PREMIO LETTERARIO "L. PIRANDELLO" 2016

Cronaca della premiazione degli alunni vincitori della seconda edizione del premio letterario “ L. Pirandello” 2016.

La cerimonia si è svolta in Verona il 14 maggio 2016 al Circolo Unificato dell’Esercito con la presenza di numerose Autorità civili e militari. La giornata ha registrato l’intervento del prof. Stefano Quaglia, Dirigente dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Verona, che ha fatto un approfondito intervento sul periodo storico descritto da Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”.

PREMIO LETTERARIO “L. PIRANDELLO” 2016.

(Con il patrocinio della Provincia di Verona, del Comune di Verona e del Provveditorato agli Studi di Verona.)

La Commissione Giudicatrice è stata composta da:

Prof.ssa Mirella Leone in Dezio

Prof. Piero Cailotto

Prof Carlo Bortolozzo

con il coordinamento del Presidente del Circolo Culturale Luigi Pirandello: prof. Calogero Carità.

Sono state proposte tre tracce per il:

PREMIO LETTERARIO “LUIGI PIRANDELLO” 2016

L’opera oggetto di studio è stata: Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Il candidato sviluppi una delle seguenti tracce:

1.“ Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo Regno abbia molti regali per noi nel bagaglio (…) ma vedo che mi sono spiegato male: ho detto i siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee (…) hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali (…); questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa lunga estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe esser sufficiente per tre (…). Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua in ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi Governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche, e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da un terrificante insularità d’animo”.

Il brano è tratto dal IV capitolo del romanzo, in cui l’inviato del Governo piemontese Chevalley offre al principe Salina la nomina a Senatore del nuovo Regno.

Prendendo spunto dal testo riportato, il candidato rifletta sulle argomentazioni con cui il principe rifiuta l’incarico e analizzi in profondità le ragioni che secondo l’autore sono all’origine della questione meridionale.

2. Il manoscritto de Il Gattopardo venne rifiutato da molti editori e pubblicato nel 1958, dopo la morte dell’autore, dall’editore Feltrinelli, su iniziativa di Giorgio Bassani. Il romanzo ebbe un successo internazionale, favorito in seguito anche dal film diretto da Luchino Visconti. La vicenda editoriale de Il Gattopardo può considerarsi esemplare di una mancata sintonia tra i giudizi della critica ufficiale e la sensibilità dei lettori, già verificatasi con altri illustri scrittori italiani, quali ad esempio Svevo e Pirandello. Il candidato rifletta sui motivi dell’incomprensione con cui venne accolto dalla cultura letteraria dell’epoca e sulle cause del suo perdurante successo, anche ai nostri giorni.

3. Il candidato scelga liberamente un personaggio, un episodio o un tema del romanzo che più hanno toccato la sua fantasia e ne tratteggi le linee fondamentali, inserendoli all’interno del plot narrativo.

Buysse Joseph

Classe 5 /AMU Liceo Statale Carlo Montanari (Verona).

1° Classificato

Consegnano il premio il Provveditore agli Studi di Verona ed il Presidente del Circolo L. Pirandello.

Traccia n. 3

Don Fabrizio di Salina, protagonista del romanzo, incarna direttamente gli ideali del suo autore; è mediante il suo personalissimo “Gattopardo” che Giuseppe Tomasi di Lampedusa espresse le sue considerazioni in merito al processo di unificazione nazionale, assumendo l’ottica di un aristocratico meridionale. L’autore stesso descrive, in una lettera, la propria opera letteraria in relazione al suo protagonista; il romanzo, infatti, “narra di un nobile siciliano in un momento di crisi (che non è detto sia soltanto quella del 1860)”. Don Fabrizio è dunque un uomo che ha a che fare con una crisi, la quale non è solo esteriore ed espressa dai mutamenti politico-sociali in corso, ma è anche interiore e dilania l’animo del protagonista. Egli si descrive, durante l’incontro con l’inviato del governo piemontese Chevalley, come un uomo “a cavallo tra due secoli, e a disagio in tutti e due”. Si tratta, dunque, della crisi di un uomo soffocato ed oppresso dalla realtà che lo circonda. Nella sua disillusione, nel suo atteggiamento altero e altezzoso risuonano versi di alfieriana memoria: “ma non mi piacque il vil mio secol mai”.

