Il basilico (Ocimum basilicum, L., 1753) è una pianta erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Lamiaceae, normalmente coltivata come pianta aromatica.
Originario dell'India, il basilico è utilizzato tipicamente nella cucina italiana e nelle cucine asiatiche in Taiwan, Thailandia, Vietnam, Cambogia e Laos, per via del marcato profumo delle sue foglie, che a seconda della varietà può essere più o meno dolce o pungente.
Il nome deriva dal latino medievale basilicum, con origine dal greco basilikon (phyton) ("pianta regale, maestosa"), da basileus "re".
L'etimologia è incerta: alcune interpretazioni ritengono sia così chiamato perché usato per produrre profumi per il re,[1] o in riferimento all'utilizzo sacro delle antiche popolazioni Hindu, oppure, più semplicemente, per l'importanza "regale" conferita alla pianta.[2]
L'origine del nome è stata spesso erroneamente confusa con quella del basilisco, la creatura mitologica greca descritta come un serpente dal veleno letale, col potere di uccidere con lo sguardo. Il basilico ne sarebbe stato l'antidoto.
Il basilico è una pianta erbacea annuale alta fino a 60 cm, con foglie opposte, ovali, lanceolate, a volte bollose, di 2-5 centimetri di lunghezza. Il colore delle foglie varia dal verde pallido al verde intenso, oppure è viola o porpora in alcune varietà. I fusti eretti, ramificati, hanno una sezione quadrata come molte delle Lamiaceae, e hanno la tendenza a divenire legnosi e frondosi.
I piccoli fiori bilabiati, bianchi o rosei, hanno la corolla di 5 petali irregolari. Gli stami sono 4 e gialli. I fiori sono raggruppati in infiorescenze all'ascella delle foglie.
I semi sono fini, oblunghi e neri.
Il basilico è nativo e cresce selvatico nell'Asia tropicale e in India. Si diffuse dal Medio Oriente in Antica Grecia e in Italia dai tempi di Alessandro Magno, intorno al 350 a.C.. Solo dal XVI secolo iniziò a essere coltivato anche in Inghilterra e, con le prime spedizioni migratorie, nelle Americhe.
Sono state classificate circa 60 varietà e cultivar di O. basilicum, che si differenziano per l'aspetto e l'aroma. La difficoltà nel classificare il basilico è dovuta principalmente alle caratteristiche polimorfiche della pianta e all'impollinazione incrociata, rendendo a volte dubbia l'identità botanica del basilico così come citata in diverse letterature.[3]
Tra le varietà si ricordano:
Basilico comune crespo (O. basilicum 'Crispum'), dalle grandi foglie dalla superficie increspata e dal profumo intenso.
Basilico classico o genovese (O. basilicum 'Italiano Classico'), rinomato in Italia per produrre il pesto alla genovese. Ha un aroma di gelsomino, di liquirizia e di limone.
Basilico greco (O. basilicum 'Minimum'), dalle piccole foglie allungate, ha un profumo più dolce e meno pungente delle varietà a foglie larghe e si adatta meglio ai climi freddi.
Basilico thai (O. basilicum var. thyrsiflora), l'aroma delle sue foglie ricorda la menta e il chiodo di garofano, e si utilizza con i frutti di mare e nelle minestre esotiche. Ha un profumo di liquirizia per il suo contenuto di estragolo.[4]
Basilico porpora messicano (O. basilicum 'Purple Ruffles'), con foglie decorative di color porpora e fiori rosa pallido, ha un aroma dolce ed un po' piccante, si può usare nelle insalate.
Basilico messicano (O. basilicum 'Cinnamon'), con un forte profumo di cannella e dai fiori color porpora.
Basilico Dark Opal (O. basilicum 'Dark Opal'), simile al basilico messicano, con sapore più intenso.
Basilico lattuga (O. basilicum 'Lettuce Leaf') e basilico napoletano (O. basilicum 'Napoletano'), varietà dalle foglie più grandi.
La pianta, fortemente aromatica, è utilizzata nelle cucine italiane e asiatiche. Viene inoltre impiegata tradizionalmente in alcune medicine popolari.
Il basilico deve essere utilizzato fresco e aggiunto alle pietanze all'ultimo momento. La cottura ne attenua velocemente il sapore fino a neutralizzarlo, lasciando poco del suo profumo. Quando essiccato, perde completamente il suo sapore lasciando un debole profumo di fieno. Lo si può pestare in un mortaio per rompere le cellule che contengono l'olio essenziale, liberandone l'aroma. In frigorifero si può conservare per qualche giorno, avvolto in un canovaccio da cucina. Le foglie congelate conservano, invece, il sapore per diversi mesi.
Il basilico è difficile da abbinare ad altre erbe aromatiche come il prezzemolo, il timo e il rosmarino.
Insieme a formaggio, pinoli, aglio e olio di oliva, è l'ingrediente base del pesto genovese, la salsa tipica della cucina ligure.
Si usa per le insalate, con pomodori maturi, le zucchine, l'aglio, i frutti di mare, il pesce (triglia), le uova strapazzate, il pollo, il coniglio, l'anatra, le insalate di riso, le zuppe, la pasta e per le salse di pomodoro.
Nella cucina asiatica, specialmente a Taiwan, si usa frequentemente nelle zuppe. Le foglie intere accompagnano il pollo fritto o vengono usate per insaporire latte e creme.
Il suo olio essenziale è utilizzato per la preparazione di profumi e liquori; dalla distillazione della pianta fresca si ottiene un'essenza contenente eucaliptolo ed eugenolo.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Come pianta medicinale, le foglie e le sommità fiorite vengono utilizzate per preparare infusi ad azione sedativa, antispastica delle vie digerenti, stomachica e diuretica, antimicrobica, antinfiammatoria. Il basilico è utilizzato anche contro l'indigestione e come vermifugo. Come collutorio è indicato contro le infiammazioni del cavo orale. L'olio è utilizzato per massaggiare le parti del corpo dolenti o colpite da reumatismi.[5]
Per via di questi benefici, il suo uso si è propagato dall'Africa alla medicina tradizionale in Brasile.[6] La medicina ayurveda assegna inoltre diverse proprietà all'Ocimum tenuiflorum, o basilico sacro.
Il basilico cresce bene quando il sole è abbondante e la temperatura tra i 20 °C e 25 °C, come nel clima mediterraneo. A più alte temperature necessita di una più alta umidità, e non resiste a temperature inferiori ai 10 °C. Gradisce annaffiature frequenti, ma con un suolo ben drenato, in quanto i ristagni d'acqua sono dannosi per le radici. Si coltiva negli orti o in vaso[7].
Il periodo di fioritura è tra giugno e settembre. Le piante di basilico devono essere regolarmente cimate, asportando gli apici vegetativi e i fiori, per consentire una crescita rigogliosa e per allungare il ciclo di vita, che termina con la produzione dei semi. Sui fusti lasciati a fiorire, la crescita delle foglie rallenta e si ferma, il fusto diventa legnoso, e cala la produzione dell'olio essenziale che produce il profumo. I semi possono tuttavia essere seminati l'anno successivo.
La propagazione per semina si effettua in primavera, verso marzo-aprile. In un clima temperato, la semina può essere fatta in serra o in vasi mantenuti ad una temperatura di circa 20 °C. Il trapianto in piena terra si può fare quando la temperatura esterna minima supera i 10 °C e non c'è pericolo di gelate notturne, quindi tra aprile e maggio a seconda del clima locale. Luglio e agosto sono i periodi migliori per la raccolta delle foglie.
Il basilico si può concimare con letame (circa 2–3 kg/m²). Se la coltivazione avviene in vaso, conviene mettere la piantina in un terreno ricco di materia organica, o mescolare al terreno qualche manciata di stallatico sfarinato o di compost.[8]
La pianta è sensibile a diverse malattie che possono ridurre il raccolto, come quelle causate dai funghi parassiti Fusarium oxysporum o Botrytis cinerea, che produce un marciume grigio sulle foglie.
Le differenti varietà hanno un numero variabile di oli essenziali che conferiscono alla pianta il tipico profumo nelle diverse sfumature. L'aroma caratteristico della specie comune in Italia è derivato dall'eugenolo, sostanza chimica presente in grande quantità anche nei chiodi di garofano. Alcune varietà condividono, in forma minore, le sostanze che danno il tipico profumo al limone, alla menta, alla liquirizia o alla canfora.
Negli oli essenziali, a seconda della varietà e della stagione di coltivazione, sono stati trovati e analizzati[9] 29 costituenti differenti, tra cui:
linalolo, tra il 56,7–60,6%
epi-α-cadinolo (8,6–11,4%)
α-bergamotene (7,4–9,2%)
γ-cadinene (3,3–5,4%)
germacrene D (1,1–3,3%)
canfora (1,1–3,1%)
Oltre all'eugenolo, il basilico contiene metileugenolo ed estragolo (23–88% negli oli essenziali), sostanze che si sono rivelate cancerogene su ratti e topi. Sebbene gli effetti sugli umani non siano stati studiati, gli esperimenti indicano che è necessaria una quantità molto superiore a quella con cui normalmente si entra in contatto, affinché essa possa rappresentare un rischio per il cancro.[10] La combinazione con altri alimenti ne riduce o annulla l'effetto tossico. Estragolo e metileugenolo, un derivato a base di fenilalanina, sono presenti nella classifica IARC degli agenti cancerogeni.[11][12]
Uno studio del 1989 sull'olio essenziale del basilico mostra che la pianta ha proprietà fungicide e repellenti per gli insetti.[13] Uno studio simile del 2009 conferma che gli estratti dalla pianta sono molto tossici per le zanzare.[14]
Nella storia il basilico non si è distinto tanto come alimento quanto come elemento nelle superstizioni diffuse tra le popolazioni dell'Asia, del Medio Oriente e del Mediterraneo.
I primi testi che parlano del basilico in cucina si trovano solo dalla fine del XVIII secolo. Gli esploratori dell'Ottocento riferirono di aver incontrato diverse specie di Ocimum in Africa, in Persia e in Asia Tropicale, native o coltivate.[15]
Tra gli antichi egizi e i greci, il basilico conservò una simbologia legata alla morte: ritenuto di buon auspicio per l'aldilà, si usava per le imbalsamature. I cinesi e gli arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, mentre i crociati ne riempivano le navi per cacciare insetti e cattivi odori.[15]
Ai tempi di antichi Greci e Romani, il basilico era considerato un simbolo diabolico, di sfortuna e di odio. Plinio il Vecchio attribuiva alla pianta capacità di generare stati di torpore e pazzia,[16] e secondo Crisippo poteva essere dannoso per lo stomaco e per il fegato. Gli antichi romani lo associarono alla figura mitologica del basilisco, creatura a forma di serpente in grado di uccidere con lo sguardo: il basilico sarebbe servito come antidoto al suo veleno.[17] Una leggenda africana sostiene, inoltre, che il basilico protegga dagli scorpioni.[18]
Nel medioevo, la pianta era utilizzata per guarire le ferite, come quelle di archibugio, ed era un ingrediente dell'acqua vulneraria, usata un tempo per applicazioni esterne. Alcuni naturalisti, come Nicholas Culpeper, lo ritenevano invece velenoso. Una leggenda medievale lo cita come capace di attirare gli scorpioni, qualora le foglie fossero messe sotto un vaso. Nelle miniature di alcuni manoscritti, il basilico è il simbolo dell'odio e di Satana. Il folklore ebraico suggerisce invece che dia forza durante il digiuno.[17][18]
Lisabetta da Messina, eroina del Decameron di Boccaccio, seppellì la testa del suo amante in un vaso di basilico.
Il prezzemolo (Petroselinum crispum (Mill.) Fuss, 900) è una pianta biennale della famiglia delle Apiaceae[1], originaria delle zone mediterranee. Cresce spontaneamente nei boschi e nei prati delle zone a clima temperato; teme infatti il freddo intenso.
È una pianta erbacea, biennale nelle zone temperate, annuale in quelle tropicali. Ha una robusta radice a fittone bianco giallastra. Le foglie sono completamente glabre e hanno un contorno triangolare frastagliato, possono essere bipennatosette o tripennatosette. L'infiorescenza è una ombrella formata da una cinquantina di piccoli fiori a cinque petali bianchi, talvolta soffusi di azzurro-violetto o giallastro.
Il prezzemolo può essere attaccato da diversi insetti:
larve di maggiolino e oziorinco: ne mangiano le radici;
afidi: attaccano la pianta adulta, facendo arricciare le foglie con le loro punture.
Più frequente, nell'ambito delle malattie crittogamiche, risulta la cercospora: l'evidenza dell'affezione si ha con il riscontro di puntole di colore ambrato, che sono dei miceli.
Le foglie e i fusti, e più raramente la radice, sono le parti utilizzate, sia per il consumo fresco sia per la preparazione di salse, zuppe e pesce.
È un ingrediente di molte pietanze e di molte salse. Viene ad esempio utilizzato tritato da aggiungere alle insalate o al sugo alle vongole o viceversa con le foglie intere nel pesce arrosto. Ha un sapore pungente e leggermente amaro che ravviva il sapore delle altre erbe.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Uso esterno
L'impacco di foglie pestate è usato per alleviare punture di insetti, contusioni e mal di denti. La polpa delle foglie applicata sulle mammelle fa regredire il latte.
Uso interno
Il prezzemolo ha proprietà diuretiche e sudorifere, dovute principalmente ad una sostanza flavonica: l'apioside. Nell'erboristeria cinese è utilizzato anche come rimedio per la pressione alta.
Anticamente, soprattutto nel Medioevo, era utilizzato anche come emmenagogo e abortivo, a causa dell'apiolo[2], un componente principale, che contrae la muscolatura liscia dell'intestino, vescica e utero.
Controindicazioni
Il consumo alimentare del prezzemolo fresco è considerato sicuro, ma non essendo ben definita la soglia di tossicità (e le interazioni con altre sostanze) il consumo eccessivo dovrebbe essere evitato dai soggetti in gravidanza per i possibili effetti uterotonici. L'olio essenziale di prezzemolo, se ingerito, può dare effetti avversi anche a livello epatico e lo psoralene e i suoi derivati presenti nella pianta sono stati collegati alle fotodermatiti che colpiscono i raccoglitori di prezzemolo.[3]
Il coriandolo (Coriandrum sativum, L. 1753) o prezzemolo cinese o con il nome spagnolo cilantro, è una pianta erbacea annuale della famiglia delle Apiaceae (o Umbelliferae). Appartiene alla stessa famiglia del cumino, dell'aneto, del finocchio e del prezzemolo. Coriandrum è una parola latina citata da Plinio (Naturalis Historia), che ha le sue radici nella parola greca corys o korios (cimice) seguita dal suffisso -ander (somigliante), in riferimento alla supposta somiglianza dell'odore emanato dai frutti acerbi o sfregando le foglie[1].
Descrizione
I fiori sono bianchi e sono riuniti in infiorescenze a ombrello, mentre i frutti sono diacheni aromatici. Si usano i frutti che maturano in giugno-luglio.
Storia del coriandolo
Nelle civiltà mediterranee trovò impiego fin nell'antichità come pianta aromatica e medicinale; in alcune tombe egizie viene raffigurato come offerta rituale. Il suo utilizzo da parte dei Micenei è attestato nelle tavolette in lineare B, dove appare definito già come "ko-ri-a-ndo-no". I Romani lo usarono moltissimo e Apicio ne fa la base di un condimento chiamato appunto "Coriandratum". Secondo Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XX, 82), mettendo alcuni semi di coriandolo sotto il cuscino al levar del sole si poteva far sparire il mal di testa e prevenire la febbre.
Dai semi rivestiti di zucchero prendono nome i coriandoli di Carnevale, in un secondo momento pallottoline di gesso, ora dischetti di carta multicolori.[2]
Raccolta
La raccolta delle ombrelle, recise insieme con il loro gambo, deve avvenire al mattino presto quando il coriandolo è ancora umido di rugiada. Vanno quindi essiccate subito altrimenti col tempo perdono molte proprietà. Le ombrelle vengono quindi riunite in mazzi e appese in luoghi ombreggiati, quando sono ben essiccate si battono all'interno di un sacchetto per separare i frutti dai peduncoli che li sostengono. I frutti si conservano poi in recipienti di vetro. I semi si dovrebbero conservare interi poiché la polvere di coriandolo perde aroma molto facilmente.
Usi
Originario dei paesi del Mar Mediterraneo, le foglie fresche e i semi essiccati sono utilizzati prevalentemente nella cucina indiana e latino americana. In Europa è oggi tornato in auge al seguito di quelle culture culinarie.
Entra nella preparazione di alcuni salumi, insaporisce carne, pesce e verdure, ma profuma anche birre, biscotti, confetti e il pampepato[1]; i semi vengono utilizzati come spezia. Questi sono meno piccanti delle foglie, sono dolci con un lieve sapore di limone. Macinati, i semi di coriandolo costituiscono uno degli ingredienti del curry e del garam masala. Le foglie, in Oriente, sono utilizzate al posto del prezzemolo. A Tenerife si usa nel Mojo verde (salsa). Nell'Africa Meridionale vengono inseriti nel boerewors, una salsiccia spiraliforme abbondantemente speziata. In passato, in Italia, lo si trovava nella mortadella. Nella città di Monte San Biagio e in alcuni paesi sulla costa Ionica della Basilicata il seme di coriandolo viene usato per condire l'impasto della salsiccia.
Secondo alcuni recenti studi nell'essere umano esistono delle componenti genetiche in base alle quali il coriandolo può essere apprezzato oppure del tutto sgradevole[3][4].
Le radici vengono utilizzate in particolare nella cucina thailandese per preparare un condimento di base insieme con aglio e pepe.
Il coriandolo può essere usato come infuso contro i dolori di stomaco, è consigliato anche per problemi di aerofagia e le emicranie, aiuta la digestione e ha una funzione antidiarroica[5].
In Sri Lanka le popolazioni tamil utilizzano i frutti per la preparazione di un decotto che, dolcificato con il miele, si assume per alleviare la tosse[6].
È uno dei pochi chelanti del mercurio, sia nel nucleo della cellula (evitando il danno al DNA) sia negli spazi tra cellule, e fa sì che la colecisti riversi nell'intestino tenue molta più bile, contenente le tossine. Pertanto, se non è assunto con un chelante per l'intestino tenue, come la clorella, vi è una reintossificazione per riassorbimento del mercurio nelle terminazioni nervose dell'intestino.[7]
Anthriscus cerefolium
Il cerfoglio (Anthriscus cerefolium) è una pianta annuale che cresce spontaneamente nei boschi e nei prati. Appartiene alla famiglia delle Umbrellifere ed è molto simile al prezzemolo. Il suo gusto è delicato ricorda un misto di anice e di basilico.
Il cerfoglio è ricco di vitamina C, carotene e sali minerali. Per questo motivo, è conosciuto per le sue proprietà depurative, diuretiche e lassative: favorisce l’eliminazione delle tossine; favorisce le funzionalità del fegato; risulta benefico in caso di coliche epatiche; è utile in caso di ritenzione idrica e contro la stitichezza ostinata
Ha inoltre conclamate proprietà antisettiche, antinfiammatorie e lenitive: è indicato nelle affezioni dell’apparato respiratorio; nella cura delle infiammazioni della pelle e le piccole ulcerazioni superficiali o contro il prurito delle punture di insetti.
Il cerfoglio cresce spontaneo in tutta Europa, nel Caucaso e sulle montagne dell'Asia occidentale. Nelle varietà selvatiche, ormai si trova comunente nelle zone del mediterraneo e nei nostri boschi.
È facile da coltivare anche in vaso, l'importante è che si tratti di vasi bassi e di grandi dimensioni, perché i semi non devono essere piantati troppo in profondità. Preferisce la penombra, quindi, se lo piantate in giardino o nell'orto, una buona soluzione è quello di metterlo sotto l'ombra di un albero. Proteggetelo soprattutto dal calore e dalle alte temperature estive.
In Italia è piuttosto raro trovare il Cerfoglio fresco, mentre è molto diffuso quello essiccato dal sapore più forte, intenso e pungente. Si trova nei supermercati più grandi e nei negozio che vendono prodotti biologici e naturali. E' facile trovarlo, anche fresco, nei negozi che vendono ingredienti etnici.
Il cerfoglio può sostituire il prezzemolo in quasi tutte le ricette che prevedono questo ingrediente. In Francia è molto popolare per la preparazione di omelette (ma provatelo anche con le uova sode!), insalate e zuppe. In Italia si usa molto meno ma, se volete stupire i vostri ospiti con pranzo o una cena originale, provate le ricette con il cerfoglio.
Perfetta per queste giornate invernali, è quella dei ravioli di castagne con ricotta e salsa ai porcini, un comfort food a cui il cerfoglio dona una nota fresca ed erbacea.
Il sedano (Apium graveolens L.) è una specie erbacea biennale appartenente alla famiglia delle Apiaceae, originaria della zona mediterranea e conosciuto come pianta medicinale fin dai tempi di Omero.
Il ciclo della pianta è di 6-7 mesi.
Apium graveolens allo stato spontaneo ("sedano selvatico") fa parte della flora indigena italiana, fino a 1500 m circa di quota. Oggi però lo s'incontra più spesso allo stato coltivato, o spontaneizzato a partire da coltivazioni. Il sedano selvatico sembra sia del tutto assente da Piemonte e Valle d'Aosta.[1]
Oltre che in Italia, il sedano selvatico è indigeno nei paesi del bacino del Mediterraneo e in quasi tutta l'Europa centro-meridionale, nonché in Asia in una vasta fascia che va dal Medioriente fino alla Cina.[2]
Varietà
Le varietà più utilizzate in cucina sono il "sedano da costa" (Apium graveolens var. dulce) di cui si utilizzano i piccioli fogliari lunghi e carnosi, e il "sedano rapa" (Apium graveolens var. rapaceum) di cui si consuma la radice.
Apium graveolens var. rapaceum
Il sedano rapa (Apium graveolens var. rapaceum) è un ortaggio particolare.
Del sedano rapa si consuma la radice (infatti è un cosiddetto "ortaggio da radice"), di colore bianco e di forma a globo; le foglie sono di colore verde scuro, gli steli sono cavi all'interno e l'apparato radicale ha un notevole sviluppo.
Coltivazione
Il sedano rapa matura in un periodo piuttosto lungo, da 110 a 150 giorni a partire dal trapianto. Le raccolte iniziano dalla metà di agosto e si protraggono fino a primi geli. La conservazione avviene in celle frigorifere, senza subire alcun trattamento, e si protrae per un periodo di 4-5 mesi. La commercializzazione del sedano rapa ha inizio con la metà del mese di agosto e prosegue fino a marzo.
Qualità nutrizionali
Il sedano rapa, alla pari del sedano da costa, contiene pochissime calorie. Il suo gusto leggermente meno intenso rispetto a quello del sedano lo rende adatto a ricette dove non compare solo come insaporitore, ma come ingrediente principale. È falsa la credenza che il sedano abbia così poche calorie, che ce ne vogliono più a mangiarlo di quante ne ricavi l'organismo a digerirlo.[3]
Storia
Il sedano rapa è un ortaggio molto comune in Italia e poco costoso; nel XX secolo, nel periodo delle Guerre Mondiali, nei collegi di frati e di suore si era soliti servirlo agli ospiti, perlopiù bambini, crudo e grattugiato.
Il sedano è annoverato tra le piante officinali fin dal tempo degli antichi Egizi.
I frutti contengono oli essenziali, in particolare il limonene, a cui vengono attribuite proprietà digestive (p.es. in forma d'infuso) e diuretiche, nonché emmenagoghe, cioè capaci di far affluire sangue nell'area pelvica.
Per la presenza di alcune proteine allergizzanti (Api g 1, Api g 4, Api g 5), può essere causa di allergia alimentare anche grave.[4]
Il sedano è la principale fonte alimentare dell'androsterone, precursore del testosterone. Contiene apigenina.
L'origano comune (nome scientifico Origanum vulgare L.) è una pianta perenne aromatica appartenente alla famiglia delle Lamiaceae ed ampiamente utilizzata come spezia.
In tempi moderni, prima ancora di Linneo è stato il botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (Aix-en-Provence, 5 giugno 1656 – Parigi, 28 dicembre 1708) a descrivere questa pianta. L'etimologia del nome del genere si può far risalire a 2000 anni prima presso i greci, forse da Teofrasto (371 a.C. – Atene, 287 a.C.) un filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele, autore di due ampi trattati botanici che per primo ha usato questo nome per un'erba aromatica[1]. Origanum è formato da due parole "òros" (= monte) e "ganào" (= io mi compiaccio) che insieme potrebbero alludere ad un concetto di "delizia della montagna"[2] o anche "bellezza, luminosità, ornamento, gioia della montagna".[3] L'epiteto specifico (vulgare) significa "comune, consueto".[4][5]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707 – 1778), biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 590. 1753"[6] del 1753.[7]
Queste piante arrivano ad una altezza di 30–50 cm. La forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap), ossia in generale sono piante erbacee e latifoglia, a ciclo biologico perenne, con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve e sono dotate di un asse fiorale eretto e spesso privo di foglie.[2][8][9][10][11][12][13]
Le radici sono secondarie generate da un fittone. I fittoni sono obliqui e più o meno legnosi.
La parte aerea del fusto è ascendente (talvolta prostrata alla base) e ramosissima (nella parte alta è arrossata); i rami inferiori sono sterili. Il fusto è pubescente per peli patenti ed ha una sezione quadrangolare a causa della presenza di fasci di collenchima posti nei quattro vertici, mentre le quattro facce sono concave.
Le foglie lungo il fusto sono disposte in modo opposto (in genere a 2 a 2,ovvero parifogliate). Sono picciolate con una lamina a forma lanceolata, spesso asimmetrica alla base; i bordi sono dentellati. Le foglie sono colorate di verde lucido. Lunghezza del picciolo: 3 – 6 mm. Dimensione delle foglie: larghezza 15 – 28 mm; lunghezza 25 – 40 mm.
L'infiorescenza è di tipo corimboso-ramosa formata da densi glomeruli ovali; i fiori sono sessili. Alla base del glomerulo sono presenti due brattee violaceo-purpuree prive di ghiandole. Diametro dei glomeruli: 7 – 10 mm. Lunghezza delle brattee: 4 – 5 mm.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice - il perianzio - sono a 5 parti).
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X, K (5), [C (2+3), A 2+2] G (2), (supero), 4 nucule[9][11]
Calice: il calice del fiore è del tipo gamosepalo, attinomorfo e terminate con 5 denti triangolari-acuti più o meno uguali (sono lunghi 1/3 del tubo). La superficie del calice, pubescente, è percorsa da 10 - 13 nervature longitudinali. Le fauci sono pelose. Lunghezza del calice: 2,5 – 3 mm.
Corolla: la corolla, gamopetala, è a simmetria sublabiata (più o meno zigomorfa) terminante con 5 lobi patenti. Il tubo è cilindrico-campanulato e buona parte di esso è ricoperto dal calice. Il labbro superiore è retuso (bilobo) con forme ovali ed è piegato all'insù; il labbro inferiore ha tre lobi oblungo-ovati. Il colore è roseo. Lunghezza della corolla: 5 – 6 mm. Lunghezza del labbro superiore: 1,5 mm. Lunghezza del labbro inferiore: 2 mm.
Androceo: gli stami sono quattro (manca il mediano, il quinto) didinami con il paio anteriore più lungo, sono visibili e sporgenti; gli stami sono tutti fertili. I filamenti sono glabri e divergenti. Le antere, hanno forme da ellissoidi a ovato-oblunghe, mentre le teche sono distinte e si presentano da divergenti a divaricate. I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. L'ovario è glabro. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[14] Lo stilo (caduco) inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più lungo degli stami. Lo stigma è bifido con corti lobi subuguali. Il nettario è un disco più o meno simmetrico alla base dell'ovario ed è ricco di nettare.
Fioritura: fiorisce nel periodo che va da giugno a settembre.
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 acheni (tetrachenio). La forma è ovoide (con apice arrotondato) con superficie glabra e liscia. Il colore è marrone. Dimensione: 0,6 mm.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri, raramente lepidotteri (impollinazione entomogama).[9][15]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria). I semi hanno una appendice oleosa (elaisomi, sostanze ricche di grassi, proteine e zuccheri) che attrae le formiche durante i loro spostamenti alla ricerca di cibo.[16]
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Eurasiatico. Quindi è una pianta nativa dell'Europa e delle regioni centrali e meridionali dell'Asia.
Distribuzione: in Italia è una specie comune e si trova su tutto il territorio. Nelle Alpi è presente ovunque. Sugli altri rilievi europei collegati alle Alpi si trova nella Foresta Nera, Vosgi, Massiccio del Giura, Massiccio Centrale, Pirenei, Monti Balcani e Carpazi.[18] Nel resto dell'Europa è ovunque presente compresa la Transcaucasia e l'Anatolia.[19]
Habitat: l'habitat tipico per questa specie sono le boscaglie rade, i cespuglieti, le rupi soleggiate; ma anche i tagli forestali, le strade forestali, i margini erbacei meso-termofili dei boschi, le garighe, le macchie basse e gli arbusteti meso-termofili. Il substrato preferito è calcareo ma anche siliceo con pH neutro, medi valori nutrizionali del terreno che deve essere secco.[18]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1400 m s.l.m. (negli Abruzzi può arrivare fino a 1700 m s.l.m. - fino a 3600 m s.l.m. in Cina[13]); nelle Alpi frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano e in parte quello subalpino (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Dal punto di vista fitosociologico alpino la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[18]
Formazione: delle comunità delle macro- e megaforbie terrestri
Classe: Trifolio-Geranietea sanguinei
Ordine: Origanetalia vulgaris
La famiglia di appartenenza della specie (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[11], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Origanum è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Menthinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[8][20]
Le specie (e quindi il genere Origanum) nella flora spontanea italiana sono suddivise in due sezioni con i seguenti caratteri:[2]
Euoriganum: le brattee dell'infiorescenza sono poco pelose (quasi glabre) e il calice è quasi regolare (attinomorfo con i 5 denti più o meno simili).
Majorana: le brattee sono tomentose e il calice è zigomorfo (aperto anteriormente).
La specie di questa voce appartiene alla prima sezione.
Il numero cromosomico di O. vulgare è: 2n = (28), 30 e (32)
L'origano maggiorana (nome scientifico Origanum majorana L., 1753) è una erbacea perenne aromatica appartenente alla famiglia delle Lamiaceae.[1] e al genere Origanum. È conosciuta anche con il nome di Persia.
In tempi moderni, prima ancora di Linneo è stato il botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (Aix-en-Provence, 5 giugno 1656 – Parigi, 28 dicembre 1708) a denominare queste piante. In realtà l'etimologia del nome del genere si può far risalire a 2000 anni prima presso i greci, forse da Teofrasto (371 a.C. – Atene, 287 a.C.) un filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele, autore di due ampi trattati botanici che per primo ha usato questo nome per un'erba aromatica[2]). Origanum è formato da due parole "òros" (= monte) e "ganào" (= io mi compiaccio) che insieme potrebbero alludere ad un concetto di "delizia della montagna"[3] o anche "bellezza, luminosità, ornamento, gioia della montagna".[4] L'epiteto specifico (majorana) è più incerto e potrebbe risalire alla parola latina "amaracus" o anche alla parola greca "amàracos" i cui significati potrebbero essere "avente odore"[3]; oppure dal latino medievale "maiorane" con il quale si indicava la pianta di questa voce (Majorana hortensis o comunemente maggiorana).[5]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707 – 1778), biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 590. 1753"[6] del 1753.[7]
Le maggiorane arrivano ad una altezza di 20–60 cm. La forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap), ossia in generale sono piante erbacee, a ciclo biologico perenne, con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve e sono dotate di un asse fiorale eretto e spesso privo di foglie. Nei climi freddi hanno un ciclo biologico annuale (forma biologica terofita scaposa - T scap).
La parte aerea del fusto consiste in fusti eretti, legnosi alla base e ramoso-corimbosi presso l'infiorescenza. Il fusto è pubescente per peli tutti uguali, ed ha una sezione quadrangolare a causa della presenza di fasci di collenchima posti nei quattro vertici, mentre le quattro facce sono concave.
Le foglie lungo il fusto sono disposte in modo opposto (in genere a 2 a 2). Sono picciolate con una lamina intera a forma da ovata a ovato-lanceolata e ristrette alla base (base ottusa o arrotondata). Il colore è verde su entrambe le facce. Le stipole sono assenti. Dimensione: larghezza 5 – 10 mm; lunghezza 8 – 20 mm.
Le infiorescenze sono formate da dense spighe peduncolate con forme più o meno ovate e fiori (non molti - massimo 8) subsessili. Nell'infiorescenza sono presenti delle brattee con forme ovali-rombiche cigliate sui bordi e con la superficie pelosa. Dimensione dell'infiorescenza: larghezza 5 – 6 mm; lunghezza 7 – 9 mm. Dimensione delle brattee: larghezza 3 mm; lunghezza 4,5 mm.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice - il perianzio - sono a 5 parti).
Calice: il calice del fiore è del tipo gamosepalo, attinomorfo o debolmente zigomorfo (ma non bilabiato) con forma di un cono aperto su un lato e terminate con 5 denti triangolari-acuti più o meno uguali. La superficie del calice, pubescente, è percorsa da 10 - 13 nervature longitudinali. Le fauci sono pelose. Lunghezza del calice: 2 – 3 mm.
Corolla: la corolla, gamopetala, è a simmetria sublabiata (più o meno zigomorfa) terminante con 5 lobi patenti (quello centrale è retuso e piegato all'insù). Il tubo è cilindrico-campanulato e buona parte di esso è ricoperto dal calice. Il colore è bianco o roseo.
Androceo: gli stami sono quattro (manca il mediano, il quinto) didinami con il paio anteriore più lungo, sono visibili e sporgenti; gli stami sono tutti fertili. I filamenti sono glabri e divergenti. Le antere, hanno forme da ellissoidi a ovato-oblunghe, mentre le teche sono distinte e si presentano da divergenti a divaricate. I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. L'ovario è glabro. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[13] Lo stilo (caduco) inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più lungo degli stami. Lo stigma è bifido con corti lobi subuguali. Il nettario è un disco più o meno simmetrico alla base dell'ovario ed è ricco di nettare.
Fioritura: fiorisce nel periodo che va da giugno a settembre.
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 nucule. La forma è ovoide con superficie glabra e liscia.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri, raramente lepidotteri (impollinazione entomogama).[9][14]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria). I semi hanno una appendice oleosa (elaisomi, sostanze ricche di grassi, proteine e zuccheri) che attrae le formiche durante i loro spostamenti alla ricerca di cibo.[15]
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Saharo-Sindhu (ossia Nord Africano/Ovest Asiatico).
Distribuzione: in Italia questa pianta è comune (coltivata e/o subspontanea) e si trova ovunque. Nel resto dell'Europa e dell'areale del Mediterraneo è presente in Spagna, Penisola Balcanica, Ucraina, Anatolia e Maghreb.[18]
Habitat: l'habitat preferito sono (oltre agli orti) gli incolti e i bordi delle vie. Il substrato preferito è calcareo ma anche siliceo con pH -neutro, medi valori nutrizionali del terreno che deve essere secco.[17]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a circa 2000 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano e in parte quello subalpino (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
La famiglia di appartenenza della specie (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[11], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Origanum è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Menthinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[8][19]
Le specie (e quindi il genere Origanum) nella flora spontanee italiana sono suddivise in due sezioni con i seguenti caratteri:[3]
Euoriganum: le brattee dell'infiorescenza sono poco pelose (quasi glabre) e il calice è quasi regolare (attinomorfo con i 5 denti più o meno simili).
Majorana: le brattee sono tomentose e il calice è zigomorfo (aperto anteriormente).
La specie di questa voce appartiene alla seconda sezione.
Il numero cromosomico di O. majorana è: 2n = 30.[20]Usi[modifica | modifica wikitesto]
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Secondo la medicina popolare questa pianta ha le seguenti proprietà medicamentose:[21]
antisettica (proprietà di impedire o rallentare lo sviluppo dei microbi);
antispasmodica (attenua gli spasmi muscolari, e rilassa anche il sistema nervoso);
carminativa (favorisce la fuoriuscita dei gas intestinali);
colagoga (facilita la secrezione biliare verso l'intestino);
diaforetica (agevola la traspirazione cutanea);
emmenagoga (regola il flusso mestruale);
espettorante (favorisce l'espulsione delle secrezioni bronchiali);
stimolante (rinvigorisce e attiva il sistema nervoso e vascolare);
stomachica (agevola la funzione digestiva);
tonica (rafforza l'organismo in generale).
È anche un'erba molto ricca di vitamina C, di oli essenziali, tannini e acido rosmarinico pertanto è molto usata in erboristeria, in aromaterapia ed anche nell'industria cosmetica. È indicata nella cura dell'emicrania.[22]
La maggiorana è un importante spezia nella tradizione culinaria italiana e greca. Le foglie sono la parte commestibile della pianta. Si distingue dall'Origanum vulgare per l'odore ed il gusto più forte e floreale.
La maggiorana in altre lingue è chiamata nei seguenti modi:
(DE) Majoran
(FR) Marjolaine des jardins
(EN) Pot Marjoram
La prima descrizione certa di questa pianta (con il nome di Majorana) ci arriva dal XIII secolo per mano di Albertus Magnus, vescovo cattolico, scrittore e filosofo tedesco appartenente all'ordine domenicano. Ma forse era conosciuta già ai tempi di Gaio Plinio Secondo (Como, 23 – Stabiae, 25 agosto 79]), scrittore, ammiraglio e naturalista romano, che descrive un vegetale sconosciuto con il nome di amaracus. Riferimenti a questa pianta si trovano ovunque dall'Europa (Francia, Germania e Spagna) alla Tunisia e fino all'India, coltivata per alimentare l'industria delle essenze con l'"Olio essenziale di maggiorana" usato nella produzione dei saponi, per profumare carni insaccate e naturalmente nell'erboristeria e nella cucina.[3]
Thymus L., 1753 è un genere di piante della famiglia delle Lamiaceae. Etimologia
Il nome del genere (Thymus) deriva da un antico nome greco, θύμον (pron. thýmon), il cui significato è forza, coraggio, qualità che risveglierebbe in coloro che ne odorano il profumo balsamico[2], ed è stato usato per primo da Teofrasto (371 a.C. – Atene, 287 a.C.) un filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele, autore di due ampi trattati botanici, per una pianta profumata utilizzata come incenso nei sacrifici.[3] Altre etimologie fanno derivare il nome del genere da una parola greca per "profumo".[4]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707 – 1778), conosciuto anche come Carl von Linné, biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 590"[5] del 1753.[6]
Queste piante, arbustive o subarbustive ma anche erbacee, raggiungono i 50 cm di altezza. La forma biologica prevalente è camefita fruticosa (Ch frut), ossia sono piante perenni e legnose (hanno un aspetto arbustivo e molto ramificato), con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo. Sono presenti anche altre forme biologiche come camefita suffruticosa (Ch suffr), queste sono piante perenni e legnose alla base, con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 2 ed i 30 cm (le porzioni erbacee seccano annualmente e rimangono in vita soltanto le parti legnose). All'interno di queste piante sono presenti delle ghiandole essenziali (sono piante aromatiche) disposte alternativamente in croce per punteggiature sulle foglie. Dal punto di vista riproduttivo il genere comprende usualmente piante di tipo ginodioico.[4][7][8][9][10][11]
Le radici sono del tipo fascicolato; in alcune specie le radici sono secondarie dai nodi del fusto.
La parte aerea del fusto in genere è legnosa, eretta oppure repente, ossia i fusti sono lungamente striscianti e radicanti ai nodi e terminano con un apice solamente foglioso (i fiori si trovano solamente sui rami laterali eretti a inserzione distica). La sezione del fusto è tetragona, quadrangolare, a causa della presenza di fasci di collenchima posti nei quattro vertici.
Le foglie, appena picciolate e non molto grandi, lungo il fusto sono disposte in modo opposto (in genere a 2 a 2) e ogni coppia successiva è disposta ad angolo retto rispetto alla sottostante (disposizione decussata). La forma può essere da ovata o subrotonda a lanceolata con margini interi (a volte revoluti). Le foglie lungo il fusto possono essere progressivamente più grandi verso l'alto oppure viceversa oppure sono tutte uguali. Le foglie inferiori possono essere riunite in fascetti basali. Il colore varia da verde più o meno intenso, al grigio, all'argento e sono ricoperte da una fitta peluria in quasi tutte le specie. Le stipole sono assenti, oppure presenti.
Le infiorescenze sono delle spighe formate da alcuni fiori raccolti in verticilli a forma da subsferica a allungata posizionati nella parte superiore dei rami. I verticilli crescono all'ascella delle foglie e sono distribuiti lungo il fusto più o meno spaziati. Le brattee dell'infiorescenza, a forma lanceolata, sono simili alle foglie.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice, ossia il perianzio, sono a 5 parti).
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X, K (5), [C (2+3), A 2+2] G (2), supero, 4 nucule[8][10]
Calice: il calice del fiore è gamosepalo e bilabiato di tipo subzigomorfo (raramente può essere debolmente attinomorfo), con forme campanulate o cilindriche (convesso sul dorso) e terminate con 5 denti acuti disuguali a forma triangolare (struttura 3/2): tre denti per il labbro superiore; due denti cigliati per quello inferiore. La superficie del calice, pubescente, è percorsa da una decina (10 - 13) di nervature longitudinali. Le fauci possono essere pelose per peli cotonosi e candidi. Il calice è persistente alla fruttificazione.
