città della LIBERAZIONE

L'immagine è un omaggio a Gino De Dominicis, una libera interpretazione delle parole scritte dall'artista nella "Lettera sull'immortalità del corpo", 1969.

CITTA' DELLA LIBERAZIONE

Avremmo voluto realizzare un’opera d’arte. Non ci siamo riusciti.

Abbiamo discusso, scherzato, parlato, progettato, ma non siamo riusciti a rendere concreto il nostro proposito, non siamo stati abili nel rendere oggettuale il nostro pensiero. Poco male. Viviamo in una società, e la scuola talvolta ne è il riflesso, che pretende che tutto ciò che pensiamo si trasformi in cosa, che la freschezza delle nostre idee si fossilizzi in forma compiuta, immutabile, paurosamente definitiva. L’arte spesso è il paradigma perfetto di questo modo di pensare e di agire. Un bene di consumo come tutti gli altri, come una macchina, un telefono cellulare, una lavatrice; anche per questo negli ultimi decenni, in particolare l’arte contemporanea si è posta sempre più distante dalle esigenze reali delle persone, preferendo un pubblico di nicchia in larga misura formato da addetti ai lavori e da collezionisti, quei pochi, cioè, che oggi possono permettersi di acquistare un’opera d’arte. Eppure quello che conta davvero non è il “prodotto finito”, l’oggetto o il quadro che scegliamo perché in tono col nostro salotto: quello che veramente conta è il pensiero. Quello stato mentale stra-ordinario che ci mette in relazione profonda col mondo. Questo segmento dell’arte, purtroppo ormai anch’esso classificato, è definito processuale e nella storia vi sono alcuni esempi importanti: le teorie e le pratiche del Situazionismo, la Body Art e, ancora più estrema, l’Arte Comportamentale, ovvero quel processo per cui l’artista non ha più l’incombenza di produrre un oggetto bensì di attivare un comportamento, spesso difforme dalle regole, dissonante, a volte anche po’ buffo, ma che riesce (non sempre) a lasciare un segno nella memoria di chi volontariamente o per caso assiste all’evento. Eppure, ancora oggi, insegniamo ai nostri ragazzi che l’arte è un dono divino, che se non nasci artista non potrai mai esserlo, che l’arte è maestria e manualità. Ai nostri ragazzi, però, dovremmo anche dire che l’arte può essere effimera, può essere cioè intangibile e, soprattutto, che l’arte può e deve essere Liberazione: dagli schemi, dalle sovrastrutture, dalla rigidità di pensiero, dalle frontiere mentali e, oggi più che mai, da quelle reali che sempre più si fanno di filo spinato. Ne “Le città invisibili” Calvino annulla il senso del confine, utopia e realtà si fondono nella sua capacità di inventare luoghi dello spirito, luoghi dove la molteplicità appare in tutta la sua meravigliosa ricchezza, dove la curiosità per il diverso è lo strumento più potente per nutrire la propria conoscenza. La città è soprattutto quella che immaginiamo e che desideriamo, infatti lo stesso Calvino scrive: “La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso”.

Questo nostro Lavoro inattivo, dunque, è consistito nel pensare alla città e parlarne. La città come prigione, barriera, come non luogo, epicentro caotico e assordante di amari rumori e disperati segnali d’allarme. Oppure la città come spazio pubblico, partecipato, vivo, crogiolo ideale di relazioni dilatate. In questo percorso abbiamo messo a nudo i nostri desideri, le nostre aspirazioni e, probabilmente, le nostre paure, nulla di eccezionale, sia chiaro; se c’è un dettaglio, però, che differenzia questo comportamento da quello ordinario, è che avevamo l’intenzione di realizzare qualcosa, chissà, forse un’opera d’arte, di cui però alla fine non c’è più stata la necessità. Abbiamo sentito l’esigenza, invece, di scrivere per immagini una serie di piccoli diari di viaggio, ognuno di un colore diverso, esattamente come diverse sono le nostre sensibilità, differenti le cose a cui ciascuno ha dato la priorità, piccoli quaderni che fanno da intimo riassunto di un’esperienza umana molto bella che rimarrà segretamente viva nella memoria di chi l’ha vissuta.

Avremmo voluto realizzare un’opera d’arte. Non ci siamo riusciti e ne siamo felici.


CIRO VITALE