Don Fabrizio vede sgretolarsi sotto i suoi occhi tutto ciò tutto ciò che gli dava conforto: le tradizioni, i prestigio cui egli si aggrappa costantemente; il Gattopardo stesso (inteso come emblema della tradizione nobiliare dei Salina) altro non è che il simulacro dell’innato desiderio di eternità insito nell’animo di don Fabrizio.

La sfiducia nei processi di modificazione della realtà a lui circostante lo porta spesso ad astrarsi da essa a rifugiarsi negli studi scientifici, nello specifico astronomici. E’ nella contemplazione del firmamento che don Fabrizio tenta di placare la sua sete di eternità, le sue istanze più profonde lo spingono ad anelare ad una realtà immutabile. E’ proprio in virtù di questo interesse intorno a ciò che suggerisce l’idea di eternità che egli sviluppa una consapevolezza profonda di quel che muta. Don Fabrizio possiede un acume molto più intenso di coloro da cui è attorniato, la sua è una consapevolezza quasi filosofica, che lo avvicina a pensatori quali, ad esempio, Pascal, quando quest’ultimo affermava che “l’uomo è sempre uguale a se stesso e i secoli scorrono invano”. L’alto magistero letterario di Lampedusa sta nell’aver posto un protagonista estremamente riflessivo in mezzo a personaggi animati da un forte dinamismo sociale e non. La bellezza del “Gattopardo” scaturisce, a mio avviso, dagli scontri tra gli opposti che esso presenta: basti pensare al rapporto tra Fabrizio e Tancredi. Quando quest’ultimo, giovane, in pieno slancio vitalistico esclama, non senza impudenza: “Tu corteggi la morte, zione!” si raggiunge l’acme del contrasto tra realtà divergenti. Don Fabrizio stava immedesimandosi nel romanzo di Grenze “La morte del giusto” (l’arte oltre alla scienza come rifugio per l’uomo) quando viene interrotto dal nipote, la realtà cangiante per antonomasia.

Tutto il romanzo è caratterizzato dalle divergenze tra i vari personaggi, ma Don Fabrizio è l’unico davvero in grado di guardare al di là degli scontri nella loro immanenza, giacché il suo sguardo è rivolto altrove, a quella trascendenza che egli sa cogliere mercé la sua superiore consapevolezza. Don Fabrizio mi suggerisce una lettura filosofica dell’opera: un protagonista di un romanzo che possiede quello sguardo lucido e disincantato del filosofo. Il principe di Salina non mi sembra differire molto nel suo svolgere lo sguardo al cielo, dal “Pastore errante dell’Asia” leopardiano: questo costante interrogarsi su quesiti insolvibili che appare sterile ad una lettura superficiale, ma che risulta essere da ultimo un arricchimento. L’atteggiamento filosofico di Don Fabrizio sta nell’astrarsi dalla realtà per poi ritornarvi con una coscienza maggiore dei suoi più intimi significati. Egli raccoglie quell’eredità di pensiero lasciata da Aristotele, per il quale ogni ente è costituito da un’essenza immobile e da una componente accidentale e contingente. Accidentali sono i colori delle camicie dei soldati, i quadri appesi alle pareti dei nobili, laddove i Borboni vengono tosto sostituiti dai Savoiardi….ma ciò che permane nel tempo, il significato di un simbolo non è visibile agli occhi, va colto con l’intelletto.

Il fascino esercitato sul lettore da un personaggio come Don Fabrizio sta nell’intelligenza di quest’ultimo: intelligenza che, conformemente all’etimo della parola, è da intendersi come “capacità di leggere dentro le cose”. Don Fabrizio ne è in grado e ciò si evince già dal suo primo dialogo con Tancredi, quando afferma che l’unica differenza tra il sovrano di Torino e quello di Napoli sta nel dialetto che essi parlano. Egli appunto, coglie l’essenziale al di là di ciò che è solo accidentale. In ultima analisi Don Fabrizio è filosofo anche per la sua concezione della vita e di tutto ciò che ad essa concerne; la sua coscienza dell’umana finitudine lo porta a sintetizzare così il fondamentale evento del plebiscito a Donnafugata: “Alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre”. Sorge spontanea l’analogia con un altro letterato del sud, Salvatore Quasimodo, anch’egli siciliano: quasi che sull’annessione della Sicilia al “nuovo Regno”, una volta che il processo si vede compiuto, fosse “subito sera”.