Corolla: la corolla, gamopetala, è a simmetria bilabiata del tipo zigomorfa (raramente può essere debolmente attinomorfa) terminante con 4 lobi (due petali sono concresciuti) patenti con struttura 1/3. Il tubo è cilindrico-campanulato ed è ricoperto in parte dal calice. Il labbro superiore è piegato all'insù; il labbro inferiore ha tre lobi oblunghi. I lobi sono appena smarginati. Il colore è bianco, crema, violetto, rosa-biancastro, oppure da rosa a purpureo.
Androceo: gli stami sono quattro (manca il mediano, il quinto) didinami (una coppia è più lunga); sono tutti fertili, spaziati e sporgono (o quasi) dal tubo corollino. I filamenti, adnati alla corolla, sono divergenti e ravvicinati al labbro superiore della corolla. Le antere, hanno forme più o meno arrotondate, mentre le teche sono due, parallele e separate. I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero (o anche semi-infero) formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[12]. Lo stilo inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più o meno lungo come gli stami. Lo stigma è bifido con lobi subuguali. Il nettario è un disco alla base e intorno all'ovario più sviluppato anteriormente e ricco di nettare.
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 nucule (tetrachenio) secche, con delle forme da ovoidi a oblunghe, con superficie liscia e glabra. L'endosperma è scarso o assente.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri (soprattutto api), raramente lepidotteri (impollinazione entomogama).[8][13]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Distribuzione e habitat
Il timo è una pianta tipica dell'area mediterranea e del Caucaso (si trova in tutta Europa, Transcaucasia, Anatolia, Asia mediterranea e Africa settentrionale[14]). In Italia cresce dal mare alla regione montana (0 m - 2000 m s.l.m. circa), ma preferisce le zone marine. Si trova nei luoghi aridi e soleggiati, fra le rocce e le ghiaie.[15]
Della decina di specie presenti sul territorio italiano, sette si trovano nell'arco alpino.
Tassonomia
La famiglia di appartenenza della specie (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[10], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Thymus è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Menthinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[7][17]
Nell'ambito della famiglia il genere Thymus si distingue per i seguenti caratteri:[9]
la corolla è lunga 4 – 25 mm al massimo;
la corolla normalmente è zigomorfa ed ha due labbra ben sviluppate (bilabiata);
il labbro superiore della corolla è diritto o ripiegato all'insù;
gli stami sono 4 e tutti fertili;
gli stami sporgono più o meno dal tubo corollino;
spesso le antere sporgono ai lati del labbro superiore della corolla;
i filamenti sono divergenti.
I numeri cromosomici delle specie di questo genere sono: 2n = 24, 26, 28, 30, 32, 42, 48, 50, 52, 54, 56, 58, 60, 84 e 90.[7]
Pubescenza dei fusti: A - olotrichi; B - anfitrichi; C - goniotrichi (da Pignatti)
Portamento dei fusti: A - suberetti; B - pseudorepenti; C - repenti (da Pignatti)
Il genere Thymus è molto difficile da "trattare" sia per l'elevato polimorfismo in quanto le varie specie sono molto simili ad un esame superficiale ma anche per frequenti fenomeni di ibridazione anche tra taxon molto distanti tassonomicamente. Anche l'elevata poliploidia contribuisce alla complessità del processo evolutivo delle specie di questo genere.[18] Solamente dopo una analisi completa del portamento compreso l'apice vegetativo e i rami laterali è possibile identificare un campione. Spesso presentano una serie di caratteri, poco differenti uno dall'altro, che individuano una serie quasi continua di tipi.[9]
Fondamentalmente si possono trovare tre tipi di portamento:
(1) "repente": i fusti sono striscianti e radicanti ai nodi e terminano con un apice solamente foglioso (i fiori si trovano solamente sui rami laterali eretti);
(2) "pseudorepente": come sopra ma tutti gli apici sono fioriferi;
(3) "suberetto": il fusto è brevemente strisciante e tutti gli apici sono fioriferi.
Importante nell'identificare le varie specie è anche il riconoscimento del carattere dei peli lungo il fusto: tipo, lunghezza e distribuzione. In particolare si riconoscono tre tipi di distribuzione dei peli:
"olotrica": i peli sono distribuiti tutto intorno al fusto;
"anfitrica": i peli si trovano solamente sulle facce opposte, alternate ad ogni internodo;
"goniotrica": i peli sono presenti solamente sugli angoli del fusto.
Anche il tipo di nervatura delle foglie è soggetta a variabilità interspecifica. Si distinguono nervature "forti" quando i nervi sono più sporgenti e colorati diversamente (paglierino) rispetto alla superficie della foglia; e nervature "deboli" per nervi meno rilevanti e colorati più o meno di verde come le foglie.[9]
Questo quadro tassonomico è ulteriormente complicato dalla presenza degli ibridi. Quando accade che due specie crescono vicine è facile osservare individui di aspetto intermedio che possono essere interpretate come ibridi, ma anche come varietà di una delle due specie
Un gruppo molto importante (comprendente oltre il 60 % delle specie della flora italiana) è il Gruppo di Thymus serpyllum (Serpillo, Serpolino e Pepolino) comprendente (relativamente alla flora spontanea del territorio italiano) le seguenti specie: Thymus praecox Opiz., Thymus alpestris Tausch ex A.Kern., Thymus odoratissimus Mill., Thymus kosteleckyanus Opiz, Thymus oenipontanus Heinr. Braun, Thymus thracicus Velen., Thymus longicaulis C. Presl e Thymus pulegioides L.. Le specie di questo gruppo sono molto simili tra di loro e spesso vengono confuse le une con le altre; i caratteri comuni a questo gruppo sono:[9]
la forma biologica può essere sia camefita reptante (Ch rept) che camefita suffruticosa (Ch suffr): nel primo caso gli organi sono aderenti al suolo, con carattere strisciante, nel secondo caso sono piante perenni e legnose alla base, con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 2 ed i 30 cm (le porzioni erbacee seccano annualmente e rimangono in vita soltanto le parti legnose); spesso si trovano forme intermedie;
i fusti sono legnosi alla base, più o meno prostrati o striscianti e spesso radicanti ai nodi;
le foglie hanno una consistenza coriacea; la pelosità è variabile;
le infiorescenze sono dense con forme da sferiche a ovali, più o meno allungate; gli apici fioriferi sono eretti;
il calice è lungo 3 – 5 mm; la fauci sono ricoperte da un ciuffo di peli bianchi e cotonosi;
il colore della corolla è da purpureo a rosa; la corolla è lunga 5 – 6 mm;
il frutto è incluso nel calice che è persistente;
L'habitat tipico per queste specie sono i prati aridi di tipo steppico, le pietraie e le rupi soleggiate.
Usi
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Il timo possiede notevoli proprietà antisettiche a livello gastrointestinale, note fin da tempi antichissimi. Costituiva, con altri olii essenziali, una sostanza base usata dagli Antichi Egizi nel processo di imbalsamazione.
Fino alla fine della Prima guerra mondiale, con il timo si realizzavano i disinfettanti più diffusi. È efficace nelle infezioni delle vie urinarie.
Le proprietà antibatteriche sono dovute a un fenolo, il timolo, contenuto in tutte le parti della pianta e responsabile del forte profumo.
Il timolo, come altri fenoli essenziali, allo stato di elevata concentrazione è corrosivo e tossico.
In erboristeria, il suo uso è consigliato nelle affezioni dell'apparato respiratorio, quali tosse o asma, visto che svolge una funzione espettorante, aumentando la produzione di secreto bronchiale e facilitandone l'espulsione.[20]
Può essere usato come infuso (allo stesso modo del tè) oppure come condimento nelle pietanze, essendo una erba aromatica; i timi sono ottime piante mellifere e si ottiene un buon miele, sono molto bottinate dalle api ma la produzione è limitata.
Può infine essere usato anche per l'eliminazione dei batteri presenti all'interno delle scarpe, i quali generano spesso sgradevoli odori.
Il rosmarino (Salvia rosmarinus Schleid.) è una pianta perenne aromatica appartenente alla famiglia delle Lamiaceae.[1]
È spontaneo dell' area mediterranea dove cresce nelle zone litoranee lungo tutte le coste tirreniche e ioniche; sulle coste adriatiche fino al Molise; su tutte le isole; anche sulle rive occidentali del Garda. È coltivato e talvolta subspontaneo su quasi tutto il territorio nazionale[2].
Pianta arbustiva sempreverde che raggiunge altezze di 50–300 cm, con radici profonde, fibrose e resistenti, ancoranti; ha fusti legnosi di colore marrone chiaro, prostrati ascendenti o eretti, molto ramificati, i giovani rami pelosi di colore grigio-verde sono a sezione quadrangolare.
Illustrazione di R.officinalis
Rosmarinus officinalis
Le foglie, persistenti e coriacee, sono lunghe 2–3 cm e larghe 1–3 mm, sessili, opposte, lineari-lanceolate addensate numerosissime sui rametti; di colore verde cupo lucente sulla pagina superiore e biancastre su quella inferiore per la presenza di peluria bianca; hanno i margini leggermente revoluti; ricche di ghiandole oleifere.
I fiori ermafroditi sono sessili e piccoli, riuniti in brevi grappoli all'ascella di foglie fiorifere sovrapposte, formanti lunghi spicastri allungati, bratteati e fogliosi, con fioritura da marzo ad ottobre, nelle posizioni più riparate ad intermittenza tutto l'anno.
Ogni fiore possiede un calice campanulato, tomentoso con labbro superiore tridentato e quello inferiore bifido; la corolla di colore lilla-indaco, azzurro-violacea o, più raramente, bianca o azzurro pallido, è bilabiata con un leggero rigonfiamento in corrispondenza della fauce; il labbro superiore è bilobo, quello inferiore trilobo, con il lobo mediano più grande di quelli laterali ed a forma di cucchiaio con il margine ondulato; gli stami sono solo due con filamenti muniti di un piccolo dente alla base ed inseriti in corrispondenza della fauce della corolla; l'ovario è unico, supero e quadripartito.
L'impollinazione è entomofila, cioè è mediata dagli insetti pronubi, tra cui l'ape domestica, che ne raccoglie il polline e l'abbondante nettare, da cui si ricava un ottimo miele.[3][4][5]
I frutti sono tetracheni, con acheni liberi, oblunghi e lisci, di colore brunastro.
Una pianta di rosmarino
Pianta di rosmarino con fioritura
Una pianta di rosmarino prostrato in fiore
I fiori
Richiede posizione soleggiata al riparo dai venti gelidi; terreno leggero sabbioso-torboso ben drenato; poco resistente ai climi rigidi e prolungati.
Si può coltivare in vaso sui terrazzi, avendo cura di porre dei cocci sul fondo per un drenaggio ottimale, rinvasando ogni 2-3 anni, usando terriccio universale miscelato a sabbia, concimazioni mensili con fertilizzante liquido miscelato all'acqua delle annaffiature, che saranno controllate e diradate d'inverno.
In primavera si rinnova l'impianto cimando i getti principali, per ottenere un aspetto cespuglioso, senza dover ricorrere ad interventi di potatura.
Si moltiplica facilmente per talea apicale dei nuovi getti in primavera prelevate dai germogli basali e dalle piante più vigorose piantate per almeno 2/3 della loro lunghezza in un miscuglio di torba e sabbia; oppure si semina in aprile-maggio, si trapianta in settembre o nella primavera successiva; oppure si moltiplica per divisione della pianta in primavera.
Per effetto dei meccanismi di difesa dal caldo e dall'arido (tipici della macchia mediterranea), la pianta presenta, se il clima è sufficientemente caldo ed arido in estate e tiepido in inverno, il fenomeno della estivazione cioè la pianta arresta quasi completamente la vegetazione in estate, mentre ha il rigoglio di vegetazione e le fasi vitali (fioritura e fruttificazione) rispettivamente in tardo autunno o in inverno, ed in primavera. In climi più freschi ed umidi le fasi di vegetazione possono essere spostate verso l'estate. Comunque in estate, specie se calda, la pianta tende sempre ad essere in una fase di riposo.
Oltre agli usi medicinali illustrati più sotto il rosmarino viene utilizzato:
Come pianta ornamentale nei giardini, per bordure, aiuole e macchie arbustive, o per la coltivazione in vaso su terrazzi
Nell'industria cosmetica come shampoo per ravvivare il colore dei capelli o come astringente nelle lozioni; nelle pomate e linimenti per le proprietà toniche. In profumeria, l'olio essenziale ricavato dalle foglie, viene utilizzato per la preparazione di colonie, come l'Acqua d'Ungheria
Come insettifugo o deodorante nelle abitazioni (se ne bruciano i rametti secchi)
Per la produzione di un miele monoflorale in quanto i fiori sono particolarmente bottinati dalle api, perché piante mellifere
In campo alimentare, sotto forma di estratto, viene usato come additivo dotato di proprietà antiossidante ed etichettato con la sigla E392. Se ne conoscono 5 tipi designato con acronimi:
AR: estratto ottenuto da un estratto alcolico di rosmarino parzialmente aromatizzato;
ARD: estratto ottenuto da un estratto alcolico di rosmarino aromatizzato;
D74: estratto ottenuto da foglie secche di rosmarino per estrazione con anidride carbonica supercritica;
F62: estratto ottenuto da foglie secche di rosmarino per estrazione con acetone;
RES: estratto ottenuto per estrazione con esano ed acetone e poi decolorato e dearomatizzato[6].
In europa settentrionale si usava per fare la birra gruit con achillea millefoglie e mirto di palude.
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Rosmarinus officinalis
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I rametti e le foglie raccolti da maggio a luglio e fatti seccare all'ombra hanno proprietà aromatiche, stimolanti l'appetito e le funzioni digestive, stomachici, carminativi, utili nelle dispepsie atoniche e gastralgie, tonici e stimolanti per il sistema nervoso, il fegato e la cistifellea. Da alcuni autori viene inoltre consigliato per affezioni generiche come tosse o asma[7]
Per uso esterno il macerato in vino applicato localmente è antireumatico; mentre il macerato in alcool, revulsivo, viene usato per frizioni anche del cuoio capelluto; possiede qualità analgesiche e quindi viene applicato per dolori reumatici, artriti.[8]
Per uso esterno se ne usa l'infuso per gargarismi, lavaggi e irrigazioni cicatrizzanti; o per cataplasmi antinevralgici e antireumatici; aggiunto all'acqua da bagno serve come corroborante, purificante e per tonificare la pelle[9]
I fiori raccolti da maggio ad agosto, hanno proprietà simili alle foglie; in infuso per uso esterno sono vulnerari, stimolanti, curativi della leucorrea e per la lotta ai pidocchi pubici
Farmacologicamente, si prepara un'essenza e un'acqua contro l'alopecia o pomate per gli eczemi
Dalle foglie, in corrente di vapore, si estrae l'olio essenziale di rosmarino, per un 1% in peso, liquido incolore o giallognolo, contenente pinene, canfene, cineolo, eucaliptolo, canfora e borneolo. A seconda del chemotipo della pianta vengono ottenuti diversi oli essenziali:
un chemiotipo produce un olio ricco in eucaliptolo, che stimola la secrezione delle ghiandole gastriche dell'apparato digerente e respiratorio, responsabile degli effetti sulla digestione e dell'attività mucolitica.
Un chemiotipo produce un olio ricco in canfora, un chetone che può essere invece utilizzabile come antireumatico per uso locale, ma responsabile di effetti tossici sul SNC, quando usato per via orale. Un chemiotipo, invece, produce olio ricco in borneoloe derivati, come previsto dalla farmacopea, meglio indicato nella patologia spastica delle vie biliari. ed infine uno in cui abbondano il borneolo ed i suoi derivati.
Nell'uso farmacologico comune l'olio viene usato come eupeptico, eccitante, antisettico sedativo, ed i suoi preparati contro gli stati depressivi, restituendo vigore intellettuale e fisico alle persone indebolite.
Controindicazioni[modifica | modifica wikitesto]
Ipersensibilità o allergie verso uno o più componenti. Gravidanza o allattamento (fitoterapici) poiché nell'animale riduce l'impianto dello zigote. Periodo pre-operatorio. L'olio essenziale a canfora è controindicato in persone che soffrono di epilessia. Causa infatti, specialmente in casi di sovradosaggio, irritazioni, convulsioni, vomito e principi di paralisi respiratorie.
La salvia comune (Salvia officinalis L., 1753) è una piccola pianta perenne erbacea aromatica dai delicati fiori labiati appartenente alla famiglia delle Lamiaceae.
Il nome generico (Salvia) deriva dal latino "salvus" ( = salvare, sicuro, bene, sano) un nome antico per questo gruppo di piante dalle presunte proprietà medicinali.[2][3][4] L'epiteto specifico (officinalis) indica una pianta con proprietà medicinali reali o supposte.[5][6]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707 – 1778), conosciuto anche come Carl von Linné, biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 1: 23. 1753"[7] del 1753.[8]
L'altezza di queste piante varia da 20 a 40 cm (massimo 60 cm). La forma biologica è camefita suffruticosa (Ch suffr), sono piante perenni e legnose alla base, con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 2 ed i 30 cm (normalmente le porzioni erbacee seccano annualmente e rimangono in vita soltanto le parti legnose). Tutta la pianta si presenta grigio-tomentosa con odore aromatico. Nelle zone calde è un arbusto sempreverde.[4][9][10][11][12][13][14]
Le radici sono dure e robuste di tipo fascicolato.
Le foglie sono cauline a 2 a 2 a disposizione opposta (ogni verticillo è ruotato di novanta gradi rispetto a quello sottostante). La lamina è picciolata con forme lanceolate; è ottusa all'apice, ristretta alla base e crenata sul bordo e nervature penninervie. La consistenza delle foglie è feltrosa al tatto ed hanno un colore verde-grigiastro e un profumo di caratteristica freschezza. Lunghezza del picciolo: 10 – 15 mm. Dimensione delle foglie: larghezza 1 cm; lunghezza 2 – 3 cm.
Le infiorescenze sono ascellari e formate da verticillastri di 5 - 10 fiori più o meno unilaterali (caratteristico aspetto asimmetrico proprio della famiglia delle Lamiaceae); i verticilli sono sovrapposti e distanziati; quegli inferiori sono avvolti da una coppia di foglie brattee. Lunghezza dei verticillastri: 4 – 18 cm.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetraciclici (con i quattro verticilli fondamentali delle Angiosperme: calice– corolla – androceo – gineceo) e pentameri (ogni verticillo ha 5 elementi). Lunghezza dei fiori: 17 – 30 mm.
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X, K (5), [C (2+3), A 2+2] G (2), supero, 4 nucule[10][12]
Calice: il calice è un tubo ferrugineo (gamosepalo - i sepali sono 5 e sono concresciuti) e zigomorfo. Le fauci terminano in modo più o meno bilabiato: il labbro superiore ha tre punte subulate, quello inferiore ha dei denti triangolari. Il calice è percorso da alcune nervature longitudinali. Lunghezza del tubo: 5 – 7 mm. Lunghezza dei denti: 4 – 6 mm.
Corolla: la corolla è un tubo terminante in modo bilabiato (corolla gamopetala formata da 5 petali con struttura 2/3 e zigomorfa). Il labbro superiore è simile ad un cappuccio allungato e ricurvo (è convesso verso l'alto); il labbro inferiore è formato da tre lobi (quello centrale è più grande di tutti ed è concavo). La gola interna è provvista di una anello di peli per evitare l'intrusione di insetti troppo piccoli e non graditi.[4] Il colore è violaceo, raramente roseo o biancastro. Lunghezza del tubo: 10 – 15 mm. Lunghezza del labbro superiore: 7 – 10 mm.
Androceo: gli stami sono ridotti a due (il paio posteriore è vestigiale o assente), tutti fertili e con filamenti paralleli (non convergenti); sono inoltre inclusi (al massimo sporgono le antere) e sono avvicinati alla parte superiore della corolla. Il tessuto connettivo tra le teche in queste specie è molto sviluppato e le antere sono del tipo a bilanciere con un meccanismo adatto all'impollinazione incrociata ("meccanismo a leva"[15]). I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero (o semi-infero) formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[16]. Lo stilo inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più lungo degli stami (in genere sporge dalla corolla). Lo stigma è bifido. Il nettario è un disco (a 4 lobi) alla base e intorno all'ovario più sviluppato anteriormente e ricco di nettare.
Fioritura: da marzo a maggio (luglio).
Il frutto è un tetrachenio (composto da quattro nucule). La forma è più o meno ovoidale (o più o meno trigona). I semi, di colore marrone scuro, sono sprovvisti di endosperma e sono piccolissimi (in un grammo ne stanno oltre 200).[4]
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri, raramente lepidotteri (impollinazione entomogama) oppure uccelli.[10][17]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Geoelemento: questa pianta è originaria del bacino del Mediterraneo (areale Steno-Mediterraneo Orientale).
Distribuzione: in Italia è presente soprattutto al Sud, ma allo stato naturale è rara. Nel resto dell'Italia si trova allo stato spontaneizzato. Nelle Alpi italiane si trova nella provincia di Brescia e Bolzano. Fuori dall'Italia, sempre nelle Alpi, questa specie si trova in Francia (dipartimenti di Alpes-de-Haute-Provence, Hautes-Alpes, Alpes-Maritimes, Drôme, Isère e Savoia), in Svizzera (cantoni Vallese, Ticino, Grigioni), in Austria (Länder del Vorarlberg, Salisburgo e Austria Inferiore). Sugli altri rilievi europei collegati alle Alpi si trova nei Vosgi, Massiccio del Giura e Massiccio Centrale.[19] Nel resto dell'Europa si trova in Spagna, Francia, Germania, Svizzera, Austria e Penisola Balcanica. È presente anche nel Magreb.[20]
Habitat: l'habitat tipico per queste piante sono le rupi aride, le pietraie, i ghiaioni, le praterie rase, i prati e pascoli del piano collinare. Il substrato preferito è calcareo con pH basico, bassi valori nutrizionali del terreno che deve essere secco.[19]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 300 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare e quello planiziale – a livello del mare.
Areale alpino
Dal punto di vista fitosociologico alpino la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[19]
Formazione: delle comunità a emicriptofite e camefite delle praterie rase magre secche
Classe: Festuco-Brometea
Areale italiano
Per l'areale completo italiano la specie appartiene alla seguente comunità vegetale:[21]
Macrotipologia: arbustivi
Classe: Cisto cretici-micromerietea julianae Oberdorfer ex Horvatic, 1958
Ordine: Cisto cretici-ericetalia manipuliflorae Horvatic, 1958
Alleanza: Cisto cretici-ericion manipuliflorae Horvatic, 1958
Descrizione: l'alleanza Cisto cretici-ericion manipuliflorae è relativa alle garighe (camefite) termoxerofile nanofanerofitiche e calcicole delle aree post-incendio in zone sia costiere che interne di tipo illirico distribuite in Italia nei settori costieri e subcostieri adriatici e jonici anche submontani (Appennino centrale e meridionale).[22]
Alcune specie presenti nell'associazione: Erica manipuliflora, Calicotome infesta, Cistus creticus, Cistus monspeliensis, Cistus salviifolius, Thymus capitatus, Rosmarinus officinalis, Micromeria fruticulosa e Phlomis fruticosa.[22]
La famiglia di appartenenza della specie (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[12], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Salvia è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Salviinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[9][23] Nelle classificazioni più vecchie la famiglia Lamiaceae viene chiamata Labiatae.
Il numero cromosomico di S. officinalis è: 2n = 14.[24]
Il genere Salvia è molto grande e comprende oltre 1000 specie distribuite in cinque centri di diversità tra l'America, l'Africa e l'Eurasia. Secondo gli ultimi studi filogenetici sulle regioni nucleari e cloroplastiche del DNA il genere Salvia non è monofiletico ed è suddiviso in 3 grandi cladi.[15] La specie S. officinalis si trova nel sottoclade "A" del primo clade. Questo sottoclade è caratterizzato dall'aborto della teca posteriore ma non della relativa fusione del connettivo. Si crea così comunque il "meccanismo a leva" tipico della Salvia dove l'impollinatore è costretto ad attivare la leva per accedere al nettare facilitando in questo modo il trasferimento del polline sulla parte superiore dell'insetto (o uccello) pronubo.[25]
Per questa specie sono riconosciute valide le seguenti sottospecie:[1]
Salvia officinalis subsp. officinalis - Distribuzione: Italia e Penisola Balcanica.[26]
Salvia officinalis subsp. gallica (W.Lippert) Reales, D.Rivera & Obón, 2004 (Basionimo: Salvia lavandulifolia subsp. gallica W. Lippert) - Distribuzione: Europa occidentale.[27]
Salvia officinalis subsp. lavandulifolia (Vahl) Gams, 1927 (Basionimo: Salvia lavandulifolia Vahl) - Distribuzione: Francia, Spagna e Magreb.[28]
Salvia officinalis subsp. oxyodon (Webb & Heldr.) Reales, D.Rivera & Obón, 2004 (Basionimo: Salvia oxyodon Webb & Heldr.) - Distribuzione: Spagna.[29]
Salvia officinalis subsp. multiflora Gajic, 1973.[30]
Con la specie Salvia lavandulifolia Vahl subsp. vellerea (Cuatrec.) Rivas Goday & Rivas Mart. la pianta di questa voce forma il seguente ibrido interspecifico:
Salvia × accidentalis Sánchez-Gómez & R.Morales, 2000[31]
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:[1]
Oboskon cretica (L.) Raf.
Salvia chromatica Hoffmanns.
Salvia clusii Vilm.
Salvia cretica L.
Salvia crispa Ten.
Salvia digyna Stokes
Salvia grandiflora Ten.
Salvia hispanica Garsault
Salvia minor Garsault
Salvia officinalis f. bracteata Kojic & Gajic
Salvia officinalis f. brevipedicellata Gajic
Salvia officinalis var. frankei Gajic
Salvia officinalis var. longiaristata Kojic & Gajic
Salvia officinalis f. multiverticillata Gajic
Salvia officinalis f. spicata Gajic
Salvia papillosa Hoffmanns
Salvia tricolor Vilm.
Sinonimi della sottospecie gallica
Salvia lavandulifolia subsp. gallica W.Lippert
Salvia officinalis var. gallica (W.Lippert) O.Bolòs & Vigo
Salvia officinalis f. gallica (W.Lippert) O.Bolòs & Vigo
Sinonimi della sottospecie lavandulifolia
Salvia approximata Pau
Salvia hispanorum Lag.
Salvia lavandulifolia Vahl
Salvia lavandulifolia var. adenostachys (O.Bolòs & Vigo) Figuerola
Salvia lavandulifolia subsp. approximata (Pau) Figuerola
Salvia lavandulifolia var. approximata (Pau) Figuerola, Stübing & Peris
Salvia lavandulifolia var. pyrenaeorum (W.Lippert) Figuerola, Stübing & Peris
Salvia lavandulifolia subsp. pyrenaeorum W.Lippert
Salvia lavandulifolia var. trichostachya (Font Quer ex O.Bolòs & Vigo) Figuerola
Salvia officinalis f. adenostachys O.Bolòs & Vigo
Salvia officinalis var. adenostachys (O.Bolòs & Vigo) O.Bolòs & Vigo
Salvia officinalis var. approximata (Pau) O.Bolòs & Vigo
Salvia officinalis var. hispanica Boiss.
Salvia officinalis var. hispanorum (Lag.) Benth.
Salvia officinalis var. lavandulifolia (Vahl) Pau
Salvia officinalis f. lavandulifolia (Vahl) O.Bolòs & Vigo
Salvia officinalis var. lavandulifolia (Vahl) O. Bolòs & Vigo
Salvia officinalis var. trichostachya (Font Quer ex O.Bolòs & Vigo) O.Bolòs & Vigo
Salvia officinalis f. trichostachya Font Quer ex O.Bolòs & Vigo
Salvia rosmarinifolia G.Don
Salvia tenuior Desf. ex Roem. & Schult.
Sinonimi della sottospecie oxyodon
Salvia aucheri var. aurasiaca Maire
Salvia blancoana var. aurasiaca (Maire) Figuerola
Salvia blancoana var. lagascana (Webb) Figuerola
Salvia lavandulifolia var. aurasiaca (Maire) Rosua & Blanca
Salvia lavandulifolia var. lagascana Webb
Salvia lavandulifolia subsp. oxyodon (Webb & Heldr.) Rivas Goday & Rivas Mart.
Salvia lavandulifolia var. spicata Willk.
Salvia officinalis var. purpurascens Cuatrec.
Salvia oxyodon Webb & Heldr.
La Salvia trova impiego in cucina fin dai tempi antichi, come pianta aromatica.
Nonostante la sua origine mediterranea, la presenza della salvia per aromatizzare carni di vario genere è consolidata da secoli in quasi tutte le tradizioni culinarie d'Europa. Meno comune ma non raro è il suo impiego per cibi di tipo diverso: pasta (notissimi in Italia i tortelloni burro e salvia), formaggi alle erbe, zuppe e le foglie di salvia fritte in pastella. In Medio Oriente la salvia viene usata per aromatizzare l'arrosto di montone.
Gli antichi Romani, che avevano già riconosciuto a questa pianta le sue virtù terapeutiche, procedevano alla sua raccolta con un rituale particolare, senza l'intervento di oggetti di ferro, in tunica bianca e con i piedi scalzi e ben lavati.
Prima e dopo i Romani, dagli antichi Egizi alla farmacopea medioevale, la salvia fu sempre apprezzatissima in erboristeria e non a caso Linneo le attribuì il nome di officinalis.
Tra i principali effetti, la salvia ha efficacia antisettica ed è anche digestiva e calmante. Le sono attribuiti altri effetti, ma non su tutti c'è concordia di vedute.
Secondo un'antica tradizione inoltre la Salvia officinalis può essere utilizzata per curare un'eccessiva sudorazione: si prepara un infuso con la Salvia officinalis e si praticano tamponamenti della zona da trattare.
La Salvia officinalis, come altre specie dello stesso genere, è frequentemente utilizzata in giardinaggio: i suoi fiori e il suo aspetto d'insieme sono gli elementi che più hanno contribuito al suo successo come pianta ornamentale.
E' pianta visitata dalle api per il polline ed il nettare.[32] Nella costa dalmata ne producono un miele uniflorale.[33]
L'estratto di salvia è un eccellente fissatore per profumi. Rafforza le gengive ed è indicato per lo smalto dei denti.
La salvia contiene un chetone complesso, il tujone[34], che può risultare tossico ad alte dosi. Ciò ha impatto sia sull'uso culinario che su quello medicinale e spiega perché la salvia è stata usata come aroma ma non, per esempio, come insalata.
La normativa europea ha stabilito un limite massimo al contenuto di tujone nei cibi, che è di 25 mg/kg nel caso di cibi aromatizzati con la salvia. Negli Stati Uniti d'America attualmente la legge fissa un tetto al contenuto di tujone, ma non è applicabile ai cibi preparati con la salvia
La salvia moscatella (nome scientifico Salvia sclarea L., 1753) è una piccola pianta perenne erbacea aromatica dai delicati fiori labiati appartenente alla famiglia delle Lamiaceae.
Il genere Salvia è molto grande e comprende oltre 1000 specie distribuite in cinque centri di diversità tra l'America, l'Africa e l'Eurasia. Secondo gli ultimi studi filogenetici sulle regioni nucleari e cloroplastiche del DNA il genere Salvia non è monofiletico ed è suddiviso in 3 grandi cladi.[12] La specie S. sclarea si trova nel sottoclade "B" del primo clade insieme ad altre specie come Salvia aethiopis L. e Salvia canariensis L. (il primo clade contiene la comunissima Salvia officinalis L.). Questo sottoclade ("B") è caratterizzato dall'aborto totale della teca posteriore e la relativa fusione del connettivo. Si crea così il classico "meccanismo a leva" della Salvia dove l'impollinatore è costretto ad attivare la leva per accedere al nettare facilitando in questo modo il trasferimento del polline sulla parte superiore del'insetto (o uccello) pronubo.[20]
Questa specie è moderatamente variabile. Il carattere più soggetto a variazione sono le brattee che a volte si presentano colorate di verde e consistenza fogliacea.[9]
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:[1]
Aethiopis sclarea (L.) Fourr.
Salvia altilabrosa Pan
Salvia calostachya Gand.
Salvia coarctata Vahl
Salvia foetida Lam.
Salvia haematodes Scop.
Salvia lucana Cavara & Grande
Salvia pamirica Gand.
Salvia sclarea var. calostachya (Gand.) Nyman
Salvia sclarea var. turkestanica (Noter) Mottet
Salvia simsiana Schult.
Salvia turkestanica Noter
Sclarea vulgaris Mill.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
La Salvia sclarea dimostra buone proprietà tonico-stimolanti nei confronti dell'apparato digerente, antispasmodiche e antisteriche, battericide e contro l'eccessiva sudorazione, regola il flusso mestruale, migliora lo stato del cuoio capelluto, evidenzia proprietà afrodisiache e ipotensive.[21] I semi della sclarea hanno un rivestimento mucillaginoso, i vecchi erboristi suggerivano di disporre un seme nell'occhio di qualcuno che avesse un corpo estraneo in esso, in modo da aderire all'oggetto e renderne facile la rimozione.
La sua coltura al giorno d'oggi è principalmente destinata a produrre un olio essenziale utilizzato nella fabbricazione di vermuth, di liquori o di profumi.
Come tutte le salvie, è anche una pianta mellifera, molto attraente per le api.
È stato usata anche per aromatizzare il vino, per intensificare l'aroma di Moscato, per dare vitalità all'organismo, curare la depressione, regolare il sistema nervoso Nelle birre inglesi, la sclarea è stata usata come aroma prima che l'uso del luppolo divenisse comune.
Le foglie possono essere utilizzate, fresche o essiccate, per aromatizzare i piatti di carne: maiale, vitello, pecora, selvaggina, le salse. Le foglie inoltre sono state utilizzate come verdura.
È stata usata anche per aromatizzare alcuni prodotti del tabacco.
La pianta è abbastanza decorativa sia per il suo fogliame che per i suoi fiori.
Predilige un suolo fresco, leggero, leggermente calcareo ed un'esposizione piena di sole.
Moltiplicazione con semina all'inizio della primavera in vivaio, seguito da un reimpianto in maggio, o con divisione di ciuffi. Il raccolto avviene dopo 4-5 mesi la piantagione.
Originaria del Mediterraneo, viene coltivata dall'Italia alla Siria fino in Russia. Tale pianta viene coltivata sin dall'epoca romana. In Italia la coltivazione è principalmente concentrata in Piemonte (per la produzione del vermut e altri liquori fra i quali il Fernet Branca) e nelle regioni meridionali.
La salvia moscatella in altre lingue è chiamata nei seguenti modi:
(DE) Muskateller-Salbei
(FR) Sauge sclarée
(EN) Clary
La salvia ananas (Salvia elegans Vahl), è una pianta ornamentale commestibile della famiglia Lamiaceae[1] che deve il proprio nome al profumo ed alla forma delle sue foglie.
La salvia ananas è una pianta erbacea perenne con portamento parzialmente ricadente. Alta fino a 60 cm, con foglie particolarmente decorative per via della loro forma ovale e appuntita, di color verde chiaro, tormentose. La loro caratteristica principale rimane l'inconfondibile profumo d'ananas, che può essere distintamente avvertito annusando le dita dopo averle delicatamente strofinate o spezzate. I fiori, scarlatti, lunghi 2 – 3 cm, riuniti in verticillastri fogliosi, sbocciano da giugno a settembre.
La principale caratteristica di questa pianta è il suo profumo di ananas e proprio per questo è una ottima ornamentale. Piantata in giardino, in luogo soleggiato o parzialmente soleggiato, diffonde con il vento un ottimo profumo.
Da non sottovalutare è la sua ricca fioritura di un rosso intenso nel periodo del primo autunno. La salvia elegans non gradisce i ristagni idrici e va protetta durante l'inverno in quanto il suo fusto ricco d'acqua teme il gelo.
Usi
Le sue foglie sono ottime sia fritte in pastella che per la preparazione del pesto.
Dopo Salvia officinalis e Salvia sclarea, dopo l’annuale Salvia splendens forse Salvia microphylla (sinonimo di Salvia grahamii) è la salvia più presente in Europa.
Fin dall’Ottocento fu introdotta dal Messico in Italia da viaggiatori naturalisti e con esse si ornarono i giardini di campagna dalla Maremma al Lazio, alla Sicilia. Una salvia semplice, un po’ legnosa alla base, eretta, robusta, vigorosa, rustica e resistente alla siccità, sempre fiorita con piccole ma numerosissime corolle rosse e foglie profumate lunghe un centimetro. Con esse furono fatte siepi, grazie alla grande capacità della specie di produrre da sotto nuovi fusti, ogni stagione e ogni anno sempre di più.
Frequente nei giardini, era chiamata “salvia della nonna”, perché spesso era sconosciuta la sua determinazione botanica e neppure si sapeva che fosse una salvia!
Con caratteristiche simili, però meno frequente, è Salvia greggii, anch’essa proveniente dal Messico: meno vigorosa, più graziosa nelle forme, con steli un po’ ricadenti ma con la stessa capacità di produrre per otto/nove mesi all’anno numerosissime corolle in questo caso rosso porpora.
Spesso confuse botanicamente una con l’altra, a un occhio attento non può sfuggire la differenza morfologica delle loro foglie; nel primo caso la foglia è ovale, rugosa in superficie e spesso irregolarmente dentata. Nel secondo caso la lamina fogliare, più stretta, è liscia, lucida e il margine è intero.
Il botanico inoltre, approfondendo l’osservazione descrive per Salvia microphylla, alla base del tubo della corolla, una “rientranza”, una cavità che all’interno della corolla diventa dispositivo di ritenzione del nettare; in Salvia greggii questo dispositivo non esiste.
Entrambe le specie hanno comunque foglie profumatissime che richiamano i profumi di pesca, di fragola e di arancio o di tutti questi frutti insieme.
Coltivazione
Facili da coltivare sia al sole sia a mezza ombra, con buona resistenza alla siccità e ai freddi intensi, si coltivano in terreni ben drenati e sciolti tendenzialmente calcarei. Sempreverdi, anche se le temperature invernali sono rigide, fioriscono praticamente tutto l’anno con corolle di tanti colori a seconda delle varietà oggi presenti sul mercato, dal bianco al giallo all’arancio, e diverse tonalità di rosa e di rossi. Necessitano solo di alcune attenzioni, però fondamentali per un buon successo, alla fine dell’inverno quando le piccole foglie rimaste sui fusti dopo il freddo tendono a crescere: vuol dire che la primavera è alle porte. Allora mano alle forbici: occorre tagliare a 10/20 cm dal suolo, lasciando qualche gemma verde in crescita.
Dopo la potatura la vegetazione ripartirà esuberante e in breve appariranno le corolle simili a tantissime lampadine accese (soprattutto all’imbrunire).
Possono essere usate nelle aiuole di erbacee perenni considerando che ciascuna avrà necessità di circa un metro quadro di spazio e un’altezza intorno al metro anche se esistono alcune varietà più grandi.
Come tante altre Lamiaceae, queste due specie sono sottoposte in natura (ma anche in coltivazione) frequentemente a ibridazione: ciò significa che dai semi raccolti da un loro frutto potrebbero nascere individui con caratteristiche diverse dalla pianta madre.
Nuove varietà
E’ così che nei primi decenni del secolo scorso sono stati scoperti e selezionati forme e ibridi anche interspecifici che hanno cominciato a popolare i giardini americani e inglesi (e da lì in Europa): si sono così diffuse varietà come Salvia greggii ‘Alba’ e Salvia greggii ‘Peach’; Salvia microphylla ‘Kew Red’, Salvia microphylla ‘Cerro Potosi’ e Salvia microphylla ‘Le Pradet’; Salvia x jamensis ‘La Luna’, Salvia x jamensis ‘La Siesta’ e Salvia x jamensis ‘Pat Vlasto’ (ibridi selezionati dal naturalista James Compton, noto collezionista di salvie) solo per nominarne alcune.
Salvia cinnabarina - Lamiaceae - Una Salvia dotata di buona rusticità, generosa nella vegetazione e nella fioritura, che avviene in autunno inoltrato in infiorescenze terminali spiciformi rosso cinabro, da cui prende il nome: la corolla è lunga 3cm circa e spesso anche il margine delle foglie ovate è arrossato: una fragranza acre, medicinale ma gradevolissima si sprigiona stropicciando le foglie. S.cinnabarina cresce spontanea tra le querce in Messico, Oaxaca e Chiapas, Honduras e Guatemala ad altitudini di 1500m s.l.m.. Tollera il pieno sole e la mezz’ombra, e gradisce qualche innaffiatura estiva, sempre in terreno ben drenato. Resiste anche a brevi periodi sotto lo zero, ripartendo dal ceppo in primavera. Una Salvia di grandissimo fascino, sia per l’aroma che per le notevoli proprietà medicinali studiate e sperimentate : essudati della parte aerea si sono dimostrati fungicidi verso Botrytis cinerea, inoltre S.cinnabarina sembra possedere attività spasmolitica, ipotensiva e antimutagenica, in base agli tudi compiuti da CRA-FSO di Sanremo, Università di Genova, EPLEFPA di Antibes, finanziati dalla Comunità Europea.
Il salvione giallo, (nome scientifico Phlomis fruticosa L., 1753) è un arbusto perenne dai fiori di forma labiata e di colore giallo appartenente alla famiglia delle Lamiaceae[1]. La pianta, detta anche salvia di Gerusalemme, è originaria dei paesi affacciati sul bacino del mediterraneo orientale e nasce spontaneamente in Albania, Cipro, Grecia, Italia, Turchia, ed alcune regioni della penisola balcanica. In Italia è diffusa soprattutto nelle regioni del centro sud[2].
Il nome generico (Phlomis) deriva dalla parola greca "phlogoj" o "phlogmis", ovvero fiamma, fuoco. Non è escluso che le foglie pelose di piante simili al salvione giallo siano state in passato utilizzate come stoppini[3][4]. Il botanico e biologo svedese Linneo, autore della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, è stato il primo ad utilizzare questo nome forse riutilizzando quello del Tassobarbasso, pianta con le foglie dalle caratteristiche simili descritta in antichità dal medico e botanico Dioscoride[5]. L'appellativo fruticosa significa arbustiva.
