DA CAPORETTO A VITTORIO VENETO

ù

L’occasione per questo evento ci è stata data dalla collega giornalista Elisabetta Parisi, direttore responsabile del periodico culturale di Verona “Souvenir press” che ha pubblicato presso “Jago Edizioni” due interessanti “Quaderni dal fronte”. Si tratta delle “Memorie di trincea” (Gennaio 1917-Dicembre 1918) di Andrea Prosdocimi, sottotenente di fanteria, che fondò e diresse in trincea il periodico umoristico “Il Pidocchio” e del “Diario” (luglio-novembre 1917) di Francesco Caldart, bellunese, capitano di fanteria. Il Diario è purtroppo l’unico quaderno superstite dei 30 dove Caldart aveva minuziosamente annotato gli accadimenti dal 1915 al 1917.

A parlare di questi due interessanti “Quaderni dal fronte” è stata la collega Parisi, peraltro nipote di Andrea Prosdocimi, mentre il ten. Col. Antonio Palazzo ha concluso questo nostro incontro illustrandoci, come lui è solito fare, in modo esaustivo, i fatti militari, per i quali ha competenza, che portarono alla rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917 e alla vittoria del 4 novembre 1918 di Vittorio Veneto. La lettura di brani dei quaderni è stata affidata all’attore Nicolò Sordo. Doverosa è stata una mia premessa.

Sia nella rappresentazione storiografica sia nell’immaginario collettivo, il conflitto 1914-18 ha la sua tragica grandezza nella dimensione spaventosa della morte di massa, motivo per cui la Grande Guerra viene concepita come l’Apocalisse della modernità.

Secondo le ricostruzioni più recenti, l’Europa registrò, alla fine del conflitto, 10 milioni di morti e altrettanti feriti e invalidi, con il 12 per cento di caduti sotto i vent’anni e il 60 per cento di un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. In questo contesto, il bilancio finale è, sul fronte italiano, non meno impressionante: 650 mila caduti, dei quali 400 mila al fronte, 100 mila per malattia, 100 mila morti durante la prigionia, 50 mila deceduti dopo la guerra a seguito di ferite o malattie contratte nel periodo bellico, migliaia di mutilati ed invalidi e scemi di guerra.

Certamente, se l’Italia, avesse scelto dopo l’eccidio di Serajeo, di restare nella Triplice Alleanza con l’Austria e la Germania, facendo tesoro della sua neutralità prevista dal trattato del 20 maggio 1882 e sostenuta dall’Austria, anziché migrare, spinta dai signori della guerra, nella Triplice Intesa (25 aprile 1915) a fianco della Francia, dell’Inghilterra, non avrebbe avuto questa carneficina e non avrebbe subito l’umiliazione alla Conferenza di Parigi dell’aprile 1919 da parte degli Usa che non vollero riconoscere gli impegni assunti da Parigi e Londra nei confronti del nostro paese.

Questi numeri, di persone inghiottite dal baratro della guerra, segnano la più drammatica esperienza della storia italiana.

Secondo le statistiche del ministero della guerra, furono oltre 5 milioni gli uomini chiamati alle armi negli anni del conflitto, ma circa 900 mila non raggiunsero mai le zone di guerra, perché impegnati nei servizi e uffici periferici. Furono richiamate le classi dal 1874 al 1900, per una età media intorno ai 28 anni e fu una perdita netta di giovane forza lavoro e, per conseguenza, una tragedia umana ed economica.

Fu uno sforzo senza precedenti che mobilitò le amministrazioni pubbliche, militari e civili, impegnate a produrre tutto ciò che necessitava alla conduzione della guerra e alla salute e alla sopravvivenza dei soldati. Certo, i mesi di neutralità avevano consentito ai vertici civili e militari di osservare le tristi esperienze dei paesi belligeranti e di organizzare i preparativi, ma il vantaggio fu vanificato in larga parte, da molti limiti, tra questi una mentalità militare rappresentata in primis dal gen. Luigi Cadorna che stentava a comprendere il carattere moderno del conflitto in termini di tecniche di combattimento e di comprensione delle esigenze umane e psicologiche del soldato combattente. Un cambiamento avverrà solo dopo Caporetto, la più disastrosa sconfitta che abbia potuto subire l’esercito italiano costretto a ritirarsi sino al fiume Piave e questo appunto per l’incapacità del gen. Luigi Cadorna che attribuì la disfatta alla viltà dei soldati. E solo dopo Caporetto che militari e politici si preoccuparono di prestare maggiore attenzione alle condizioni fisiche e morali dei combattenti. Nell’anno della neutralità, la scienza medica si occupò anche delle condizioni che i combattenti avrebbero affrontato sui fronti di guerra e delle malattie che ne sarebbero derivate: dissenteria, disfunzioni cardiache, malattie infettive a causa della vicinanza fisica dei soldati in ambienti malsani, esaurimento nervoso. Si pensi alla vita di trincea, oltremodo difficile e penosa, esposta alla insalubrità, all’addensamento fittissimo degli uomini, al logorio fisico, al prevalere delle ragioni militari sulle altre, comprensibili, esigenze. Il bilancio finale dirà che un militare su cinque morì per malattia.

L’Italia vinse la guerra, ma la sua “vittoria mutilata” provocò una profonda crisi economica e sociale, ma anche politica e vide imporsi, sulla scia della rivoluzione bolscevica, un forte partito della sinistra che sbandierando la lotta di classe allertò agrari, industriali e possidenti, preoccupati per l’occupazione delle terre e delle fabbriche. La conseguenza di questa rivoluzione, i cui germi erano nati anche nelle trincee tra i soldati raggiunti dalla propaganda filo bolscevica, provocò prima la nascita dei Fasci di combattimento e quindi del Partito Nazionale Fascista. Il resto della storia la conosciamo tutti.

La prima guerra mondiale diede anche un forte scossone all’intero assetto politico-territoriale del vecchio continente decretando la fine dell’impero zarista, dell’impero austriaco, dell’impero tedesco e, nel vicino oriente, la fine dell’impero ottomano.

Calogero Carità