Mastrotto Sara

Liceo Statale Guarino Veronese (San Bonifacio).

2° Classificato

Traccia n. 3

L’episodio riguardante la morte di Don Fabrizio, principe di Salina, è ambientato nel 1883, ventitre anni dopo l’estate trascorsa a Donnafugata, narrata nella prima sezione del romanzo. Recatosi a Napoli per una visita presso un famoso medico, l’ormai anziano e malato Don Fabrizio, accompagnato dalla figlia Concetta, con l’orgoglio tipico della famiglia dei Gattopardi, insiste per rientrare a Palermo via terra e non, come gli era stato consigliato, in nave. Dopo un lungo ed estenuante viaggio in treno, giunge a destinazione, dove viene calorosamente accolto dai rimanenti membri della famiglia: le figlie e il terzogenito Francesco Paolo, il nipotino Fabrizietto e Tancredi con la moglie Angelica. A causa di un mancamento, viene però trasferito in tutta fretta in un alberghetto di periferia, di proprietà di un “svizzerotto”, per nulla contento di ospitare un moribondo, a prescindere dall’elevato rango sociale.

L’autore nota come a questo punto l’ironia della sorte abbia portato un aristocratico, legato ad una vecchia società, a morire proprio in un ambiente puramente borghese, l’esatto contrario di ciò che invece accade al verghiano Don Gesualdo. Questo contrasto viene evidenziato anche dalla figura del giovane medico di quartiere, fin troppo abituato ad entrare in contatto con uomini agonizzanti, che finge per visitare il malato, subito messo a confronto con la bonarietà del vecchio dottore di famiglia. Il suo intervento non migliora affatto la situazione, anzi il principe sente ormai la vita uscire dal proprio corpo. Nonostante, infatti, per tutta la propria esistenza egli avesse sentito quella forza vitale abbandonarlo a poco a poco, come minuscoli granelli di sabbia, si stupisce di possederne ancora abbastanza da percepire un così impetuoso flusso allontanarsi da lui. Accasciato su una poltrona sul terrazzo della squallida stanza, si volge dunque ad osservare Tancredi che, mentre gli stringe dolcemente la mano, per sollevarlo racconta del più e del meno. Il tono nasale della voce è come sempre allegro e pieno di spirito, ma il principe non può fare a ameno di notare come quella scintilla beffarda, tanto ammirata negli occhi del nipote, sia stata sostituita da tenerezza e lucida commozione, dimostrazione di un legame profondo, di un affetto e di una devozione sinceri e innegabili nei confronti del caro “zione”.

I pensieri di Don Fabrizio, sempre così lucidi e razionali, viaggiano ora sull’onda dei ricordi, per raggranellare tutte quelle “pagliuzze dorate dei momenti felici” dall’oscurità dell’esistenza, per dare un senso ad essa. Si aggrappa così anche a quei particolari apparentemente insignificanti, come la morbidezza della seta di certe cravatte, il profumo pungente del cuoio, il tocco sensuale di Mariannina, fino alle battute di caccia con Don Ciccio Tumeo, l’organista di Donnafugata, il valzer danzato con Angelica più di vent’anni prima al ballo dei Pontaleoni, il premio ritirato alla Sorbona grazie ai suoi meriti scientifici. Giunge, però, ad un’amara conclusione, nella sua più che settantennale vita, può affermare di aver veramente vissuto forse tre anni ed i aver sprecato i restanti settanta rincorrendo noia ed inutilità, bloccato in una sorta di apatia. Eppure egli è convinto che “stringi stringi, la sua morte sarebbe stata quella di tutto il mondo” ovvero dell’universo di valori e principi tipici della famiglia Salina, di cui sarebbe rimasto ai posteri solo un nome privo di significato. In nessuno dei figli ritrova, infatti una scintilla del proprio carattere, se non in Concetta, che dimostrerà poi di essere la vera erede del padre. I suoi pensieri sono però interrotti da un ennesimo collasso e si ritrova sdraiato sul letto, circondato dai parenti. Ecco che compare sulla soglia della camera quella giovane ed incredibilmente affascinante signora, già intravista all’arrivo in stazione, giunta per portarlo via con sé. Questa rappresentazione così insolita della morte, in netto contrasto con l’immaginario popolare di uno scheletro dal manto nero, immancabilmente equipaggiato con una falce, racchiude in sé la concezione che il principe mantiene di questa nel corso dell’intero romanzo.

