Prof. Giampietro Cailotto

21 NOVEMBRE 2015

Conferenza del prof. Gianpietro Cailotto su: “Lo sfruttamento dei carusi nelle zolfatare siciliane nel periodo post unitario attraverso le novelle di Giovanni Verga e Luigi Pirandello.”

I Carusi della Pirrera o della terra di sutta.

Nel 1876 due deputati Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, esponenti della destra storica, presentano in Parlamento una relazione, nota come “Inchiesta in Sicilia”, che costituisce la prima indagine documentata sulle condizioni socio-economiche dell’Isola. Venne pubblicata nel 1877 col titolo “La Sicilia”. L’ultimo capitolo è dedicato al lavoro disumano dei “carusi” nelle zolfatare (le pirrere). Un’indagine di grande attualità che mette il dito nella piaga dello sfruttamento del lavoro minorile e dell’evasione dell’obbligo scolastico che riguarda soprattutto l’intero meridione e ancora la Sicilia

Carusi è un termine siciliano che significa letteralmente "ragazzi": in Sicilia i figli, sia maschi che femmine, secondo l'età venivano detti in successione picciriddi ("bambini", 0-5 anni circa), carusi ("ragazzi", 6-18 anni circa), picciotti ("giovani", 19-30 anni circa: Carusu deriva dall'espressione latina carens usu che significa "mancante d'esperienza".

I carusi impiegati nelle solfare, la “terra di sutta” venivano arruolati dai picconieri (pirriaturi), con una tipologia di contratto chiamato soccorso morto, dalle povere famiglie di origine. Ai genitori dei carusi veniva corrisposto un pagamento anticipato di circa 100, 150, 500 lire. La paga dei carusi dati in affitto era, però, di pochi centesimi al giorno, quindi la situazione di semi-schiavitù poteva protrarsi per anni. In particolare un carusu sotto gli 8 anni percepiva un salario giornaliero di 0,35 cent., un carusu di 8 anni e sino a 15 anni, un salario di 0,50 cent., un carusu di 16 anni ed oltre, un salario di 1,50 cent., un carusu di 18 anni, un salario di 2,50 cent.

Lavoravano, nelle buie gallerie delle solfare, dall'alba al tramonto in piccoli gruppi alle dipendenze del picconiere che li aveva "arruolati", senza alcun rispetto per la loro integrità e salute fisica. Le condizioni di lavoro, infatti, erano dure e inaccettabili secondo i criteri odierni di sicurezza; e il rispetto dei diritti umani, dell'infanzia e dei lavoratori era minimo se non nullo. I poveri sfruttati potevano subire maltrattamenti e punizioni corporali se accusati di furto o di scarso rendimento.

Eppure, secondo la legislazione dell'epoca, era illegale far lavorare un minore di 12 anni, anche perché la legge stabiliva che la scuola dovesse essere obbligatoria per i bambini fino alla terza elementare. Ma queste norme venivano impunemente ignorate dalle famiglie vittime del bisogno e dalle autorità compiacenti.

Il lavoro del ragazzo consisteva nel trasportare all’esterno, attraverso impervi cunicoli, alti 130-180 cm. E larghi 100-120 cm, il materiale estratto dalle viscere della terra, (non esistendo ancora mezzi meccanici). Preparato il carico, veniva posto dentro cesti di vimini (i stiratura) e caricato sulle spalle protette da una imbottitura, la cosiddetta "chiumazzata". E su, quindi, per un impervio percorso di gradini alti 0,20-0,40 cm. E profondi appena 0,10-0,15 cm. insufficienti per appoggiarvi i piedi in sicurezza.

La vita nella solfatara è infernale: si lavorava per più di 12 ore al giorno nelle viscere della terra (sino a più di 150 metri sotto), a temperature superiori ai 37° senza vestiti per il caldo Questi esseri esili, mal nutriti, ignudi o quasi, muniti spesso solo di un gonnellino cinto alla vita a fare da perizoma, erano costretti a portare carichi che potevano variare dai 25 ai 50 Kg. Per 25-29 viaggi e una volta in superficie, in preda ad pesanti sbalzi di temperatura, dovevano portare il loro carico sino al calcaroni dove veniva cotto e trattato lo zolfo; è facile intuire la fatica che questi poveri ragazzi dovevano sopportare.

