Fratelli d’Italia…

FRATELLI D’ITALIA…

Il sogno unitario di Goffredo Mameli “cozza” con le spinte individualistiche e localistiche che non aiutano a tenere unito il Paese.

Sarà per reazione, perché l’hanno definito retorico, anacronistico, perfino incomprensibile, che abbiamo imparato a cantare l’inno nazionale. Forse non ci affratella come dovrebbe, ma ne siamo gelosi lo stesso.

Retorico è sicuramente, anzi naturalmente, essendo nato in tempi di esaltazione lirico-patriottica e dalla penna animosa di un ventenne. Chi lo ha rivestito di note ha contribuito a farne quello che intendeva essere, un canto di battaglia, fatto di termini militari come “elmo, vittoria, coorte”. La parte più fortunata, la prima, la conosciamo tutti, ma il seguito è quasi una scoperta anche per l’italiano colto e appassionato di storia patria. Scorrerlo tutto significa trovarvi il nostro passato di popolo che ha “fatto” il Risorgimento per scrollarsi di dosso quel “servire e tacer” che tanto indignava Manzoni. “L’Italia s’è desta” è il grido di trionfo di un ragazzo acceso d’entusiasmo, una sorta di rivalsa sulla “communis opinio” europea, che non si aspettava il risveglio del “popolo dei morti”.

“Siamo pronti alla morte/Italia chiamò”. Alla morte erano davvero pronti i “fratelli d’Italia” e tanti sono caduti, infatti come lui, il giovane Mameli, e altri che non hanno consegnato il loro nome ai libri di storia. Per diventare “popolo”, per non essere più “calpesti e derisi”. Lo eravamo “da secoli”, Mameli aveva ragione, e abbiamo fatto fatica a rialzarci. Il resto, che è venuto nel tempo, è una conseguenza di quei primi passi, di quella dignità ritrovata.

“Uniamoci, amiamoci/l’unione e l’amore/rivelano ai popoli/le vie del Signore”. Questo appello, di sapore religioso, risuonava nel 1847, a un anno dalla Prima Guerra d’Indipendenza, quando le due idee correlate di unità (“dall’Alpe a Sicilia”) e indipendenza (“Giuriamo far libero/il suolo natio”) erano già maturate nella coscienza degli Italiani più avveduti. “I bimbi d’Italia/si chiaman Balilla”.

“Balilla” è denominazione che può non piacere per l’uso che se n’è fatto in un certo periodo della storia d’Italia, ma è solo l’appellativo-simbolo di quel bambino, forse si chiamava Giambattista Perasso, che nel 1746 a Genova diede il via a una rivolta popolare contro gli Austriaci. La storia dei popoli è storia di oppressori e di oppressi e c’è sempre da aspettarsi che “l’alterna onnipotenza delle umane sorti” trasformi gli oppressori in oppressi e viceversa.

E’ vero può essere un rebus per i giovani d’oggi quella carrellata di nomi e di eventi, Scipio, I Vespri, Legnano, Ferruccio, lo stesso Balilla, che fanno parte dei programmi scolastici e forse per questo scivolano più facilmente dalla memoria.

Ma quelli che si irritano per la pesantezza lessicale e sintattica dell’inno, e per la sua musicalità chiassosa, non sanno poi dare una spiegazione all’ondata di commozione che ci pervade ogni volta che l’ascoltiamo, quasi una vibrazione che ci mette in contatto con i patrioti che hanno voluto l’Italia.

Mameli, che non ebbe la gioia di vedere realizzato il suo sogno unitario, non poteva immaginare che il suo “canto degli italiani” sarebbe diventato nel 1946, a un secolo dalla sua composizione, l’inno nazionale dell’Italia repubblicana.

Ora non c’è nessuno straniero a contenderci la libertà e sono caduti gli antichi rancori, ma non siamo ancora il popolo che Mameli sognava, perché “siam divisi” da residue spinte individualistiche e localistiche.

Speriamo che le recenti celebrazioni dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia ci rendano veramente “fratelli d’Italia”.

Maria Luisa Andronaco