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo nella pubblicazione "Species Plantarum" (vol. 2, pag. 586)[6] del 1753.[7]
L'arbusto sempreverde è alto al massimo fino a un metro e presenta una larghezza pari a un metro e mezzo. Le foglie, dal profumo aromatico di salvia, sono di forma ovale, la loro superficie si presenta rugosa e coperta di sottili peli, il colore è grigio-verde mentre la parte inferiore è di colore bianco. I fiori di colore giallo intenso sono di forma tubolare o labiata ed hanno una lunghezza massima di tre cm. La pianta è molto utilizzata per fini ornamentali[5].
Parenti strette di salvia e lavanda le phlomis sono arbusti rustici di origine mediterranea; se ne conoscono circa una decina di specie. Queste specie producono ampi arbusti ben ramificati, con ramificazioni flessibili, che portano grandi foglie ovali, di colore verde-grigio, molto simili a quelle della salvia, con cui, se non in fiore, può venire a prima vista scambiata; le foglie di phlomis però non emanano alcun aroma: sono infatti prive di qualsiasi tipo di profumo. In primavera produce numerosi fiori, molto particolari e belli, sono infatti riuniti in infiorescenze circolari all'ascella delle foglie; quindi i rami apicali sono ornati di piccole coroncine di fiori ad ogni nodo. I fiori di phlomis possono essere gialli o rosa chiaro.
Gli arbusti di salvia di gerusalemme sono rustici e resistenti; si pongono a dimora in un luogo ben soleggiato del giardino, poiché temono l'ombra e necessitano di almeno 5-6 ore al giorno di luce solare diretta; non necessitano di particolare terreno, anche se temono i terreni pesanti e molto umidi, soprattutto in inverno. Prima di porre a dimora le Phlomis quindi lavoriamo bene il terreno aggiungendovi se necessario della sabbia, o della pietra pomice, per aumentarne il drenaggio. Arricchiamo anche il terreno con poco stallatico, o con del concime granulare a lenta cessione; ogni 6-8 mesi bisognerà aggiungere attorno alla pianta dell'altro concime granulare, senza eccedere in quantità, visto che queste piante vegetano bene anche in terreni poveri e sassosi.
La pianta appena posta a dimora necessita di annaffiature, nel corso del tempo queste piante però non necessitano di tanta acqua, e sopportano senza problemi la siccità. Può capitare che in estate, in caso di periodi particolarmente siccitosi, perdano gran parte del foglie ma, entrando in una specie di riposo vegetativo: non appena il clima tende a rinfrescare, a fine estate, la piante di salvia di gerusalemme ricominciano a germogliare.
Per mantenere una pianta sempre rigogliosa, possiamo annaffiarle anche in estate, evitando però di annaffiare se il terreno è ancora umido: attendiamo sempre che sia ben asciutto da alcuni giorni per fornire nuovamente acqua.
In inverno non necessitano di alcuna cura, e possono sopportare gelate anche intense e prolungate, fino a -10/-15°C.
A fine estate accorciamo i rami che hanno fiorito, altrimenti l'arbusto tenderà a svuotarsi nella parte bassa, prendendo un portamento molto disordinato e sgraziato.
La camomilla comune (Matricaria chamomilla L.) è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Asteraceae[1] e al genere Matricaria.
Il nome deriva dal greco χαμαίμηλον (chamáimēlon), parola formata da χαμαί (chamái), "a terra"[2] + μῆλον (mḕlon), "mela" per l'odore che somiglia a quello della mela renetta; questa derivazione è conservata nel nome spagnolo manzanilla, da manzana, che significa "mela". Il nome del genere, Matricaria, proviene dal latino mātrīx, mātrīcis, che significa "utero", con riferimento al potere calmante nei disturbi mestruali.
La pianta ha radici a fittone e un portamento cespitoso, con più fusti che partono dalla base, più o meno ramificati nella porzione superiore. L'altezza non supera in genere i 50 cm nelle forme spontanee, mentre nelle varietà coltivate può arrivare agli 80 cm. La pianta è spiccatamente aromatica.
Le foglie sono alterne e sessili, oblunghe. La lamina è bipennatosetta o tripennatosetta, con lacinie lineari molto strette.
I fiori sono riuniti in piccoli capolini con ricettacolo conico e cavo. I fiori esterni hanno la ligula bianca, quelli interni sono tubulosi con corolla gialla. I capolini di diametro di 1–2 cm, sono riuniti in cime corimbose. Tali fiori hanno un odore aromatico gradevole e contengono un'essenza caratteristica costituita dal principio attivo azulene, e da una mescolanza di altre sostanze (acido salicilico, acido oleico, acido stearico, alfa-bisabololo).
Il frutto è una cipsela di circa 1 mm di lunghezza, di colore chiaro, privo di pappo.
La specie è diffusa in Europa e in Asia ed è naturalizzata anche in altri continenti. Cresce spontaneamente nei prati e in aperta campagna, diventa spesso invadente comportandosi come pianta infestante delle colture agrarie.[3][4]
È una specie rustica che si adatta anche a terreni poveri, moderatamente salini, acidi. Il ciclo di vegetazione è primaverile-estivo, con fioritura in tarda primavera e nel corso dell'estate.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Di questa pianta vengono in genere raccolti i fiori, preferibilmente dopo aver perso i petali ma prima di essersi essiccati sulla pianta stessa. Una comune metodologia di raccolta consiste nel far passare fra le dita (o fra i denti di appositi pettinini) gli steli della pianta in maniera tale da raccogliere solamente i fiori, evitando una lunga fase di pulitura. I capolini si essiccano disponendoli in strati sottili all'ombra; si conservano poi in recipienti ermetici di vetro al riparo da fonti di luce e umidità.
Da questi fiori si producono infusi che notoriamente vengono utilizzati per i loro effetti blandamente sedativi. Oltre che alla somministrazione orale, è possibile ricorrere all'uso di preparati di camomilla anche per nebulizzazioni, linimenti anti-stress, impacchi, colliri e collutori (questi ultimi anche assieme alla malva).
La camomilla è dotata di buone proprietà antinfiammatorie, locali e interne, e costituisce un rimedio calmante tipico dei fenomeni nevralgici (sciatica, trigemino, lombaggine e torcicollo). Questo grazie a certi componenti dell'olio essenziale (alfa-bisabololo, guaiazulene, camazulene e farnesene), a una componente flavonoide (soprattutto apigenina, quercetina, apiina e luteolina) e ai lattoni matricina e des-acetil-matricarina. Il suo potere antiflogistico a parità di principio attivo (in peso) è stato comparato a quello del cortisone. Altri flavonoidi presenti (eupatuletina, quercimetrina) e le cumarine sono responsabili delle proprietà digestive e spasmolitiche. Queste combinazioni di principi attivi ne fanno un buon risolvente nella dismenorrea, nei crampi intestinali dei soggetti nervosi, negli spasmi muscolari e nei reumatismi. Le tisane ottenute con questa pianta inoltre provocano l'espulsione di gas intestinali in eccesso.
Presenti anche proprietà nutrizionali della camomilla rispetto ai capelli e al cuoio capelluto.
Nell'omeopatia, oltre alle indicazioni già elencate, la camomilla viene consigliata per i problemi associati alla dentizione, alla sindrome premestruale e a varie malattie infantili come otiti, coliche e a numerosi problemi comportamentali.
La calendula o calendola o fiorrancio (Calendula officinalis L., 1753) è una pianta, generalmente coltivata come annuale, della famiglia delle Asteraceae e appartenente al genere Calendula.
È una pianta erbacea con fusto carnoso e ramificato. Presenta foglie oblunghe, di un verde lucente, sessili e a margine irregolare. Durante tutta l'estate, una volta al mese appaiono grandi fiori color arancione, raggruppati in capolini; i periferici ligulati, quelli centrali ermafroditi e tubulosi.
Evidente l'etimologia dalle calendae romane, che indicano per antonomasia una ricorrenza mensile. Secondo alcuni autori ciò è dovuto alla rifioritura regolare della pianta,[1] secondo altri alle proprietà emmenagoghe.[2]
Secondo Luciano Guignolini[3] "l'origine della Calendula officinalis è oscura, non è mai stata sicuramente individuata allo stato spontaneo; si ritiene che provenga dal Marocco o sia derivata da una specie diffusa nell'Europa meridionale e che giunge sino alla Persia e all'Arabia: la Calendula arvensis".
Largamente coltivata ovunque, da tempi remoti, per la fioritura ripetuta che arriva fino a novembre e la rende ideale a scopo decorativo, se ne possono trovare però esemplari inselvatichiti in ambiente mediterraneo fra 0 e 600 m sul livello del mare.
Per decorare i giardini o in vaso sui terrazzi, coltivato industrialmente per la produzione del fiore reciso invernale.
I fiori sono commestibili, essiccati e ridotti in farina, detta "Marigold".
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
L'uso dei fiori di Calendula officinalis in ambito medicamentoso ha effetti antispasmodici e cicatrizzanti. Il decotto prodotto con circa 50 g di fiori essiccati per litro d'acqua, è consigliato contro l'ulcera gastrica e l'afta; ha inoltre effetti sudoripari e preventivo/attenuanti dei dolori mestruali. Per il ciclo mestruale ha anche un effetto attenuante del flusso e regolarizzante (vedi). Viene a volte utilizzata all'interno di prodotti antistaminici per le allergie causate dalla polvere e dagli acari. In dermocosmesi la calendula viene largamente utilizzata, consigliata di volta in volta come disinfiammante (in colliri e detergenti intimi) nutriente e protettiva per la pelle, antiacneica.
Nell'uso domestico i fiori secchi si fanno macerare in olio d'oliva (50 g per mezzo litro) per produrre un rimedio per bruciature e ustioni. Si utilizza anche come impacco decongestionante.
Coltivazione
Gradiscono posizione soleggiata, terreno ricco e soffice, poco acido[4].
La moltiplicazione avviene con il seme. Nelle regioni meridionali e in Liguria si semina d'estate trapiantando o diradando le piantine in settembre-ottobre per la fioritura in novembre, che con opportuni ripari prosegue per tutto l'inverno, dando fiori più grandi rispetto alle fioriture estive portate dalle piante ottenute nelle zone a clima rigido, con la semina primaverile.
I semi sono posti sotto la corolla del fiore aranciato e hanno una forma a falce; quando il fiore appassisce e si secca divengono facilmente visibili. La loro forma permette loro, cadendo e venendo bagnati dalla pioggia, di rimanere parzialmente interrati con una punta rivolta verso l'esterno. I semi hanno, verso il lato esterno della falce, una doppia fila di protuberanze che si allontanano quando l'acqua e il caldo permettono al germoglio di cominciare a crescere, a quel punto il seme si apre proprio in corrispondenza di questa incernieratura.
In appartamento conviene gettare i semi, che possono essere prelevati direttamente dai fiori, eventualmente acquistati in erboristeria, su un vaso riempito di terriccio, successivamente coprirli con uno strato di circa 1 cm di ulteriore terriccio e bagnare abbondantemente. Preferiscono zone soleggiate, per questo conviene, se possibile, lasciare i vasi esposti verso sud in maniera da garantire sole tutto il giorno. Le piantine appena germogliate sono facilmente riconoscibili per le due foglioline allungate, lineari e spesse come quelle dei girasoli.
Avversità
Sono stati riscontrati attacchi da parte di funghi quali Erysiphe cichoracearum, Entyloma calendulae, Alternaria calendulae e Cercospora calendulae, Sphaerotheca fuliginea che provocano danni all'apparato fogliare.
Fra gli insetti è possibile riscontrare attacchi da parte del dittero Phytomiza atricornis, la cui larva scava sulle foglie una mina lunga e serpentiforme, e dell'afide Brachycaudus helichrysi, veicolo del virus Y della patata. Altri agenti patogeni sono Bemisia tabaci, Aphis fabae e Myzus persicae, che provocano in alcuni casi l'accartocciamento delle foglie o l'arresto dell'accrescimento dei germogli.[5]
Simbologia
Nel linguaggio dei fiori la calendula rappresenta il dolore, il dispiacere e le pene d'amore[6].
La santolina (Santolina chamaecyparissus L., nota anche come crespolina) è un’erba aromatica appartenente alla famiglia delle Asteraceae.
La Santolina è un arbusto rustico, sempreverde, aromatico, molto diffuso lungo le coste europee, è originaria probabilmente dell’area mediterranea ed è presente in quasi tutta Italia, dove viene coltivata a scopo ornamentale e dove è spesso inselvatichita.
Cresce nei luoghi aridi e sassosi, dal piano ai 1000 metri.
La Santolina è una pianta sufrutice: forma dei grossi cespi che, se non vengono potati, possono superare 1 m di diametro, con rami lignificati alla base
Presenta fusti lanosi, eretti e sottili ricoperti da foglie persistenti di colore grigio-verde, che, a seconda delle varietà, sono settate o filiformi, e che emanano un gradevole profumo. Può raggiungere i 30-60 cm di altezza, espandendosi per 80-90 cm in larghezza.
Alla fine di giugno regala un’abbondante fioritura gialla, molto particolare per i tanti capolini senza di petali, che ricordano quasi dei bottoni sulfurei portati su singoli steli.
La Santolina appartiene alla famiglia delle Asteraceae, genere Santolina
Tra le diverse specie ricordiamo:
Questa specie è alta circa 35 cm, è l’ ideale per abbellire i giardini rocciosi e si presta anche per la coltivazione in vaso; è maggiormente diffusa nei giardini; si riconosce facilmente per le foglioline persistenti, minute, tipicamente aromatiche e di colore grigio argenteo
Questa specie durante l’ estate assume una colorazione biancastra. Gli esemplari adulti possono raggiungere anche i 5 metri di altezza dando origine a bellissimi arbusti tondeggianti. Ha un portamento eretto e cespuglioso, regala un´abbondante fioritura di color giallo; le foglie sono piccole, lucide e molto aromatiche
Questa specie ha un aspetto tondeggiante e con foglie gialle.
La Santolina regala una fioritura persistente che perdura e si rinnova continuamente per tutta l’estate, periodo favorevole per la raccolta, l’essiccazione e la conservazione.
Questa pianta è coltivata a scopo ornamentale sia in vaso che in giardino per il suo fogliame decorativo e profumato. Le sue radici sono inoltre utilissime come contenimento alle scarpate. E’ un arbusto di poche pretese.
Le radici della Santolina coltivata in vaso tendono ad espandersi, pertanto è consigliabile procedere con il rinvaso, utilizzando un contenitore più ampio del precedente. Si tratta di un’ operazione che va eseguita durante la primavera.
Ideale come pianta da bordura, per il fogliame molto decorativo, la Santolina viene impiegata anche nella creazione di aiuole di piante aromatiche, anche se le foglie profumate non sono comunemente presenti nella nostra penisola.
Si può anche utilizzare per formare siepi basse, infatti un tempo era impiegata per la creazione dei parterre nei giardini all’italiana e nei giardini arabi.
La Santolina è la pianta ideale per i giardini rocciosi e per realizzare delle siepi basse, si tratta infatti di una pianta dall’aspetto di un folto cespuglio tondeggiante
La Santolina si adatta bene a qualsiasi tipo di clima.
E’ una pianta molto rustica: riesce a sopportare le alte temperature così come sopporta le basse, anche se laddove la temperatura scende sotto ai -15°C è consigliabile proteggere la pianta pacciamando il piede e il cespo con uno strato abbondante di paglia.
Occorre fare attenzione però alle nevicate abbondanti: essendo una suffruticosa, potrebbero spezzarsi i rami sotto il peso della coltre di neve.
E’ in grado si sopportare bene anche la salsedine.
Nel caso in cui il gelo dovesse bruciacchiare qualche ramo, è sufficiente aspettare la primavera per veder spuntare dal colletto qualche nuovo germoglio.
Le santoline hanno bisogno di essere messe a dimora in luoghi molto luminosi e soleggiati.
Le Santoline preferiscono terreni sciolti, che siano ben drenati, sabbiosi, meglio se calcarei; Ma generalmente si sviluppano senza problemi in qualsiasi terreno, visto le loro pochissime esigenze: riescono a vivere bene anche nei suoli argillosi e in quelli aridi e magri.
La Santolina non ha bisogno di particolari annaffiature, è quindi opportuno intervenire solo dopo lunghi periodi di siccità.
Durante l’estate sono sufficienti sporadiche annaffiature, ogni 10-15 giorni, per il resto dell’anno questa pianta si accontenta della pioggia.
Durante l’inverno occorre sospendere totalmente le annaffiature per le piante coltivate in piena terra e annaffiare una volta al mese solo quelle in vaso.
La Santolina si propaga per seme, per talea o per divisione dei cespi.
Moltiplicazione per seme
La semina si può eseguire in semenzaio protetto alla fine dell’inverno o direttamente in piena terra a fine di aprile.
Moltiplicazione per talea
in estate di prelevano le talee di parti apicali e poi si mettono a radicare in un miscuglio di torba e sabbia in parti uguali fino alla comparsa di nuovi germogli. Quando le piante sono abbastanza forti e vigorose possono essere allevate in vasi singoli o direttamente in piena terra.
Moltiplicazione per divisione dei cespi
La moltiplicazione mediante divisone dei cespi va fatta esclusivamente nel periodo primaverile avendo l’accortezza di conservare intatte le radici.
Quando le nuove piantine sono abbastanza sviluppate, vengono trapiantate in vasi singoli o in piena terra, in posizione ben soleggiata e in substrato ben drenato.
le santoline vanno concimate ogni 20 giorni con un fertilizzante liquido specifico per piante da fiore diluito all’acqua delle annaffiature oppure distribuendo , ogni 3- 4, ai piedi dei cespugli un concime granulare a lento rilascio.
La Santolina è una perenne suffruticosa e con l’accrescimento tende ad aprirsi ed a perdere compattezza.
Dopo la fioritura è quindi consigliabile potare il cespuglio per stimolare la produzione di getti basali e conferirle nuovamente rotondità e pienezza.
Durante la primavera occorre recidere i rami secchi e danneggiati e cimare i fusti fiorali per favorire l’emissione di nuovi getti, l’incespimento e la compattezza dell’arbusto.
Come substrato si può utilizzare qualsiasi tipo di terreno, purché permeabile. Si moltiplica per talee erbacee o semilegnose da interrarsi a primavera inoltrata o in autunno.
Le piantine preparate in vivaio si trasferiscono a dimora a fine inverno o all’inizio della primavera. Per le piante in vaso si consiglia di rinvasare in primavera, utilizzando un vaso leggermente più ampio del precedente.
Tagliare i rametti a inizio estate quando sono in piena fioritura e farli essiccare in luogo ombroso e ventilato.
Conservare al riparo dalla luce e dall’umidità.
Di solito si accontenta delle precipitazioni atmosferiche, tuttavia in caso di siccità si consiglia di annaffiare la santolina ogni quindici giorni.
Nella stagione invernale non si dovrà effettuare nessun apporto d’acqua se la pianta dimora in terra, mentre per quella in vaso è sufficiente un’annaffiatura mensile.
In generale le piante di santolina non vengono attaccate da parassiti o da malattie, anche se è possibile che gli afidi attacchino le infiorescenze.
Pianta originaria dell’Europa.
Viene impiegata nei giardini sia per creare fitte bordure, sia come pianta cespugliosa solitaria o a gruppi sulle scogliere e sulle scarpate sassose.
La Santolina possiede proprietà digestive, antispasmodiche, tonico-stimolanti e antisettiche.
In alcuni casi viene utilizzata anche contro le punture di insetti Anticamente veniva utilizzata per profumare gli armadi e tenere lontane le tarme, e come repellente per gli insetti.
Le sue foglie e i suoi rametti, una volta essiccati, si possono conservare per molti mesi in un contenitore di vetro. I suoi nomi comuni sono Santolina, Crespolina.
(Avvertenza Importante: prima dell’uso, fatevi consigliare da un dottore esperto)
La Santolina possiede proprietà digestive, antispasmodiche, tonico-stimolanti, antisettiche (infuso o decotto). Per uso esterno come antipruriginoso in caso di punture di insetti.
Dal punto di vista culinario è presente in numerose ricette.
L’olio essenziale ricavato dai fiori della santolina si applica sulla pelle per alleviare i sintomi di natura nervosa.
Per un effetto calmante esistono gocce dell’olio essenziale nel diffusore di essenze.
Si tratta di una pianta davvero benefica, tuttavia esistono delle raccomandazioni riguardo al suo uso interno per cui, prima di iniziare ad assumerla è necessario il parere di un esperto.
La santolina combatte la presenza in casa di insetti. I rametti nella biancheria, oltre a profumare, allontanano le tarme e l’olio essenziale nel diffusore non è gradito dalle zanzare ed da altri insetti.
Inoltre allontana i cosiddetti pesciolini d’argento (Lepisma saccharina) che si trovano tra i libri.
Il mirto (Myrtus communis L., 1753) è una pianta aromatica appartenente alla famiglia Myrtaceae[2] e al genere Myrtus. È tipico della macchia mediterranea, viene chiamato anche mortella.
Il mirto ha portamento di arbusto o cespuglio, alto tra 0,5–3 m, molto ramificato ma rimane fitto; in esemplari vetusti arriva a 4–5 m; è una latifoglia sempreverde, ha un accrescimento molto lento e longevo e può diventare plurisecolare.
La corteccia, rossiccia nei rami giovani, col tempo assume un colore grigiastro. Ha foglie opposte, ovali-acute, coriacee, glabre e lucide, di colore verde-scuro superiormente, a margine intero, con molti punti traslucidi in corrispondenza delle glandole aromatiche.
I fiori sono solitari e ascellari, profumati, lungamente peduncolati, di colore bianco o roseo. Hanno simmetria raggiata, con calice gamosepalo persistente e corolla dialipetala. L'androceo è composto da numerosi stami ben evidenti per i lunghi filamenti. L'ovario è infero, suddiviso in 2-3 logge, terminante con uno stilo semplice, e un piccolo stimma. La fioritura, abbondante, avviene in tarda primavera, da maggio a giugno; un evento piuttosto frequente è la seconda fioritura che si può verificare in tarda estate, da agosto a settembre e, con autunni caldi anche in ottobre. Il fenomeno è dovuto principalmente a fattori genetici.
I frutti sono delle bacche, globoso-ovoidali di colore nero-azzurrastro, rosso-scuro o più raramente biancastre, con numerosi semi reniformi. Maturano da novembre a gennaio persistendo per un lungo periodo sulla pianta.
Distribuzione e habitat
È una specie spontanea delle regioni mediterranee, comune nella macchia mediterranea. In Sardegna e Corsica è un comune arbusto della macchia mediterranea bassa, tipica delle associazioni fitoclimatiche xerofile dell'Oleo-ceratonion. Meno frequente è invece la presenza del mirto nella macchia alta.
Esigenze e adattamento
Il mirto è una pianta rustica ma teme il freddo intenso, si adatta abbastanza ai terreni poveri e siccitosi ma trae vantaggio sia dagli apporti idrici estivi sia dalla disponibilità d'azoto manifestando in condizioni favorevoli uno spiccato rigoglio vegetativo e un'abbondante produzione di fiori e frutti. Vegeta preferibilmente nei suoli a reazione acida o neutra, in particolare quelli a matrice granitica, mentre soffre i terreni a matrice calcarea. È un arbusto sclerofilo e xerofilo.
Miglioramento varietale per l'industria
Ne esistono numerose varietà coltivate a scopo ornamentale come il Myrtus communis var. variegata alta fino a 4,50 m, con foglie dalle eleganti striature colorate di bianco-crema e fiori profumati, ci sono anche degli arbusti che hanno le bacche bianche. Sono state selezionate varietà nane usate per coltivazione in vaso oppure altre ancora con fiori colorati e più grandi. L'interesse economico che sta riscuotendo questa specie in Sardegna ha dato il via negli anni novanta a un'attività di miglioramento genetico da parte del Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei dell'Università di Sassari, che ha selezionato oltre 40 cultivar fino al 2005. Lo scopo principale del miglioramento genetico è la produzione di bacche da destinare alla produzione del liquore di mirto, tuttavia è in corso anche un'attività di screening finalizzata alla produzione dell'olio essenziale.
Fra le caratteristiche morfologiche, fenologiche e produttive valutate ai fini del miglioramento genetico rientrano la forma e la pezzatura delle bacche, la dimensione dei semi, la vigoria della pianta, la pigmentazione dell'epicarpo, carattere fondamentale per la produzione del liquore, la produttività, la percentuale di radicazione (carattere fondamentale per la moltiplicazione per talea) e, infine, la predisposizione alla rifiorenza, carattere ritenuto negativo ai fini della produzione delle bacche.
Propagazione
Il mirto può essere riprodotto per talea o per seme.
La riproduzione è utile per clonare ecotipi o varietà di particolare pregio da utilizzare in mirteti intensivi, perché consente di ottenere piante vigorose e precoci, in grado di fruttificare già in fitocella dopo un anno. Per ottenere percentuali di radicazione accettabili è indispensabile ricorrere a tecniche che incrementino il potere rizogeno, come il riscaldamento basale e il trattamento con fitoregolatori rizogeni, e rallentino l'appassimento delle talee, come la nebulizzazione.
La riproduzione per seme, per la sua semplicità e per i costi bassissimi, è consigliata per un'attività amatoriale da eseguire in ambito domestico. Le piante ottenute da seme sono meno vigorose e difficilmente entrano in produzione prima dei quattro anni. La semina va fatta nel periodo di maturazione delle bacche, nei mesi di dicembre-gennaio, in quanto i semi perdono ben presto il potere germinativo. Per realizzare un piccolo semenzaio si può utilizzare una cassetta da riempire con terriccio. Si sbriciolano le bacche semiappassite, distribuendo uniformemente il seme con una densità di 3-4 semi per centimetro quadrato e ricoprendolo con uno strato leggero di terriccio, dopo di che ci si deve preoccupare di irrigare frequentemente e moderatamente. La cassetta va mantenuta in un ambiente riparato, all'aperto nelle regioni a inverno mite, in serra nelle zone a inverno rigido. Le piantine vanno trapiantate in vasetti o in fitocelle della capacità di mezzo litro quando hanno raggiunto un'altezza di 4–6 cm.
Tecnica colturale
Il liquore di mirto è un prodotto che fino agli anni novanta ha interessato un mercato di nicchia a livello regionale, ma successivamente l'attività dell'industria liquoristica ha subito una notevole espansione promuovendo il prodotto nel mercato nazionale. La domanda di materia prima, tradizionalmente soddisfatta dai raccoglitori stagionali nella macchia mediterranea, ha portato a una notevole pressione antropica sulla vegetazione spontanea, che ormai non è più in grado di sostenere un'attività su larga scala.
A partire dalla metà degli anni novanta, pertanto, si sta promuovendo in Sardegna la coltivazione del mirto in impianti specializzati. La tecnica colturale è in piena fase di evoluzione in quanto è ancora oggetto di recente ricerca in diversi suoi ambiti, soprattutto in relazione alla meccanizzazione. Nei primi anni del millennio sono già emersi i primi indirizzi, applicati nei campi sperimentali e nei progetti pilota.
L'impianto del mirteto si esegue con gli stessi criteri applicati nella frutticoltura e nella viticoltura. Il terreno va preparato con lo scasso e la superficie sistemata con le lavorazioni complementari, in occasione delle quali si può valutare l'opportunità di una concimazione di fondo su terreni particolarmente poveri.
Il sesto d'impianto più adatto per la meccanizzazione della coltura è di 1 x 3-3,5 metri, con un investimento di circa 3 000 piante a ettaro. Le piante, omogenee per età e cultivar, vanno messe a dimora in autunno o al massimo entro l'inizio della primavera per facilitare l'affrancamento. Si possono impiegare anche piante di un anno d'età provenienti da un vivaio, in quanto in grado di fornire una prima produzione già al secondo anno.
Il sistema d'allevamento più vicino al portamento della pianta è la forma libera a cespuglio. Con questo sistema in pochi anni le piante formano una siepe continua che richiede pochi interventi di potatura. Le sperimentazioni condotte dalla Facoltà di Agraria dell'Università di Sassari hanno però individuato nell'alberello una forma d'allevamento più adatta alla meccanizzazione della raccolta. Con questo sistema le piante sono costituite da un fusto alto circa 50 cm con chioma libera. In questo caso sono richiesti sistematici interventi di potatura più drastici per correggere il naturale portamento cespuglioso della pianta e l'allestimento di un sistema di sostegno basato su pali e fili. Per quanto riguarda la potatura di produzione, ancora non esiste una casistica sufficientemente collaudata, tuttavia il comportamento naturale del mirto può dare le prime indicazioni. Il mirto fruttifica sui rametti dell'anno, pertanto la potatura dovrebbe limitarsi a interventi di contenimento dello sviluppo e di ringiovanimento, oltre alla rimozione dei nuovi getti basali nel sistema ad alberello.
Per la sua rusticità e la capacità di competizione il mirto richiede per lo più il controllo delle infestanti con lavorazioni superficiali nell'interfila, qualora si adotti un sistema d'allevamento a cespuglio, e sulla fila nei primi anni e soprattutto con l'allevamento ad alberello. In caso di coltura in asciutto si opera secondo i criteri dell'aridocoltura con lavorazioni più profonde nell'interfila per aumentare la capacità d'invaso.
Il mirto risponde positivamente soprattutto alla concimazione azotata in quanto la produzione è potenzialmente correlata allo sviluppo vegetativo primaverile. Gli interventi vanno pertanto eseguiti in epoca primaverile per incrementare il rigoglio vegetativo. La concimazione azotata e quella potassica diventano indispensabili per garantire un buon livello nutrizionale e contenere eventuali fenomeni di alternanza qualora si provveda ad asportare i rami in fase di raccolta.
L'irrigazione è indispensabile per garantire buone rese. La specie resiste bene a condizioni di siccità prolungata e potrebbe essere coltivata anche in asciutto, ma le rese sono piuttosto basse. Le dimensioni delle bacche inoltre sono piuttosto piccole e rendono proibitiva la raccolta con la brucatura o la pettinatura. Tre o quattro interventi irrigui di soccorso nell'arco della stagione estiva possono migliorare sensibilmente lo stato nutrizionale delle piante e di conseguenza le rese. I migliori risultati si ottengono naturalmente con irrigazioni più frequenti adottando sistemi di microirrigazione con turni di 10-15 giorni secondo la disponibilità e il tipo di terreno. I volumi stagionali ordinari possono probabilmente oscillare dai 1 000 ai 3 000 metri cubi a ettaro.
Raccolta
Tradizionalmente la raccolta nella macchia è eseguita con la brucatura o con l'impiego di strumenti agevolatori (pettini forniti di contenitori per l'intercettazione), questi ultimi in grado di aumentare leggermente la capacità di lavoro. Una pratica sconsiderata è quella di tagliare i rami e lasciarli appassire per qualche giorno in modo da staccare le bacche con la semplice scrollatura. Questa tecnica è deprecabile a causa del grave impatto ambientale se ripetuta negli anni: in un impianto artificiale potrebbe essere giustificata per ridurre i costi della raccolta su grandi estensioni ma oltre a offrire un eventuale rischio di alternanza (non documentato), richiede maggiori oneri di fertilizzazione per garantire un'adeguata rigenerazione annuale della vegetazione ed evitare un eccessivo impoverimento del terreno.
Il Dipartimento di Ingegneria del Territorio Sezione Meccanizzazione ed Impiantistica dell'Università di Sassari sta sperimentato alcuni prototipi per un'eventuale meccanizzazione della raccolta mutuati da altri sistemi di raccolta adottati in olivicoltura o in viticoltura. Allo stato attuale le ipotesi più accreditate prevedono l'impiego di macchine scavallatrici che effettuano lo scuotimento o la pettinatura con intercettazione per mezzo di reti.
Le rese possono variare sensibilmente secondo le condizioni operative. Le rese effettive nella macchia dipendono dalle caratteristiche intrinseche dell'associazione floristica, con particolare riferimento alla percentuale di copertura del mirto, dall'andamento climatico della stagione, dalle condizioni pedologiche. Prove condotte dal Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei dell'Università di Sassari e dal Centro Regionale Agrario Sperimentale della Sardegna in diverse stazioni dell'isola hanno rilevato rese variabili da poche decine di chilogrammi a massimo 200 kg a ettaro. Negli impianti intensivi la letteratura non ha ancora fornito indicazioni attendibili, ma le rese potrebbero attestarsi sull'ordine di 4-6 t a ettaro in regime irriguo con investimenti di 3 000-3 500 piante.
Usi
Per il suo contenuto in olio essenziale (mirtolo, contenente mirtenolo e geraniolo e altri principi attivi minori), tannini e resine, è un'interessante pianta dalle proprietà aromatiche e officinali. Al mirto sono attribuite proprietà balsamiche, antinfiammatorie, astringenti, leggermente antisettiche, pertanto trova impiego in campo erboristico e farmaceutico per la cura di affezioni a carico dell'apparato digerente e del sistema respiratorio. Dalla distillazione delle foglie e dei fiori si ottiene una lozione tonica per uso eudermico. La resa in olio essenziale della distillazione del mirto è alquanto bassa.
Il prodotto più importante, dal punto di vista quantitativo, è rappresentato dalle bacche, utilizzate per la preparazione del liquore di mirto propriamente detto, ottenuto per infusione alcolica delle bacche attraverso macerazione o corrente di vapore. Un liquore di minore diffusione è il Mirto Bianco, ottenuto per infusione idroalcolica dei giovani germogli, erroneamente confuso con una variante del liquore di mirto propriamente detto ottenuto per infusione delle bacche di varietà a frutto non pigmentato. Il prezzo di mercato delle bacche si aggira intorno ai 1,8-2 euro/kg.
Nella tradizione gastronomica sarda il mirto è un importante condimento per aromatizzare alcune carni: i rametti sono tradizionalmente usati per aromatizzare il maialetto arrosto, il pollame arrosto o bollito, il manzo e soprattutto sa taccula o grivia, un semplice ma ricercato piatto a base di uccellagione bollita (tordi, merli, storni). L'uso del mirto come aroma per le carni non è comunque una prerogativa esclusiva dei sardi: la letteratura nel Web riporta ad esempio riferimenti anche per altre cucine regionali e per la cucina spagnola. Assai più raro ma non meno gustoso è l'utilizzo del mirto come condimento per un risotto.
L'abbondante e suggestiva fioritura in tarda primavera o inizio estate o la presenza per lungo tempo delle bacche (di colore nero bluastro o rossastro o rosso violaceo) nel periodo autunnale rendono questa pianta adatta per ravvivare i colori del giardino come arbusto isolato, allevato a cespuglio o ad alberello. L'utilizzazione più interessante del mirto come pianta ornamentale è tuttavia la siepe: in condizioni ambientali favorevoli è in grado di formare una fitta siepe medio alta in pochi anni. Le foglie, relativamente piccole, e la notevole capacità di ricaccio vegetativo lo rendono adatto a formare siepi modellate geometricamente con la tosatura, ma può anche essere allevato a forma libera e sfruttare in questo caso lo spettacolo suggestivo offerto prima dalla fioritura poi dalla fruttificazione.
Curiosità
L'"Orto del Mirto" è un settore dell'Orto botanico di Pisa, così denominato per la presenza di un vetusto esemplare di mirto. L'impiego fitocosmetico del mirto risale al Medioevo: con la locuzione di Acqua degli angeli, s'indicava l'acqua distillata di fiori di mirto.
La popolarità di cui gode questa pianta in Sardegna è notevole al punto che questa pianta è oggetto di consuetudini consolidate. In autunno presso i mercati civici e gli ambulanti si trovano facilmente le bacche di mirto pronte per essere messe in macerazione per la preparazione casalinga del liquore. Lo stesso liquore è ormai diventato il digestivo per eccellenza offerto, spesso in omaggio, nei ristoranti al termine del pasto. Infine, i rametti di mirto sono frequentissimi come ornamento nei banchi delle macellerie e delle rosticcerie. La popolarità ha ispirato la ricerca negli ultimi anni di nuove utilizzazioni in campo alimentare che però non hanno riscosso grande successo. In particolare si citano il tè freddo al mirto e il gelato al gusto di mirto.
Il mirto è bottinato dalle api per ottenere il polline.[3] Non è possibile produrre miele di mirto in quanto il mirto non produce nettare, essendo il fiore privo di nettari.
Nell'antichità, il mirto era pianta sacra a Venere, in quanto si riteneva che la dea, appena nata dalla spuma del mare, si fosse rifugiata in un boschetto di mirti.[4]
La filogenesi, della famiglia delle Myrtaceae deriva direttamente dal mirto (Myrtus communis) che è stato considerato evidentemente degno di costituire il genere tipico della famiglia. Tale condizione rappresenta chiaramente la centralità della cultura europea che si è realizzata in ambito del sistema di classificazione botanica linneana e di quelle storiche precedenti, nella classicità greca e latina. In realtà la enorme complessità della famiglia, e della sua filogenesi, ha una grandissima importanza botanica in tutto il pianeta. Sono moltissimi i generi e le specie di piante da frutto o da legno o medicinali arbusti o grandi alberi, che sono attribuite a tale famiglia; sia del deserto sia delle foreste tropicali di tutti i continenti. L'unico luogo dove la famiglia è rappresentata pressoché da una sola specie, peraltro di non fondamentale importanza, questo e il luogo dove appunto è originario il mirto, e la specie è il Myrtus communis.
Il dragoncello o estragone (Artemisia dracunculus, L.) è una pianta perenne, aromatica e amara, appartenente alla famiglia delle Asteracee. È detto anche "dragone", "tarfone", "tragone", "serpentaria".[2]
È originaria della Siberia del sud e della Russia meridionale. In Italia è una specie coltivata, raramente cresce spontanea[1].
Il dragoncello è una pianta erbacea. Il fusto forma dei cespugli che possono raggiungere l'altezza di circa un metro; ha fiori piccoli e di colore verde-giallastro, riuniti in infiorescenze a forma di pannocchia. Le foglie sono sottili, lucenti e di colore verde scuro. Il frutto è di colore scuro ed è grande 1-2 millimetri. I semi sono generalmente sterili.[1]
È coltivata nell'Europa occidentale per i suoi usi gastronomici. Foglie e fiori vengono raccolti nei mesi più caldi. È molto utilizzata nella cucina toscana e in quella francese per insaporire pesce, uova ed altre pietanze. È uno dei componenti principali della salsa bernese che si usa per insaporire la carne alla griglia.
Ha proprietà antisettiche e digestive. Le foglie contengono sali minerali e le vitamine A e C. Masticare le foglie riduce la sensibilità delle papille gustative, favorendo l'assunzione di medicine amare. Solitamente le foglie si usano tramite un infuso. Le radici danno sollievo al mal di gola e l'infuso di foglie stimola l'appetito.
Famiglia: Rosaceae
Descrizione: pianta erbacea perenne, sempreverde, con rizoma legnoso ed ingrossato, alta 20-60 cm. Le infiorescenze sono spighe sferico-ovali di 2 cm circa; i fiori sono apetali con 4 lacinie.
Fioritura: da maggio ad agosto.
Habitat: ambienti aridi, incolti, campi di foraggere, margini di vie, zone ruderali fino a 1.300 m (raramente 2.000 m) di altitudine.
Presente in Valle D’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, EmiliaRomagna, Toscana, Campania, Puglia, Sicilia. Assente in Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Calabria, Sicilia, Sardegna. Dubbia in Lazio.
Curiosità: un vecchio proverbio, riferendosi a Sanguisorba minor recita: “L’insalata non è buona e non è bella se non c’è la Pimpinella” e quindi corre l’obbligo di chiarire che, anticamente, questa specie era conosciuta come Pimpinella e come tale venne inizialmente classificata anche dai botanici. Successivamente, ad opera di Linneo, vennero classificate nel genere Pimpinella alcune Apiaceae e la Salvastrella venne definitivamente inclusa nel genere Sanguisorba. Volgarmente è comunque ancora conosciuta anche come Pimpinella.
Come coltivarla: la semina va effettuata a febbraio in semenzaio posto all’aperto, proteggendolo dagli sbalzi termici e dalla eccessiva insolazione. Una volta che le piantine hanno raggiunto un’altezza di qualche cm sono pronte per il trapianto in vasetto. Spostare in piena terra solo quando sono diventate robuste. Preferisce posizioni soleggiate. Cresce su terriccio da giardino, sabbioso – ghiaioso.
Lo zenzero (Zingiber officinale Roscoe, 1807) è una pianta erbacea delle Zingiberaceae (la stessa famiglia del cardamomo) originaria dell'Estremo Oriente.[3] Anticamente era detto anche gengiovo[2] e talvolta oggi è commercializzato col nome inglese di ginger.
Coltivato in tutta la fascia tropicale e subtropicale, è provvisto di rizoma carnoso e densamente ramificato dal quale si dipartono sia lunghi fusti sterili e cavi, formati da foglie lanceolate inguainanti, sia corti scapi fertili, portanti fiori giallo-verdastri con macchie porporine. Il frutto è una capsula divisa da setti in tre logge.
Componenti e usi alimentari
Il rizoma contiene i principi attivi della pianta: olio essenziale (composto in prevalenza da zingiberene), gingeroli e shogaoli (principali responsabili del sapore pungente), resine e mucillagini, e presenta in modo più pronunciato il sapore e l'aroma tipico che lo vedono ampiamente utilizzato come spezia, specie in forma essiccata e polverizzata, o fresco in fette sottili. Gli stessi sono in misura minore contenuti anche nel legno di zenzero, utilizzato ad esempio per spiedini, soprattutto di pesce. Nella cucina giapponese lo zenzero è normalmente servito in forma di pickle (sottaceto agrodolce) con il sashimi.
