi settentrionali come il fango rosso che la vita abbandona negli abissi pelagici. Il lavoro ferve per ogni dove s’apre una nuova via all’osservazione; quasi non si abbatte roccia che non si guardi se porti in se stampata l’impronta del tempo in cui si formò; nei monti pertugiati, nei colli squarciati si cercano le tracce del passato; e là, dove un tempo il solo piccone dello schiavo, nei sotterrani andirivieni della miniera il martello dello scienziato precede il trapano del minatore.

Un tempo e non lontano da noi bastava empire i musei; non si domandava donde venissero e come si trovassero gli oggetti raccolti; felice colui cui toccava la sorte di dare un nome nuovo! Questa manìa di raccogliere per raccogliere e battezzare dura tuttora e talvolta reca anche i suoi frutti; ma al vero scienziato non basta la compagnia degli oggetti; egli vuol sapere non tanto dove, quanto come si trovino; indaga le correlazioni fra le varie sostanze sia rispetto alla natura, sia alle associazioni, sia all’origine e derivazione loro. Non gli basta il nome, vuol conoscere la storia di ogni singolo corpo per poi procedere con documenti certi all’istoria dell’intero pianeta.

Il fisico e il chimico nei loro laboratorj coadiuvano l’opera del geologo; sorge quasi una nuova scienza, la Geologia fisico-chimica; le forze della natura si misurano e si calcolano; se ne ripetono con artifizio i fenomeni, e provando e riprovando si tenta di rifare la via da essa tracciataci nell’ordine mirabile dei suoi prodotti. La Botanica e la Zoologia son fatte indispensabile guida al paleontologo, che di strato in strato segue il cammino della vita sulla Terra dalla monade all’uomo e suggella con le sue scoperte le splendide teoriche di Lamark, ricreate, svolte e immortalate dal Darwin.

Il desiderio di conoscere aguzza l’intelletto come l’esercizio i sensi, e quando i sensi non bastano a penetrare ove l’intelletto gl’incalza, questo non si dichiara vinto per ciò; né quelli sferzati da lui si arrestano; e come già sotto al telescopio l’occhio meravigliato vide accesi ignorati colossi negli abissi del firmamento, così ora col microscopio scopre nuove cose e nuove apparenze ove prima non riusciva a distinguere forma da forma. Aiutati dalla luce cerchiamo e troviamo la luce!

Studiare tutto e studiare senza pregiudizio infrenando l’immaginazione nei limiti che l’osservazione e l’esperimento le assegnano, ecco il vero progresso del secolo! E noi fortunati che vi assistiamo! Ma ciechi d’orgoglio non ridiamo per ciò degli errori dei nostri padri, pei quali come a coloro, che ci aprirono la via, dobbiamo anzi un sentimento di gratitudine e di venerazione.

Lessi non ha guari che gli uomini van giudicati nel secolo loro; aurea sentenza, che vi resti, o giovani, sempre impressa nell’animo. Democrito rideva delle follie umane; oggi noi potremmo ridere delle sue; ma chi ci assicura che domani altri non rida delle nostre? Oh se potessimo precorrere il tempo! Fra un secolo forse, fra due che saranno divenuti i nostri atomi e le nostre molecole; che cosa l’etere imponderabile, i fluidi elettrico e magnetico, che già non si dicon più tali, le formule architettate, le particelle cristalline coordinate alla costituzione dei minerali; che cosa le nostre teoriche sull’origine della Terra, che cosa tanti e tanti fossili più immaginati che studiati! Lunge da noi il vezzo, che è vezzo dell’epoca nostra, di crederci giunti all’apogeo del sapere. Sul cammino della scienza più ci s’inoltra più sembra allontanarsene la fine, così come quanto più in alto si sale, tanto più vasto orizzonte ci si para davanti. Anche i nostri predecessori credevano di aver raggiunta la verità; cullarci quindi nella stessa illusione sarebbe stoltezza. 

Cerchiamola, cerchiamola questa verità tutti insieme, cerchiamola e per dovere verso la patria e per amor della scienza e per noi medesimi.

