PHERSA

Le città Mutabili

MATTIA CUBEDDU - 4^ 17/18; TOMMASO CICCARONE

NOME DELLA CITTA': nome usato nel gioco degli scacchi ovvero la donna del gioco medioevale che non aveva ancora i poteri odierni. La fersa muove di una sola casella in diagonale

nell’affollata commedia che anima questa città avvertivo una inquieta solitudine che si percepisce in ogni vita che segua maschere e copioni

Non ricordo come arrivai a Phersa, ricordo solo che era come se ci fossi sempre stato. Probabilmente seguendo lo strascico indifferenziato e sinuoso di un sogno, uno dei tanti e del resto è più che probabile che l’arrivo a Phersa è un continuare a sostare nel distretto di Nyx dove tutto è sogno. Qui d’altro canto tutto è maschera e velo e mi sento come un personaggio che deve farsi riconoscere da altri personaggi per evitare di essere invisibile.

Gli incroci e le strade sono regolati da semafori che si illuminano di bianco – grigio – nero quando le persone che attraversano si riconoscono nella loro parte reciproca, in una schermaglia di gesti di cortese finzione e impari che le bugie non sono mai indifferenti.

E inoltre nell’affollata commedia che anima questa città avvertivo una inquieta solitudine che si percepisce in ogni vita che segua maschere e copioni: tutte le vie che partivano dalla piazza partivano da me, e tutte le vie che finivano alla piazza finivano a me. Tutto l’orizzonte è in bianco e nero, non solo i semafori. Non un solo bambino incrociava il mio cammino se non un cane e un gatto, il primo nero, il secondo bianconero con occhi grigi.

Nessuno sopporta troppa realtà o innocenza a Phersa, la cui trama è una farsa. Per farti un po' capire cosa intendo, Gran Khan, ti riferisco di un bizzarro siparietto svoltosi in un Caffè con i tavolini all’aperto lungo la salita che porta alla piazza anche se la via all’insù e la via all’ingiù sono la cosa medesima. Decidi tu se fossi in salita o in discesa.

Al tavolino sedevano tre uomini che avendomi visto si sono animati alzando il sipario del loro spettacolo: il primo si presentava col nome di Don Giovanni; il secondo diceva di essere un marito, il terzo si chiamava Abramo. In tutta la scena in bianco e nero stranamente spiccava il rosso del fazzoletto dal taschino logoro dell’uomo di nome Abramo.

Don Giovanni pur soffrendo di diabete, come aveva detto ad alta voce nel suo monologo, riempiva istintivamente la sua tazza sostenendo la coerenza di seguire il principio dell’istante e della voglia disperata di vivere qui e subito. Il secondo non parlava mai di sua moglie, ma dei suoi doveri di marito modello di uomo devoto alle regole e doveri che ogni bravo cittadino deve compiere per celebrare un senso costante e permanente nella vita. Il tizio di nome Abramo era li muto e triste, sorseggiando il suo caffè e lanciando di tanto in tanto sguardi di pena per i suoi vicini di tavolo: chi dichiarava di essere se stesso dietro il principio del vivere libero anche a costo di alienarsi dalla vita che non sia fatta di istanti piacevoli; chi sosteneva il dovere di annullarsi per le regole e l’approvazione. Anime perse senza sapere di esserlo. Il proprietario del Bar consegna avanzi di aperitivi consumati al vecchio di nome Abramo e interrogato da me sul perché fosse muto e non partecipava alla farsa il barista sottovoce mi dice: “dicono che venga da molto lontano, dalle parti della Palestina o Israele – non ho capito bene - e abbia sgozzato suo figlio in nome della fede e in nome della fede è impazzito. Si è rifugiato a Phersa dove anche la follia può essere accettata, in fondo è pur sempre una maschera della commedia della vita”