Nelle varie cucine indocinesi è spesso utilizzato anche nella preparazione di zuppe e piatti con salse. Il rizoma fresco, con l'ebollizione, consente la coagulazione del latte come altre sostanze di origine animale o vegetali (caglio) ed è largamente impiegato anche nella preparazione di tisane[4]. Entra nella preparazione di bevande analcoliche come il ginger ale e la ginger beer e in una varietà del cioccolato modicano. L'uso dello zenzero ("gengiovo") nella manifattura dolciaria fiorentina di età medievale è attestato dalla sesta novella dell'ottava giornata del Decameron.
Pan di zenzero
Il pan di zenzero (gingerbread in inglese) è un impasto per biscotti a base di zenzero, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, tipico dell'Inghilterra, degli Stati Uniti e del Nord Europa, particolarmente nel periodo natalizio.
Tassonomia
Sono stati riportati i seguenti sinonimi:[5]
Amomum angustifolium Salisb.
Amomum zingiber L.
Amomum zinziba Hill
Zingiber aromaticum Noronha
Zingiber cholmondeleyi (F.M.Bailey) K.Schum.
Zingiber missionis Wall.
Zingiber officinale var. cholmondeleyi
Zingiber officinale var. macrorhizonum
Zingiber officinale f. macrorhizonum
Zingiber officinale var. rubens
Zingiber officinale f. rubens
Zingiber officinale var. rubrum
Zingiber officinale var. sichuanense
Zingiber sichuanense Z.Y.Zhu, S.L.Zhang & S.X.Chen
Zingiber zingiber (L.) H.Karst.
Il rizoma essiccato, generalmente commercializzato in polvere, è impiegato come spezia in cucina e nella preparazione di liquori e bibite (in particolare del Ginger ale) come aromatizzante. Ha proprietà stimolanti la digestione (stomachico), stimolanti la circolazione periferica, antinfiammatorie e antiossidanti, e si ritiene tradizionalmente contribuisca alla conservazione e all'esaltazione dei sapori delle pietanze cui è solitamente associato. Il rizoma possiede una evidente azione antinausea, antiemetica (contro il vomito), antipiretica e antinfiammatoria[6].
Usi medicinali
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
La forma medicinale dello zenzero è stata chiamata storicamente "zenzero della Giamaica"; è stato classificato come uno stimolante e carminativo, e usato frequentemente per dispepsia e coliche. Era spesso utilizzato anche per dissimulare il gusto di altri medicinali. Lo zenzero è sulla lista delle sostanze "genericamente considerate sicure" della FDA statunitense, anche se ha delle controindicazioni se utilizzato insieme ad alcuni medicinali. Lo zenzero è sconsigliato per le persone che soffrono di calcoli biliari perché il vegetale stimola il rilascio di bile dalla cistifellea.[7]
Lo zenzero si è dimostrato efficace nel ridurre e in parte prevenire il fenomeno di assuefazione e la crisi di astinenza da morfina.[8]
Lo zenzero può anche diminuire il dolore causato dall'artrite alle articolazioni, anche se gli studi sull'argomento sono incoerenti; inoltre può avere proprietà anticoagulanti, e abbassare il colesterolo, il che può renderlo utile per il trattamento di cardiopatie.
Cura per la diarrea
Le sostanze contenute nello zenzero sono attive contro una forma di diarrea che è uno dei principali fattori di mortalità infantile nelle nazioni in via di sviluppo. Lo zingerone è probabilmente il componente attivo contro l'enterotossigenica Escherichia coli, ovvero la diarrea nella sua forma sensibile al calore e indotta da enterotossine.[10]
Lo zenzero, in numerosi studi, si è dimostrato efficace per il trattamento della nausea causata dal mal di mare e dalla gravidanza, mentre nessun beneficio è stato evidenziato per quanto riguarda il controllo di nausea e vomito indotti da chemioterapia.
Poche evidenze si hanno sugli effetti antinausea e antivomito degli estratti etanolico e acetonico del rizoma sul cane, come rimedio agli effetti collaterali del trattamento con il farmaco antitumorale cisplatino[11].
C'è una gran varietà di usi per lo zenzero, nella medicina popolare. Il tè di zenzero è un rimedio per il raffreddore. Tre o quattro foglie di basilico sacro, insieme con un pezzetto di zenzero a stomaco vuoto, sono una cura efficace per congestione, tosse e raffreddore. Il rizoma del Zingiber officinale trova impiego contro dispepsia, costipazione, diarrea, nausea e vomito. Essendo un vasodilatatore, fu in passato utilizzato per la pressione alta, palpitazioni e cardiopatia[12]. Le sue sostanze più attive dal punto di vista chimico sono il 6-gingerolo, l'8-gingerolo e il 6-shogaol[12].
Il Ginger ale e la birra di zenzero sono stati raccomandati come "calmanti per lo stomaco" per generazioni, nelle nazioni dove tali bevande vengono prodotte, e l'acqua di zenzero era comunemente usata per evitare i crampi da calura, negli Stati Uniti. Lo zenzero è stato inoltre storicamente usato per trattare le infiammazioni, come confermato da diversi studi scientifici, anche se un caso specifico di artrite mostrò che lo zenzero non era meglio di un placebo o dell'ibuprofene.[9] La ricerca sui topi di laboratorio suggerisce che lo zenzero potrebbe essere utile per il trattamento del diabete[13][14].
Usi regionali
Nella cultura occidentale, la polvere di radice di zenzero essiccata viene messa in capsule e venduta in farmacia per uso medicinale.
In Birmania, vengono fatti bollire insieme lo zenzero e un dolcificante locale ricavato dal succo dell'albero di palma (Htan nyat), e vengono usati per prevenire l'influenza.
in Cina, una bevanda o bibita ricavata da zenzero affettato e cotto in acqua dolcificata, viene usata come medicina popolare per il raffreddore[15].
Nella Repubblica Democratica del Congo, lo zenzero viene schiacciato e mescolato con la linfa dell'albero del mango per fare il tangawisi, che è considerato una panacea.
In India, lo zenzero in pasta è applicato sulle tempie per dare sollievo dal mal di testa, ed è ingerito da chi soffre di comune raffreddore. La gente, inoltre, usa lo zenzero in aggiunta al tè, per la cucina, ecc.
In Indonesia, un tipo di zenzero conosciuto come jahe è usato come preparazione vegetale per ridurre la stanchezza, diminuire "l'aria" nel sangue, prevenire e curare i reumatismi, e controllare le cattive abitudini alimentari.
Nelle Filippine viene preparata, per colazione, una tradizionale bevanda salutare chiamata salabat, facendo bollire pezzetti di zenzero e aggiungendo zucchero; è considerata una buona cura per le infiammazioni della gola.
Negli Stati Uniti d'America, lo zenzero è usato per prevenire il mal di mare e la nausea da gravidanza. È riconosciuto come sicuro dalla FDA, ed è venduto come integratore alimentare senza particolari prescrizioni.
Reazioni allergiche
Le reazioni allergiche allo zenzero in generale producono eruzioni e, nonostante sia generalmente riconosciuto come salutare, lo zenzero può causare mal di stomaco, gonfiore, produzione di gas, specialmente se assunto sotto forma di polvere. Lo zenzero fresco, se non ben masticato, può causare blocco intestinale, e gli individui che hanno manifestato ulcere, infiammazioni all'intestino, o blocchi intestinali, potrebbero reagire malamente a quantità considerevoli di zenzero fresco[16]. Lo zenzero può anche agire negativamente su individui soggetti a calcolosi biliari; ci sono anche indicazioni che lo zenzero possa influenzare la pressione del sangue, la coagulazione e il ritmo cardiaco[16].
La menta piperita (Mentha × piperita) è una pianta erbacea perenne, stolonifera, fortemente aromatica, che appartiene alla famiglia delle Labiate (Lamiaceae), e al genere Mentha. È ibrida tra la Mentha aquatica e la Mentha spicata (chiamata anche Mentha viridis).
La pianta è originaria dell'Europa e la coltivazione è diffusa in tutto il mondo[1].
La zona del Mitcham (Inghilterra), intorno alla metà del XVIII secolo, fu interessata dalla prima coltivazione su vasta scala della menta[2].
La menta piperita è un'erba alta da qualche cm a circa 70 cm, con steli eretti e radici rizomatose che si espandono notevolmente nel suolo.
Le foglie sono opposte, semplici, lanceolate e ricoperte di una leggera peluria di colore verde brillante.
I fiori sono raccolti in cime terminali, coniche, che fioriscono a partire dal basso verso l'alto. I singoli fiori, simpetali e irregolari, sono piccoli, di colore bianco, rosa o viola; la corolla, parzialmente fusa in un tubo, si apre in due labbra, la superiore con un solo lobo, l'inferiore con 3 lobi disuguali. La fioritura avviene in piena estate e prosegue fino all'autunno.
Il frutto è una capsula che contiene da 1 a 4 semi.
Di facile coltivazione, predilige una zona poco ombrosa e umida.
La moltiplicazione avviene per talea, oppure per divisione dei cespi, a fine settembre. Alla base della pianta si formano degli "stoloni" da cui hanno origine nuovi germogli che verranno usati per rinnovare le colture. Se coltivata in zone di scarsa umidità, la pianta guadagnerà in ricchezza di essenza ma perderà in sviluppo.
La pianta della menta è facilmente attaccata da funghi parassiti (Puccinia menthae); i suoi steli e le foglie si riempiono di rigonfiamenti e puntini rossastri che poi si evolvono in macchioline nerastre, le piante infette vanno eliminate e bruciate. Viene, inoltre, attaccata dalle lumache che ne sono ghiotte.
La raccolta della menta viene fatta quando la pianta è completamente fiorita e portata nelle apposite distillerie, mentre per uso domestico viene essiccata in luogo fresco e arieggiato.
Di sapore intenso, viene raramente utilizzata in cucina dove si preferiscono altre specie di menta; della menta piperita viene perlopiù utilizzata l'essenza nella preparazione di bevande e prodotti dolciari.
Nell'aromaterapia viene consigliata come tonificante del sistema nervoso, dell'apparato digerente, del fegato, dell'intestino, per ridurre gli spasmi e la flatulenza. Si rivela un efficace espettorante, analgesico e antisettico. Si utilizza nel caso di cattiva digestione, nausea, diarrea, raffreddore, influenza, acne, mal di denti, emicrania.[3]
Viene utilizzata anche in industria farmaceutica come aromatizzante (collutori, dentifrici, tisane), è antinevralgico e decongestionante delle prime vie aeree.
Il finocchio selvatico (detto comunemente finocchietto) è un arbusto erbaceo mediterraneo che nasce spontaneo soprattutto nel centro e sud Italia nella cosiddetta macchia mediterranea. Questa pianta aromatica appartiene alla famiglia delle Ombrellifere ed è conosciuta fin dall’antichità per le sue proprietà aromatiche. Dal sapore simile all’aneto, viene utilizzato per insaporire piatti della cucina mediterranea. Ricco di proprietà fitoterapiche viene usato in tutte le sue parti nella preparazione di tisane dalle qualità digestive e carminative soprattutto per le donne.
Si tratta di una pianta ombrellifera dal nome scientifico di Foeniculum vulgare, parente povera del finocchio coltivato, ma con diverse caratteristiche botaniche.
Il finocchio selvatico è una pianta spontanea e perenne che si compone di:
un fusto ramificato alto fino a 2 m
foglie filiformi verdi simili al fieno
piccoli fiori gialli disposti ad ombrello. Da questi fiori nascono numerosi semini che con il vento infestano tutto il terreno circostante diffondendo la pianta officinale a dismisura rivelando la natura infestante di questo arbusto
i sui frutti (sono detti volgarmente semi) sono in realtà acheni verde-grigiastro
Essendo una coltura perenne, non rende necessario riseminarla: all’arrivo dell’inverno si taglia alla radice e si aspetta poi che in primavera la radice principale produca nuovi getti.
Il finocchio coltivato, invece, è una pianta annuale o biennale con radice a fittone. Raggiunge i 60–80 cm di altezza. Si consuma la grossa guaina a grumolo bianco che si sviluppa alla base.
Il finocchietto selvatico richiede poche cure e si mantiene e riproduce facilmente sia in giardino sia in un piccolo orto.
Ecco di seguito la guida pratica per coltivarlo.
Habitat. Essendo una pianta rustica, si adatta facilmente a terreni aridi e difficili, ma teme il freddo. In regioni dove il terreno gela, non si troveranno sue coltivazioni. Serve anche una buona esposizione al sole e al riparo dal troppo vento.
Terreno. Necessita di un terreno ben drenato. Si adatta facilmente anche ai terreni sabbiosi e ghiaiosi, ma è più produttivo in terreni con buona sostanza organica.
Semina e propagazione. Il momento per la semina è la primavera. I semini si posizionano ad un solo centimetro di profondità. Per propagare la pianta, basterà lasciare che il fiore vada a seme. Da un cespuglio viene prodotta una moltitudine di semi che sono poi molto semplici da far germogliare.
Irrigazione. Ha bisogno di poca acqua e cresce anche in zone aride. Se l ocoltiviamo nel giardino o nell’orto si consiglia di procedere con l’irrigazione nelle ore serali o la mattina presto e di abbondare con l’acqua soprattutto in estate.
Pacciamatura e concimazione. Per la migliore resa di questa pianta, si consiglia la pacciamatura sia l’estate, per non far seccare la terra, sia in inverno, per tenere al caldo le radici. Annualmente aggiungete della sostanza organica al terreno tramite concime a base di compost, oppure letame maturo da zappettare al suolo tra l’autunno e l’inverno.
Potatura. In inverno potate l’arbusto fino al fusto che fuoriesce dal terreno, lasciando nel terreno la radice, che darà vita l’anno successivo ad una nuova coltivazione. Per evitare che la radice si geli, coprite con tessuto non tessuto l’area.
Raccolto. Tutto il cespuglio può essere consumato, fino alla base, quindi raccoglietene ogni sua parte. In particolare in autunno le radici, in estate le foglie e i fusti da usare come erba aromatica e da fine agosto a ottobre i semi, per speziare le pietanze e realizzare tisane.
Parassiti. Teme gli afidi. Se viene attaccato potete tagliare la pianta nelle parti più infestate, usare macerato di ortica o di aglio. Teme anche le patologie fungine che prendono il via dalla radice e dal suolo, come il marciume radicale e il marciume del colletto. Per prevenire il problema fate attenzione alla troppa umidità e prevenite eventuali ristagni idrici.
Il finocchio selvatico richiede poche cure e si mantiene e riproduce facilmente sia in giardino sia in un piccolo orto.
La pianta selvatica è interamente commestibile.
I semi di finocchio, che in realtà sono i suoi frutti, vengono utilizzati per aromatizzare ragù, formaggi e biscotti, ma anche per secondi di carne bianca e pesce.
Semi e foglie macerate nell’alcool puro danno un buonissimo liquore o per arricchire vino caldo o tisane.
In fitoterapia foglie e semi di questa pianta officinale vengono utilizzati per la preparazione di estratti secche. Dai semi se ne estrae in corrente di vapore l’olio essenziale di finocchio, dalle virtù antispasmodiche, antinfiammatorie e digerenti, e curative dell’intestino e del colon.
Va usato con cautela perché i principi attivi sono contenuti a dosi molto elevate e possono avere effetti allucinogeni.
Le proprietà sono molte, tanto da essere una pianta già ampiamente utilizzata nell’antichità. Eccole proprietà che spiccano maggiormente:
antispasmodiche
digestive
carminative, favorisce l’espulsione dei gas intestinali
antisettiche, aiuta ad eliminare l’alito cattivo
Se ne consiglia l’assunzione come tisana, vediamo come si prepara e quali benefici offre.
Si realizza sia con i semi sia con le foglie fresche che con il bulbo radicale. Può aiutare il nostro benessere in varie situazioni soprattutto in caso di:
difficile digestione
gonfiore e crampi addominali
Apporta benefici soprattutto alle donne, grazie ai principi attivi dal potere digestivo e carminativo, ma anche alla presenza di sostanze chimiche simili agli estrogeni. Tra i suoi benefici e utilizzi: troviamo come:
antispasmodico naturale per stomaco e intestino e aiuta ad eliminare bruciore, flatulenza, gonfiore, crampi e diarrea. Tratta anche i principali sintomi della sindrome del colon irritabile.
per alleviare i sintomi di mestruazioni e menopausa perché contiene sostanze simili agli estrogeni ma di origine vegetale
depurativo, aiuta a migliorare la funzione dei reni, purificare il sangue e previene i calcoli.
antibatterico per il benessere del cavo orale, per alleviare le infiammazioni delle gengive e trattare il problema dell’alito cattivo
per regolare l’appetito, la bevanda viene quindi consigliata nelle diete per ridurre il peso
per ridurre la ritenzione idrica aiutando a drenare liquidi
rinforzante del sistema immunitario
per alleviare mal di gola e sintomi del raffreddore eliminando la congestione e il catarro.
Per preparare una tisana depurativa si utilizzano i frutti secchi lasciati in infuso nell’acqua calda. Esistono in commercio anche delle bustine liofilizzate già dosate.
Tisana con i semi. Pestate 1 cucchiaino di semi in un mortaio, poi metteteli in un dosatore per il tè e immergeteli in una tazza di acqua calda. Lasciate in infusione per 7-10 minuti prima di filtrare e bere.
Tisana con le foglie fresche. Lavate e tagliate le foglie fresche che vanno poi immerse in una tazza di acqua bollente, lasciatele a macerare per 15-20 minuti coperte. Filtrate prima di bere.
Tisana con il bulbo. Pulite bene il bulbo, tagliatelo a pezzi. Versate in una tazza di acqua bollente e lasciate in infusione per 15-20 minuti coperta. Filtrare prima di bere.
Anche i semi di finocchietto possono essere usati in vari modi.
Per piccoli problemi di digestione o intestinali se ne assumono 2-4 tazze al giorno dopo i pasti.
Si può utilizzare per fare impacchi per ridurre il gonfiore e a trattare eventuali infezioni oculari come la congiuntivite.. Basta immergere un batuffolo di cotone nell’infuso tiepido e lasciarlo in posa sopra le palpebre per 10 minuti.
La tisana al finocchio non è del tutto innocua, ma presenta alcune controindicazioni. Ecco alcune avvertenze:
può provocare allergia
può avere interazioni con i farmaci aumentando gli effetti del medicinale o al contrario riducendoli. Si consiglia dunque di avvisare il proprio medico.
si può dare ai neonati in caso di coliche, perché ha effetto carminativo, aiuta a distendere l’intestino ed eliminare i gas. Attenzione perchè può compromettere l’allattamento al seno perché dona un senso di pienezza.
non è consigliato per i pazienti oncologici, in particolare per i malati di tumori di tipo estrogeno-dipendente. Negli altri casi potrebbe essere utile a lenire i fastidi allo stomaco dovuti alle terapie.
non è consigliato in gravidanza.
È stato usato non solo come erba utile in cucina ma anche come rimedio naturale fin dai tempi dell’antica Grecia. Soprattutto nella cucina del Sud Italia, in Sicilia in particolare, ci sono strepitose ricette.
Il finocchio selvatico contiene 10 calorie ogni 100 grammi ed è composto per il 43% da glucidi e 56% di protidi.
In cucina si possono usare tutte le parti del finocchio.
Ingredienti:
200 gr di spaghetti
200 gr di gamberetti
1 mazzetto di finocchietto selvatico
1 cipollotto
8 pomodori Piccadilly
peperoncino
Preparazione. Pulite il finocchietto e cuocetelo in acqua salata. Scolatelo e tenete da parte l’acqua di cottura. Intanto spellate i pomodorini tagliarli a pezzetti. In una padella mettete un filo di olio e fate soffriggere a fiamma bassa il cipollotto, quindi aggiungete i pomodori a pezzetti e saltateli per un paio di minuti. Unite il finocchietto tagliato a pezzetti e un po’ di acqua di cottura. Lasciate cuocere a coperchio chiuso per 10 minuti circa. Aggiungete i gamberetti già sgusciati, mescolate e togliete subito dal fuoco. Nell’acqua di cottura dei finocchietti cuocete gli spaghetti e lasciateli al dente. Mantecate in padella con il condimento. Servite caldo.
Ingredienti:
1 kg di pollo
150 gr di pomodorini Pachino
50 gr olive taggiasche denocciolate
30 gr di capperi
finocchio selvatico
acqua
Preparazione. Lavate e asciugate i pomodorini e poi tagliateli a metà. Eliminate il picciolo dai peperoncini e affettate. Intanto in padella scaldate l’olio e aggiungete 2 spicchi di aglio in camicia ed i peperoncini. Lasciate a rosolare per un paio di minuti, quindi aggiungere il pollo. Rosolate i pezzi di pollo 2-3 minuti a fiamma media e aggiungete i pomodorini, le olive, i capperi e il finocchio selvatico. Aggiungete un po’ di acqua e lasciate a cuocere con coperchio chiuso per circa 25 minuti a fiamma bassa. Scoperchiate e aggiungete altro finocchietto e proseguire la cottura senza coperchio per 15-20 minuti a fiamma media, mescolando ogni tanto. Servite ben caldo.
Ingredienti:
1 mazzetto di finocchio selvatico
3 uova
50 gr di formaggio grattugiato
farina 00
Preparazione. Pulite il finocchietto eliminando i fili più duri e legnosi, lavatelo e lessate in acqua salata per 5 minuti circa. Scolate e tagliate a pezzettini . Aggiungete in una ciotola le uova, un pizzico di sale, il pepe nero, il formaggio grattugiato e, a gradimento, la farina (che può essere sostituita da altre farine per diventare gluten-free). Mescolate tutto fino ad ottenere un composto denso. Preparate le frittelle. In una padella versate abbondante olio d’oliva fino a ricoprirne completamente il fondo e, quando sarà caldo, immergete le piccole frittelle che dovranno essere alla fine ben dorate da entrambe le parti. Lasciate a scolare su un piatto rivestito di carta assorbente, salate leggermente e servite. Sono buone anche fredde!
Ingredienti:
1 litro di alcol alimentare a 90°
foglie fresche di finocchietto selvatico
1 manciata di semi di finocchietto
1 l di acqua
800 gr di zucchero
Preparazione. Lavate e asciugate le foglie di finocchio selvatico, possibilmente appena raccolte, e dopo averle tamponate con carta assorbente da cucina, depositatele in un contenitore di vetro a chiusura ermetica. Aggiungete l’alcool a 90° e alcuni semi essiccati, dopo averli pestati in un pestello. Chiudete ermeticamente e agitate bene, quindi conservate in un luogo chiuso e buio per circa 15 giorni, fino a quando le foglie diventeranno bianche e saranno macerate. Preparate uno sciroppo facendo bollire l’acqua con lo zucchero.
Quando diventa completamente freddo unite al macerato, che nel frattempo sarà stato filtrato con un colino. Mescolate e imbottigliate. Consumate il liquore dopo un mese, ben freddo.
Dal termine finocchietto deriva il termine ‘infinocchiare’, che vuol dire truffare, imbrogliare. Perché? Deriva dal fatto che l’aroma veniva utilizzato per coprire un vino di scarsa qualità. Si aggiungeva dunque nelle botti per renderlo di sapore più gradevole.
L'aneto (nome scientifico Anethum graveolens L.) è una pianta erbacea dai piccoli fiori appartenente alla famiglia delle Apiaceae.
Il nome del genere deriva dal greco « anethon » (Anice), il quale deriva a sua volta dall'antico egizio. Questo termine può essere tradotto con allontana i malori in riferimento alle proprietà medicamentose. L'epiteto specifico graveolens deriva dal latino « gravis » (pesante, forte) et « olens » (sentore), in quanto ha un odore forte[1].
Il binomio scientifico attualmente accettato (Anethum graveolens) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753.
Le radici sono secondarie da fittone.
Parte ipogea: la parte sotterranea è una radice fittonante.
Parte epigea: la pianta ha una aspetto caulescente con un fusto ramoso solo nella parte alta. I fusti sono eretti, un po' gracili, a sezione cilindrica con superficie striata. I fusti inoltre sono articolati in nodi e internodi.
Le foglie, a disposizione spiralata, sono del tipo pinnato-composto (3 – 4 pennatosette) con segmenti filiformi, il contorno della lamina è più o meno romboidale; i segmenti basali sono più ovati, quelli dell'ultimo ordine sono capillari. I vari segmenti si presentano con una nervatura mediana. Il colore è glauco. La larghezza delle foglie è circa di 1 mm; in particolare i segmenti più esterni hanno le seguenti dimensioni: larghezza 0,5 mm; lunghezza 4 – 20 mm.
L'infiorescenza è una tipica ombrella composta: ombrella di ombrelle; i raggi per ogni ombrella sono 20 – 30 diseguali. Non è presente né l'involucro e neppure l'involucretto (strutture tipiche delle ombrellifere). Dimensione dell'infiorescenza: 5 – 8 cm. Lunghezza dei raggi: 3 – 5 cm. Lunghezza dei pedicelli: 6 – 10 mm.
I fiori sono piccoli di colore giallognolo (giallo - verdastro). Sono ermafroditi, attinomorfi, 4-ciclici (a 4 verticilli: calice – corolla – androceo – gineceo), pentameri (i vari verticilli sono composti da 5 elementi ciascuno). Dimensione del fiore: 2 mm.
I frutti sono degli diacheni (composti da due mericarpi – ossia due acheni saldati lungo l'asse centrale) chiamati anche frutti secchi schizocarpici. Sono alati, derivati dalle ali dei due singoli frutti saldati insieme. Sono piccoli a forma ovale, appiattiti sul dorso e a coste preminenti, di colore bruno e con superficie liscia e glabra; una volta raggiunta la maturazione in agosto-settembre si scindono in due parti. Dimensione del frutto: 4 – 5 mm.
Impollinazione: l'impollinazione è garantita soprattutto da diversi insetti, come api e vespe in quanto sono piante nettarifere (impollinazione entomogama).
Riproduzione: la fecondazione avviene tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Distribuzione della pianta (Distribuzione regionale[5] – Distribuzione alpina[6]).
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Sud Ovest Asiatico. Questa specie è di origine asiatica e successivamente naturalizzatasi in Europa meridionale; quindi in Italia è da considerare specie “esotica naturalizzata”[5] o “avventizia”[7].
Distribuzione: questa specie è poco diffusa sul territorio italiano; è considerata rara, anche se in alcune zone, come ad esempio nel forlivese, è coltivata. Si trova in parte al nord (Veneto, Friuli Venezia Giulia e forse in Liguria e Trentino-Alto Adige) e in parte al centro (Marche, Abruzzo e Molise). Fuori dall'Italia (sempre nelle Alpi) si trova in Francia (dipartimento di Drôme) e in Austria (Länder del Vorarlberg, Tirolo Settentrionale, Carinzia, Stiria, Austria Inferiore). Sugli altri rilievi europei si trova nel Massiccio Centrale e nei Monti Balcani.
Habitat: l'habitat tipico sono gli incolti e orti (coltivi utilitari). Si trova anche nelle regioni meridionali della Romania (es. Calafat, Dolj). Il substrato preferito è sia calcareo sia siliceo con pH neutro, medi valori nutrizionali del terreno che deve essere secco.
Distribuzione altitudinale: l'Aneto si trova raramente al di sotto dei 600 metri, mentre sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1000 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare e in parte montano.
Il genere dell'Anethum graveolens (Anethum L.) comprende poche specie (non più di una ventina) ed è distribuito soprattutto nell'Emisfero boreale (Europa, Asia occidentale e India); la sua famiglia, delle Apiaceae Lindley, comprende 460 generi per 4.250 specie[4] (440 generi e 3.500 specie secondo altre fonti[8]).
Nelle vecchie classificazioni di questa specie la famiglia di appartenenza si chiama “Umbelliferae” (un altro nome molto ricorrente è “Ombrellifere”).
Il numero cromosomico di A. graveolens è: 2n = 22[9][10].
L'analisi filogenetica[11] fatta su diverse specie della famiglia delle “Apiaceae” ha evidenziato 12 cladi principali. La specie Anethum graveolens ha una posizione più o meno centrale nell'evoluzione della famiglia insieme con le specie di altri generi come Apium, Foeniculum e Ridolfia. Gli ultimi due generi sono caratterizzati dall'avere fiori giallastri e foglie filiformi come l'Aneto. Tutti sono privi di involucro.
Nella tabella seguente sono indicate alcune sottospecie e varietà non presenti sul territorio italiano. L'elenco può non essere completo e alcuni nominativi sono considerati da altri autori dei sinonimi della specie principale o anche di altre specie:
Sottospecie:
subsp. sowa (Roxburgh) N.F.Koren
subsp. australe N.F.Koren (1988)
Varietà:
var. anatolicum N.F.Koren (1988)
var. copiosum N.F.Koren (1988)
var. nanum N.F.Koren (1988)
var. parvifolium N.F.Koren (1988)
var. tenerifrons N.F.Koren (1988)
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:
Anethum arvense Salisb. (1796)
Anethum benevolens Lunell
Anethum sowa Roxburgh
Ferula marathrophylla W. G. Walpers
Peucedanum anethum Baillon
Peucedanum graveolens L.
Peucedanum sowa (Roxburgh) Kurz.
I fiori delle Apiaceae sono piccoli e poco significativi e quindi facilmente confondibili a uno sguardo veloce. Diverse specie sono più o meno simili a quella di questa voce; l'elenco seguente ne descrive alcune:
Pastinaca sativa L. - Pastinaca comune: i fiori sono molto simili, ma si può distinguere per le foglie i cui segmento sono ovato-rombici. È comune in tutta l'Italia.
Foeniculum vulgare Mill. - Finocchio comune: i fusti di questa pianta sono ramosi anche nella parte inferiore; le foglie sono molto simili; il profumo è dolce e intenso. È comune in tutta l'Italia.
Peucedanum officinale L. - Finocchio porcino: è una pianta più alta; le foglie hanno i segmenti di tipo falciforme. È comune al nord e al sud.
Ridolfia segetum Morris - Ridolfia delle messi: l'infiorescenza in genere ha un numero maggiore di raggi; le foglie sono molto simili; l'odore è sgradevole. Si trova (raramente) al sud e nelle isole.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Le sue proprietà hanno blandi effetti benefici per lo stomaco: digestive, aperitive, carminative (favorisce la fuoriuscita dei gas intestinali), antispasmodiche (attenua gli spasmi muscolari e rilassa anche il sistema nervoso), diuretiche (facilita il rilascio dell'urina) e anti-infiammatorie (attenua uno stato infiammatorio), calmanti e preparatorie per il sonno[2]. In particolare:
utilizzato in infusione, l'aneto favorisce la digestione e lenisce i dolori colitici[12];
i semi, in infusione, permettono di fermare il singhiozzo, il mal di testa e la tosse infantile[senza fonte];
altri utilizzi: indigestione, vomito nervoso, flatulenza, aiuta l'allattamento, gas intestinali, spasmi, crampi e anche come antisettico intestinale[13].
L'aneto è coltivato come aroma da cucina; se ne possono utilizzare le foglie fresche o i semi essiccati. Analogo al finocchio per l'aroma e le proprietà, è per questo conosciuto anche con i nomi di finocchio bastardo, finocchio fetido e finocchio rizu[senza fonte]. È una spezia molto utilizzata in Germania, nelle Isole britanniche, nell'Est Europeo, in Scandinavia, in Turchia, in Grecia (dove entra nella composizione del noto Tzatziki), in Cina nei ravioli cinesi e anche in India e in numerosi altri paesi del mondo, prevalentemente in piatti a base di pesce.
Inoltre le foglie, fresche o secche, sono impiegate per aromatizzare differenti preparazioni culinarie, generalmente le insalate, i pesci, le carni e le salse; mentre i semi servono per profumare i liquori e le confetture. Dai semi si ricava anche un olio (olio di aneto)[2].
In genere sono piante vigorose e robuste, quindi di facile coltivazione. L'aneto apprezza l'esposizione al sole pieno e i terreni ben drenati. Teme i suoli troppo umidi e le male erbe, per cui sono necessarie ripetute sarchiature per tenere libero il terreno attorno alle piante. In Inghilterra è coltivato fin dal XVI secolo.
Lavandula L. 1753 è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Lamiaceae, dall'aspetto di piccole erbacee annuali o perenni dalla tipica infiorescenza a spiga. È l'unico genere della tribù Lavanduleae
Il nome comune "lavanda" con il quale siamo abituati a chiamare queste piante (ma anche quello scientifico Lavandula) è stato recepito nella lingua italiana dal gerundio latino del verbo "lavare" (lavandus, lavanda, lavandum = "che deve essere lavato") per alludere al fatto che queste specie erano molto utilizzate nell'antichità (soprattutto nel Medioevo) per detergere il corpo.[2]
Il nome scientifico del genere è stato proposto per la prima volta dal botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (Aix-en-Provence, 5 giugno 1656 – Parigi, 28 dicembre 1708)[3] e fissato definitivamente da Linneo (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 572. 1753"[4] del 1753.[5] Il nome scientifico della tribù è stato definito dal botanico italiano, di origine franco-inglese Théodore (italianizzato in Teodoro) Caruel (Chandernagor, 27 giugno 1830 – Firenze, 4 dicembre 1898) nella pubblicazione "Flora Italiana. Firenze - 6: 53. Sep 1884." del 1884.[6][7]
Le specie di questo genere hanno un portamento arbustivo o subarbustivo o cespitoso-arbustivo oppure raramente erbaceo di breve durata. Queste piante sono fortemente aromatiche. L'indumento può essere glabro o variamente pubescente talvolta con peli stellati. La forma biologica prevalente (almeno per le specie della flora spontanea italiana) è nano-fanerofite (NP), ossia sono piante perenni e legnose, con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 30 cm e i 2 metri.[3][8][9][10][11][12][13]
Le radici sono perlopiù legnose.
I fusti in genere sono eretti e ramificati oppure semplici; non sono rigidi con cortecce bruno-rossastre oppure sempreverdi.
Le foglie lungo il caule sono disposte in modo opposto; spesso si trovano fascicolate alla base della pianta. Le foglie sono colorate di verde cinereo. La lamina può essere intera lineare, lanceolata o pennatifida/pennatosetta.
Le infiorescenze sono terminali con i fiori raggruppati in sottili spighe tirsoidi alla fine di lunghi scapi. Nell'infiorescenza sono presenti delle brattee persistenti a volte anche colorate e disposte in modo opposto o a spirale; mentre le bratteole sono minute o assenti. Il numero dei fiori disposti a verticilli varia da 2 a 10 oppure uno solo ma in questo caso senza bratteole. I fiori sono sessili o pedicellati.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla - androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice sono a 5 parti).
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 nucule glabre e lisce. Le nucule sono provviste di areole ed hanno delle varie forme, dimensioni e colori. La deiscenza è basale o laterale.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri (impollinazione entomogama).[9][15]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria). I semi hanno una appendice oleosa (elaisomi, sostanze ricche di grassi, proteine e zuccheri) che attrae le formiche durante i loro spostamenti alla ricerca di cibo.[16]
Le specie del genere Lavandula sono diffuse nel bacino del Mediterraneo (anche nell'areale della Macaronesia), nell'Africa del Nord e nell'Asia dalla Penisola Arabica fino all'India.[8] L'habitat è quello tipico da temperato a subtropicale.
La famiglia di appartenenza del genere (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[11], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie; il genere Lavandula è descritto nella tribù Lavanduleae (di cui è l'unico genere) che appartiene alla sottofamiglia Nepetoideae.[1]
In passato questo genere era incluso nella sottotribù Lavandulinae Endl., 1838 a sua volta descritta nella tribù Ocimae Dumort., 1829. Il genere composto da una quarantina di specie viene suddiviso in sette sezioni.[8] Di queste solamente tre (con 5 specie) interessano la flora spontanea italiana (vedere il paragrafo "Specie spontanee italiane"). All'interno della sottofamiglia, in base a ricerche filogenetiche di tipo molecolare, il genere risulta in posizione basale e quindi "gruppo fratello" del resto della sottofamiglia.[18]
Il numero cromosomico delle specie di questo genere è 2n = 18, 24, 30, 36, 42 e 54.[8]
In Europa e nell'areale del Mediterraneo sono presenti le seguenti specie:[19]
Lavandula angustifolia Mill., 1768 - Distribuzione: Italia (lavanda vera), Francia e Spagna.
Lavandula antineae Maire, 1929 - Distribuzione: Algeria
Lavandula atriplicifolia Benth., 1848 - Distribuzione: Egitto
Lavandula bramwellii Upson & S. Andrews, 2004 - Distribuzione: Isole Canarie
Lavandula buchii Webb & Berthel., 1844 - Distribuzione: Isole Canarie
Lavandula canariensis Mill., 1768 - Distribuzione: Isole Canarie
Lavandula coronopifolia Poir., 1789 - Distribuzione: dal Magreb fino all'Israele
Lavandula dentata L., 1753 - Italia (lavanda dentata), Magreb, Spagna e Israele
Lavandula lanata Boiss., 1838 - Distribuzione: Spagna
Lavandula latifolia Medik., 1784 - Distribuzione: Italia (lavanda latifoglia), Francia e Spagna.
Lavandula mairei Humbert, 1927 - Distribuzione: Marocco
Lavandula maroccana Murb., 1922 - Distribuzione: Marocco
Lavandula minutolii Bolle, 1860 - Distribuzione: Isole Canarie
Lavandula multifida L., 1753 - Distribuzione: Italia (lavanda dell'Egitto), Penisola Iberica, Mareb e Egitto
Lavandula pedunculata (Mill.) Cav., 1801 - Distribuzione: Marocco, Spagna e Anatolia
Lavandula pinnata Lundmark, 1780 - Distribuzione: Isole Canarie e Madera
Lavandula pubescens Decne., 1834 - Distribuzione: Egitto e Sinai
Lavandula rejdalii Upson & Jury, 2002 - Distribuzione: Marocco
Lavandula saharica Upson & Jury, 2004 - Distribuzione: Algeria
Lavandula stoechas L., 1753 - Distribuzione: Italia (lavanda selvatica), Europa occidentale, Magreb, Grecia, Anatolia e Asia mediterranea
Lavandula tenuisecta Coss. ex Ball, 1878 - Distribuzione: Marocco
Lavandula viridis L'Hér., 1789 - Distribuzione: Penisola Iberica
Il genere Lavandula comprende le seguenti specie:[20]
Lavandula angustifolia Mill., 1768
Lavandula antineae Maire, 1929
Lavandula aristibracteata A.G.Mill., 1985
Lavandula atriplicifolia Benth., 1848
Lavandula bipinnata (Roth) Kuntze, 1891
Lavandula bramwellii Upson & S.Andrews, 2004
Lavandula buchii Webb & Berthel., 1844
Lavandula canariensis (L.) Mill., 1768
Lavandula citriodora A.G.Mill., 1985
Lavandula coronopifolia Poir., 1789
Lavandula dentata L., 1753
Lavandula dhofarensis A.G.Mill., 1985
Lavandula erythraeae (Chiov.) Cufod., 1969
Lavandula galgalloensis A.G.Mill., 1985
Lavandula gibsonii J.Graham, 1839
Lavandula hasikensis A.G.Mill., 1985
Lavandula lanata Boiss., 1838
Lavandula latifolia Medik., 1784
Lavandula macra Baker, 1894
Lavandula mairei Humbert, 1927
Lavandula maroccana Murb., 1922
Lavandula minutolii Bolle, 1860
Lavandula multifida L., 1753
Lavandula nimmoi Benth., 1848
Lavandula pedunculata (Mill.) Cav., 1801
Lavandula pinnata Lundmark, 1780
Lavandula pubescens Decne., 1834
Lavandula qishnensis Upson & S.Andrews, 2004
Lavandula rejdalii Upson & Jury, 2002
Lavandula rotundifolia Benth., 1833
Lavandula saharica Upson & Jury, 204
Lavandula samhanensis Upson & S.Andrews, 2004
Lavandula setifera T.Anderson, 1860
Lavandula somaliensis Chaytor, 1937
Lavandula stoechas L., 1753
Lavandula sublepidota Rech.f., 1979
Lavandula subnuda Benth., 1848
Lavandula tenuisecta Coss. ex Ball, 1878
Lavandula viridis L'Hér., 1789
L'entità di questa voce ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:[8][19]
Chaetostachys Benth.
Fabricia Adans., 1763
Isinia Rech. f., 1952
Lavendula L.
Sabaudia Buscal. & Muschl., 1913
Stoechas Mill., 1754
Styphonia Medik., 1791
La lavanda è conosciuta fin dai tempi più antichi per le sue proprietà antiemetiche, antisettiche, analgesiche, battericide, vasodilatatorie, antinevralgiche, per i dolori muscolari ed è considerata un blando sedativo. L'olio essenziale di lavanda è l'olio eterico più utilizzato in profumeria.
In aromaterapia, viene utilizzata come antidepressivo, tranquillizzante, equilibrante del sistema nervoso, come decongestionante contro i raffreddori e l'influenza. Inoltre viene ritenuta efficace per abbassare la pressione arteriosa, per ridurre i problemi digestivi ed è miscelata con altre sostanza omeopatiche per curare il mal di schiena e il mal d'orecchie.[21]
Qualche goccia di olio essenziale, aggiunta nell'acqua del bagno, aiuta a rilassare. Per uso cosmetico, se utilizzata nell'ultimo risciacquo, quando si lavano i capelli, oltre che dare un profumo delizioso, aiuta a combattere i capelli grassi.
I fiori di lavanda, contrariamente a tante altre specie, conservano a lungo il loro aroma anche se secchi. È infatti consuetudine mettere dei sacchetti di tela nei cassetti per profumare la biancheria. La pianta, che era già nota agli antichi, veniva usata anche per la preparazione di talismani e portafortuna, legati a pratiche magiche ed esoteriche.
