NOME DELLA CITTA’: dall’inglese “perla”
Ho sempre sentito parlare di Pearl, città della corruzione e del degrado, e ho sempre immaginato come essa potesse essere. Decisi dunque di non fermarmi alla sola immaginazione, ma di partire e di visitarla dal vivo superando le nebbie dei Carpazi. Attraversando aspre lande al chiarore di cinque lune vi giunsi tenuto in piedi dal clima rigido e sostentandomi di carne secca e sidro.
Questa città si nasconde, se la cerchi non la trovi, se non la cerchi è proprio davanti a te. Le mura di ciò che sembrava essere il centro storico sono corrotte come lo sono i muri delle case, casermoni con antenne paraboliche e finestre che inghiottono luci fioche e l’agonia della noia. La storia è cancellata dagli effetti della modernità, per questo il centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Per questo tutto è rozza periferia, senza senso della bellezza né Giustizia, se non l’estetica del rozzo. E’ l’assurdo del moderno. Gli animali, sgraziati, appaiono criminali riflettendo il decadimento di una umanità che fu e quella che sopravvive; non più una perla. Sotto i porticati sono gettati coloro che non hanno accettato la modernità, superstiti del libero pensiero su tappeti di cartone dove qua e là sono sparpagliate monete da pochi centesimi, elemosina dovuta alla follia sotto il calore della fiamma sprigionata dai loro libri, combustibile contro freddo e orrore.
Gli abitanti di Pearl non li sapresti “indovinare” perché camminano col capo chino e occhi bassi; non si salutano fra loro e sembra facciano finta di ricevere telefonate per evitare di rispondere. I bambini sono pericolosi perché forgiati dalla decadenza e dalla tristezza dei loro genitori. Il loro unico passatempo è la concorrenza spietata nell’imitare gli uomini d’onore, denigrando i poveri e i folli.
Dovevo scappare il prima possibile da quella città. Nemmeno la segnaletica offriva delle certezze: era come se questa città una volta entrati inghiottisse il viandante impedendogli la fuga. Iniziai così a correre su uno stradone enorme, fatto in cemento e marcato da strisce bianche visibili nonostante gli strati di gelo e la neve che cominciava a posarsi. Il risultato non fu quello sperato: arrivai nel distretto di ADIAFORA, nome che richiama l’indifferenza, e sentii la necessità di correre ancora, una volta averla conosciuta preso dalla claustrofobia di una gabbia.
La mia corsa si quietò perché neve, freddo e strada in salita ne rallentavano la concitazione. Al tramonto mi trovai vicino ad una fermata di sosta. Notai che molte persone stavano tornando da lavoro per rincasare dopo una giornata faticosa. A prima vista ERIKA non sembra una città così grande come appariva da Adiafora ma da lassù si aveva la strana percezione che Pearl, a valle, si ingrandisse e avicinasse in una grande macchia densa più ce ne si allontanava. Erika, più esattamente, non è una città ma nemmeno un paese. Assomiglia ad un rifugio-dormitorio dominato dal silenzio in cui sono frequenti divieti di ogni tipo: uscire, giocare, passeggiare, sedersi, fischiettare.
Trovai in breve tempo una locanda dove sostare la notte. Ero stanchissimo per la mia fuga spontanea e mi coricai subito per recuperare le forze perdute.
La mattina dopo visitai la città. Era desolata, deserta. Non c’era nessuno con cui poter parlare; infatti ad Erika si viveva per lavorare, non il contrario: era il prezzo pagato dai profughi di Pearl, i disadattati di una modernità che preferirono più di un secolo fa fondare un’isola di solitudine piuttosto che vivere tra i detriti e lo spaesamento del cemento. Decisi allora di continuare il mio viaggio, sullo stesso sentiero che mi aveva condotto sin li e che ricominciava ad allargarsi fondendosi sullo stradone dalle strisce bianche e indurite dal ghiaccio. Ormai indietro non potevo tornare anche se Pearl mi inseguiva e la mia unica speranza era quella di continuare questo tragitto. Ma prima di mettermi di nuovo in cammino, presi coscienza di una novità sconvolgente: senza volerlo, avevo percorso una enorme città formata dalla sola strada, ESSENZA che circondava ad anello casermoni già visti: ero tornato indietro, nella valle di Pearl
Vagavo senza meta, senza un dove e senza un perché. Inciampai per caso su un ramo e rotolai fuori dalla strada. Entrai in mezzo a cespugli e rovi e mi ritrovai alle porte di ABSENTIA. Quella strada che stavo percorrendo sicuramente non era voluta dal caso. Mi sentivo come il Dante Alighieri che percorse l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.
Dalla città di Absentia non potevo più tornare sullo stradone principale di Essenza. L’unico modo per uscire dalla città era un bivio: una strada portava a SORIANA, l’altra a PROSOPAGNOSIA. Visitai entrambe le città e mi parvero essere il risultato negativo di questo viaggio: chi non è abbastanza forte da superare il degrado e la corruzione di Pearl, cerca di correre, di fuggire per la prima strada che gli viene proposta e sfocia o nella tristezza perenne di Soriana, o nella perdita di memoria di Prosopagnosia. Entrambe le città, per chi riesce ad uscire da quella condizione di arresa nei confronti del degrado e della corruzione, sono collegate ad un cratere di un vulcano spento, che i cittadini chiamano KEROTOIA.