L'ambiente di lavoro, totalmente composto da maschi è decisamente promiscuo: i lavoratori dormono tutti assieme e in mancanza di altro ricorrono all'omosessualità e la necessità di stare nudi non fa altro che peggiorare le cose.

Difficilmente questi ragazzini sottoposti a tali crudezze crescevano sani, spesso erano storpi e rachitici, con problemi respiratori e soggetti ad ernie. La loro alimentazione era carente e consisteva nel solo pane. La loro presenza in miniera era essenziale ed i picconieri (loro datori di lavoro) facevano di tutto per accaparrarseli.

Dai documenti raccolti nel 1882 dall' allora Prefetto di Girgenti, Senatore Tamajo, in 72 miniere della provincia, delle quali 56 a Comitini, si trovarono ben 2626 fanciulli a lavoro.

Notizie su questi poveri carusi

In W. Goethe, “Viaggio in Sicilia”, in Giovanni Verga nella novella “Rosso Malpelo”, dove oltre al protagonista, la figura di un altro bambino “Ranocchio”, impiegato alle falde dell’Etna, a cavare l’arena rossa nei cunicoli sotto le “sciare” laviche e in Luigi Pirandello nella novella “Ciaula scopre la luna”, un picciotto per età, ma meno di un carusu per testa, impiegato nelle zolfatare nei pressi di Agrigento, nelle canzone urlate di Rosa Balistreri, nei versi di Alessio Di Giovanni.

Un Film sui carusi

Il primo film (1992) del regista siciliano Aurelio Grimaldi intitolato La discesa di Aclà a Floristella (Enna-Piazza Armerina) analizzava proprio l'allucinante vita di un povero caruso, sfruttato e abusato nella miniera di Floristella.

“Ci ammazziamo a scavarlo (lo zolfo), poi lo trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche ad ingoiarselo: ci tirano una bella fischiata e addio!...E la ricchezza nostra, intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qui, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno: le nostre campagne bruciate dal fumo”. (Pirandello, il Fumo).

SCINNUNU A LA PIRRERA

Alessio Di Giovanni

Scinninu a la pirrera e ognunu ‘mmanu

Porta la so’ lumera pi la via

Ca non pi iddi, pi l’ervi di lu chianu

luci lu suli biunnu a la campia.

Scinninu muti, e quannu ammanu

Scumpariscinu ‘na nfunnu a la scuria,

e si sentinu persi, chianu chianu

preganu a San Giuseppi ed a Maria

Ma doppu, accumincianu a travagghiari

Gridannu, gastimannu a la canina

Ca lu stessu Signuri l’abbannuna.

Oh putissiru, allura abbannunari

Dda vita ‘nfami, dda vita assassina

Comu l’armali ‘nfunnu a li vadduna.

SCENDONO NELLA MINIERA

Scendono alla miniera e ognuno in mano

porta la sua lanterna per la via

perchè non per loro, per l'erbe del piano

luce il sole biondo nella campagna.

Scendono in silenzio, e quando in fretta

scompaiono nel fondo del buio,

e si sentono perduti, piano piano

pregano San Giuseppe e la Madonna.

Poi cominciano a lavorare

gridano, bestemmiando come cani

che lo stesso Signore li ha abbandonati.

Oh potessero allora abbandonare

quella vita infame, quella vita assassina

come gli animali in fondo al vallone

GIAN PIETRO CAILOTTO, ha insegnato Lettere nelle scuole superiori di Verona. Collabora col Centro Nazionale Studi Pirandelliani, guidando gruppi di studio e di ricerca su Pirandello e dintorni alla partecipazione dell’annuale Convegno Internazionale Pirandelliano ad Agrigento.

Ha promosso attività teatrali nelle scuole superiori di Verona in collaborazione con attori-registi quali Ezio Maria Caserta e Andrea Demanincor.

In collaborazione con Silvia Donadoni, attrice e regista del Teatro Arcobaleno di Varesi, ha redatto testi per la messa in scena di pieces teatrali per le scuole.