La Valeriana officinalis (L., 1753) è una pianta a fiore (angiosperma), appartenente alla famiglia delle Valerianacee. Viene utilizzata soprattutto in fitoterapia e in farmacia, come calmante naturale.
È la più nota del genere Valeriana, costituito da più di 150 specie, maggiormente divulgate nelle regioni boscose europee e, in parte, anche in Nord America e nelle regioni tropicali sudamericane. Non è da confondersi con la sua parente, la Valeriana insalata, quest'ultima utilizzata soprattutto nell'alimentazione con semplice insalata.
Il nome botanico si deduce dal latino valere, ovvero crescere in modo rigoroso, sano, oppure anche star bene, in merito alle sue proprietà calmanti.
Pianta erbacea e perenne, con breve rizoma stolonifero, fusto eretto e solcato in superficie da scanalature, radici fibrose emananti uno sgradevole e penetrante odore; in condizioni ottimali può raggiungere altezze di circa 150 cm.
Le foglie sono opposte e prive di stipole, con picciolo presente solo nelle inferiori (le superiori sono sessili); tutte si presentano composte e imparipennate, costituite da 11-19 foglioline a lamina intera o dentata e di un bel colore verde intenso.
I fiori, leggermente profumati, si trovano riuniti a formare un particolare tipo di infiorescenza detta corimbo; sono ermafroditi, con calice ridotto e corolla a 5 petali, tubolare e dal colore rosa chiaro; l'androceo è composto da 3 stami, il gineceo da un pistillo tri-carpellare con ovario infero e uniloculare. La fioritura avviene in aprile-giugno e l'impollinazione è entomogama (tramite Insetti).
Il frutto è un achenio striato provvisto di setole piumose derivanti dalla modificazione che i piccoli denti del calice subiscono con la maturazione. La loro presenza ne aiuta la dispersione per mezzo del vento.
Habitat
La V.officinalis predilige gli ambienti freschi e umidi (mesofita) e cresce ai margini dei boschi e nei prati ombrosi fino a una altitudine di 1.400 metri.
Proprietà
Tutte le specie di valeriana contengono:
olii essenziali (esteri dell'acido valerianico, acido valerenico, cariofillene, terpinolene, valerenolo, valerenale e composti terpenici noti col nome di iridoidi);
alcuni alcaloidi (valerina, actinidina, catinina e alfa-pirrilchetone);
e dei flavonoidi (linarina, 6-metilapigenina ed esperidina).
Si usa la radice della pianta che però ha un odore sgradevole. Possiede proprietà sedative e calmanti, favorendo il sonno.
Il meccanismo d'azione dei suoi costituenti è abbastanza ben conosciuto. Si deve agli esteri degli acidi valerianici e agli iridoidi l'inibire l'enzima animale acido gamma-aminobutirrico transaminasi, preposto alla degradazione metabolica del neurotrasmettitore gamma-aminobutirrato (GABA). Questo mediatore chimico è notoriamente associato a fenomeni neuronali di tipo inibitorio ed è responsabile anche dell'induzione del sonno nell'uomo.
Studi più recenti hanno evidenziato che anche alcuni degli alcaloidi possono avere una influenza più o meno diretta sul metabolismo del GABA, ma il loro meccanismo è ancora poco chiaro. Infine, pare che alcuni dei terpeni e dei flavonoidi possano fare da agonisti con i recettori dell'adenosina (quelli inibiti dalla caffeina) ed essere in parte responsabili dell'azione ipno-inducente, spasmolitica a livello intestinale e riducente sulla pressione arteriosa.
Il pepe (Piper nigrum L.) è una pianta della famiglia delle Piperacee[1], coltivata per i suoi frutti, che vengono poi fatti essiccare per essere usati come spezie. Lo stesso frutto, attraverso procedimenti di lavorazione diversi, è utilizzato per produrre il pepe bianco, il pepe nero e il pepe verde.
La pianta è nativa dell'India del sud ed è coltivata in modo estensivo sia in India che nei paesi tropicali. Il frutto maturo si presenta come una bacca color rosso scuro, ha un diametro di circa cinque millimetri e contiene un solo seme.
Il pepe è una delle spezie più comuni nella cucina europea e i suoi derivati sono conosciuti e apprezzati sin dall'antichità sia per il loro sapore che per il loro impiego nella medicina ayurvedica. Il suo gusto piccante è dato dalla piperina.
Descrizione
La pianta del pepe è una liana legnosa perenne che raggiunge i quattro metri di altezza. Le sue foglie, alterne, coriacee, ovali, sono lunghe dai cinque a dieci centimetri e larghe da tre a sei. I fiori sono piccoli e sbocciano su un asse pendulo, lungo circa otto centimetri, inserito alla base delle foglie. Le infiorescenze portano fiori sessili, a perianzio nullo, che possono essere unisessuali od ermafroditi. Il frutto è una bacca, contenente un solo seme, di circa 5 mm di diametro, prima verde, poi rossa, a maturità. L'asse della spiga raggiunge la lunghezza di sette/quindici centimetri quando i frutti sono maturi.
L'albero del pepe cresce in terreni né troppo secchi né allagati, quindi in terreni umidi e ben concimati con materiali organici.
Le piante si propagano per talea (si usano i rami vegetativi e non quelli fruttiferi perché radicano male in quanto meno ricchi di carboidrati) di circa 50 centimetri che si aggrappa agli alberi vicini o che si arrampica a sporgenze dei muri. Favoriscono questa azione gli alberi dal tronco grinzoso. Le piante non devono essere molto folte ma tali da favorire l'ombra e permettere la ventilazione. Le radici vanno coperte di strame ed i germogli vanno potati due volte l'anno. Su suoli secchi le piante devono essere irrigate ogni due giorni, per i primi tre anni, nella stagione calda. Le piante producono frutti dal quarto/quinto anno e continuano a fruttificare per circa sette anni.
Le varietà vengono scelte per la qualità del frutto e per la loro longevità. Un singolo ramo produce in media dai 20 ai 30 germogli. La raccolta inizia appena una o due drupe alla base del peduncolo diventano rosse e prima che i frutti arrivino a maturazione. I frutti che restano sulla pianta cadono da soli e sono perduti per il raccolto. Le drupe raccolte vengono messe al sole per l'essiccazione e quindi vengono sgranate per estrarre i frutti.
Sapori ed aromi
Il pepe riceve la sua piccantezza quasi completamente dalla piperina, una sostanza che si trova sia nella polpa che nel seme.
La piperina raffinata è piccante circa l'uno per cento rispetto alla capsaicina contenuta nei peperoncini. La polpa, lasciata nel pepe nero, contiene anche importanti aromi quali: terpeni, pinene, sabinene, limonene, caryophyllene e linalolo che danno sapore di limone, di legno e di fiori. Questi profumi sono molto ridotti nel pepe bianco in quanto completamente privo della polpa. Il pepe bianco può contenere altri sapori (compreso odore di stantìo) a causa della lunga fermentazione.
Il pepe perde sapore ed aroma per evaporazione, pertanto la conservazione sotto vuoto aiuta a mantenere più a lungo l'originale fragranza della spezia. Il pepe perde sapore quando viene esposto alla luce, a causa della trasformazione della piperina.
Il pepe macinato perde subito il suo aroma e pertanto molte ricette di cucina raccomandano di macinare il pepe al momento. Macina pepe manuali vengono usati per macinare le spezie sia a tavola che in cucina. Macinini si trovavano nelle cucine europee sin dal XIV secolo ma il mortaio ed il pestello usati in precedenza rimasero in uso ancora per secoli.
Commercio mondiale
Il pepe rappresenta, in valore monetario, il 20% del commercio di spezie nel mondo (2002). Il prezzo del pepe è volatile e fluttua molto di anno in anno. Ad esempio nel 1998 il valore del pepe rappresentò il 39% di tutte le spezie commercializzate. Il mercato mondiale del pepe è a Kochi. Il Vietnam è recentemente diventato il maggior produttore mondiale di pepe. I maggiori produttori mondiali sono: Vietnam (85.000 tonn.), Indonesia (67.000 tonn.), India (65.000 tonn.), Brasile (35.000 tonn.), Malesia (22.000 tonn.), Sri Lanka (12.750 tonn.), Thailandia e Cina. Inoltre anche la Cambogia è stata un importante produttore storico di pepe. Celebre era infatti quello proveniente dalla località di Kampot. Il Vietnam domina l'esportazione mondiale vendendo sul mercato quasi totalmente la sua produzione.
Il pepe rosa è una spezia ricavata dal frutto di Shinus molle, un albero dell'America Latina. Dall’azione diuretica e stomachica, è utile contro mal di denti e i dolori mestruali.
Il pepe rosa in realtà non è davvero pepe.
A differenza infatti di pepe nero, bianco e verde, che sono i frutti (differentemente lavorati) del Piper nigrum, il pepe rosa è il frutto di una albero sempreverde chiamato Shinus molle, originario dell'America Latina.
Il frutto che nasce dallo Shinus molle ha il caratteristico colore rosa e somiglia molto nella forma ad una bacca di pepe, per questo è chiamato comunemente pepe rosa o falso pepe pur avendo un sapore completamente diverso e molto più delicato e dolce.
Il pepe rosa favorisce la digestione poiché è stomachico, tonico e stimolante.
Per il suo potere antisettico è stato usato dalla medicina popolare per curare ferite e infezioni.
Ha inoltre proprietà diuretiche e sembra efficace nel trattamento del mal di denti, dei reumatismi e per i dolori mestruali.
3 bacche di pepe rosa contengono 1 sola kcal.
Inoltre questi frutti contengono anche resine, tannino, glucosio e delle gommo-resine che hanno una azione purgativa e antigottosa.
Il pepe rosa è piuttosto delicato e il suo aroma è dolce e speziato con delle note di limone e fragola.
Perfetto per insaporire piatti a base di pesce, ma soprattutto carpacci di pesce spada, tonno o salmone.
È un ottimo componente di salse a base di yogurt, burro, mascarpone o frutta.
Il suo colore così ricco e brillante rende questo pepe un'ottima spezia che regala eleganza e vivacità a piatti, perfetto per preparare originali risotti o dessert particolari.
Il pepe rosa è, assieme al pepe nero, bianco e verde, una delle spezie che compongono la famosa miscela creola.
In Ecuador i grani di pepe rosa sono molto diffusi come condimento per le pietanze ma anche per insaporire liquori e aceto, in Cile aromatizzano il vino, mentre in Messico è utilizzato nella preparazione del pulque, una bevanda alcolica molto antica considerata sacra.
L'anice stellato (Illicium verum Hook.f.) è una specie di pianta angiosperma della famiglia Schisandraceae originaria dell'Asia orientale.
È un albero tropicale sempreverde, alto tra i 5-10 metri. Le foglie sono intere, lanceolate e all'ascella si formano fiori con perianzio bianco-giallastro formato da 15-20 petali disposti a spirale. Inoltre il fiore presenta numerosi stami e 8-12 carpelli che danno altrettanti follicoli uniseminati, disposti come i raggi di una stella. Il frutto è un follicolo legnoso formato da 8-12 lobi disposti a stella (da cui il nome), su un peduncolo detto columella. Ogni lobo porta un seme lucido. La droga è costituita dai follicoli, si tratta di un olio essenziale il cui principio attivo contiene principalmente anetolo.
Usi
Viene utilizzato in Europa industrialmente per la produzione di diversi liquori fra cui sambuca, pastis e sassolino ed amatorialmente per la produzione del prodotto tipico marchigiano e laziale mistrà.
Ha proprietà eupeptiche, stomachiche, carminative ed antidiarroiche.
Viene utilizzata per estrarne l'acido shikimico usato per produrre farmaci importanti come l'antivirale Oseltamivir.
L'asparago selvatico (Asparagus acutifolius L.) è una piccola pianta sempreverde cespugliosa, perenne, della famiglia delle Asparagacee[2], diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. I nomi comuni "asparago spinoso" e "asparago pungente" derivano dalle caratteristiche spine poste alla base dell'apparato fogliare; è pianta caratteristica della macchia mediterranea.
Da non confondersi con il luppolo selvatico o con i germogli di pungitopo (entrambi chiamati anche "asparagi selvatici"), i cui germogli vengono ancora oggi raccolti a primavera nelle campagne e nei luoghi incolti per farne ottimi risotti, frittate e minestre.
Germogli di asparago selvatico, spesso usati in cucina
I germogli dal sapore amarognolo sono spesso utilizzati in cucina per fare frittate o sughi; molto apprezzato il risotto con asparagi.
Distribuzione e habitat
Da 0 a 1300 metri, comune in prossimità dei boschi e in luoghi incolti.
Gli asparagi germogliano in primavera e sono molto più piccoli, ma anche più saporiti dei comuni asparagi coltivati; vengono raccolti allo stadio di getti immaturi (germogli), si possono cogliere più volte.
Occorre fare attenzione nella raccolta staccando accuratamente il getto dalla base, senza strapparlo o danneggiare il cespo sotterraneo; queste precauzioni permettono che il cespo produca ancora getti.
In stagione di primavera avanzata occorre sospendere la raccolta e permettere la normale vegetazione dello stelo, la produzione delle foglie spinose, la fioritura (e la fruttificazione). La vegetazione completa consente l'accumulo di sostanze di riserva nel cespo sotterraneo che alimentano la vegetazione dell'anno successivo; questa cura permette la sopravvivenze della pianta per molti anni.
L'asparago selvatico può essere coltivato in orto mediante impianto dei cespi o per seme; l'impianto opportunamente condotto (concimazioni, diserbo, potatura di rinnovo degli steli, interruzione della raccolta a fine primavera) ha una durata poliennale. La raccolta dal coltivato evita il danneggiamento della flora spontanea.
La melissa vera (nome scientifico Melissa officinalis L., 1753) è una piccola pianta perenne erbacea aromatica dai delicati fiori labiati appartenente alla famiglia delle Lamiacee
Il nome generico (Melissa, dal greco antico: μέλισσα, mélissa, «ape») secondo la mitologia fa riferimento ad una ninfa che avrebbe inventato l'arte dell'apicoltura.[3][4].[5] Joseph Pitton de Tournefort, un botanico francese, è stato il primo a nominare queste piante.[6] L'epiteto specifico (officinalis) indica una pianta curativa o supposta medicinale.[7][8]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707–1778) nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 592. 1753"[9] del 1753.[10]
Descrizione
L'altezza di queste piante varia da (3) 5 a 8 dm. La forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap), ossia in generale sono piante erbacee, a ciclo biologico perenne, con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve e sono dotate di un asse fiorale eretto e spesso privo di foglie. Tutte le parti di queste piante hanno un gradevole odore di limone e bergamotto.
Le radici sono secondarie da rizoma. Il rizoma normalmente è orizzontale.
La parte aerea del fusto è eretta e ampiamente ramosa. Gli spigoli dei rami sono ricoperti da setole patenti lunghe 6 – 13 mm. Ai nodi le setole formano dei ciuffi biancastri. Il resto della pianta è più o meno glabro, soprattutto alla base. I fusti sono a sezione quadrangolare (a causa della presenza di fasci di collenchima posti nei quattro vertici).
La disposizione delle foglie lungo il fusto è opposta a 2 a 2 e ogni coppia è disposta a 90° rispetto a quella sottostante. Sono picciolate con lamina a forma ovata e base ottusa (cuneata nella zona dell'infiorescenza). Le foglie inferiori sono più cuoriformi. I margini sono provvisti di 6 - 14 denti arrotondati per lato. La superficie è sparsamente pelosa. Il colore delle foglie è verde intenso nella parte superiore e verde chiaro nella parte inferiore. La consistenza delle foglie è lievemente membranosa, sono inoltre cosparse di cellule oleifere; il loro aspetto ricorda molto la pianta dell'ortica e il profumo è simile a quello del limone. Dimensione della lamina della foglie: larghezza 3 – 4 cm; lunghezza 4 – 5 cm. Lunghezza del picciolo: 2 – 3 cm.
Le infiorescenze è formata da verticillastri più o meno distanziati composti da 2 - 14 fiori peduncolati all'ascella di foglie normali. I fiori, a volte unilaterali, sono sottesi da bratteole a forma lanceolata e contorno intero. I fiori hanno un portamento nutante. Dimensione della lamina delle bratteole: larghezza 1,5 – 2 mm; lunghezza 3 – 7 mm. Lunghezza del peduncolo: 2 – 4 mm.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetraciclici (con i quattro verticilli fondamentali delle Angiosperme: calice– corolla – androceo – gineceo) e pentameri (ogni verticillo ha 5 elementi). Lunghezza dei fiori: 8 – 15 mm.
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X, K (5), [C (2+3), A 2+2] G (2), supero, 4 nucule[12][14]
Calice: il calice è tubuloso-campanulato (gamosepalo - i sepali sono concresciuti) e zigomorfo (le fauci terminano in modo bilabiato). Il calice è percorso da 13 nervature longitudinali. Alla fruttificazione il dente/lobo centrale del labbro superiore è ben sviluppato. Lunghezza del tubo: 4 mm. Lunghezza dei denti: 6 – 9 mm.
Corolla: la corolla è bilabiata (gamopetala con struttura 2/3 - corolla zigomorfa): il labbro superiore è formato da due lobi lievemente ripiegati all'insù e ravvicinati; il labbro inferiore, più grande di quello superiore, è formato da tre lobi (quello centrale è più grande di tutti ed è concavo). All'interno il tubo corollino è privo dell'anello di peli caratteristico delle labiate. Il colore è giallastro; dopo la fecondazione diventa bianco o rosa.
Androceo: gli stami sono quattro (un quinto stame è atrofizzato) e tutti fertili e con filamenti paralleli (non convergenti); sono inoltre inclusi. Gli stami sono didinami: i due posteriori sono più lunghi di quelli anteriori e sono avvicinati alla parte superiore della corolla. I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero (o semi-infero) formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[18]. Lo stilo inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più o meno lungo come gli stami. Lo stigma è bifido con lobi subuguali. Il nettario è un disco (a 4 lobi) alla base e intorno all'ovario più sviluppato anteriormente e ricco di nettare.
Fioritura: da (maggio) giugno a agosto.
Il frutto è un tetrachenio (composto da quattro nucule) racchiuso nel calice persistente. La forma è più o meno ovoidale. I semi sono sprovvisti di endosperma.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri, raramente lepidotteri (impollinazione entomogama).[12][19] I fiori sono apprezzati specialmente dalle api.
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Ovest Asiatico divenuto Euri-Mediterraneo.
Distribuzione: in Italia è una specie che da comune è diventata rara, ed è comunque presente, in modo discontinuo, su tutto il territorio. Nelle Alpi è ovunque presente. Fuori dall'Italia, sempre nelle Alpi, questa specie si trova in Francia (tutti i dipartimenti alpini), in Svizzera (cantoni Ticino e Grigioni), in Austria (Länder del Vorarlberg, Tirolo Settentrionale, Salisburgo, Carinzia e Austria Inferiore) e in Slovenia. Sugli altri rilievi europei collegati alle Alpi si trova nei Vosgi, Massiccio del Giura, Massiccio Centrale, Pirenei e Carpazi.[21]
Habitat: l'habitat tipico per questa pianta sono gli incolti, i ruderi e le coltivazioni inselvatichite. Spesso è una pianta coltivata per le sue proprietà aromatiche. Il substrato preferito è calcareo ma anche siliceo con pH neutro, alti valori nutrizionali del terreno che deve essere mediamente umido.[21]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1000/2000 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare e in parte quello montano (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Areale alpino
Dal punto di vista fitosociologico alpino la specie di questa scheda appartiene alla seguente comunità vegetale:[21]
Formazione: delle comunità perenni nitrofile
Classe: Artemisietea vulgaris
Ordine: Onopordetalia acanthii
Alleanza: Arction lappae
Areale italiano
Per l'areale completo italiano la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[22]
Macrotipologia: arbustivi
Classe: Rhamno catharticae-Prunetea spinosae
Ordine: Pyro spinosae-Rubetalia ulmifolii
Alleanza: Arundo plinii-Rubion ulmifolii
Descrizione: l'alleanza Arundo plinii-Rubion ulmifolii è relativa alle comunità dominate dalla specie Rubus ulmifolius e si sviluppa su terreni a varia ritenzione idrica. Si tratta di comunità con gradienti ecologici diversi in riferimento alla condizione idrica dei substrati. La distribuzione di questa alleanza è relativa all'Italia centro-meridionale e in generale all'area mediterranea europea.[23]
Specie presenti nell'associazione: Clematis vitalba, Arundo donax, Spartium junceum, Asparagus acutifolius, Arundo plinii, Arundo donax, Phragmites australis, Rubus ulmifolius, Urtica dioica, Rubia peregrina.
Altre alleanze per questa specie sono:[22]
Platanion orientalis.
La famiglia di appartenenza della specie (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[14], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Melissa è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Salviinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[11][24] Nelle classificazioni più vecchie la famiglia Lamiaceae viene chiamata Labiatae.
Il numero cromosomico di M. officinalis è: 2n = 32 e 64.[25]
Non c'è unanimità nella definizione delle varie sottospecie di Melissa officinalis tra i vari Autori. Pignatti nella "Flora d'Italia" descrive una Melissa romana Miller che in altre checklist[26] è considerata sinonimo di M. officinalis e in altre ancora[27] sinonimo della sottospecie Melissa officinalis subsp. altissima (Sm.) Arcang., 1894. Di seguito vengono descritte brevemente queste varietà.[2][28]
Sottospecie altissima
Nome scientifico: Melissa officinalis subsp. altissima (Sm.) Arcang., 1894.
Nome comune: melissa selvatica.
Descrizione: queste piante sono alte da 4 a 15 dm; l'odore è sgradevole; la villosità è più densa; la base delle foglie è troncata o cordata; il colore delle foglie nella parte abassiale è grigio-tomentoso; il dente del labbro superiore del calice è molto ridotto.
Tipo corologico: Steno-Mediterraneo.
Distribuzione: in Italia è una sottospecie comune e si trova dal Centro verso il Sud. Nel resto dell'Europa si trova nella penisola Iberica, Balcanica e anche nella Transcaucasia e nell'Anatolia.[28]
Habitat: l'habitat tipico sono gli incolti ombrosi e le siepi.
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 800 m s.l.m..
Note: i caratteri variabili sono probabilmente dovuti ad un caso di poliploidia (2n = 64) che però attraverso le varie generazioni si sono stabilizzati.[13]
Sottospecie inodora
Nome scientifico: Melissa officinalis subsp. inodora Bornm., 1914.
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:[2]
Faucibarba officinalis (L.) Dulac
Melissa altissima Sm.
Melissa bicornis Klokov
Melissa cordifolia Pers.
Melissa corsica Benth.
Melissa foliosa Opiz ex Rchb
Melissa graveolens Host
Melissa hirsuta Hornem.
Melissa inodora Bornm.
Melissa occidentalis Raf. ex Benth.
Melissa officinalis subsp. altissima (Sm.) Arcang.
Melissa officinalis var. altissima (Sm.) K.Koch
Melissa officinalis var. cordifolia (Pers.) K.Koch
Melissa officinalis var. foliosa Briq.
Melissa officinalis var. graveolens (Host) Nyman
Melissa officinalis var. hirsuta K.Koch
Melissa officinalis var. romana (Mill.) Woodv.
Melissa officinalis var. villosa Benth.
Melissa romana Mill.
Melissa taurica Benth.
Mutelia officinalis (L.) Gren. ex Mutel
Thymus melissa E.H.L.Krause
Melissa officinalis è nota per le sue proprietà medicamentose ed è molto apprezzata anche come erba aromatica e per la preparazione di infusi dissetanti dal sapore di agrumi (che le è valso il nome di "cedronella"). Le parti usate sono soprattutto le foglie, ma anche i fiori e gli steli, raccolti subito prima o durante la fioritura. È stata largamente utilizzata nei secoli scorsi, in preparazioni specialistiche quali, per esempio, lo spirito di melissa[29], detto "acqua antiisterica" perché particolarmente utile per calmare il nervosismo nelle giovani donne[30]. "Secondo la teoria delle signature la Melissa è pianta di Venere per eccellenza, cioè pianta medicinale per i disturbi femminili. Infatti, conosciuta fin dal Medioevo per le sue proprietà antiisteriche e sedative, è capace di curare disturbi gastrici e nausee da ipereccitabilità, amenorree e dismenoree di origine psichica"[31]. In fitoterapia, della melissa sono utilizzati soprattutto le foglie ma anche i fiori e gli steli. Negli estratti della pianta sono rintracciabili: triterpeni, acido caffeico, acido rosmarinico e vari flavonoidi (luteolina, quercetina, apigenina, campferolo). È inoltre ottenibile un olio essenziale contenente citrale, citronellale e cariofillene. Attualmente la Melissa officinalis viene impiegata come sedativo negli stati d'ansia con somatizzazioni viscerali ed irrequietezza ed anche in patologie dispeptiche gastroenteriche grazie alla sua azione spasmolitica e nella cura dell'emicrania.[32]
Viene controindicata per i soggetti affetti da glaucoma e che soffrono di ipotiroidismo. Non sono noti studi clinici controllati in donne in gravidanza e allattamento in conformità con la prassi medica generale, il prodotto non deve essere utilizzato senza prima aver sentito il parere del medico. (Guida Bibliografica ai più noti fitoterapici, Aboca 1999/2010)
Nell'uso popolare, la melissa viene apprezzata come erba aromatica: le sue foglie fresche sono usate per insaporire molti cibi.[16] La conservazione della melissa viene fatta tagliando la pianta quando è ancora in fiore: si legano i rami in piccoli fasci e si appendono ad essiccare in un locale fresco e asciutto. Questo genere di pianta viene coltivata anche industrialmente: infatti, le foglie e i fiori freschi vengono raccolti due volte l'anno e distillati; il prodotto ottenuto è l'essenza di melissa che viene usata oltre che in profumeria anche nella preparazione di distillati come l'arquebuse, o di liquori come l'assenzio, la chartreuse o L'Ugo - Liquore di Melissa.
In cucina è utilizzata come erba aromatica e officinale per insaporire diversi piatti, è apprezzato l'odore di limone che emana strofinando le foglie. La melissa è una buona pianta mellifera, ma non si riesce a produrre miele per la presenza solo sporadica della pianta, sia coltivata sia selvatica.
La melissa si può facilmente coltivare in giardino con un qualsiasi tipo di terreno, i risultati saranno migliori se il terreno sarà fresco e leggero. Una zona parzialmente ombrosa è preferita. La semina avviene in primavera direttamente all'aperto. Si possono anche moltiplicare per divisione dei cespi interrando le piantine ad una distanza di circa 30 cm in modo che abbiano spazio sufficiente per crescere e infoltirsi; in questo periodo le piantine andranno annaffiate abbondantemente; solo quando le piantine avranno attecchito bene le annaffiature andranno ridotte in modo da non compromettere il contenuto aromatico delle piante[33].
La melissa in altre lingue è chiamata nei seguenti modi:
(DE) Zitronen-Melisse
(FR) Mélisse officinale
(EN) Lemon Balm
L'erba cipollina (Allium schoenoprasum L., 1753) è una pianta aromatica della famiglia Amaryllidaceae (sottofamiglia Allioideae)
L'etimologia del termine generico (allium) è molto antica. Le piante dell'aglio erano ampiamente conosciute sia dai Romani che dai Greci. Sembra comunque che il termine abbia una derivazione celtica e significhi “bruciante” in riferimento al forte odore acre e pungente della pianta.[3] Quello specifico deriva dall'unione di due parole greche: schoinos (oppure skhoinos) che significa “canne intrecciate o corde fatte di giunco” con riferimento alle foglie che somigliano a giunchi,[4] mentre l'altra parola prasòn significa “porro”.
Il binomio scientifico accettato (Allium schoenoprasum) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753.
Descrizione delle parti della pianta
L'aspetto di queste piante è erbaceo perenne con una altezza variabile tra 15 – 50 cm. La forma biologica di queste piante è geofita bulbosa (G bulb), ossia sono piante che portano le gemme in posizione sotterranea. Durante la stagione avversa non presentano organi aerei e le gemme si trovano in organi sotterranei chiamati bulbi, organo di riserva che annualmente produce nuovi fusti, foglie e fiori. Queste piante sono molto aromatiche: odorano di cipolla per la presenza di composti solforati. Sono inoltre completamente glabre.
Le radici sono fascicolate da bulbo e uscenti dalla parte terminale dello stesso.
Parte ipogea: la parte sotterranea del fusto è bulbacea. Il colore dei bulbi è biancastro-bruno chiaro e sono tunicati (la tunica è intera). I bulbi possono essere numerosi (aggregati), piccoli a forma ovale allungata; in realtà inizialmente il bulbo è uno solo, poi si divide in bulbilli più piccoli sempre all'interno della tunica che rimane persistente. Dimensione del bulbo: larghezza 12 – 15 mm; lunghezza 15 – 20 mm.
Parte epigea: i fusti dipartono dai bulbi; sono cavi (fistolosi), a sezione tonda e di un verde smeraldo brillante. Hanno una struttura elastica in lunghezza, ma "scrocchiano" sotto le dita se schiacciati e sprigionano il sottile aroma di cipolla che ha dato loro il nome comune. Alla base lo scapo è avvolto da guaine fino a 1/3. Diametro del fusto: 2 – 5 mm.
Le foglie
Le foglie sono solamente del tipo radicale a disposizione spiralata. La forma è allungata e molto stretta: sono dei sottili aghiformi e formano un cespo diritto. Le foglie sono cave (fistolose). Se le foglie vengono recise alla base si riformano velocemente formando una vegetazione a tappeto. Diametro delle foglie: 2 – 4 mm. Lunghezza: come lo scapo.
Infiorescenza protetta da una brattea cartacea
In cima agli steli si trovano le infiorescenze definite a forma di ombrelle globose più o meno emisferiche, composte da 10 – 30 piccoli fiori rosa-lilla a forma di giglio. I fiori sono sorretti da brevi pedicelli (più piccoli dei fiori stessi). Alla base dell'infiorescenza è presente una spata scariosa (brattea cartacea) bi-tri-valve la cui funzione è quella di proteggere l'infiorescenza. Il colore dei fiori può essere anche (ma raramente) bianco. Dimensioni dell'infiorescenza: diametro 3 cm; altezza 7 – 13 cm. Lunghezza dei pedicelli: 5 mm.
I fiori
I fiori sono ermafroditi, attinomorfi, 5-ciclici (2 verticilli di tepali, 2 verticilli di stami e 1 verticillo del gineceo) e trimeri (ogni verticillo è composto da tre elementi).
Formula fiorale: per questa pianta viene indicata la seguente formula fiorale:
* P 3+3, A 3+3, G 3 (supero), capsula[5]
Perigonio: il perigonio è formato da 6 tepali uguali, liberi e acuti nella parte superiore (sono connati alla base). Questi tepali sono petaloidi, ossia svolgono la funzione vessillifera tipica dei petali. Dimensione dei tepali: larghezza 2 mm; lunghezza 8 – 11 mm.
Androceo: gli stami sono 3+3 con filamenti allargati in vicinanza degli stami, ma riuniti alla base. La parte terminale è semplice. Questi stami sono inclusi nel perigonio.
Gineceo: lo stilo è semplice e derivato da tre carpelli concresciuti con ovario supero a placentazione assile.
Fioritura: da giugno ad agosto.
I semi
Il frutto è del tipo a capsula. La deiscenza avviene lungo le tre nervature principali del frutto (capsula loculicida). La forma è vagamente triangolare con tre logge in ognuna delle quali sono contenuti uno-due semi.
La riproduzione può avvenire sia tramite impollinazione dei fiori, ad opera di insetti come api e vespe (impollinazione entomogama), ma anche per divisione del piede (propagazione tipicamente orticola).
Distribuzione della pianta (Distribuzione regionale[6] – Distribuzione alpina)[7]
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Circumboreale/Eurosiberiano, ma anche Nord Americano.
Distribuzione: la distribuzione geografica di questa specie è molto ampia comprendendo l'Eurasia settentrionale e l'America settentrionale. In Italia è considerata rara e si trova nelle Alpi e negli Appennini settentrionali. Fuori dall'Italia (sempre nelle Alpi) è comune in tutte le regioni dalla Francia alla Slovenia. Sugli altri rilievi europei è presente nei Vosgi, Massiccio del Giura, Massiccio Centrale, Pirenei, Monti Balcani, Carpazi.
Habitat: l'erba cipollina cresce facilmente sui prati umidi e torbosi (vicino a sorgenti e ruscelli) con terreni ricchi ma leggeri; ma anche nei ripari sotto roccia, ghiaioni, pietraie e praterie rase subalpine e alpine. Il substrato preferito è sia calcareo che siliceo con pH neutro e terreno a medio contenuto nutrizionale che deve essere umido.
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare da 600 fino a 2600 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: montano, subalpino e alpino.
Dal punto di vista fitosociologico la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[8]
Formazione: delle comunità delle paludi e delle sorgenti
Classe: Scheuchzerio-Caricetea fuscae
La classificazione tradizionale pone il genere Allium all'interno della famiglia delle Liliaceae, ordine delle Liliales. La classificazione APG II ne aveva proposto la collocazione nella famiglia a sé stante delle Alliaceae,[9] mentre la Classificazione APG III ha declassato tale raggruppamento al rango di sottofamiglia (Allioideae) della famiglia Amaryllidaceae.[10][11]
Essendo il genere molto vasto da un punto di vista tassonomico viene suddiviso in più sezioni. Una suddivisione proposta dal botanico fiorentino Adriano Fiori, soprattutto relativamente alle specie spontanee italiane, comprende sei sezioni. La pianta di questa voce è compresa nella sezione SCHOENOPRASUM le cui specie sono caratterizzate dall'avere le foglie fistolose.
Il numero cromosomico di A. schoenoprasum è: 2n = 16.[12][13]
Una ricerca filogenetica specifica[14] è stata fatta esaminando sequenze di DNA di otto specie della sezione Schoenoprasum (e diverse sottospecie di Allium schoenoprasum: var. buhseanum Regel - subsp. gredese Rivas Mateos - var. alvarese Hylander - var. pumilum Bunge - var. alpinum DC. - var. sibricum L. - var. laurentianum Fernald) tenendo conto della distribuzione geografica dei campioni esaminati. Dallo studio risulta che la sezione Schoenoprasum è monofiletica. All'interno del gruppo i vari cladi si sono rivelati strettamente collegati alla distribuzione geografica. È emersa una chiara distinzione tra un sottogruppo europeo ed uno asiatico. All'interno del gruppo europeo (che tra l'altro s'è dimostrato monofiletico) l'area scandinava si distingue nettamente da quella dell'Europa centrale e del sud. Si è inoltre dimostrato che le forme più primitive di Allium schoenoprasum sono asiatiche dalle quali gli altri tipi (quelli europei) più volte ripetutamente si sono evoluti a seguito di condizioni ambientali via via diverse.
Questa specie è estremamente polimorfa; i caratteri più instabili sono la dimensione della pianta, la forma dei tepali e il loro colore. Nella tabella seguente sono indicate alcune sottospecie, varietà e forme. L'elenco può non essere completo e alcuni nominativi sono considerati da altri autori dei sinonimi della specie principale o anche di altre specie; in particolare i nominativi contrassegnati da “[Kew]” sono riconosciuti come validi dalla World Checklist dei Kew Gardens:
Sottospecie:
subsp. alpinum (DC.) Nyman (1882)
subsp. euschoenoprasum (L.) Syme (1869)
subsp. gredense (Rivas Goday) Rivas Mart. (1986) [Kew]
subsp. latiorifolium (Pau) Rivas Mart. (1986) [Kew]
subsp. lusitanicum (Lam.) K. Richt. (1890)
subsp. maximowiczii (Regel) Bondarenko ex Korovina (1978)
subsp. orosiae J.M.Monts. (1984)
subsp. pumilum (Bunge) K. Richt. (1890)
subsp. riparium (Celak.) Hayek (1867)
subsp. schoenoprasum [Kew]
subsp. schoenoprasum var. alpinum DC.
subsp. schoenoprasum var. duriminium (Cout.) Cout.
subsp. schoenoprasum var. sibiricum (L.) Garcke
subsp. sibiricum (L.) Hartm.
Varietà:
var. alpinum DC. (1815)
var. alvarense Hyl. (1953)
var. broteroi (Kunth) Nyman (1882)
var. buhseanum (Regel) Boiss. (1882)
var. caespitans Ohwi
var. duriminium (Cout.) Cout. (1913)
var. foliosum Regel
var. gredense Rivas Martinez
var. idzuense (H. Hara) H. Hara (1980)
var. latiorifolium Pau (1912)
var. laurentianum Fernald (1926)
var. lusitanicum (Link ex Regel) Nyman (1882)
var. orientale Regel
var. pumilum Bunge (1836)
var. scaberrimum Regel (1875) (lungo i margini delle foglie e delle guaine sono presenti dei piccoli dentelli)
var. schoenoprasoides (Regel) Nyman (1882)
var. shibutsuense Kitam.
var. sibiricum (L.) Garcke (1849)
var. vulgare Alef. (1866)
var. yezomonticola H. Hara (1938)
Forma:
fo. albiflorum Rousseau (1950)
fo. laurentianum
fo. leucanthum H. Hara (1938)
fo. purpuratum Konta (2005)
Descrizione sottospecie italiane[modifica | modifica wikitesto]
Pignatti[15] indica due sottospecie: subsp. sibiricum (L.) Hartm. e subsp. schoenoprasum. In Italia è presente la prima (la presente descrizione di questa voce è relativa a questa sottospecie), mentre la seconda si trova soprattutto nelle pianure dell'Europa Settentrionale. Attualmente c'è la tendenza a considerare queste varie forme prive di importanza tassonomica e quindi tutte derivate dal taxon di base: Allium schoenoprasum.
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. La tabella seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:
Allium acutum Sprengel (1813)
Allium alpinum Hegetschw (1840)
Allium buhseanum Regel (1875)
Allium coloratum Dulac (1867)
Allium foliosum Clarion ex DC. (1802)
Allium gredense Rivas Mateos (1924)
Allium montanum Schrank, non F.W.Schmidt (1785)
Allium palustre Pourret ex Lag. (1847)
Allium purpurascens Losa
Allium raddeanum Regel (1875)
Allium reticulatum Wallr. (1822)
Allium riparium Opiz (1824)
Allium scorodoprasum L. subsp. scorodoprasum var. alvarense HYL.
Allium sibiricum (L.) Hartman
Allium tenuifolium Salisb. (1796)
Ascalonicum schoenoprasum (L.) P.Renault (1804)
Cepa schoenoprasa (L.) Moench (1794)
Porrum schoenoprasum (L.) Schur (1866)
Porrum sibiricum (L.) Schur (1866)
Schoenissa schoenoprasa (L.) Salisb. (1866)
Schoenoprasum vulgare Fourr. (1869)
Qui di seguito sono descritte brevemente alcune specie simili all'Allium schoenoprasum con infiorescenze rosato-violette (le altre specie sono generalmente bianche):
Allium moschatum L.: le foglie sono più strette di tipo filiforme; l'infiorescenza è più lassa con tepali più corti. È raro e si trova nell'Italia centrale.
Allium lineare L.: l'infiorescenza è globosa (quasi sferica). È raro e si trova solo in Piemonte/Valle d'Aosta e Trentino-Alto Adige.
Allium roseum L.: le foglie sono piane. Può essere confusa solamente nell'Italia centrale (areale comune alle due specie).
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
È nota e usata in erboristeria come antiscorbutico (combatte lo scorbuto con la presenza di vitamine), antisettica (proprietà di impedire o rallentare lo sviluppo dei microbi), callifugo, ipoglicemizzanti (diminuisce il glucosio nel sangue), cardiotonico (regola la frequenza cardiaca), cicatrizzante (accelera la guarigione di ferite) e vermifugo (elimina i vermi intestinali).
L'erba cipollina si usa quasi esclusivamente fresca poiché ha un aroma lieve che si perde facilmente. Per proporla al meglio i cuochi la tengono come pianta e se ne servono solo al momento dell'effettivo utilizzo, sciacquandola velocemente e sminuzzandola con le forbici. Guarnisce e sottolinea il gusto di crêpes, salse, burri aromatizzati, insalate e zuppe, ma può accompagnare anche il pesce. Grazie alla sua elasticità viene anche usata per legare piccole preparazioni a forma di fagotto, come le crêpes, o mazzetti di verdure lessate e accompagnate da salse, come gli asparagi, o involtini di bresaola alle erbette. È tipica della cucina della Francia, ma è diffusa anche in Italia. Le foglie verdi sono ottime in minestre, in intingoli e insalate.
Le foglie contengono le seguenti sostanze:[16]
Sostanze varie: proteine, grassi, carboidrati e fibra.
Minerali: calcio, fosforo, ferro, magnesio, sodio, potassio e zinco.
Vitamine: Vitamina A, Tiamina (B1), Riboflavina (B2), Niacina e Vitamina C.
L'erba cipollina può essere seminata in un substrato leggero e ben drenato. I ciuffetti d'erba cipollina, dopo che si saranno ben sviluppati, dovranno essere trapiantati nel terreno a distanza di 30–40 cm; oppure possono essere messi in vasetti in posizione soleggiata. Si può propagare anche per divisione del piede.
Documentazioni certe attestano la coltivazione di questa erba già nell'Europa del XVI secolo.
La cipolla (Allium cepa L.) è una pianta bulbosa della famiglia Amaryllidaceae (sottofamiglia Allioideae).[1][2][3]
Vive sotto terra ed è formata da foglie modificate, che presentano un'epidermide (protezione). È una pianta erbacea biennale il cui ciclo di vita, in coltivazione, viene interrotto a un anno al fine di destinarla al consumo. Ha radici superficiali, con foglie che si ingrossano nella porzione basale dando la parte commestibile. Forma un lungo stelo fiorale che porta un'infiorescenza a ombrello con fiori di colore bianco-giallastro. Il frutto è una capsula.