“Zione, tu corteggi la morte”, è la frase che Tancredi gli rivolge, trovandolo trasognato e pensieroso di fronte alla raffigurazione di un vecchio morente. Effettivamente, la vita, i pensieri, le azioni di Don Fabrizio sono sempre scanditi da ripetuti riferimenti alla morte. Anche quando si abbandona all’osservazione delle sue amate stelle, dopo il già citato ballo dai Pontaleoni, sogna di poter staccarsi dalla terra e raggiungerle, con la stessa modalità che userà poi il Piccolo Principe per tornare sul suo minuscolo pianeta, nel capolavoro di Antoine de Saint Exoupery.

Il paesaggio siciliano, inoltre, nelle calde e soffocanti estati, si trasforma in un inferno di fuoco, dove persino l’acqua della pioggia che dovrebbe essere fonte di vita per uomini, piante e animali, diventa un ennesimo mezzo di distrazione in una terra non preparata ad accogliere così violenti acquazzoni. L’isola diventa, dunque, su modello lucreziano, il prototipo di un luogo inadatto alla esistenza degli esseri viventi, dove si aggirano uomini stanchi, forse già anch’essi un po’ morti dentro, incapaci quindi di dare una nuova energia. La morte, quindi, rappresenta per il Principe non già uno stimolo al rinnovamento, come afferma il mito di palingenesi nell’antichità, na al contrario si identifica con un annientamento totale, ma soprattutto una liberazione da qualsiasi forma di turbamento, e quindi finalmente, la pace.

Ciavarello Elisabetta

Liceo Statale Guarino Veronese (San Bonifacio).

3° Classificato

Traccia n. 3

L’inseguimento nel palazzo, narrato nella quarta parte del libro, la quale costituisce il nucleo fondamentale della vicenda, è più di un semplice gioco di sguardi, di pendersi o lasciarsi, tra due giovani innamorati. Non è un caso, infatti, che esso sia stato collocato poco prima dell’illustdiscorso di Don Fabrizio a Chevalley dal momento che rappresenta l’emblema di uno scontro generazionale, perpetuo altalenarsi tra il rimpianto del vecchio e il desiderio del nuovo che Tomasi è riuscito a celare con grande maestria dietro ad un’innocente fuga amorosa, essendo egli un pittore di parole e suggestioni, destreggiandosi abilmente fra gli scogli di un linguaggio che non è più nostro.

Il Gattopardo è il simbolo di una casata nobiliare antica, i cui ultimi granelli di polvere hanno lasciato un segno troppo flebile sul mobilio della neonata architettura del Regno d’Italia per non rischiare di essere spazzati via dal primo soffio di rivoluzione.

La polvere è presente in grande quantità all’interno della sublime reggia dei Salina a Donnafugata, polvere che Tancredi Falconieri ed Angelica Sedàra si divertivano a stuzzicare in quelli che, a detta dell’autore, saranno i giorni più belli della loro, sempre così bramata e al tempo stesso così fuggevole, vita. Tenteranno di aggrapparsi alle scalinate cedevoli delle parti più antiche del palazzo aggrappandosi così simbolicamente anche alle loro radici, tentativo che falliranno miseramente, scivolando, oltre che sul pavimento, nella rete e negli imbrogli della nuova politica italiana post-risorgimentale, azione ben lungi da poter essere considerata parte integrante della vita di un Gattopardo.