Sì per noi medesimi, che nell’animo nostro la contemplazione e lo studio dei fenomeni naturali infondono soavi compiacenze e dolci soddisfazioni e tanto più care e tranquille quanto più turbolente e avvelenate sono le cure dei pubblici negozi, quanto più amari e funesti i dolori del cuore. Le stesse lotte, che oggi si combattono nel nostro campo, son lotte da amici, e son lotte forse le nostre? È un assalto comune e per vie diverse alla rocca del vero; un solo nemico per tutti, l’errore.

La passione, che accende e commuove gli animi, si converte nello studioso della natura in un desiderio non mai saziato di vedere, scoprire e sapere. L’abitudine a cercar sempre il vero per il vero, in ogni modo e per tutto, ne dispone la mente a in dipendenza e rettitudine di giudizio. E per ciò ben fece il legislatore a volere che agli studj universitarj precedesse ed egualmente per tutti insieme che nelle lettere un tirocinio nella Storia Naturale.

Spira dovunque nel giardino delle scienze un alito di poesia, che incanta e innamora quanti hanno in petto anima sensitiva e gentile. È una poesia intima, che si sente più che non si esprima; ed ogni parte di Storia Naturale ne ha vena copiosa di attrattive, che sono tanto maggiori quanto più vasto il campo in cui si ricercano. E ciò suggellatevi bene in mente, o giovani, perché l’andazzo del secolo non vi trascini di leggieri a chiudere il vostro intelletto in troppo stretti confini.

Vero è che il progresso degli studj e delle cognizioni scientifiche non permette più di abbracciare tutto lo scibile umano come nei tempi antichi. 

Vero è che la storia delle scienze ci mostra un graduato suddividersi di esse e sempre più limitato il numero per ciascuno individuo delle discipline professate; e agli Aristoteli succedono i Plinj, ai Plinj gli Avicenna, agli Avicenna i Linneo, e con Linneo muore il naturalista del passato per cedere il posto al botanico, al zoologo, al geologo del presente, che già trovano troppo vasto il loro dominio, onde nuovo, incessante moltiplicarsi di cattedre. 

Vero è che questo intendere delle menti in campi meno vasti ha non poco contribuito al1’avanzamento di ciascuna scienza, conciossiaché, come dissi, l’esercizio aguzzi i sensi e l’intelligenza, e l’occhio e la mente assuefatti a osservare e considerare sempre in un verso scorgano in quello più lontano che altri. Tutto ciò è vero; ma d’altra parte ciò non toglie che il prima o il poi a mettersi in una via non possa esser cagione di smarrire più o meno facilmente il sentiero.

Ond’è che prima di gettarsi in una di queste vie solitarie, nelle quali mal si torna o non si torna più addietro, giova provveder l’intelletto di forti studj, i quali alimentandosi l’un l’altro, se troppo presto separati, presto anche s’insteriliscono. Non temete che vi manchi il tempo per diventare specialisti a sbriciolare la scienza; e meglio per voi, poiché l’opra di tutti è necessaria all’edifizio scientifico (e passi la parola d’uso), meglio per voi se in luogo d’esserne i manovali preferirete d’esserne gli architetti.

Se i regolamenti v’impongono di dichiararvi dopo il secondo anno di studj per questa o per quella scuola, le altre non vi son chiuse per ciò; e qui nell’Università meglio che altrove potrete intendere quest’armonia di dottrine, giovarvi dell’ajuto che l’una all’altra si prestano. La confidenza del maestro vi attende; sì la confidenza del maestro, che se oggi la solenne cerimonia ne vuol divisi da quella barra e togati a simulacro di dignità, domani noi vi attendiamo nelle nostre scuole, nei nostri musei, nei nostri laboratorj; e là insieme confusi, lavoreremo insieme come fratelli per il progresso della scienza, per il bene del nostro paese, per l’onore e per l’utile nostro. 

Da voi non vogliamo l’ipse dixit dei Pitagorici! ché la dottrina del maestro dev’esser guida non fede; da voi vogliamo insieme a un coscienzioso lavoro una critica intelligente; vogliamo che prendendo le mosse dove noi le segnamo, ci lasciate ben addietro nel cammino delle scienze, lieti più che di ogni altra cosa se la gloria del discepolo torni ad orgoglio ed onor del maestro.

A. D’Achiardi