Il suo utilizzo principale è quello di alimento e condimento, ma è anche adoperata a scopo terapeutico per le proprietà attribuitele dalla scienza e dalle tradizioni della medicina popolare
Storia
Sembra che i bulbi di cipolla e di altre piante della famiglia siano stati usati come cibo già nell'antichità. Negli insediamenti cananei dell'età del bronzo, accanto a semi di fico e noccioli di dattero risalenti al 5000 a.C., sono stati ritrovati resti di cipolle, ma non è chiaro se esse fossero effettivamente coltivate a quell'epoca. Le testimonianze archeologiche e letterarie suggeriscono che la coltivazione potrebbe aver avuto inizio circa duemila anni dopo, in Egitto, insieme all'aglio e al porro. Sembra che le cipolle e i ravanelli facessero parte della dieta degli operai che costruirono le piramidi.
La cipolla si propaga, si trasporta e si immagazzina facilmente. Gli antichi egizi ne fecero oggetto di culto, associando la sua forma sferica e i suoi anelli concentrici alla vita eterna. L'uso delle cipolle nelle sepolture è dimostrato dai resti di bulbi rinvenuti nelle orbite di Ramesse II. Gli egizi credevano che il forte aroma delle cipolle potesse ridonare il respiro ai morti.
Nell'antica Grecia gli atleti mangiavano cipolle in grandi quantità, poiché si credeva che esse alleggerissero il sangue. I gladiatori romani si strofinavano il corpo con cipolle per rassodare i muscoli. Nel medioevo le cipolle avevano grande importanza come cibo, tanto che erano usate per pagare gli affitti e come doni. I medici prescrivevano le cipolle per alleviare il mal di capo, per curare i morsi di serpente e la perdita dei capelli. La cipolla fu introdotta in America centrale da Cristoforo Colombo nel suo viaggio del 1493 a Haiti ma nel nord era già conosciuta, Chicago significa "Campo di Cipolle" in lingua Algonchina. Nel XVI secolo le cipolle erano inoltre prescritte come cura per l'infertilità, non solo nelle donne, ma anche negli animali domestici.
Caratteristiche chimiche
Le cipolle sono ricche di vitamine e sali minerali. Il caratteristico odore dei bulbi tagliati è dovuto all'abbondanza di solfossidi. Affettare le cipolle fa lacrimare gli occhi perché, a seguito del taglio, un precursore presente nel citoplasma e derivato dall'amminoacido cisteina, l'1-propenile L-cisteina solfossido o 1-PRENSCO (il principale solfossido della cipolla), si combina con la allinasi, un enzima rilasciato dal vacuolo; la combinazione di queste due sostanze catalizza una reazione chimica che porta alla produzione di ammoniaca, acido piruvico e acidi solfenici tra cui l'acido 1-propenilsolfenico. L'acido 1-propenilsolfenico, se catturato da un secondo enzima noto come Fattore-Lacrimogeno Sintasi, produce syn-propanetial-S-ossido, un gas volatile e idrosolubile, che rappresenta a tutti gli effetti il fattore lacrimogeno poiché, entrando in contatto con il film lacrimale contenente acqua e presente fisiologicamente sul bulbo oculare, si trasforma in acido solforico, un composto notoriamente irritante.
Il contatto con l'acido solforico provoca una immediata reazione di difesa da parte dell'occhio, che consiste appunto nella produzione di lacrime; tuttavia la maggiore quantità di secreto acquoso sull'occhio non fa che trasformare una maggior quantità di propilenossido in acido solforico, in una reazione a catena.
È proprio per ridurre la quantità di fattore lacrimogeno liberato che una delle soluzioni adottate per tagliare le cipolle senza lacrimare consiste nel farlo sotto l'acqua corrente: il composto è molto idrosolubile per cui se ne diminuisce la volatilità.
Esistono molte varietà di cipolle, che prendono in genere il nome dalla zona di coltivazione, dalla forma, dal colore, dalle dimensioni del bulbo, dalla precocità o, più in generale, dal colore delle tuniche esterne (cioè la buccia che ricopre il globo interno). Tale buccia può essere bianca, giallo-dorata o rossa.
cipolla rossa della Valle Alifana (Alife) - Cepa Allipharum, Campania
cipolla borettana, Emilia-Romagna
cipolla di Brunate: piccola, bianca, ottima per la preparazione di sottaceti (zona del Lago di Como).
cipolla dorata di Voghera
cipolla paglina di Castrofilippo, Sicilia[6]
cipolla di Isernia
Le cipolle vengono coltivate per i loro fusti verdi, detti scaglioni, e per i loro bulbi. Hanno bisogno di un terreno ricco e umido ma mai troppo inzuppato di acqua. Diversi tipi di cipolla richiedono diverse condizioni climatiche e diverse ore di sole ogni giorno. La coltivazione da seme avviene piantando i semi direttamente nel terreno a 1 cm di profondità, lasciando circa 10 cm di spazio da pianta a pianta. Una volta avvenuta la semina bisogna attendere dai 90 ai 120 giorni prima del raccolto. Nei climi miti la cipolla può essere coltivata anche in inverno, altrimenti la cipolla è una pianta tipicamente primaverile.
La cipolla è considerata una coltura da rinnovo che apre la rotazione. Essendo molto sensibile al fenomeno della stanchezza del terreno è indispensabile attuare una rotazione almeno triennale, facendola seguire a cereali, colture prative, carota, radicchio o insalata. Se si sono verificati problemi di malattie fungine (fusariosi in particolare) o nematodi, sarebbe opportuno non far ritornare la cipolla sullo stesso terreno prima di 7-8 anni. Per evitare cali di produzione e peggioramenti qualitativi è consigliabile evitare di farla seguire a cavolo, patata o barbabietola da zucchero in quanto caratterizzate da problemi fitosanitari simili a quelli della cipolla.
La Cipolla da seme è una pianta molto resistente al freddo, anche se soffre di una forte escursione climatica. I terreni più adatti alla coltivazione della cipolla sono quei tipi di terreni arieggiati e poco compatti, con un pH tra 6 e 7, nei terreni argillosi e asfittici invece trova non poche difficoltà. Teme i ristagni idrici che sono la causa di marciume e malattie. Per la coltivazione è fondamentale effettuare delle buone lavorazioni in pre-semina, non occorre una lavorazione profonda se il terreno è ben drenato, ma è essenziale che la terra non sia compatta.
La corretta preparazione del terreno è un'operazione molto importante per la cipolla, in quanto si devono evitare condizioni che favoriscano ristagni idrici con conseguente sviluppo di marciumi dei bulbi. Tale fenomeno è grave in particolare nei terreni argillosi, nei quali un cattivo sgrondo delle acque favorisce gli attacchi da parte di Fusarium spp. In genere viene eseguita un'aratura a 30–40 cm di profondità, con eventuale interramento di residui colturali. L'aratura può essere anche più superficiale se abbinata a una ripuntatura a 50–60 cm; a questo scopo l'aratro ripuntatore garantisce una buona preparazione del terreno con un risparmio di tempo e di combustibile. L'interramento di letame deve evvenire solo se questo è ben maturo, per evitare di favorire lo sviluppo di malattie fungine. Successivamente viene effettuato l'amminutamento del terreno con fresatura o erpicatura a inizio agosto per le colture a ciclo estivo-autunnale o a fine inverno per le colture a ciclo primaverile-estivo. Le lavorazioni di affinamento sono particolarmente importanti se la coltura è seminata, mentre se si impiegano bulbi o se si effettua il trapianto è tollerabile una certa zollosità. Prima della semina può essere utile una rullatura per livellare il terreno, ripetuta dopo la semina stessa. Per piccole superfici è sufficiente una vangatura manuale o una zappettatura con interramento di letame ben maturo o compost in ragione di 20–30 kg per 10 m². Anche in questo caso è opportuno non eccedere con l'apporto di sostanza organica, ricordando che la cipolla si avvantaggia degli apporti organici effettuati alla coltura precedente.
L'epoca di impianto dipende dalla destinazione d'uso del prodotto. Per le cipolle da consumo fresco la semina va da metà agosto a metà settembre oppure a febbraio; il trapianto viene invece eseguito da settembre a dicembre. Le cipolle da serbo sono seminate da gennaio ad aprile con raccolta estivo-autunnale, mentre le cipolline sono seminate direttamente in campo da febbraio ad aprile. Per gli orti famigliari, nei quali la produzione più frequente sono i bulbi da ingrossare, l'impianto avviene da fine inverno a inizio primavera.
Le modalità di impianto della cipolla possono essere distinte in:
semina diretta
trapianto di piantine
messa a dimora di bulbi
Generalmente su grandi superfici viene preferita la semina diretta, mentre per piccole estensioni e orti famigliari si preferisce il trapianto o l'impianto di bulbi. La semina è d'obbligo per le cipolline da industria data l'elevata densità d'impianto.
Semina
La semina delle cipolle da seme parte da una precedente raccolta della cipolla vera e propria che effettuano altri produttori di cipolle. Una volta raccolte le cipolle, vengono consegnate ai produttori di cipolla da seme che si occuperanno della coltivazione. La messa a dimora delle cipolle è un'operazione molto semplice che viene effettuata tra settembre e ottobre. Per la semina della cipolla si può utilizzare o una piantatrice con degli operatori oppure una seminatrice automatica che andrà a mettere il bulbo a dimora automaticamente. Per quanto riguarda il sesto d’impianto le cipolle si coltivano in file distanti 40–50 cm tra loro in modo da consentire il passaggio della trattrice durante le varie operazioni post-semina nelle file e nell'interfila invece bisogna lasciare 20 cm tra una pianta e l'altra in modo da consentire lo sviluppo della cipolla nello spazio, inoltre è necessario lasciare delle strade che consentano di poter effettuare i trattamenti fitosanitari anche quando la pianta sia abbastanza sviluppata (non c’è una distanza specifica da lasciare fra una strada e l'altra, l'importante e ricoprile la totalità di cipolle a destra e sinistra delle strade in base alle dimensioni degli attrezzi che si hanno a disposizione). Una volta effettuata la semina se il bulbo non è stato ricoperto per intero dalla terra è opportuno un primo intervento manuale di rincanzatura sulle fila.
La semina della cipolla viene effettuata con seminatrici pneumatiche di precisione, impiegando seme nudo oppure avvolto con un rivestimento (seme confettato) che garantisce una miglior uniformità e precisione di semina. Un'ulteriore alternativa è l'utilizzo di seme posto su nastri di materiale biodegradabile, che si decompone a contatto con il terreno. Questo sistema permette un risparmio di semente e una riduzione delle successive operazioni di diradamento.
Per valutare la distanza di semina opportuna è necessario considerare la destinazione finale del prodotto. Per le cipolle a bulbo grande le file devono essere distanti 15–20 cm, mentre per le cipolle a bulbo piccolo sono sufficienti 10 cm; tale distanza può scendere a 5–10 cm per le cipolline da sottaceti, per le quali la semina può essere effettuata anche a spaglio. La distanza tra i semi sulla fila varia da 2–3 cm per la cipolline a 15 cm per le cipolle con bulbo più grande. La quantità di seme impiegato varierà quindi da 5–6 kg per le cultivar a bulbo più grosso fino a 60–100 kg per le cipolline. Il seme va posto a una profondità di 2–3 cm, eseguendo una rullatura per permettere al terreno di aderire adeguatamente al seme.
Trapianto
Il trapianto viene effettuato a mano per piccole superfici o a macchina. Vengono impiegate piantine allevate in contenitore, ricordando che occorrono 40-80 giorni (a seconda delle condizioni ambientali) per ottenere piantine di 3-5 foglie pronte per il trapianto. Tali piantine vengono interrate per 4–5 cm, con eventuale spuntatura delle radici; la spuntatura delle foglie provoca invece effetti negativi sulla produzione. Prima del trapianto le piantine possono essere immerse per 12 ore in una soluzione contenente 20 ppm di acido indolacetico o naftalenacetico, al fine di provocare il precoce ingrossamento del bulbo.
Messa a dimora di bulbi
Se si opta per la messa a dimora dei bulbi o dei bulbilli formatisi sull'infiorescenza, si ottiene un accorciamento del ciclo colturale di circa 20 giorni e una forma più perfetta dei bulbi. È importante rispettare l'esatta posizione nel disporre i bulbi sul terreno in particolare per quelle di pezzatura grossa; rispetto alla posizione idonea (con il girello che poggia sul terreno) si riscontrano perdite di produzione dal 25% (se disposti orizzontalmente) fino all'80% (se disposti capovolti).
I bulbi possono essere impiegati per l'impianto di cipolle da consumarsi fresche. Vengono interrati a inizio autunno in file distanti 35–40 cm e a circa 15 cm sulle file. Dopo 60-120 giorni si effettua la raccolta; le cipolle fresche ottenute con questa tecnica sono distinguibili da quelle provenienti da seme in quanto non hanno sezione circolare, bensì una forma schiacciata nella parte in cui sono a contatto con altri cipollotti.
La cipolla è una pianta poco esigente per quanto riguarda le sostanze nutritive, bisogna sapere infatti che non ama i terreni troppo ricchi di sostanza nutritiva oppure concimati troppo in prossimità della semina. È bene quindi evitare concimazioni prima della messa a dimora della cipolla, ma bensì qualche mese prima della semina.
Una corretta dotazione di elementi nutritivi nel terreno favorisce non solo la produttività ma anche la qualità e la conservabilità del prodotto. In genere la concimazione organica è sconsigliata perché può pregiudicare la conservabilità dei bulbi e favorire attacchi da parte di nematodi e patogeni fungini. Per le coltivazioni familiari e a livello hobbistico è opportuno che il letame o il compost apportati siano ben maturi. A livello professionale la concimazione organica va fatta sulla coltura che precede la cipolla nella rotazione, apportando 40-50 t/hm² di letame.
I maggiori fabbisogni di azoto si hanno nel periodo che va dalla germinazione del seme alla bulbificazione. I fabbisogni per una produzione media di 30 t/hm² si aggirano sui 100–150 kg/hm² di azoto, che viene distribuito in parte prima del trapianto e in parte in copertura. Anche se la somministrazione di azoto provoca notevoli incrementi di produzione, apporti tardivi compromettono la conservabilità dei bulbi. Una carenza di azoto causa riduzione della taglia delle piante, foglie di consistenza rigida e di colore verde chiaro con apici gialli. L'azoto va distribuito in parte in presemina e parte in copertura con 2-3 interventi da 30–50 kg/hm², il primo dei quali quando la pianta ha raggiunto un'altezza di 4–5 cm.
Le richieste di fosforo e di potassio sono maggiori nei 20 giorni che precedono la raccolta. La concimazione fosfopotassica viene effettuata prima del trapianto dei bulbi con 150–200 kg/hm² di fosforo e 100-150 di potassio. Tali concimi vanno distribuiti in parte alla preparazione del terreno e in parte in presemina insieme all'azoto. Sono da prediligere concimi contenenti calcio come il nitrato di calcio e contenenti zolfo come il solfato di potassio e il perfosfato minerale semplice. La presenza di un'elevata quantità di zolfo nel terreno contribuisce ad aumentare le sostanze che conferiscono il classico sapore di cipolla e che sono responsabili del potere lacrimatorio.
La sarchiatura è un'operazione molto importante per il controllo delle erbe infestanti. Dal momento che la cipolla non ricopre molto il terreno circostante è molto facile che entri in competizione con delle erbe infestanti. Una buona manutenzione quindi non può che portare un notevole vantaggio per quanto riguarda l'ottimo sviluppo della pianta. Per ottenere un ottimo risultato alla raccolta è necessario andare in campo a zappettare le erbacce almeno 3 volte durante l'intero ciclo. La sarchiatura è un'operazione molto vantaggiosa perché ha come risultato finale la rimozione delle erbacce in mezzo alle fila e l'ossigenazione del terreno effettuando una minima lavorazione, anche se per rimuovere le erbacce in prossimità della pianta sarà necessario comunque l'intervento di un operatore. Per effettuare la sarchiatura però bisogna introdurre una trattrice con sarchiatrice all'interno delle fila e ciò significa che quest’operazione può essere svolta meccanicamente fino a quando lo sviluppo della cipolla non è eccessivo, ma una volta che le cipolle raggiungono delle dimensioni abbastanza importanti non si potrà più andare con la trattrice ma bisognerà lavorare completamente a mano.
Il ridotto sviluppo dell'apparato radicale rende la cipolla molto sensibile agli stress idrici. Data l'elevata suscettibilità ai marciumi radicali, però, gli apporti idrici devono essere frequenti e di limitata entità. Durante le prime settimane di sviluppo sono consigliate irrigazioni di 100–200 m³/hm², per poi passare a 300–400 m³/hm² durante la fase di ingrossamento del bulbo. In totale, per l'intero ciclo vegetativo sono necessari 800–2500 m³/hm² di acqua, a seconda dell'ambiente e del clima. In genere gli apporti idrici vengono effettuati per aspersione, sospendendoli 25-30 giorni prima della raccolta oppure quando il 20-25% dell'apparato fogliare si è adagiato spontaneamente sul terreno. Ulteriori apporti infatti, potrebbero danneggiare la conservabilità dei bulbi.
Bisogna fare molta attenzione alla coltivazione della cipolla perché possono esserci delle malattie che possono distruggere la pianta. La malattia più frequente è la peronospora, si tratta di una patologia fungina che si riconosce osservando le foglie diventare grigiastre, poi ingiallire e infine seccarsi. Un'altra malattia è la botrite della cipolla che attacca i tessuti fogliari giovani della cipolla, causando infezioni sull'intera superficie delle foglia. Le foglie colpite presentano delle piccole macchie chiare e le piante colpite muoiono precocemente. Le radici della pianta possono invece soffrire di marciume radicale dovuto a un ristagno idrico, è necessario quindi prestare molta attenzione nel dosare le irrigazioni.
La raccolta delle cipolle avviene nella fine di luglio, il tipo di raccolta è manuale e viene effettuata da numerosi operatori che manualmente muniti di coltelli o cesoie da giardinaggio vanno ad asportare la parte culminante della cipolla dove è situata l'infiorescenza lasciando però circa 15 cm di stelo. L'infiorescenza viene riposta in dei tini di plastica che una volta pieni verranno svuotati in un rimorchio collegato alla trattrice; quest’ultima porterà le infiorescenze nel luogo precedentemente preparato con della paglia messa a terra e dei teli, dove le infiorescenze resteranno ad essiccare per almeno 15 giorni.
Le infiorescenze una volta portate sui teli dalla trattrice necessitano di essere stese sugli stessi per essiccare. Affinché l'essiccazione avvenga nel modo ottimale e non marciscano le infiorescenze bisogna rivoltare le cipolle sul telo almeno due volte al giorno, in modo da consentire un'ottima essiccazione anche per le cipolle che si trovano sotto. Quando le cipolle sono essiccate totalmente può avvenire la mietitrebbiatura che avviene con un'apposita mietitrebbia a postazione fissa munita di coclea con tramoggia. L'operatore andrà ad inserire le infiorescenze essiccate nella tramoggia che porterà il tutto alla mietitrebbiatrice che andrà a separare i semi dagli scarti. I semi verranno riposti in dei grandi sacchi da 5-6 quintali e gli scarti verranno espulsi dalla mietitrebbia, questi ultimi volendo possono essere interrati.
Impiego in cucina
La cipolla è uno degli aromi più usati nella cucina di tutti i paesi. Il suo gusto particolare dà alle preparazioni quel sapore che esalta gli altri ingredienti usati nei vari piatti.
Sarebbe molto lungo elencare tutte le preparazioni che ne fanno uso, ma si possono ricordare, a titolo di esempio, la peperonata, la frittata di cipolle e fra i piatti internazionali la soupe à l'oignon (la zuppa di cipolle francese). Molto diffusa, soprattutto negli Stati Uniti d'America, è la cipolla fritta (onion rings, nella cucina americana), in cui la cipolla viene sottoposta a frittura dopo essere stata immersa in pastella. Solitamente le cipolle sono tagliate a rondelle formando dei cerchi che gli conferiscono il nome comune, in inglese, di onion rings (anelli di cipolla). Essi sono spesso e volentieri serviti nei fast food in vaschette di carta, come delle comuni patatine fritte. Una preparazione tipica della cucina palermitana, in cui la cipolla interviene come condimento, è la pizza detta sfincione.
Cruda, la cipolla viene usata nelle insalate, specie con il pomodoro o i fagioli, ed è molto usata soprattutto in estate.
È uno dei tre odori principali, insieme a sedano e carota, usati per il soffritto e il brodo di verdure.
In Catalogna è uso gustare i germogli di cipolla nella calzotata.
Anche nel campo della medicina la cipolla riveste la sua importanza per le sue proprietà diuretiche. È inoltre utilizzata come principio attivo di alcune creme cicatrizzanti; è in grado di diminuire notevolmente lo spessore delle cicatrici provocate dalle smagliature. La cipolla contiene composti solforati (doti antibiotiche) e cromo, che contribuiscono a contenere la glicemia e i livelli ematici di colesterolo e trigliceridi, a prevenire l'aterosclerosi e le malattie cardiache. Contiene inoltre numerosi flavonoidi, tra cui la quercetina, che sembrano avere effetti anticancerogeni, e composti dotati di proprietà antinfiammatorie.
Proprio i flavonodi estratti dalla cipolla (in particolare la varietà rossa) sembrano avere un ruolo nell'inibizione dell'enzima fosfodiesterasi, responsabile della detumescenza del pene[8]. Inoltre, ci sono prove che l'assunzione di cipolla aumenti i livelli di testosterone nell'uomo[9]. Questo effetto, e non il contenuto di ossido di diazoto, potrebbe essere alla base dei supposti effetti afrodisiaci della cipolla
L'aglio (Allium sativum L.) è una pianta bulbosa della famiglia Amaryllidaceae (sottofamiglia Allioideae).[1][2][3]
Il suo utilizzo primo è quello di condimento, ma è ugualmente usato a scopo salutistico per le proprietà congiuntamente attribuitegli dalla scienza e dalle tradizioni popolari.
A causa della sua coltivazione molto diffusa l'aglio viene considerato quasi ubiquitario, ma le sue origini sono asiatiche[4] (sono state rintracciate nella Siberia sud-occidentale), velocemente diffusosi nel bacino mediterraneo e già conosciuto nell'antico Egitto.
L'odore caratteristico dell'aglio è dovuto a numerosi composti organici di zolfo tra cui l'alliina ed i suoi derivati, come l'allicina ed il disolfuro di diallile.[5]
I parassiti dell'aglio sono principalmente le larve delle mosche Chortophila brassicae o Hylenia antiqua che ne attaccano i bulbi facendoli marcire.[6] Intrecciarne le cime dovrebbe servire a evitare che gli insetti nocivi entrino nei bulbi.
Per coltivare l'aglio, bisogna prima dividerlo in spicchi uguali e poi piantarli a uno a uno con la punta dello spicchio rivolta verso l'alto. Si pianta nello strato attivo.
I fiori sono sterili, e così anche i semi. L'unica via di propagazione si ha attraverso divisione e piantumaggio dei singoli bulbetti, previa una attenta selezione dei singoli spicchi. Questo aumenta la probabilità che le future piante siano maggiormente resistenti alle malattie, più forti, ecc.
Raccolta
La pianta non ama il freddo autunno-invernale. Allora comincia ad afflosciarsi, fino a seccarsi del tutto. È a questo punto che il tubero sotterraneo andrebbe raccolto. I bulbi che invece si lasciano in loco, rivegeteranno l'anno seguente, coi primi caldi. Formeranno anche bulbilli (piccoli bulbi cresciuti lateralmente al bulbo-madre). La raccolta dei bulbi dunque non è solo una necessità alimentare, ma anche una intelligente pratica colturale che impedisce un eccessivo affollamento dell'area.
Dipinto nelle piramidi egizie, faceva parte del cibo fornito dalle autorità per mantenere gli schiavi in salute.
L'aglio in cucina è molto utilizzato come condimento, ad esempio come ingrediente per salse come bagna càuda, pesto, aioli, tzatziki. La parte commestibile sono i bulbilli (spicchi). Si consuma crudo o cotto, fresco o secco, intero, a fettine, tritato, in polvere. Talvolta gli spicchi vengono utilizzati per insaporire la pietanza ma non vengono direttamente consumati.
L'olio essenziale contiene: bisolfuro di allile e allipropile allicina (sostanza ad azione antibiotica), garlicina (ad azione antibiotica), allina (glucoside), vitamine A, B, C, zuccheri, fitosteroli, lipidi, mucillagini. L'olio essenziale viene principalmente eliminato attraverso l'apparato respiratorio[8], svolgendo attività antisettica e balsamica[9].
Uno studio condotto dall'Università di Liverpool ha rivelato che un supplemento quotidiano di estratto d'aglio può ridurre il rischio di attacchi cardiaci[10].
Sebbene sia di cultura popolare[11][12] che l'aglio abbassi la pressione arteriosa di chi soffre d'ipertensione uno studio del 2012 della University of British Columbia ha rivelato che consumare l'aglio in dosi massicce (200 grammi per 3 volte al giorno) può abbassare lievemente la pressione (diminuendo la pressione sistolica, la massima, di 10-12 millimetri di mercurio contro i 6-9 del placebo).[13]
Allicina
Uno dei derivati dell'aglio, l'allicina, ha dimostrato di possedere efficacia antibiotica[15].
Allergia
L'aglio, data la presenza di tre specifiche proteine (QR-1, QR-2, e QR-3), può essere causa di allergia alimentare[16].
L'aglio ha diverse proprietà curative[17]:
Antielmintico (gli elminti sono una classe di vermi che possono parassitare l'intestino)
Antiossidante ad opera di molti composti, come i vari solfuri, il selenio e le vitamine dei gruppi B e C
Contro raffreddore e influenza
Antitumorale (in vitro) ad opera di ajoene e disolfuri[18][19].
Antitrombotico anche qui ad opera dell'ajoene ad azione antiaggregante piastrinica
chelante: i composti solforati (per altri versi tossici, come il diossido di zolfo che si forma con acqua) presenti tra le molecole dell'aglio si legano stabilmente alle molecole di mercurio, piombo e cadmio presenti nell'organismo, che in questo modo vengono eliminate con facilità.[senza fonte]
L'uso dell'aglio crudo tritato finemente sui cibi come sughi, carne ed insalate è un ottimo coadiuvante per la cura dell'ipercolesterolemia, di bronchiti catarrali, e dell'elmintiasi (nei bambini in special modo poiché portano sporcizia alla bocca).
Il consumo di aglio dà un generale senso di benessere all'organismo per la sua azione anti batterica quindi antinfettiva.
Essendo anche un ottimo stimolante digestivo e diuretico viene anche utilizzato in forma di infuso (dai 5 ai 10 g in un litro di acqua) mentre per un'azione antisettica dai 10-15 g in decotto.
Per ovviare almeno in parte al disagio del conseguente "alito pesante" si deve privare l'aglio del piccolo germoglio verde interno facilmente estraibile.
Le varietà italiane
Alcune delle cultivar di aglio più rinomate in Italia:
Aglio di Caraglio - (aj 'd Caraj): coltivato a Caraglio è un aglio dal caratteristico aroma delicato. La caratteristica è data dal clima e dai terreni calcarei, dolomitici e cristallini delle montagne della Valle Grana. È stato creato, nel 2009, un Consorzio di tutela e valorizzazione ed è stato riconosciuto come presidio Slowfood[20].
Aglio bianco polesano, prodotto a DOP.
Aglio rosso di Sulmona, riconosciouto come PAT.
Aglio di Vessalico, presidio Slowfood.
Aglio rosso di Nubia, presidio Slowfood.
Aglio di Voghiera, prodotto a DOP.
Aglio di Resia - L'aglio della Valle di Resia presenta un bulbo di piccole dimensioni, rossastro. I bulbilli sono dotati di odore e sapore più accentuato degli agli normalmente in commercio[21].
Aglio Rosso di Proceno, riconosciuto come PAT[22]; coltivato nel comune di Proceno (VT) sin dai tempi antichi, è un aglio dal profumo intenso e da un sapore forte e gradevole. Ha lo scapo fiorale (Tarlo).
Nel folclore europeo, si riteneva che l'aglio tenesse lontani i vampiri e si indossava in un sacchetto intorno al collo. Questa tradizione si può collegare al fatto che i vampiri erano considerati dei "parassiti" e conseguentemente l'aglio, avendo proprietà antibatteriche, li teneva lontani.
Il suo potere antisettico era noto fin dall'antichità: nel Medioevo i medici usavano delle mascherine imbevute di succo d'aglio per proteggersi dalle infezioni e tutt'oggi è ampiamente usato nella medicina popolare.
Una famosissima cantilena napoletana recita:
Agli e fravagli fattura che non quagli. Corna e bicorne capa 'alice e capa d'aglio....
Si consigliava infatti di tenerlo addosso la notte che precede il 24 giugno (San Giovanni Battista) insieme ad altre erbe per proteggersi dalle streghe che in quella data, secondo la tradizione, celebrerebbero il grande sabba annuale che coincide con il solstizio d'estate.
Che l'aroma dell'aglio non sia mai stato gradito è cosa nota tanto che lo stesso Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate fa dire ai propri attori nella seconda scena di non mangiare aglio in quanto:
(EN)
«(...) And most deare Actors, eate
no Onions, nor Garlicke; for wee are to vtter sweete
breath, (...)»
(IT)
«(...) E soprattutto, attori, anime mie, badate a non mangiar aglio o cipolla, ché dobbiamo esalare tutti un alito che deve riuscir dolce e gradevole (...)»
(William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, fine Atto IV)
Anche nella cultura islamica l'aglio, pur essendo diffusamente e volentieri usato in gastronomia, viene di fatto interdetto a quanti devono poi recarsi in moschea il venerdì per la preghiera comunitaria di mezzogiorno (ṣalāt al-ẓuhr), sulla scorta della tradizione che ricorda come il profeta Maometto non gradisse né il suo odore né quello della cipolla, che dunque risente di questo stesso "divieto"[23].
Chiamata "officinalis" da Linneo in quanto usata nelle farmacie dell'epoca nella cura della tosse e delle malattie del petto.[senza fonte]
In Italia questa specie è presente e localmente abbondante, con discontinuità, sui rilievi delle regioni settentrionali a partire da 200 m fino anche a 1600 m d'altezza.
Per via della composizione chimica, caratterizzata dalla presenza di mucillagini e saponine, questa pianta in letteratura è considerata dotata di effetto emolliente, espettorante e in generale tossifuga.[senza fonte] Viene anche utilizzata per il suo sapore amaro nella produzione di amari e vermouth.
La santoreggia montana (nome scientifico Satureja montana L., 1753) è una pianta perenne aromatica appartenente alla famiglia delle Lamiaceae[1].
L'etimologia del nome del genere (Satureja) è incerta. Linneo ricavò il nome da un'antica parola romana, la cui radice latina "satura" significa "sazio", in riferimento alle supposte proprietà digestive dei succhi delle piante di questo genere. Un'altra etimologia farebbe derivare il nome da "salsa", "intingolo" per indicare le proprietà aromatizzanti di questa pianta in cucina.[2] Altri fanno riferimento ad un nome latino per il "salato delle erbe", noto agli antichi e raccomandato da Virgilio come albero eccellente da piantare vicino agli alveari.[3] Altri ancora fanno derivare da "satureia, satureiorumin", parola usata da Plinio, scrittore, ammiraglio e naturalista romano, per un'erba ad uso culinario (probabilmente derivata dall'arabo "sattur").[4] L'epiteto specifico (montana) significa appunto "montana, dei monti".[5][6]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Carl von Linné, più noto come Linneo (1707 – 1778), biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 568. 1753"[7] del 1753.[8]
la santoreggia è un piccolo arbusto, latifoglie e arrivano a un'altezza di 20 - 50 cm. La forma biologica è camefita suffruticosa (Ch suffr), sono piante perenni e legnose alla base, con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 2 ed i 30 cm (le porzioni erbacee seccano annualmente e rimangono in vita soltanto le parti legnose). Le piante si presentano con un odore aromatico.[2][9][10][11][12][13][14]
Le radici sono secondarie da rizoma.
La parte aerea del fusto è eretta, legnosa alla base e pubescente tutto intorno. Si presenta inoltre sub-tetragona, con una sezione quadrangolare a causa della presenza di fasci di collenchima posti nei quattro vertici.
Le foglie, sessili, lungo il fusto sono disposte in modo opposto (in genere a 2 a 2) e ogni coppia successiva è disposta ad angolo retto rispetto alla sottostante. Alle ascelle delle foglie è presente un fascetto di 2 - 8 foglie più piccole. La forma delle foglie è lineare-lanceolata. I margini sono setolosi (specialmente alla base), mentre la superficie è ricoperta da ghiandole. Dimensione delle foglie inferiori: larghezza 2 – 3 mm; lunghezza 10 – 25 mm.
Le infiorescenze, simili come aspetto a racemi composti e terminali, sono formate da (falsi) verticillastri ravvicinati di 2 - 3 (raramente di più) fiori all'ascelle delle foglie più o meno normali. Le foglie della parte inferiore dell'infiorescenza sono un po' più lunghe. I fiori sono brevemente peduncolati. Alla base del calice è presente una bratteolina.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice - il perianzio - sono a 5 parti).
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X, K (5), [C (2+3), A 2+2] G (2), (supero), 4 nucule[10][12]
Calice: il calice del fiore è del tipo gamosepalo, attinomorfo, con forme campanulate e terminate con 5 denti subulati lunghi più o meno metà tubo. La superficie del calice, pubescente, è percorsa da una decina (fino a 13) di nervature longitudinali. Le fauci sono pelose per setole lunghe 0,5 – 1 mm.
Corolla: la corolla, gamopetala, è a simmetria sublabiata (più o meno zigomorfa con struttura 2/3) terminante con 4 lobi patenti. Il tubo è cilindrico-campanulato diritto ed è ricoperto per metà dal calice. Il labbro superiore è retuso (bilobo) ed è piegato all'insù; il labbro inferiore ha tre lobi. I lobi sono appena smarginati e le fauci sono pelose. Il colore è bianco, porporino o rosa con punteggiature violette. Lunghezza della corolla: 6 – 12 mm (3 – 4 mm tubo; 4 – 5 mm labbro superiore; 3 mm labbro inferiore).
Androceo: gli stami sono quattro (manca il mediano, il quinto) didinami con il paio anteriore più lungo; gli stami sono tutti fertili e sporgono spaziati dal tubo corollino. I filamenti sono glabri e più o meno paralleli o incurvati. Le antere, hanno forme ellissoidi, mentre le teche sono distinte e si presentano da divaricate a parallele e confluenti. I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. L'ovario è glabro. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[15] Lo stilo (caduco) inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più lungo degli stami. Lo stigma è bifido con lobi subuguali. Il nettario è un disco più o meno simmetrico alla base dell'ovario ed è ricco di nettare.
Fioritura: fiorisce nel periodo che va da luglio a settembre.
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 nucule. La forma è ovoidale, trigona (con apice arrotondato) con superficie liscia. Il colore è bruno.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri, raramente lepidotteri (impollinazione entomogama).[10][16]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria). I semi hanno un'appendice oleosa (elaisomi, sostanze ricche di grassi, proteine e zuccheri) che attrae le formiche durante i loro spostamenti alla ricerca di cibo.[17]
La famiglia di appartenenza della specie (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[12], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Satureja è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Menthinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[9][18]
Il numero cromosomico di Satureja montana è: 2n = 30.[19]
Per questa specie sono riconosciute valide le seguenti sottospecie:[1]
Subsp. montana
Distribuzione della pianta
(Distribuzione regionale[20] – Distribuzione alpina[21])
Nome scientifico: Satureja montana L. subsp. montana.
Descrizione: i rami dell'infiorescenza sono lunghi al massimo 5 mm; il calice ha una forma tubulosa ed lungo 4 – 6 mm; il fiore è lungo 8 – 12 mm.[11]
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Orofita - Mediterraneo.
Distribuzione: in Italia è una sottospecie rara e si trova dalla Toscana fino alla Calabria. Nelle Alpi è presente nelle regioni occidentali. Fuori dall'Italia, sempre nelle Alpi, questa specie si trova in Francia (dipartimenti di Alpes-de-Haute-Provence, Hautes-Alpes, Alpes-Maritimes, Drôme e Isère). Sugli altri rilievi europei collegati alle Alpi si trova nel Massiccio del Giura, Massiccio Centrale e Pirenei.[21] Nel resto dell'Europa si trova nella Penisola Iberica e nella Penisola Balcanica.[22]
Habitat: l'habitat tipico per questa pianta sono i prati aridi e steppici di tipo calcareo e terreni serpentini; ma anche le garighe e le macchie basse. Il substrato preferito è calcareo con pH basico, medi valori nutrizionali del terreno che deve essere arido.[21]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1300 m s.l.m. e oltre; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano e in parte quello subalpino (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Fitosociologia: dal punto di vista fitosociologico alpino la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[21]
Formazione: delle comunità a emicriptofite e camefite delle praterie rase magre secche.
Classe: Festuco-Brometea
Ordine: Ononidetalia striatae
Subsp. variegata
Distribuzione della pianta
(Distribuzione regionale[20] – Distribuzione alpina[21])
Nome scientifico: Satureja montana L. subsp. variegata (Host) Ball, 1972
Basionimo: Satureja variegata Host, 1831.
Descrizione: i rami dell'infiorescenza sono lunghi 3 – 6 mm e oltre; la forma del calice è brevemente campanulata (lunghezza del tubo: 1,5 mm), i denti del calice sono lunghi 0,8 mm e quelli superiori sono piegati all'insù; il fiore è lungo 6 – 10 mm.[11]
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Est Alpico / Illyrico.
Distribuzione: è una sottospecie comune nell'estremo Nord-Est dell'Italia. Si trova anche in Slovenia.[21] Nel resto dell'Europa si trova nella ex Jugoslavia.[23]
Habitat: l'habitat tipico per questa pianta sono le praterie rase, i prati e i pascoli aridi dal piano collinare a quello montano; anche i luoghi pietrosi o a umidità variabile. Il substrato preferito è calcareo con pH basico, bassi valori nutrizionali del terreno che deve essere arido.[21]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1300 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Fitosociologia: dal punto di vista fitosociologico la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[21]
Formazione: delle comunità a emicriptofite e camefite delle praterie rase magre secche.
Classe: Festuco-Brometea
Ordine: Scorzonero-Chrysopogonetalia
Subsp. pisidia
Nome scientifico: Satureja montana L. subsp. pisidia (Wettst.) Šilic, 1975
Sinonimo: Satureja pisidia Wettst.
Distribuzione: Penisola Balcanica (parte occidentale), Anatolia e Siria.[24]
Subsp. macedonica
Nome scientifico: Satureja montana L. subsp. macedonica (Formánek) Baden, 1991
Sinonimo: Satureja macedonica Formánek
La pianta di questa voce forma con la specie Satureja subspicata Bartl. ex Vis. il seguente ibrido:[14]
Satureja x karstiana Justin.
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:
La rapa (Brassica rapa L.) è una pianta della famiglia Brassicaceae[1] largamente coltivata come ortaggio, di cui si consumano, secondo le varietà botaniche, le foglie, la radice (rapa), le cime fiorite, il seme oleoso[2].
È una specie a ciclo annuale o biennale.
Introdotta e coltivata in tutto il mondo, questa pianta è originaria della regione mediterranea e dell'Asia occidentale.[1]
Alcune varietà di queste piante sono impiegate per esperimenti visto che necessitano una cura maggiore del dovuto per la quantità di luce, acqua e fertilizzante. Queste piante «pretenziose» sono ideali per esperimenti di botanica e di biologia di base, siccome crescono rapidamente, maturando in circa 40 giorni. Alcune versioni modificate geneticamente maturano in appena 28 giorni. Questo breve tempo di accrescimento rende tali piante più adatte per esperimenti delle altre piante. Alcune di esse sono state inviate nello spazio per testare la germinazione.
L'anice comune (Pimpinella anisum L.), detta anche anice verde, è una pianta erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Apiaceae o Umbelliferae, la stessa delle carote. Non va confusa con l'Illicium verum (Anice stellato) e lo Xanthoxylum piperitium (Anice pepato), che sono due tipi di Anice differenti. Originaria dell'Asia, è stata esportata in tutto il mondo.
Storia
L'anice verde originaria dell'Asia si trova spontanea in Egitto, Grecia e Medio-Oriente, ed è coltivata anche in Italia.
Il nome Pimpinella anisum deriva dal greco anisos che significa 'non uguale'[1]; questo termine veniva usato perché la pianta è simile alla pianta velenosa della cicuta.
Si trovano riferimenti all'anice già nell'antichità, per uso medico, come consigliava Ippocrate, o uso culinario per Pitagora. Ne parlano anche Teofrasto e Dioscoride ed è citata nei Capitulare de villis di Carlo Magno.[1]
L'anice era utilizzato soprattutto per aromatizzare cibi e bevande: i romani lo diluivano nel vino per la sua proprietà dissetante. Anche secondo Plinio il Vecchio aveva proprietà curative sia per uso interno, per indigestioni o per conciliare il sonno, sia per uso esterno, contro l'invecchiamento cutaneo.
Morfologia
L'anice verde è una pianta annuale ed erbacea che raggiunge i 40-60 centimetri di altezza. Ha radice a fittone, tendente al bianco, fibrosa, da cui si erge un fusto striato, che va verso l'alto fino a terminare con ramificazione.
Il gambo è tondeggiante, cavo. Ne germogliano foglie picciolate, alterne e discontinue, con caratteristiche che variano a seconda della posizione: quelle inferiori sono dotate di un lungo picciolo guainante e lamina fogliare inciso-dentata, le intermedie hanno segmenti più rotondi e cuneati, mentre quelle superiori hanno un picciolo più piccolo rispetto alle altre e una lamina fogliare più lineare.[3]
L'anice verde ha piccoli fiori bianchi disposti in infiorescenza terminale a ombrella che varia tra gli 8e i 12 raggi. I fiori sono ermafroditi; il calice è composto da 5 sepali e la corolla, attinomorfa, ha 5 petali. Gli stami sono 5 e l'ovario infero.