Attraverseranno infiniti corridoi, scopriranno a poco a poco una storia ibrida, abilmente narrata dalle molteplici voci del silenzio, che sapranno guidarli in un vero e proprio viaggio durante il quale il loro amore troverà un buon nido per coltivare quell’aria di desiderio che non raggiungerà mai il suo massimo splendore poiché intercalava dall’ombra costante di severità e pudicizia che li ha accompagnati sin dalla prima infanzia.

Si sorprenderanno degli strambi gusti in fatto di arredamento di qualche grazia e percepiranno il suono delle frustate che il loro lontano parente flagellante si auto-infliggeva nella speranza di poter portare un qualche miglioramento di questo mondo.

La corsa dei due giovani tra le stanze non è altro che la corsa di una nuova generazione, al momento in una situazione di totale confusione per i mutamenti troppo repentini di una realtà su cui ci si era placidamente assopiti, guardando ad un passato che si vorrebbe da un lato riscoprire e dall’altro archiviare permanentemente. Esso, infatti, fa parte di un’epoca le cui porte intagliate e decorate da incantevoli e raffinati puttini rococò erano state dolcemente chiuse per permettere a coloro che si trovavano al di là di esse un sonno tranquillo, senza paura di venir destati dal rumore dei cannoni di battaglia e dalle urla delle giubbe rosse, il cui unico grido sarebbe suonato loro così di cattivo gusto: “Regno d’Italia”.

Angelica e Tancredi si perdono di continuo e nel vuoto della loro temporanea perdita si colloca il tema del dubbio e della scelta, si collocano gli interrogativi di un’intera generazione che ha il piede in due staffe, per cui l’aut aut kierkegardiano si sta realizzando in quel preciso momento.

Curioso sarebbe il paragone con il, non più così diverso, castello ariostesco nel quale i personaggi si perdono inseguendo il loro più grande desiderio, venendo lentamente consumati da esso. Angelica e Tancredi sono rispettivamente l’uno il sogno dell’altro e si consumano a vicenda sullo sfondo e con l’implicito esempio di un’aristocrazia che è essa stessa stata consumata da un desiderio ancora più grande: quello dell’immortalità.

Il palazzo imponente, la cui impalcatura ci suggerisce un perpetuo desiderio di potenza, cade improvvisamente una volta che i passi innocenti dei due giovani innamorati percorrono, mostrando tutte le proprie fragilità- Il gesto di Tancredi, una volta giunti nelle più remote perversioni di un nome, così altisonante come quello dei Salina, chiusura dell’armadio dal quale sono usciti i manoscritti e le ampolle che tanto hanno spaventato gli innamorati, si rivela essere profondamente simbolico. Lo squattrinato nobile garibaldino, promotore in prima persona della rivoluzione, in quel momento implicitamente e definitivamente una strada non precisa che si discosta nettamente dal più volte esplicitato reazionarismo dello zio.

Angelica, d’altro canto, si mostra meno arrendevole, vorrebbe approfondire la conoscenza dell’ignoto, di quel nobil sangue che bramerebbe tanto le scorresse nelle vene, eppure ha paura, alla

fine, prevale su tutto e anche lei acconsente al ritorno nell’ala del palazzo dove si sente più sicura, avvolta tra le fiamme del fuoco rivoluzionario delle giubbe rosse, che scalderanno le case e gli animi di moltissime siciliane,

La gioventù siciliana dei ceti più alti sembra essere, così, pronta per fare il proprio ingresso nella nuova era della storia italiana. L’ abbandono è sempre accompagnato dalla novità, le due cose sono strettamente connesse tra loro e probabilmente è stato proprio per questo motivo che a Don Fabrizio è risultato impossibile l’abbraccio con il cambiamento, poiché gli artigli del suo cuore da Gattopardo erano ancora troppo saldamente ancorati ad un passato che al tempo stesso amava e disprezzava, custodito nei meandri di un palazzo nei quali non si è mai avventurato e che non erano altro che lo specchio di molteplici destini incrociati tra loro e accomunati da un’unica, splendente ed immortale costante: lo stemma del Gattopardo.