Il frutto è, come per le altre Ombelliferae, un diachenio; è pirifórme, verde-grigio, ricoperto di peli. All'interno del frutto si trovano i canali resiniferi da cui si ricava l'olio essenziale.[4]
Usi
Nei mesi di agosto e settembre vengono raccolti i frutti al cui interno decorrono canali resiniferi dai quali si estrae l'olio essenziale contenente la sostanza tipica dell'anetolo. Questa sostanza viene usata per produrre liquori, medicinali ed aromi.[5] Fra i liquori si ricordano l'anisetta, l'ouzo greco, il rakı turco o i più comuni sambuca e Varnelli.
L'anice verde comune viene usato a scopo medico per placare gli spasmi e il meteorismo o per fluidificare il muco in caso di bronchiti, asma e tosse. Agevola le attività digestive e limita il meteorismo, la nausea e il vomito; inoltre svolge un'azione antibatterica ed espettorante.
Curcuma longa (curcuma per antonomasia o zafferano delle indie o più raramente turmerico) è una pianta erbacea, perenne, rizomatosa della famiglia delle Zingiberacee (una delle molte specie del genere Curcuma), originaria dell'Asia sud-orientale e largamente impiegata come spezie soprattutto nella cucina indiana, medio-orientale, thailandese e di altre aree dell'Asia.
Descrizione della pianta
Curcuma longa è un'erba perenne che raggiunge un'altezza massima di circa un metro.
Le foglie sono grandi, lunghe da 20 a 45 cm, con picciolo allungato.
In questa infiorescenza di Curcuma longa sono visibili solo le brattee e le tasche nelle quali si stanno sviluppando i fiori
I fiori sono raccolti in una vistosa pseudo-infiorescenza ricca di grandi brattee verdi in basso e bianche o violacee in alto. Le brattee verdi formano una serie di tasche, che ospitano grandi fiori gialli (con possibili sfumature arancioni).
La radice è un grosso rizoma cilindrico, ramificato, di colore giallo o arancione, fortemente aromatico, che costituisce la parte di maggior interesse commerciale della pianta.
Come per altre piante d'interesse agricolo, sono state sviluppate con il tempo diverse varietà di questa specie.
Distribuzione
Curcuma longa è spontanea nell'Asia meridionale, dall'India alla Malaysia, in regioni a clima tropicale, con temperature normalmente comprese tra 20 °C e 35 °C e con elevata piovosità.
Allo stato coltivato, è presente in moltissime aree tropicali o subtropicali, in particolare in Asia e in Africa.
L'India è il primo produttore mondiale di curcuma. Nel 2008/2009 in India sono stati destinati alla coltivazione di curcuma quasi 200 000 ha, con una produzione di circa 900 000 t[1]. Alcune città indiane, come Sangli, nel Maharashtra, o Erode, nel Tamil Nadu, si contendono il titolo di massimi centri della produzione mondiale; tuttavia le statistiche dello Spices Board indicano come massimo produttore lo Stato dell'Andhra Pradesh, nell'India centro-orientale.
Nome
Il nome curcuma deriva dal sanscrito kunkuma attraverso l'arabo كركم, kurkum.
Quando si dice curcuma s'intende normalmente Curcuma longa, anche se esistono numerose altre specie attribuite al genere botanico Curcuma.
In inglese è chiamata turmeric (da cui il nome, poco usato, di turmerico). In hindi è chiamata haldi, in bengalese holud.
Il nome zafferano delle Indie deriva dal colore della spezie, che ricorda lo zafferano.
Composizione chimica
I principali costituenti della droga sono i curcuminoidi (3-5%), cioè miscele di derivati del cinnamoilmetano, come la curcumina, la demetossi curcumina e la bis-demetossicurcumina (che è contenuta solo in C. longa). Quantitativamente importante (3-5%) è la frazione volatile, che contiene principalmente dei composti terpenici caratteristici come il zingiberene, il curcumolo e il β-turmerone. Sono presenti nella droga, ma in quantità minori, anche gli arabino galattani acidi ukonano A fino a ukonano D.[2]Usi
Il nome zafferano delle Indie si riferisce al colore giallo, unica somiglianza fra la curcuma e lo zafferano:[3] dal rizoma giallo della curcuma si ottengono la polvere di curcuma, una spezie molto usata nella gastronomia indiana e asiatica in generale, e una sostanza gialla adoperata in tintoria.
I rizomi vengono bolliti ed essiccati al sole o in forno, e dopo vengono schiacciati in una polvere giallo-arancio. Il suo ingrediente attivo è la curcumina che ha un sapore terroso, amaro, piccante ed estremamente volatile, mentre il colore si conserva nel tempo.
La polvere di curcuma è uno degli ingredienti del curry indiano, a cui dà il colore giallo intenso e caratteristico, ma è un ingrediente fondamentale di numerosissime altre ricette asiatiche, come il piatto nepalese chiamato momos (gnocchi nepalesi a base di carne) o il piatto tailandese chiamato kaeng tai pla (curry con gamberi e pesce).
La curcuma è anche, come lo zafferano, un colorante alimentare. Oltre che in varie ricette, essa ha applicazione in bevande, prodotti da forno, prodotti lattiero-caseari, gelati, yogurt, biscotti, popcorn, dolci, cereali, salse, gelatine, ecc. Tra gli additivi alimentari codificati dall'Unione europea, la curcumina, per una serie di circostanze, occupa il primo posto: E100.
La curcuma è stata usata fin dall'antichità come colorante anche per tessuti. Da questo punto di vista, però, è poco pregiata perché tende a scolorire al sole.
Lo zafferano ([ʣaffeˈra:no][1][2]) è una spezia che si ottiene dagli stigmi del fiore del Crocus sativus, conosciuto anche come zafferano vero, una pianta della famiglia delle Iridacee. La pianta di zafferano vero cresce fino a 20–30 cm e dà fino a quattro fiori, ognuno con tre stigmi color cremisi intenso. Gli steli e gli stigmi vengono raccolti e fatti seccare per essere usati principalmente in cucina, come condimento e colorante. Lo zafferano, annoverato tra le spezie più costose del mondo, è originario della Grecia o dell'Asia Minore[3][4] e fu coltivato per la prima volta in Grecia. Come clone geneticamente monomorfo, si è diffuso lentamente per la maggior parte dell'Eurasia e più tardi è stato portato in aree del Nord Africa, dell'America del Nord e dell'Oceania.
Lo zafferano vero, la cui specie selvatica è sconosciuta, probabilmente discende dal Crocus cartwrightianus, originario dell'isola di Creta; il Crocus thomasii e il Crocus pallasii sono altri possibili precursori. La pianta è un triploide autoincompatibile il cui maschio è sterile; subisce una meiosi aberrante e quindi non è capace di riprodursi sessualmente in maniera indipendente. La propagazione avviene infatti con moltiplicazione vegetativa, attraverso la selezione di un clone iniziale o per ibridazione interspecifica. Se il C. sativus è una forma mutata del C. cartwrightianus, potrebbe essersi sviluppata come specie, preferita per i lunghi stigmi, da una selezione vegetale nella Creta della tarda età del bronzo.
L'aroma dello zafferano e l'odore simile a fieno e iodoformio sono dovuti alle molecole picrocrocina e safranale. Contiene inoltre un pigmento carotenoide, la crocina, che dà una tonalità giallo-dorata ai piatti e ai tessuti. La sua storia documentata comincia con un trattato botanico assiro del VII secolo a.C. compilato sotto il regno di Sardanapalo e per oltre quattro millenni è stato commerciato ed usato. Ha costituito nel Medioevo l'unica spezia commerciata in Occidente di provenienza indigena. Attualmente la produzione iraniana di zafferano rappresenta il 90% di quella mondiale.
La barbabietola (Beta vulgaris L.) è una pianta angiosperma dicotiledone appartenente alla famiglia Amaranthaceae sottofamiglia Betoideae.[1] Ne esistono diversi tipi: da zucchero, da orto, da foraggio destinate all'alimentazione del bestiame.
La bieta fa la sua comparsa già nel mondo greco. Teofrasto ne parla col nome di τεῦτλον (tèutlon). A Roma ne parlano Plinio il Vecchio e Columella. La Beta, infatti, veniva usata non solo come cibo, ma anche come medicinale.
Già nel XV secolo era assai diffusa la sua coltivazione, soprattutto nei monasteri. Inizialmente veniva coltivata per le sue foglie, in seguito si diffuse anche il consumo della radice (specialmente la variante rossa).
Lo sviluppo delle colture di barbabietola è strettamente legato alla scoperta dello zucchero che se ne può estrarre. Nel XVII secolo l'agronomo francese Olivier de Serres annotò che la barbabietola cotta produce un succo simile allo sciroppo di zucchero, ma questa affermazione non ebbe seguito.
Finalmente nel 1747 il chimico prussiano Andreas Sigismund Marggraf dimostrò che i cristalli dal sapore dolce ricavati dal succo di barbabietola erano gli stessi che si ottenevano dalla canna da zucchero, ma non andò oltre. Fu un suo allievo, Franz Karl Achard, che cominciò a produrre commercialmente lo zucchero, aprendo una prima fabbrica nel 1801 a Cunern, nella Bassa Slesia (al tempo regione prussiana, oggi in Polonia).
Ai primi dell'Ottocento, comunque, lo zucchero di canna era ancora diffusissimo. Ma le guerre napoleoniche, con il blocco dell'importazione dello zucchero di canna (1806), fecero sì che la sperimentazione sulle barbabietole procedesse più speditamente, finché nel 1811 alcuni scienziati francesi mostrarono a Napoleone dei panetti di zucchero estratto da barbabietola: l'imperatore ne ordinò la coltivazione (su ben 320 km² di terreno) e, grazie anche all'intervento del finanziere ed imprenditore Benjamin Delessert, che aprì in Francia il primo stabilimento ove si estraeva lo zucchero dalla barbabietola con il metodo di Achard opportunamente perfezionato, nel giro di pochi anni sorsero più di 300 fabbriche di zucchero da barbabietola in tutta Europa.
Oggi l'Europa coltiva 120 milioni di tonnellate di barbabietole e produce 16 milioni di tonnellate di zucchero bianco; la Francia e la Germania sono i maggiori produttori ma, eccettuato il Lussemburgo, tutti i paesi dell'Unione europea estraggono zucchero dalle barbabietole in quantità tale da soddisfare il 90% del fabbisogno.
In Italia la barbabietola viene coltivata dalla fine del XVII secolo, specialmente nella Pianura Padana e nelle province di Ferrara, Ravenna, Mantova e Rovigo.
La barbabietola è una pianta erbacea bienne in coltivazione, raramente perenne, a radici fittonanti, con fusti che possono arrivare a 1–2 m di altezza. Le foglie sono a forma di cuore, lunghe 5–20 cm nelle piante selvatiche (spesso molto più grandi nelle piante coltivate). I fiori sono molto piccoli, dal diametro di 3–5 mm, di colore verde o rossastro, con cinque petali; sono raccolti in dense spighe L'impollinazione è anemofila e secondariamente entomofila[2]. Il frutto è costituito da un gruppo di dure acheni modificati con semi lenticolari.
La barbabietola viene coltivata nei paesi a clima temperato. È una pianta a ciclo biennale: nel primo anno nella radice si accumulano riserve sotto forma di zucchero, nel secondo si sviluppa il fusto fiorifero. In coltura, per poter estrarre lo zucchero, la pianta viene estirpata al completamento dello sviluppo del primo anno.
Nelle regioni settentrionali viene seminata in primavera e raccolta a partire dalla fine di agosto. Nel meridione, per ridurre le contrazioni della resa in radici e in zucchero, dovute alla maggiore intensità dei processi respiratori causata dalle temperature più alte, si coltiva invece a ciclo autunno-primaverile, con raccolta in estate.
Gradisce un terreno di medio impasto, neutro o appena basico, e ben drenato, ma è una delle specie agrarie che si adatta meglio ai terreni argillosi, purché ben sistemati dal punto idraulico.
Le barbabietole vengono coltivate come foraggi, per lo zucchero (es. barbabietola da zucchero), come ortaggio a foglia (bietole), o come tubero (" barbabietole", "barbabietola da tavola", o "barbabietole da giardino" o, in piemontese, "biarava"). I tuberi coltivati più diffusi includono:
"Albina Vereduna", una varietà bianca.
"Golden Burpee's", una barbabietola con la buccia rosso-arancio e polpa gialla.
"Chioggia", una varietà a impollinazione originariamente coltivata in Italia. Gli anelli concentrici delle sue radici bianche e rosse sono di grande impatto visivo quando affettate. Essendo una varietà storica, la Chioggia non ha subito processi di miglioramento e presenta concentrazioni relativamente elevate di geosmina.
"Detroit" di colore rosso scuro e con concentrazioni relativamente basse di geosmina, è una coltivazione commercialmente popolare negli Stati Uniti.
"Barbabietola indiana" non è dolce come la barbabietola occidentale ma più nutriente[senza fonte]
"Lutz Greenleaf", una varietà con una radice rossa e foglie verdi, e nota per la sua capacità di conservarsi in magazzino senza alterazione della qualità.
"Red Ace", per il suo tipico colore rosso brillante nel tubero e con fogliame verde venato di rosso.
Il sapore di "terra" di alcune tipologie di barbabietola deriva dalla presenza di geosmina. I ricercatori non hanno ancora chiarito se sono le stesse barbabietole a produrre geosmina, o se è prodotta dai microbi simbiotici del terreno che vivono nella pianta.[3] Tuttavia, esistono programmi di riproduzione in grado di produrre coltivazioni con livelli di geosmina bassi rendendo il sapore più accettabile per i consumatori.[4]-
Oltre ad essere ricca di zuccheri, sali minerali e vitamine ed altre sostanze utili, alla barbabietola si attribuiscono proprietà dietetiche e salutari: assorbe le tossine dalle cellule e ne facilita l'eliminazione, è depurativa, mineralizzante, antisettica, ricostituente, favorisce la digestione, stimola la produzione di bile e rafforza la mucosa gastrica, cura le anemie, le infezioni del sistema cerebrale, stimola la produzione dei globuli rossi, scioglie i depositi di calcio nei vasi sanguigni e ne impedisce l'indurimento, infine stimola il sistema linfatico[5].
Nelle cucine dell'Europa Orientale e soprattutto dell'ex URSS, la barbabietola è alla base della popolare zuppa chiamata boršč.
Il succo di barbabietola negli ultimi anni è stato a lungo studiato per le sue proprietà stimolanti, specialmente in ambito sportivo. Grazie al suo alto contenuto di nitrati sarebbe in grado di potenziare il rendimento muscolare in maniera del tutto naturale.[6] Secondo una ricerca dell'Università di Exeter (Inghilterra), il succo di barbabietola sarebbe in grado di migliorare il rendimento degli atleti. Il succo somministrato ad un team di ciclisti ha dimostrato un incremento della loro velocità superiore al 2,5%.[7]
Le parti commestibili della barbabietola sono le foglie (bieta o bietola) e le radici.
Per quanto riguarda la bietola, 100 g contengono:
energia: 230 kJ
acqua: 89,78 g
sodio: 10 mg
proteine: 1,3 g
potassio: 196 mg
Lipidi: 0,1 g
ferro: 1 mg
glucidi: 2,8 g
vitamina A: 263 mg
fibra: 1,2 g
vitamina C: 18 mg
Per quanto concerne la barbabietola da zucchero, di cui si utilizza la radice, 100 g contengono:
energia: 84 kJ
carboidrati: 4 g
lipidi: 0 g
acqua: 91,3 g
proteine: 1,1 g
Inoltre tutti i tipi di barbabietola contengono antiossidanti e una notevole quantità di acido ossalico e di nitrati. Da recenti ricerche scientifiche si è scoperto che proprio la presenza dei nitrati nelle barbabietole rosse ha effetto ipotensivo.
Gli scarti di lavorazione della barbabietola e della canna da zucchero vengono utilizzati per produrre materie plastiche biodegradabili come la MINERV PHA.
L'epidermide è liscia, il colore rosso-violaceo; il colore della polpa è rosso sangue forte. La radice è appoggiata piatta a terra. Grande precocità. Può essere seminata da marzo a luglio.
Barbabietola da zucchero Beta vulgaris var. saccharifera
Barbabietola da foraggio Beta vulgaris var. crassa
Bietola da foglie (o erbette) Beta vulgaris var. cicla
Bietola da coste (o coste) Beta vulgaris var. flavescens
Bietola da orto Beta vulgaris var. cruenta
La borragine (Borago officinalis L.) è una pianta erbacea annuale della famiglia delle Boraginaceae
Il nome deriva dal latino borra (tessuto di lana ruvida), per la peluria che ricopre le foglie. Altri lo fanno derivare dall'arabo abu araq (= padre del sudore), attraverso il latino medievale borrago, forse per le proprietà sudorifere della pianta.[2]
È una pianta erbacea annuale, che può raggiungere l'altezza di 60 cm.[4]
Ha foglie ovali ellittiche, picciolate, che presentano una ruvida peluria, verdi-scure, raccolte a rosetta basale, lunghe 10–15 cm e poi di minori dimensioni sullo stelo.
I fiori, di breve durata, presentano cinque petali, disposti a stella, di colore blu-viola, al centro sono visibili le antere derivanti dall'unione dei 5 stami. Sono raccolti in infiorescenze sommitali, penduli in piena fioritura; hanno lunghi pedicelli.
I frutti sono degli acheni che contengono al loro interno diversi semi di piccole dimensioni; i semi sono dotati di elaiosomi, particolari appendici contenenti sostanze nutritive appetibili alle formiche, che ne facilitano la disseminazione (mirmecoria).
La specie è originaria del bacino del Mediterraneo, ed è stata introdotta per la coltivazione in numerosi paesi eurasiatici e americani.[1][4]
100 g di foglie di borragine apportano all’incirca 21 calorie [5] e in particolare:
93,00 g di acqua
1,80 g di proteine
0,70 g di lipidi, di cui 0,170 g di acidi grassi saturi, 0,211 g di acidi grassi monoinsaturi e 0,109 g di acidi grassi polinsaturi
3,06 g di carboidrati
4.200 Retinolo Equivalenti di vitamina A
35,0 mg di vitamina C
0,900 mg di niacina
0,150 mg di riboflavina
0,084 mg di vitamina B6
0,060 mg di tiamina
0,041 mg di acido pantotenico
13 µg di folati
470 mg di potassio
93 mg di calcio
80 mg di sodio
53 mg di fosforo
52 mg di magnesio
3,30 mg di ferro
0,349 mg di manganese
0,20 mg di zinco
0,130 mg di rame
Le foglie giovani sono variamente impiegate in cucina.
Tradizionalmente le foglie si usano cotte in molti piatti regionali: minestroni, torte e frittate, o come ripieni per ravioli e pansoti in Liguria. Tipico è il consumo in frittelle dei fiori e delle foglie (passate in pastella e poi fritte). La cottura elimina la peluria che copre le foglie.
In moderata quantità le foglie giovani e sporadicamente anche i fiori si utilizzano crudi in insalata. I fiori azzurri sono usati per colorare e guarnire i piatti e per colorare l'aceto; congelati in cubetti possono costituire decorazione per le bevande estive. Tuttavia l'uso alimentare della borragine, specialmente per periodi prolungati, è sconsigliato per la presenza, in alcune fasi vitali della pianta, di composti pirrolizidinici, a presunta attività epatotossica[6]
La medicina popolare utilizza le foglie e le sommità fiorite.
Fin dall'antichità la pianta ha fama di svegliare gli spiriti vitali (Plinio: «Un decotto di borragine allontana la tristezza e dà gioia di vivere»).
È usata per abbassare la febbre e calmare la tosse secca. È nota anche come diuretico ed emolliente (per la presenza di mucillagini).
L'olio, dalle spiccate proprietà antinfiammatorie e ad alto contenuto di acido linolenico, si ottiene dai semi soprattutto mediante la spremitura a freddo. È impiegato nel trattamento degli eczemi e di altre affezioni cutanee[7].
È emerso l'interesse commerciale, a livello internazionale, per l'olio estratto dai semi, ricco di acido gamma linolenico (GLA; 18:3 ω6), che ha parecchi utilizzi: nutrizionali, dietetici, medicinali e cosmetici. La pianta è di facile coltivazione industriale, il che ne accresce il valore, poiché l'unica altra sorgente vegetale per tale olio sono i semi di Oenothera biennis, di coltivazione più complessa e con rese inferiori.
I fiori, dall'alto quantitativo di nettare, sono molto ricercati dalle api, perciò è una pianta mellifera; si può ottenere un ottimo miele anche monoflorale, ma la borragine è poco diffusa e la produzione è limitata.
L'issopo officinale (Hyssopus officinalis L.) è una pianta aromatica appartenente alla famiglia delle Lamiaceae e al genere Hyssopus. È una pianta erbacea molto antica coltivata per le sue proprietà terapeutiche (espettoranti, digestive) e per gli usi in cucina.
Descrizione
L’issopo è una pianta erbacea perenne. L’antesi si verifica in giugno-luglio e i suoi fiori sono frequentati dalle api poiché sono ricchi di nettare.
Si tratta di una specie che vive spontanea e solo raramente viene coltivata. La pianta è cespugliosa, legnosa alla base e molto aromatica; il fusto e le numerose ramificazioni a sezione quadrangolare possono raggiungere un'altezza di 30 cm. Le foglie sono opposte e glandulose. I fiori sono piccoli, ermafroditi e sono raggruppati in verticilli che formano delle spighe laterali. Presentano un calice tuboloso. Il frutto è un achenio molto piccolo. Tutte le parti della pianta sono caratterizzate da un aroma intenso e piccante e destinate all'estrazione dell’essenza di issopo che viene utilizzata dai produttori di cosmetici e liquori e dalle officine erboristiche.
Coltivazione
La coltivazione può essere remunerativa dove c'è molta richiesta di essenza e la raccolta delle piante spontanee è troppo costosa. La pianta si propaga per seme (per via gamica) o per via agamica[1]. La semina si esegue in giugno-luglio in semenzaio a terra oppure in contenitori. La propagazione agamica si effettua per divisione di cespi o per talea. La pianta cresce bene sui terreni calcarei, sciolti, preferibilmente in collina. Questa pianta è molto resistente al freddo e al secco[2]. In fatto di fertilità non richiede molte attenzioni, in casi particolari si può effettuare una concimazione a base di letame o di zolfo. Mediamente queste piante hanno un ciclo produttivo che dura 4-5 anni.
Raccolta
La raccolta per l'estrazione dell'essenza avviene quando la pianta è in piena fioritura, cioè a giugno. I rametti si tagliano alla base nel punto in cui finisce la parte legnosa così che la pianta possa ricrescere.
Distribuzione e habitat
È originaria dell'Europa del sud e dell'Asia occidentale e cresce spontaneamente in prevalenza nelle zone montane dell'Italia del nord fino ai 1200 m s.l.m.
Usi
Questa erbacea contiene una piccola quantità di tujone, quindi non si deve usare in dosi eccessive. L'issopo è un'erba officinale e un'erba medicinale.
L'issopo è un'ottima pianta mellifera, le api vi bottinano sopra i fiori; si può produrre del miele, ma la diffusione di quest'erba è scarsa ed è impossibile ottenere del monoflorale.
Ha un sapore di menta un po' amaro e può essere aggiunto alle minestre, alle insalate o alle carni, anche se dovrebbe essere usato con parsimonia poiché il sapore è molto forte.
Entra nella composizione del liquore Chartreuse e di alcuni tipi di assenzio.
L'issopo è un ingrediente dell'acqua di Colonia.
Viene usato anche in alcune celebrazioni liturgiche della Chiesa cattolica per aspergere l'assemblea di fedeli.
Nell’Esodo, durante la “notte della veglia”, fu la pianta che gli ebrei usarono per cospargere di sangue d’agnello gli stipiti delle loro porte per segnalare al Distruttore di risparmiare i loro primogeniti.
Regno:Plantae
Clade :Tracheofite
Clade :Angiosperme
Clade Eudicots
Clade :Asteridi
Ordine:Lamiales
Famiglia:Lamiacee
Sottofamiglia:Nepetoideae
Tribù:Mentea
Genere:Cedronella
Specie:C. canariensis
Nome binomiale Cedronella canariensis( L. ) Webb & Berthel.
Brittonastrum triphyllum (Moench) Lione
Cedronella madrensis MEJones
Cedronella triphylla Moench
Dracocephalum balsamicum Salisb. nom. illeg.
Dracocephalum canariense L.
Dracocephalum ternatifolium Stokes
Cedronella è un genere di piante da fiore della tribù Mentheae della famiglia Lamiaceae , comprendente un'unica specie, Cedronella canariensis , originaria delle Isole Canarie , delle Azzorre e di Madeira . È naturalizzato anche in vari luoghi ( Sud Africa , Sant'Elena , Nuova Zelanda , California ). [2] I nomi comuni includono il balsamo delle Canarie , [3] il balsamo delle Canarie e il balsamo di Galaad . [4]
È una pianta erbacea perenne che cresce fino a 1-1,5 m di altezza. La caratteristica distintiva di queste piante sono le foglie composte composte da 3 foglioline, insolite nelle Lamiaceae, che di solito hanno foglie semplici. Gli steli frondosi terminano con spighe fitte e corte di fiori con fiori tubolari a 2 labbra bianchi o rosa .
Il nome del genere è un diminutivo di Cedrus , sebbene l'unico collegamento tra questa erba e le grandi conifere di Cedrus sia un profumo resinoso vagamente simile del fogliame.
Coltivate all'aperto in climi miti, queste piante perenni necessitano di protezione in una posizione soleggiata nel giardino delle erbe aromatiche e in un terreno umido e ben drenato. Nei climi freschi possono essere coltivate in un giardino d'inverno soleggiato. Innaffia liberamente nella stagione di crescita. Si propaga per seme o per talea.
La pianta aromatica di Ocimum selloi (Pepe Verde del Basilico) è una perenne appartenente alla famiglia delle Lamiaceae ed originaria del Brasile. Produce foglie verdi dal sapore e profumo caratteristico: una combinazione di pepe verde e basilico, notevolmente più lunghe di quelle del basilico, il che la rende più simile alla pianta del pepe. Utilizzata in cucina per la preparazione di deliziose zuppe. Fioritura rosa-violacea nei mesi estivi.
Famiglia: Lamiaceae
Epoca fioritura: Giugno – Settembre
Altezza pianta a maturità: 60 – 80 cm
Il genere Juniperus fa parte delle Gimnosperme. Presenta una scorza sottile e fibrosa che si stacca in strisce longitudinali.
Le foglie sono di forma variabile, aghiformi in giovani individui poi in età adulta squamiformi (come in J. thurifera, J. sabina, J. phoenicea) o aghiformi (es. J. communis, J. nana e J. oxycedrus). Le foglie sono ricche di stomi (le aghiformi portano linee stomatiche bianche nella pagina superiore), con un solo canale resinifero mediano.
Dal punto di vista riproduttivo il genere comprende specie in preponderanza dioiche. Gli strobili maschili sono piccoli con numerosi microsporofilli, da ovali a allungati, in porzione terminale del rametto (se le foglie sono squamiformi) o all’ascella delle foglie se queste sono aghiformi.
Gli strobili femminili sono formati da 3-8 squame (ciascuna portante 1-2 ovuli) maturanti in più anni. Si parla di coccola o galbulo: le squame diventano carnose e si saldano tra loro (colore differente a seconda della specie).
I semi sono privi di ala e sono trasportati da animali o espulsi perché il frutto marcisce.
Il portamento può essere arboreo o strisciante a seconda del tipo di habitat in cui la pianta si trova a vivere: un portamento strisciante sarà facile da rinvenire là dove agiscono venti impetuosi (sui promontori rocciosi mediterranei o alpini dove è possibile che la pianta cresca), ottimo esempio di plasticità del fenotipo in relazione alle condizioni ambientali.
Distribuzione e habitat
Il ginepro è una pianta con poche esigenze idriche, per cui è facile trovarla in luoghi non facilmente popolabili da altre piante: montagne, dove le frequenti gelate rendono l'acqua scarsamente biodisponibile, e ambienti mediterranei, dove l'aridità la fa da padrona nei mesi estivi.
Tassonomia
Juniperus communis L. noto come ginepro comune è una conifera comune in luoghi aridi, incolti o boschivi fino ad altezze di 2.500 m s.l.m., con alcune sottospecie adattate alle alte quote. Appare quale arbusto o alberello sempreverde, alto da 1 a 10 m, con foglie lineari-aghiformi, pungenti, riunite in verticilli di tre. La pianta è dioica, cioè porta fiori, unisessuali, in due piante diverse, una con i fiori maschili e una con i fiori femminili. Questi producono poi le cosiddette bacche o coccole (che sono i coni femminili una volta avvenuta la fecondazione) con le quali si può fare la grappa al ginepro, mettendole sotto grappa con un po' di zucchero. I fiori maschili sono piccoli coni cilindrici-ovoidali di colore giallastro producenti gametofiti protetti in grani di polline. Quelli femminili appaiono come piccoli coni di colore verdastro. L'impollinazione avviene quando un granulo di polline atterra su di un fiore femminile della pianta; per cui ci vogliono due piante diverse perché questo avvenga. I semi maturano nell'autunno successivo all'impollinazione e sono racchiusi in un cono di colore brunastro chiamato galbulo; squamoso e pruinoso, è composto da quattro squame carnose saldate tra loro contenenti da uno a tre semi angolosi ricchi di un olio essenziale aromatico. Per il loro aspetto i coni sono facilmente scambiati per bacche e dunque volgarmente chiamati "bacche di ginepro". Sono ampiamente apprezzati per le loro doti aromatiche.
Juniperus sabina L., chiamato volgarmente ginepro sabina o più semplicemente sabina, è un arbusto cespuglioso prostrato o alberetto alto da 1 a 5 m, con corteccia bruno-rossiccia, foglie squamiformi, embricate, in alcuni casi aghiformi, di colore verde-cupo. Gli sporofiti maschili sono riuniti in piccoli amenti, quelli femminili portati su piccoli peduncoli ricurvi. I coni, chiamati coccole, appaiono come pseudobacche globoso-ovali, pendule, nerastro-violacee a maturità, contenenti piccoli semi ovali. È una pianta velenosa diffusa in luoghi soleggiati e scoscesi delle zone montane dove viene coltivata spesso per il consolidamento del terreno e come pianta ornamentale.
Tra le specie coltivate nell'arboricoltura da legno troviamo il Juniperus virginiana noto con il nome di cedro della Virginia e originario dell'America nord-orientale. È un albero alto fino a 30 m, con foglie glauche in parte aghiformi, sottili, lunghe circa 1 cm, e in parte squamiformi non più lunghe di 2 mm. Porta pseudobacche (coni) ovoidali pruinose ed erette.
Tra le specie ornamentali citiamo inoltre Juniperus rigida Sieb. & Zucc., specie rustica originaria del Giappone e della Corea. È un albero sempreverde alto 6–9 m con ramificazioni slanciate, a effetto ricadente, con le foglie aghiformi e rigide, riunite in gruppi di tre, di colore verde-giallastro, argentante al rovescio. I coni sono globosi, di colore nerastro e ricoperti da pruina.
Metodi di coltivazione
La coltivazione del ginepro richiede clima temperato, dalle frequenti precipitazioni estive, esposizione in pieno sole o mezz'ombra e suolo ricco ma sabbioso o carsico.
Si moltiplica con la semina o per talea di nuovi getti in primavera.
Usi
Bacche di ginepro per uso culinario in vendita al mercato di Ortigia a Siracusa.
Le numerose varietà, con foglie di colore verde-azzurro dal gradevole odore di essenza resinosa, vengono coltivate per decorare parchi, ampi giardini e boschetti di conifere.
In arboricoltura da legno, vengono coltivate per la produzione di legname principalmente le seguenti specie:
Juniperus phoenicea L. noto come ginepro licio o ginepro fenicio,
Juniperus oxycedrus L. noto come ginepro rosso o appeggi,
Juniperus virginiana L. noto come ginepro di Virginia o cedro rosso della Virginia.
In selvicoltura,
per il consolidamento di litoranei sabbiosi si utilizza per la sua resistenza alla salsedine il Juniperus macrocarpa S. & S. conosciuto con il nome volgare di ginepro coccolone;
per il rimboschimento delle zone montuose e aride si utilizza invece il Juniperus communis L. noto come ginepro comune.
Il legno di ginepro, di colore rosso e dal tipico odore resinoso, viene impiegato per lavori di intaglio e per suffumigi contro i dolori reumatici; il ginepro della Virginia fornisce il legno per matite di ottima qualità.
I coni (detti "bacche di ginepro" ma non sono frutti) si usano anzitutto nelle arti culinarie come spezie per salse e sughi, piatti di selvaggina e stufati di carne, per i crauti, nonché per la fabbricazione di superalcolici quali gin, grappa con bacche di ginepro, la gineprata e il Kranewitter (prodotto tradizionale altoatesino).
Dai suoi coni, o coccole, si estrae per distillazione un olio essenziale, chiamato essenza di ginepro. Il residuo della distillazione, trattato con acqua e concentrato sotto vuoto, produce un liquido sciropposo, chiamato estratto di ginepro.
I suoi rami sono usati in piccola parte per aromatizzare l'affumicatura.
Uno studio effettuato dall'Università di Camerino ha approfondito una particolarità delle piante di ginepro (Juniperus communis e Juniperus oxycedrus), cioè la loro capacità di promuovere la formazione di biogruppi.[senza fonte] In particolare i biogruppi di ginepro racchiudono all'interno varie specie legnose ed erbacee che permettono di promuovere la successione secondaria del territorio.[senza fonte]
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
La medicina popolare attribuisce altissimo valore curativo all'olio ottenuto dalla distillazione dei coni e ne ipotizza grandi doti come rimedio per:
disturbi digestivi
malattie respiratorie
malattie delle vie urinarie
malattie reumatiche
Non sono negabili almeno blandi effetti per tutte queste indicazioni; d'altronde i rischi di un uso prolungato e/o altamente dosato sono insignificanti.
La monografia della Commissione E del Ministero tedesco per la Salute indica:
Indicazioni: disturbi dispeptici
Controindicazioni: gravidanze e affezioni renali infiammatorie
Effetti collaterali: danni renali in caso di utilizzo prolungato o sovradosato
Interazioni: nessuna nota
Proprietà: in esperimenti su animali è stato dimostrato un aumento della secrezione urinaria, nonché un'aumentata contrazione di muscolatura liscia (p.e. utero).
Oggi l'olio di ginepro viene usato molto raramente, sia per il suo altissimo costo, sia perché per la maggior parte delle indicazioni esistono farmaci più efficaci e a minor rischio.[senza fonte] Un'eccezione possono essere frizioni contro dolori reumatici.
Artemisia dracunculus
Il dragoncello è un’erba aromatica che si usa in cucina per il suo caratteristico sapore, ma che è anche un interessante rimedio naturale. Conosciamo meglio questa pianta e le sue proprietà.
Il dragoncello (Artemisia dracunculus) è una pianta perenne della famiglia delle Asteracee originaria della Russia e della Siberia. È conosciuta anche come estragone o con altri nomi popolari come serpentaria, dragone e tragone.
La pianta si caratterizza per avere foglie di un verde acceso, sottili e brillanti e fiori piccoli e giallognoli riuniti insieme a formare una specie di pannocchia.
Le varietà di dragoncello sono due:
dragoncello siberiano o russo
dragoncello francese
Le due varietà si differenziano in particolare per la resistenza della pianta (maggiore nel caso del dragoncello russo e siberiano) e per il sapore (più aromatico del dragoncello francese). Anche in Italia il dragoncello può essere piantato e coltivato, molto difficilmente lo troviamo invece come pianta spontanea. Dragoncello, valori nutrizionali
100 grammi di dragoncello forniscono al nostro organismo 295 calorie. Naturalmente questa erba aromatica si usa in quantità decisamente minori e dunque l’apporto calorico è pressoché irrilevante.
Per conoscere il quantitativo di grassi, carboidrati, proteine, sali minerali e vitamine fate riferimento alla seguente tabella:
Grassi 7 g
Acidi grassi saturi 1,9 g
Acidi grassi polinsaturi 3,7 g
Acidi grassi monoinsaturi 0,5 g
Colesterolo 0 mg
Sodio 62 mg
Potassio 3.020 mg
Carboidrati 50 g
Fibra alimentare 7 g
Proteine 23 g
Vitamina A 4.200 IU
Vitamina C 50 mg
Calcio 1.139 mg
Ferro 32,3 mg
Vitamina D 0 IU
Vitamina B6 2,4 mg
Magnesio 347 mg
Il dragoncello in cucina si usa per aromatizzare diversi tipi di piatti grazie al suo caratteristico sapore amarognolo e leggermente piccante (una via di mezzo tra sale e pepe). Questa erba aromatica fa parte della tradizione culinaria della Francia e, per quanto riguarda il nostro paese, della regione Toscana.
Probabilmente la ricetta più nota in cui si utilizza il dragoncello è la salsa bernese, utilizzata soprattutto come condimento per la carne, ma anche quella della salsa al dragoncello tipica della Toscana.
L’estragone ben si presta alla realizzazione di piatti a base di:
pesce e frutti di mare
uova (anche frittate)
carne (arrosti)
formaggi
verdure (in particolare pomodori, patate, asparagi e cipolle)
riso
e preparazioni come:
salse
ripieni
torte salate
burro aromatizzato (si può semplicemente ammorbidire il burro e mischiare una piccola quantità di dragoncello)
panna aromatizzata
olio aromatizzato (lasciare macerare le foglie in olio extravergine di oliva per qualche giorno)
aceto aromatizzato (stessa procedura dell’olio)
insalate (si possono aggiungere le foglie fresche di dragoncello per renderle più saporite)
Il dragoncello, a seconda dei piatti, può essere utilizzato:
Fresco: ha un sapore più intenso ma non è sempre semplice reperirlo (si può però piantare nell’orto o sul balcone, vedi sotto)
Essiccato: ha un sapore meno deciso ma si trova facilmente nel reparto spezie ed erbe aromatiche di tutti i supermercati
Se si ha a disposizione dragoncello fresco, si può benissimo tritare e poi conservare in freezer utilizzandolo al bisogno. C’è chi consiglia di utilizzare per la conservazione i contenitori del ghiaccio in cui inserire l’erba aromatica unita a un po’ d’acqua.
Fin dall’antichità, il dragoncello è stato usato come rimedio naturale adatto a diverse situazioni. Possiamo riassumere così le proprietà benefiche di questa erba aromatica
Digestivo: un infuso di dragoncello dopo i pasti aiuta a favorire la digestione, anche inserirlo negli alimenti rende più facile il lavoro dello stomaco
Contro il meteorismo: questa erba aromatica ha il potere di ridurre i gonfiori intestinali
Antisettico: si tratta di un antisettico naturale ovvero di una specie di disinfettante che può tornare utile ad esempio in caso di mal di gola.
Diuretico: il dragoncello ha potere depurativo e in particolare è utile ad eliminare i liquidi in eccesso dal nostro corpo
Antinfiammatorio: il potere antinfiammatorio di questa erba aromatica si evidenzia ad esempio in caso di mal di denti e in generale di problemi alla cavità orale.
Aromatico ed esaltatore di sapidità: grazie al suo sapore particolare, il dragoncello permette di aromatizzare i cibi evitando o limitando l’uso del sale.
Stimola l’appetito: si tratta di un rimedio naturale utile in caso di inappetenza
Solitamente il dragoncello come rimedio naturale si utilizza sotto forma di infuso da realizzare con le foglie fresche o essiccate. Esiste anche l’olio essenziale di dragoncello da usare per via esterna (salvo diverso parere di un esperto) in caso di:
ansia e nervosismo (si può diffondere negli ambienti)
dolori muscolari e reumatismi (da utilizzare tramite massaggi)
cellulite (sempre da massaggiare con l’aiuto di un olio vettore)
E’ però controindicato in gravidanza e allattamento. Non utilizzare neppure sui bambini.
I semi del dragoncello possono essere piantati sia in primavera che in autunno ma spesso purtroppo non sono fertili. Proprio per questo spesso si consiglia di coltivare la pianta per rizoma o per talea (in questo caso per farlo attecchire meglio scegliere i mesi di aprile e maggio). Tenete presente che i cespi devono essere distanti uno dall’altro almeno di 40 centimentri e questo è dovuto al fatto che il dragoncello ha radici molto ramificate.
Questa erba aromatica richiede di essere coltivata in una zona soleggiata e non ventosa. Ha esigenza di un clima temperato e la cosa a cui bisogna prestare particolare attenzione sono le gelate. Si consiglia nei mesi a rischio di coprire la pianta con una pacciamatura.
Per quanto riguarda il terreno, questo deve essere fertile e ben drenato. La potatura, invece, va fatta prima dell’inverno.
Il nome “dragoncello” deriva dal fatto che il cespuglio di questa pianta ha una forma che ricorda quella di un piccolo drago così come quella delle sue radici che formano un groviglio. In realtà un’altra teoria vuole che sia la fama popolare che aveva il dragoncello di guarire dai morsi dei serpenti velenosi a fargli attribuire il nome che ancora oggi utilizziamo.
La carota (Daucus carota L., 1753) è una pianta erbacea dal fusto di colore verde appartenente alla famiglia delle Apiaceae; è anche uno dei più comuni ortaggi, e il suo nome deriva dal latino tardo carōta, a sua volta dal gr. καρωτόν (karōton). La carota spontanea è diffusa in Europa, in Asia e nel Nord Africa. Ne esistono molte e diverse cultivar che sono coltivate in tutte le aree temperate del globo. Allo stato spontaneo è considerata pianta infestante e si trova facilmente in posti assolati ed in zone calde e sassose.
Descrizione
È una specie erbacea biennale, alta fino a 100 cm, che nel secondo anno sviluppa un fusto eretto e ramificato con foglie verdi profondamente divise e villose. Ha grandi ombrelle di forma globulare composte da ombrellette. Queste sono a loro volta formate da fiori piccoli bianchi a cinque petali; il fiore centrale è rosso scuro, un carattere selezionato dalla pianta per indirizzare gli insetti impollinatori ad esso, in modo da poter portare il polline in altri fiori. L'infiorescenza presenta grandi brattee giallastre simili alle foglie. Sono fiori visitati dalle api per il polline ed il nettare.[1]
Nei fiori sono appunto presenti delle piccole ghiandole profumate che attirano gli insetti. Le infiorescenze dopo la fecondazione dei fiori si chiudono a nido d'uccello. Fiorisce in primavera da maggio fino a dicembre inoltrato. I frutti sono dei diacheni irti di aculei che aiutano la disseminazione da parte degli animali. La radice è lunga a fittone di colore giallastro, a forma cilindrica, lunga 18–20 cm con diametro intorno ai 2 cm. Nel gergo comune si è soliti riferirsi alla carota come alla parte edibile, di colore arancione, che è la radice.
Avversità
Le più importanti avversità che colpiscono la carota sono la mosca della carota (Psila rosae) e i funghi Sclerotinia sclerotiorum e Rhizoctonia solani.
Uso
La carota è coltivata a fittone radicale di colore bianco nelle varietà da foraggio ed arancio nelle varietà da ortaggio (cristalli di caroteni nei cromoplasti delle cellule parenchimatiche). La carota è ricca di vitamina A (Betacarotene), B, C ed E, nonché di sali minerali e zuccheri semplici come il glucosio. Per questo motivo il suo consumo favorisce un aumento delle difese dell'organismo contro le malattie infettive.
La carota viene coltivata in varie forme e colori
Composizione e valore energetico[3]
(in percentuale per 100 gr. di Carote crude – Fonte Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione):
Daucus carota
Parte edibile 95%
Acqua 91,6 g
Proteine 1,1 g
Lipidi 0,2 g
Glucidi disponibili 7,6 g
Fibra alimentare 3,1 g
Energia 35 kcal
Energia (kJ): 147
Sodio 95 mg
Potassio 220 mg
Ferro 0,7 mg
Calcio 44 mg
Fosforo 37 mg
Magnesio: 11 mg
Zinco: 2,92 mg
Rame (mg): 0,19
Selenio (µg): 1
Tiamina (mg): 0,04
Riboflavina (mg): 0,04
Niacina (mg): 0.7
Vitamina A retinolo eq. (µg): 1148 (i livelli variano da 880- 2300)
Vitamina C (mg): 4
La parte edibile della carota – che si coltiva due volte l'anno – è la radice (sviluppata a cono rovesciato): le carote precoci vengono raccolte dopo circa quattro mesi mentre le tardive ne richiedono circa sei. In base al tempo di coltivazione la loro lunghezza può variare da un minimo di 3 cm a un massimo di 20 cm. L'uso in cucina della carota è svariato; può essere utilizzata per preparare puree, succhi, minestre, dolci ecc., ma anche cruda in insalata. Ad una temperatura di 0 °C ed un'umidità percentuale tra 90-95 si può conservare per diversi mesi mantenendo inalterate tutte le sue proprietà organolettiche. Se cotta al vapore o consumata cruda conserva ugualmente ogni sua proprietà.
La parte centrale color porpora del fiore bianco viene usata dagli artigiani della miniatura. Dai suoi semi si ricava un olio aromatico che viene usato per la produzione di liquori[4].
La carota è molto usata in cosmesi perché antiossidante e ricca di betacarotene, perciò stimola l'abbronzatura prevenendo la formazione di rughe e curando la pelle secca e le sue impurità; la sua polpa è un ottimo antinfiammatorio adatto a curare piaghe, sfoghi cutanei e screpolature della pelle. È molto indicata per la cura delle affezioni polmonari e nelle dermatosi; quale gastro-protettore delle pareti dello stomaco è un ottimo antiulcera. Fra le altre molteplici proprietà curative, la carota ha quelle di prevenire l'invecchiamento della pelle, facilitare la secrezione del latte nelle puerpere, tonificare il fegato, regolare il colesterolo. Altri benefici riconosciuti sono la facilitazione della diuresi, la tonificazione dei reni, l'innalzamento della emoglobina, la regolazione delle funzioni intestinali. Infine, favorisce la vista portando sollievo ad occhi stanchi ed arrossati.[senza fonte]
L'assimilazione di carotenoidi nelle carote crude è del 4-5%. Aumenta fino a 5 volte in presenza di acidi grassi omega-9 (come nell'avocado), e in presenza di una cottura non prolungata (come invece è quella a vapore).
Ricette
Le carote si possono cucinare in vari modi, sia grattugiate con il succo di limone per contrastare con la sua acidità la dolcezza della carota. Si possono anche cucinare al vapore. Vengono talvolta usate per accompagnare il soffritto con il sedano e le cipolle. Inoltre, le carote si prestano per preparazioni dolci, come le famose torte di carote, che vengono a volte mangiate insieme alle mandorle, e i pudding.
Grazie al suo gusto dolce e zuccherino per la presenza del fruttosio contenuto in essa, la radice della carota è usata per fare il succo di frutta alla carota e confettura di carote: la produzione di quest'ultima in Spagna ha permesso all'Unione Europea di considerare la carota come se fosse un frutto, in quanto una Direttiva dell'Unione europea prescrive che la confettura si possa fare solo con la frutta, quindi, al pari dell'anguria e del melone, la radice della carota è un ortaggio nella produzione e un frutto nella consumazione.
Nomi comuni[
Carota selvatica
Cima Piuda
Ecotipi
Pestanaca di Sant'Ippazio
In alcuni dialetti del meridione viene fatto uso del termine "pastinaca" per indicare la carota. Nel Basso Salento (Tricase, Specchia) e nel Barese (Triggiano), ad esempio, si coltiva la pestanaca di Sant'Ippazio. La pestanaca di S. Ippazio non appartiene al genere Pastinaca, ma è una carota a radice lunga: Daucus carota L. var. sativus cultivar "Santu Pati"[5]. La pestanaca di Sant'Ippazio ha colori che vanno, a seconda della maturazione, dal giallo chiaro al viola scuro. È croccante e molto fragile, ha gusto fresco e succoso ed è l'unica carota conosciuta ad aver conservato la capacità di produrre cianidine. Tale radice è protagonista di una rinomata fiera associata al culto di Sant'Ippazio, patrono di Tiggiano, che si tiene il 19 gennaio.
Un tipo di carota dal colore e nome simile viene coltivata in Calabria, di certo nel promontorio del Poro; il nome in dialetto è prestinaca ed è di colore viola (o bianco prima della maturazione). Spesso viene consumata bollita con aceto; essendo più dura e flessibile della carota arancione, è leggermente meno facile consumarla cruda, e non si presta come ingrediente per altre pietanze più complesse. Per tali motivi è sempre più rara e poco commercializzata (anche mancando una festa come quella salentina di Sant'Ippazio che dia impulso alla sua coltivazione).
È una pianta annuale che raggiunge i 50 (massimo 100) cm di altezza con foglie lanceolate anche molto lunghe. I fiori sono bianchi e tubolari lunghi dai 3 ai 5 cm. I semi sono piccoli, bianchi o neri, a seconda delle varietà. La zona d'origine della pianta è sconosciuta, ma numerose specie selvatiche sono comuni in Africa e alcune altre in India.
I semi di sesamo vengono conservati essiccati o tostati; a seconda del trattamento i semini appariranno di colore più chiaro o con tonalità più scura. Il sesamo non contiene glutine e quindi può essere usato per la preparazione di alimenti per celiaci.
I semi di sesamo sono ricchi di olio. L'olio di sesamo viene estratto e usato a scopi industriali; in alcune nazioni dell'Asia (Giappone, Corea, Cina, India) è usato anche per l'alimentazione umana[1].
Consiste nei semi di alcune varietà chiare, semplicemente essiccati.
In Sicilia il sesamo (chiamato "giuggiulena o ciminu") viene aggiunto al pane e si usa per produrre una varietà di croccante.
Ispica conserva una produzione antica, introdotta in Sicilia al tempo della dominazione araba, di sesamo. La varietà ispicana ha un seme di piccole dimensioni, colore ambrato e sapore intenso. Si semina tra aprile e maggio e si raccoglie tra fine agosto e settembre. La raccolta è il momento più delicato. Si realizza con una mietitura manuale, quando le piante variano di colore e prima che le capsule si aprano naturalmente lasciando cadere i semi. Le piante sono lasciate asciugare al sole e poi battute. I semi devono essere puliti attraverso l’uso di speciali crivelli: un’operazione delicata, che richiede grande esperienza. Nella tradizione siciliana, il sesamo è un ingrediente importante: si trova nella ricetta di pani, biscotti e insaporisce molte portate. In particolare, il sesamo di Ispica[2] si usa per preparare la cobaita (o giuggiulena), il torrone delle feste, a base di miele, zucchero e sesamo, con possibili aggiunte di scorza di agrumi e mandorle. Il sesamo di Ispica[2] è stato riconosciuto presidio Slow Food[3] a partire dal 2016.
Nella cucina coreana i semi si utilizzano per preparare piatti tipici, come il bulgogi e il sannakji.
Dai semi, inoltre, si ricava la tahina[4], condimento tipico della cucina mediorientale.
Esso ha un alto valore energetico, pari a 568 kcal per 100 g di prodotto.[5]
Il sesamo nero è il seme tipico di alcune varietà a seme scuro, il termine è usato per diverse varietà.
I semi, soprattutto del sesamo nero, possono o meno essere tostati, a seconda degli usi. Il sesamo scuro ha un sapore più intenso e oleoso del sesamo bianco. È usato quasi esclusivamente nelle cucine dell'estremo oriente, perciò è poco conosciuto in Europa fatta eccezione per la cucina greco-turca (è conosciuto come shamar o mavro, dal greco μαύρο che significa, appunto, nero), dove lo si può trovare mescolato al sesamo bianco per guarnire il pane.
Il sesamo nero è ingrediente importante di molte ricette cinesi e giapponesi:
Semi di sesamo nero, soli o mescolati con sesamo bianco, possono essere utilizzati per formare la crosta esterna del sushi uramaki.
La zuppa dolce di sesamo nero è un piatto cantonese molto popolare insieme con i rotolini di gelatina di sesamo nero.
Anticamente in India era prevista un'offerta di quattro vasi di sesamo nero nelle cerimonie funebri; tale offerta avrebbe favorito il passaggio del defunto nell'aldilà. Ancora oggi i semi di sesamo (sia bianco, sia nero) sono considerati un simbolo di immortalità e profondamente legati ai culti sacri.
Il lino comune (Linum usitatissimum L., 1753) è una pianta della famiglia delle Linaceae. È stata una delle prime colture domesticate: fin dall'antichità è stato ampiamente coltivato in Etiopia e in Egitto; in una grotta, nella Repubblica della Georgia, sono state trovate fibre di lino tinte, databili al 30 000 a.C .
Descrizione
È una pianta erbacea annuale alta tra i 30 e i 60 cm con fusto eretto, molto fragile, ramificato nella parte finale con foglie tenere, lanceolate. I fiori sono grandi, di colore azzurro-cielo[3] con 5 sepali, 5 petali, 5 stami gialli. I frutti sono capsule contenenti semi di piccole dimensioni e di colore dal bruno scuro al giallo paglierino, a seconda delle varietà. La radice è un corto fittone.
Coltivazione
La pianta del lino cresce con facilità in regioni a clima temperato. Nei paesi freddi si ottiene la migliore produzione di fibra: Russia, Paesi Bassi, Francia e Romania sono tra i primi produttori mondiali di fibra. Il lino è una pianta annuale, con un ciclo vegetativo di circa quattro mesi.
Nell'area mediterranea si hanno prove della coltivazione e dell'utilizzo di lino risalenti a oltre 6.000 anni fa, mentre l'introduzione nel Nord-Europa avvenne in epoche preromane.
Usi
Il lino è coltivato sia per i suoi semi sia per la sua fibra. Dalle varie parti della pianta si ricavano tessuti, carta, medicinali, cordame (anche per le reti da pesca). Dai semi di lino si ottiene sia la farina sia l'olio di lino, commestibile, che ha vari impieghi come integratore alimentare, come ingrediente in prodotti per il legno (finitura) e nell'industria delle vernici come olio siccativo e diluente. È inoltre utilizzato dall'industria cosmetica come ingrediente base di gel per capelli e sapone. Infine il lino è coltivato anche come pianta ornamentale da giardino.
Cucina
I principali prodotti alimentari che si ricavano dai semi di lino sono la farina e l'olio; la farina è di colore scuro. I semi - ricchi di acidi grassi a catena lunga - possono essere consumati anche in purezza, integri e secchi, oppure ammollati in acqua e consumati appena germogliano. I semi bagnati diventano leggermente viscidi, ma ciò non ne inficia le proprietà nutritive.
Medicina
I semi di lino erano conosciuti nella medicina popolare come lassativo; alcuni studi moderni sembrano confermare la validità di tale uso[4]. Oggi, in fitoterapia l'olio di lino è anche consigliato come antinfiammatorio ed emolliente. Il lino contiene Omega-3, 6 e 9 e si ritiene che possa alleviare il diabete stabilizzando il livello di zuccheri nel sangue, ma il consumo eccessivo può ostacolare l'azione di alcuni medicinali somministrati oralmente, a causa del suo contenuto di fibre[5]. I semi sono inoltre usati nella medicina popolare per realizzare impiastri contro la tosse secca[6].
Tessile
Dal lino si ottiene una fibra molto pregiata, morbida, flessibile e resistente; pur essendo qualitativamente superiore, ha costi di produzione più alti di quelli del cotone. In Europa rappresentò la principale fibra tessile fino alla rivoluzione industriale quando venne sostituito dal cotone,[7] causa appunto la maggiore economicità di quest'ultimo.
Il lino in Sicilia
Il territorio del paese di Linera, in provincia di Catania, prima della sua fondazione, fu adibito alla coltivazione del lino e da essa la contrada venne indicata, appunto, le "linerie". Con la fondazione del nucleo abitato, avvenuta agli inizi del XIX secolo, il paese ha assunto la denominazione attuale in ricordo di queste antiche coltivazioni.
Il luppolo (Humulus lupulus L., 1753) è una pianta a fiore (Angiosperma) appartenente alla famiglia delle Cannabaceae.
Descrizione
Pianta erbacea perenne, caducifoglia e latifoglia, con rizoma ramificato dal quale si estendono esili fusti rampicanti che possono raggiungere i 9–10 m di lunghezza, può vivere dai 10 ai 20 anni. Le foglie sono cuoriformi, picciolate, opposte, munite di 3-5 lobi seghettati. La parte superiore si presenta ruvida al tatto per la presenza di numerosi peli, la parte inferiore è invece resinosa.
Essendo una specie dioica, i fiori maschio e femmina, unisessuali e di colore verdognolo, sono presenti su individui separati. I fiori maschili (o staminiferi) sono riuniti in pannocchie pendule e ciascuno presenta 5 tepali fusi alla base e 5 stami; i fiori femminili (o pistilliferi) presentano un cono membranoso che circonda un ovario munito di 2 lunghi stimmi pelosi. Si trovano raggruppati alle ascelle di brattee fogliacee, costituendo un'infiorescenza dalla caratteristica e inconfondibile forma a cono.
La fioritura avviene in estate. L'impollinazione è anemofila (trasporto per mezzo del vento) e in settembre-ottobre, con la maturazione dei semi, le brattee assumono una consistenza cartacea che aumenta la dimensione del cono. I frutti sono degli acheni di colore grigio-cenere.
Le infiorescenze femminili sono ricche di ghiandole resinose secernenti una sostanza giallastra e dal sapore amaro chiamata lupulina, composta da α-acidi (umulone, adumulone e coumulone), β-acidi (lupulone, adlupulone e colupulone), da polifenoli (es. flobafeni, xantumolo) e numerosi oli essenziali, che vengono utilizzati per aromatizzare e conferire alla birra il suo gusto caratteristico.
Ci sono attualmente 5 varietà tassonomiche riconosciute nel genere Humulus e sono: lupulus - luppolo Europeo; cordifolius - luppolo Giapponese; lupuloides, neomexicanus, pubescens - luppoli nordamericani.
Quella di "luppolo nobile" è una definizione storico-commerciale legata alla produzione della birra, assegnata arbitrariamente nel mondo brassicolo a quattro territori europei nei quali si sono geneticamente isolate alcune popolazioni, queste sono: l'Hallertauer Mittelfrueh dalla regione dell'Hallertauer in Baviera; Tettnanger dalla regione del Tettnang in Germania nella zona del lago di Costanza; Spalt dalla Baviera in Germania a sud di Norimberga; e Saaz dalla regione di Zatec in Repubblica Ceca. Molte delle varietà di luppolo più diffuse commercialmente nei secoli scorsi, facevano riferimento nei tratti principali ad almeno una di queste specie nobili. Attualmente, nonostante il loro rapporto alfa acidi/beta acidi di 1:1 che fornisce un piacevole profilo aromatico accompagnato da un amaro gradevole, sono caratterizzati da una scarsa resa per ettaro e da un'elevata inclinazione alla contrazione di malattie.
Il luppolo predilige ambienti freschi e terreni fertili e ben lavorati. Cresce spontaneamente sulle rive dei corsi d'acqua, lungo le siepi, ai margini dei boschi, vicino alle concimaie, dalla pianura fino a un'altitudine di 1 200 metri se il clima non è troppo ventoso e umido. La sua presenza in natura è molto comune nell'Italia settentrionale; il luppolo selvatico è peraltro presente in tutte le regioni, isole comprese, benché diventi progressivamente più raro verso sud[1].
È coltivato a scopi commerciali in entrambi gli emisferi, indicativamente tra il 30° e il 52° di latitudine, ed essendo molto resistente ai climi freddi può resistere fino a −30 °C.
La coltivazione del luppolo ha avuto inizio solo durante il IX secolo d.C. in Germania[2]. In precedenza, fin da tempi preistorici, il luppolo era già utilizzato, ma non coltivato. A livelli di coltivazione è suscettibile di molti parassiti come ad esempio un ascomicete già responsabile della ruggine del grano, la peronospora, oltre che di afidi e ragnetti. In Italia la sua coltivazione fu introdotta, a partire dal 1847, dall'agronomo Gaetano Pasqui di Forlì, che promosse anche una fabbrica di birra in attività già dagli anni '60 dell'Ottocento.
Fitochimica
Nei coni di luppolo sono state finora identificate più di 1 000 sostanze chimiche, che possono essere raggruppate in componenti dell'olio essenziale, acidi amari e flavonoidi prenilati. Sono presenti anche glicosidi flavonolici (astragalina, kempferolo, quercetina, quercitrina, rutina) e quantità apprezzabili di tannini (2-4%).[3]
Usi
Il luppolo viene usato soprattutto nel processo produttivo della birra,[4] le caratteristiche primarie sono:
fornire, nella quasi totalità dei casi, una base amaricante a bilanciamento della dolcezza apportata dal materiale fermentiscibile (malto d'orzo, malto di frumento, ecc.);
aumentare la stabilità microbiologica;
concorrere nella stabilizzazione della schiuma;
influenzare, a seconda degli stili in maniera minore o maggiore, il gusto e l'aroma.
Nel mondo brassicolo il luppolo viene solitamente distinto in due macrocategorie, luppoli amaricanti e luppoli aromatici, con alcune varietà commercializzate con il doppio scopo. I luppoli amaricanti sono solitamente aggiunti al mosto all'inizio della fase di bollitura, mentre quelli aromatici (gusto e aroma) vengono aggiunti negli ultimi 30 minuti di bollitura, con ulteriori diversità produttive per eventuali aggiunte in fase di Whirlpool o Dry-Hopping. L'intensità della luppolatura in una birra è specifica per lo stile ma anche riflesso della personalità del birraio, motivo per cui non esistono regole precise per le aggiunte di luppolo nella birra in termini di quantità, tempi o fasi. Nel caso del luppolo amaricante, la gittata di luppolo avviene a inizio bollitura per consentire agli α-acidi di isomerizzare in iso-alphaacidi solubili in acqua conferendo la reale parte amaricante al prodotto. L'unita di misura del potenziale amaricante del luppolo è definito dall'IBU (International Bitterness Unit). Gli oli essenziali sono invece responsabili del profilo aromatico, con caratteristiche che spaziano dal citrico al resinoso, dal fruttato al floreale, dal terroso all'erboso. Gli oli essenziali principali sono l'humulene, dall'aroma balsamico e legnoso; il carophyllene, dall'aroma di pepe nero; il myrcene, dall'aroma di geranio; e il farnesene, dall'aroma di gardenia. Le ricerche attuali hanno identificato circa 300 oli diversi che contribuiscono al profilo aromatico della birra, alcuni di questi oli forniscono aromi piacevoli all'uomo come i già citati caratteri floreali, fruttati e speziati, ma altri impartiscono invece aromi più sgradevoli come l'aroma di formaggio, di rancido o di grasso.
In cucina gli apici della pianta di luppolo (in dialetto piemontese "luvertin", in dialetto lombardo "luertis", in veneto "bruscandoli", in friulano "urticiòns", in versiliese "noppolo"), della lunghezza di circa 20 cm, vengono raccolti in primavera (marzo-maggio) e utilizzati come il più noto asparago (a volte, proprio per questo, sono erroneamente chiamati "asparagi selvatici").[5]
Da notare come, a differenza della maggior parte dei germogli utilizzati per uso culinario, i getti di luppolo selvatico siano più gustosi quanto più sono grossi. Una volta lessati per 5-10 minuti, con poca acqua o al vapore, si possono consumare direttamente con classico condimento "all'agro", oppure saltare qualche minuto in padella per servirli con riso o utilizzare per risotti, frittate e minestre.
Non vanno confusi con i rami fioriferi di altre piante solo a prima vista simili, quali l'Ornithogalum (Latte di gallina), un genere che conta molte specie assai tossiche (Ornithogalum pyrenaicum è però commestibile)[6].
Medicina
La parte attiva è costituita dai fiori femminili (coni) raccolti in settembre quando non sono ancora completamente maturi, oppure dalla polvere che si ottiene sbattendo e setacciando i coni, detta "luppolina". Nella tradizione popolare il luppolo è noto come sedativo, lievemente ipnotico e anafrodisiaco. Il contenuto di sostanze simili agli estrogeni, inoltre, pare essere responsabile dell'effetto ingrassante che la voce popolare attribuisce alla birra[7].
Il luppolo contiene 8-prenilnaringenina, il fitoestrogeno più potente conosciuto,[8] la cui concentrazione in humulus lupulus è così scarsa da non poter avere effetti biologici indagabili con le attuali tecniche di laboratorio.[9] Tuttavia tale composto si forma anche in seguito alla conversione in situ e in vitro dello isoxantoumulone, di cui il luppolo è molto più ricco. Gli effetti farmacologici di tali composti potrebbero essere di tipo estrogeno-simile.
Il cumino (Cuminum cyminum L.) è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle apiaceae (o umbelliferae), originaria del bacino del Mediterraneo, diffusasi in seguito anche nel continente americano.
Il cumino ha un fusto sottile e ramificato alto 20-30 cm. Le foglie sono lunghe 5–10 cm, disposte a pettine. I fiori sono piccoli, bianchi o rosa, e disposti a ombrella. Il frutto è un achenio laterale ovoidale-fusiforme, lungo 4–5 mm, contenente un singolo seme. I semi del cumino sono simili a quelli del finocchio e dell'anice verde, ma sono più piccoli e di colore scuro. Non va confuso con il carvi, che presenta frutti simili ma con un aroma completamente differente.
La parola "cumino" deriva dall'arabo "كمون" Kamūn. La spezia è originaria della Siria, dove il cumino cresce in terreni caldi e aridi. I semi di cumino sono stati rinvenuti in alcuni antichi siti archeologici siriani. La conoscenza del cumino, probabilmente, attraversò Turchia e Grecia, ancora prima della dominazione araba in Spagna nel quindicesimo secolo. Come tante altre parole di derivazione araba, però, la parola "cumino" fu acquisita nell'Europa Occidentale attraverso la via spagnola, piuttosto che quella greca. Qualcuno suggerisce che la parola derivi dal latino cuminum e dal greco κύμινον. Il termine greco stesso deriva dall'arabo. Forme di questa parola sono state ritrovate in diversi antichi linguaggi semitici, incluso kamūnu in Accadico.[1] Si pensa che la fonte iniziale sia la parola sumerica gamun.[2]
La paretimologia collega la parola con la città Persiana di Kerman dove, secondo la leggenda, veniva prodotta la maggior parte del cumino nell'antica Persia. Per i persiani, l'espressione "portare cumino a Kerman", ha lo stesso significato che per i Greci aveva "Portare vasi a Samo" (fare cosa inutile, visto che Samo era un importantissimo centro di produzione ceramica). Kerman, chiamata nel luogo anche "Kermun", si sarebbe trasformata in "Kumun" e quindi "Cumin" nei linguaggi europei.
Nell'India del nord e in Nepal, il cumino è conosciuto come jeera (Devanagari जीरा) o jira, mentre in Pakistan è conosciuto come zeera (Urdu زيره); nell'India del sud è chiamato Jeerige (ಜೀರಿಗೆ in ಕನ್ನಡ (Kannada)) o jeeragam o seeragam (Tamil (ஜீரகம்/சீரகம்)) o jilakarra (Telugu); nello Sri Lanka è conosciuto come duru, con la varietà bianca che prende il nome di suduru e quella più grande, maduru; in Iran e Asia Centrale, il cumino è conosciuto come zireh; in Turchia, il cumino è chiamato kimyon; nella Cina nord occidentale, il cumino è conosciuto come ziran (孜然). In lingua araba, è conosciuto come kamūn (كمون). Il cumino è chiamato kemun in etiope, ed è uno degli ingredienti nella spezia berberé.
Il cumino è stato usato fin dall'antichità. I semi, ritrovati nel sito siriano di Tell ed-Der, sono stati fatti risalire al secondo millennio a.C. Sono stati riferiti anche diversi ritrovamenti, relativi all'età del Nuovo Regno dell'Antico Egitto. [3]
Originariamente coltivato nell'Iran e nelle regioni mediterranee, il cumino è menzionato nella Bibbia, sia nell'Antico Testamento (Isaia 28:27) che nel Nuovo Testamento (Matteo 23:23). Era conosciuto anche nell'antica Grecia e nell'antica Roma. I greci tenevano il cumino a tavola, in un suo contenitore (più o meno come si usa con il pepe oggi), e questa usanza è mantenuta a oggi in Marocco. L'uso del cumino divenne sempre meno frequente, in Europa (con l'eccezione di Spagna e Malta) a partire dal Medioevo. Fu introdotto nel continente americano da parte dei coloni spagnoli.
Durante il Medioevo, la superstizione voleva che il cumino frenasse i polli, e gli amanti, dallo scappar via.[senza fonte] Si credeva anche che gli sposi che avessero portato dei semi di cumino con sé durante la cerimonia nuziale, avrebbero avuto una vita felice[senza fonte]. Il cumino è anche considerato d'aiuto nella cura del raffreddore, se aggiunto al latte caldo[senza fonte].
Nell'Asia del sud, il tè di cumino (semi essiccati e bolliti nell'acqua), è usato per distinguere il gonfiore di stomaco dovuto ai gas, da una vera gravidanza[senza fonte].
Nello Sri Lanka, tostare i semi e quindi bollirli nell'acqua produce un tè che è usato per calmare gravi problemi di stomaco.[senza fonte]
Il cumino ha un caratteristico sapore amaro e un odore forte e dolciastro grazie all'alto contenuto in oli. Si associa prevalentemente alla cucina indiana, può essere presente nel curry e con altre cucine esotiche (nordafricana, messicana) sebbene l'uso sia molto esteso in Spagna, specialmente nella cucina del sud-est della penisola iberica e nei territori germanofoni.
I semi di cumino sono usati come spezia per il loro aroma particolare, specialmente nella cucina nordafricana, del medio oriente, nella cucina dello Xinjiang, in quella indiana, cubana e nella cucina messicana del nord.
Il particolare profumo e l'aroma forte e caldo del cumino sono dovuti al suo contenuto di olii essenziali. Il suo costituente principale, e importante contributore all'aroma, è la cuminaldeide. Altri importanti componenti dell'aroma del cumino tostato sono le pirazine sostituite: 2-etossi-3-isopropilpirazina, 2-metossi-3-sec-butilpirazina e 2-metossi-3-metilpirazina.
È usato come ingrediente del curry. Si può trovare il cumino in alcuni formaggi olandesi, come il formaggio Leyden, e alcuni valdostani (in Valle d'Aosta la pianta cresce spontanea) e in alcuni tipi di pane casereccio francese. Viene anche usato comunemente nella cucina tradizionale brasiliana. In erboristeria, il cumino è classificato come stimolante, carminativo, e antimicrobico. Il cumino è inoltre un componente importante della polvere di chili, e si trova nelle misture di annatto, quelle per soffritti, garam masala, curry, e baharat.
Il cumino può essere usato per condire molti piatti, sia nella forma macinata, sia con i semi interi, dato che anche da essi può essere estratto il naturale sapore dolce. Mentre per le salse può essere aggiunto per dare un sapore in più, per l'autentico guacamole alla messicana è un ingrediente essenziale. Il cumino è inoltre stato usato sulla carne, in aggiunta ad altri condimenti. Il cumino veniva usato molto, inoltre, nella cucina dell'antica Roma.
La coltivazione del cumino richiede una estate lunga e calda, che duri 3-4 mesi, con temperature diurne intorno ai 30 °C; tollera la siccità, e viene coltivato prevalentemente nei climi mediterranei. Viene piantato usando i semi, durante la primavera, e richiede un terreno fertile e ben asciutto.
I semi di cumino sono una buona fonte di ferro[4].
I semi di cumino sono tradizionalmente considerati benefici per il sistema digestivo, e la ricerca scientifica[senza fonte] sta cominciando a riscoprire l'antica reputazione del cumino in tal senso. Tali ricerche hanno mostrato che il cumino può stimolare la secrezione degli enzimi pancreatici, che sono necessari per una corretta digestione e assimilazione dei nutrienti.[senza fonte]
I semi di cumino potrebbero avere anche proprietà anti-cancerogene[senza fonte]. In uno studio[quale?], il cumino mostrava di proteggere gli animali di laboratorio dallo sviluppo di forme tumorali dello stomaco e del fegato. Questo effetto protettivo potrebbe essere dovuto alle potenti capacità del cumino nella purificazione dai radicali liberi, come pure alla capacità mostrata nella stimolazione degli enzimi che detossificano il fegato[senza fonte]. Inoltre, considerando l'importanza della purificazione dai radicali liberi e della detossificazione per il mantenimento della salute generale, il contributo del cumino alla salute potrebbe andare persino oltre.[senza fonte]
Il cumino è più piccante, di colore più chiaro, e ha semi più grandi rispetto al Carum carvi, un'altra spezia con infiorescenza a ombrello, con cui spesso viene confuso. Molte lingue europee non distinguono chiaramente tra i due. Ad esempio, in ceco il carvi è chiamato 'kmín' mentre il cumino è chiamato 'římský kmín' o "carvi romano". La distinzione è praticamente la stessa in ungherese ("kömény" per il carvi e "római kömény" [carvi romano] per il cumino). In svedese, il carvi è chiamato "kummin", mentre il cumino è "spiskummin", dove spis significa alimento o cibo, mentre in tedesco "Kümmel" sta per carvi e "Kreuzkümmel" denota il cumino. Alcuni vecchi libri di cucina definiscono erroneamente il coriandolo macinato come la stessa spezia del cumino macinato.[5]
Il lontano parente del cumino, il Bunium persicum e la Nigella sativa che invece non è correlata, sono entrambi chiamati, a volte, cumino nero.
La segale (Secale cereale L., 1753), nota anche come segala, è un cereale diffuso nelle zone temperate.
Esistono la segale invernale e la segale estiva. Nell'Europa centrale viene coltivata quasi esclusivamente la segale invernale, che può sfruttare meglio l'umidità invernale e resiste meglio a un'eventuale siccità primaverile, dando un raccolto migliore. La segale estiva viene coltivata solo in regioni con pericolo di gelate tardive e in posizioni montuose esposte. Viene seminata in settembre/ottobre e raccolta in primavera[1]. La segale si adatta meglio del grano ai climi asciutti e ventilati.
È uno dei cereali classici dell'antichità. Si suppone che la sua origine risalga a 2000 - 3000 anni fa nei campi di grano dell'Asia minore dove cresceva inizialmente come erbaccia e dove era diffusa in coltivazioni miste.
La segale viene usata soprattutto in Europa centrale e orientale e in Scandinavia per produrre il pane di segale.
In Germania la segale viene impiegata soprattutto come mangime nel nutrimento degli animali e come cereale per pane. Qui nel 2004 si sono raccolte 3,9 milioni di tonnellate di segale su una superficie totale di 635.000 ettari. Da queste si sono prodotte 706.000 tonnellate di farina per sola produzione di pane. Tuttavia dal biennio 2004/05 la segale viene coltivata anche come elemento fondamentale per la produzione del bioetanolo da usarsi come carburante. La segale viene utilizzata anche per produrre alcool per liquori. Nei paesi dov'è una coltivazione primaria, la segale è la materia prima per eccellenza della produzione di Vodka (regioni est europee), e di Kornbrand" in Germania settentrionale.
Le proprietà di cottura della farina di segale sono sostanzialmente diverse da quelle della farina di grano. Questo dipende principalmente dal fatto che nella pasta di segale le molecole di glutine, una proteina collosa, non possono costruire alcuna struttura collante per il trattenimento dei gas a causa della presenza di pentosani (sostanze viscose). Queste sostanze viscose svolgono nella segale la stessa funzione del glutine nel grano. Sono importanti per legare e mantenere l'acqua durante la preparazione della pasta e nel processo di cottura. I prodotti da forno a base di segale si distinguono da quelli a base di grano per la pasta più scura, dura e aromatica. Il pane di segale è costituito principalmente da amido gelificato; la sua mollìca è più fitta e contiene meno pori, pertanto è meno aerata rispetto al pane di frumento.
Spesso si producono con la farina di segale il pane multicereali e il pane integrale. In anni di raccolti umidi spesso sussiste il rischio della maturazione precoce dei chicchi sullo stelo. Durante questo processo vengono prodotte le amilasi, enzimi che distruggono l'amido. Per ottenere comunque prodotti vendibili sul mercato le paste di farina di segale devono essere acidificate, cioè devono essere sottoposte all'aggiunta di pasta acida.
Il contenuto particolarmente elevato di lisina fa della segale un importante componente di un'alimentazione equilibrata.
La segale è interessante nell'alimentazione umana soprattutto per i cosiddetti pentosani sia dal punto di vista della fisiologia dell'alimentazione sia per quanto riguarda la tecnica di cottura. Secondo diverse ricerche parzialmente contraddittorie, i pentosani e la conseguentemente maggiore durata di permanenza del bolo alimentare nell'apparato digerente dovrebbero avere un effetto anticancerogeno.
Acqua 9,30 %
Proteine 9,40 %
Grassi 2,50 %
Carboidrati 55,10 %
Fibra alimentare 19,70 %
Minerali 2,00 %
Valori ogni 100 g
Kilocalorie 336, kJ 1400
Calcio 33,000 mg
Ferro 2,670 mg
Magnesio 121,000 mg
Fosforo 374,000 mg
Potassio 264,000 mg
Sodio 6,000 mg
Zinco 3,730 mg
Rame 0,450 mg
Manganese 2,680 mg
Selenio 0,035 mg
Tiamina 0,316 mg
Riboflavina 0,251 mg
Niacina 4,270 mg
Acidi Pantotenici 1,456 mg
Vitamina B6 0,294 mg
Acidi Folici 0,060 mg
Vitamina E 1,870 mg
α-tocoferolo 1,280 mg
Triptofano 0,154 g
Treonina 0,532 g
Isoleucina 0,549 g
Leucina 0,980 g
Lisina 0,605 g
Metionina 0,248 g
Cisteina 0,329 g
Fenilalanina 0,674 g
Tirosina 0,339 g
Valina 0,747 g
Arginina 0,813 g
Istidina 0,367 g
Alanina 0,711 g
Aspartato 1,177 g
Glutammato 3,661 g
Glicina 0,701 g
Prolina 1,491 g
Serina 0,681 g
La composizione della segale oscilla, a seconda della sua natura, sia in base alle condizioni ambientali (terreno, clima) sia alle tecniche di coltivazione (concimazione, protezione della pianta).
In questo contesto è di interesse un esperimento scientifico su tempi lunghi condotto presso l'Università Martin Lutero di Halle an der Saale, Germania. Nella facoltà di agraria locale si coltiva ormai ininterrottamente da 120 anni segale senza concime. Da decenni le parcelle coltivate senza concimazione producono circa una tonnellata e mezza di segale per ettaro, cioè circa la metà del raccolto che potrebbe raggiungere concimando "in modo tradizionale", anche se al terreno vengono sottratti anno dopo anno parti non trascurabili di nutrienti: potassio, fosforo e azoto. Sono pubblicati documenti in merito con il titolo di "Tentativo di concimazione a lunga durata" ("coltivazione perenne della segale"). La resa di circa tre tonnellate per ettaro con "concimazione tradizionale" era un'aspettativa di raccolto di parecchi anni fa; oggi la normalità, con somministrazioni bilanciate, è di circa 7-8 tonnellate per ettaro. Non sono qui citate le modalità di coltivazione "senza concime", se alternate con periodi di "riposo" (stand by) o con erbacee non concimate.
La triticale, un ibrido relativamente recente di grano e segale, unisce le proprietà di entrambe le specie.
La segale è molto resistente al clima umido e freddo. Può essere infestata dalla Claviceps purpurea, un parassita fungino che produce sulla segale la cosiddetta Segale cornuta e che talvolta colpisce anche il grano, specialmente quello duro. La Claviceps dà luogo a uncini cornei duri di colore bruno violetto detti "sclerozi" (indurimenti). Queste formazioni, che derivano dalla infestazione e distruzione degli ovari nella spiga in fioritura, poi permangono nella spiga matura. Gli sclerozi contengono composti alcaloidi che sono molto tossici per l'uomo, per cui vi è un limite legale di tolleranza, non superabile, di sclerozi nella massa di granella.
L'avena comune (nome scientifico Avena sativa L., 1753) è una specie di pianta spermatofita monocotiledone appartenente alla famiglia Poaceae (sottofamiglia Pooideae ex Graminaceae).
Il nome generico (Avena) deriva da un nome latino per avena (nome volgare della pianta coltivata sin dall'antichità).[2] L'epiteto specifico (sativa) indica una pianta coltivata, non selvatica.[3]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707 – 1778), biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum" (Sp. Pl. 1: 79 - 1753)[4] del 1753.[1]
Queste piante arrivano ad una altezza di 5 - 12 dm. La forma biologica è terofita scaposa (T scap), ossia in generale sono piante erbacee che differiscono dalle altre forme biologiche poiché, essendo annuali, superano la stagione avversa sotto forma di seme e sono munite di asse fiorale eretto e spesso privo di foglie. Questa pianta in genere è glauca e glabrescente.[5][6][7][8][9][10][11][12]
Le radici sono fascicolate avventizie.
La parte aerea del fusto è un culmo solitario, glabro, ascendente, cavo e snello. I culmi raramente possono essere fascicolati oppure singolarmente genicolati alla base. Sono presenti 2 - 4 nodi per culmo.
Le foglie lungo il culmo sono disposte in modo alterno, sono distiche e si originano dai vari nodi. Sono composte da una guaina, una ligula e una lamina. Le venature sono parallelinervie. Non sono presenti i pseudopiccioli e, nell'epidermide delle foglia, le papille.
Guaina: la guaina è abbracciante il fusto e in genere è priva di auricole; le guaine sono glabre o puberule alla base.
Ligula: la ligula nelle foglie inferiori è acuta; nelle foglie superiori è breve e tronca. Lunghezza della ligula: 3 – 6 mm.
Lamina: la lamina ha delle forme lineari e piatte (nastriformi) con apice acuminato; la superficie è glabra o scabrosa; i bordi sono cigliati. Il colore è verde glauco. Dimensione della lamina: larghezza 8 – 15 mm; lunghezza 15 – 30 cm
Infiorescenza principale (sinfiorescenza o semplicemente spiga): le infiorescenze, di tipo racemoso terminale (un racemo per infiorescenza), hanno la forma di una ampia e ricca pannocchia piramidale, incurvata all'estremità, formata da diverse spighette disposte unilateralmente. La pannocchia è lungamente peduncolata (il peduncolo è scabro verso il basso). I rami, scabrosi, sono verticillati e allargati in tutte le direzioni. La rachilla si estende oltre i fiori. La fillotassi dell'inflorescenza inizialmente è a due livelli (o a due ranghi[13]), anche se le successive ramificazioni la fa apparire a spirale. Lunghezza della spiga: 10 – 25 cm (massimo 40 cm).
Infiorescenza secondaria (o spighetta): le spighette, compresse lateralmente con forme da ellittiche a oblunghe, sottese da due brattee distiche e strettamente sovrapposte chiamate glume (inferiore e superiore), sono formate da due o tre fiori. Alla base di ogni fiore sono presenti due brattee: la palea e il lemma. I fiori non sono articolate sul rachide (sono persistenti all'interno delle glume); quindi è il rachide stesso che si rompe con tutti i fiori. Lunghezza delle spighette: 17 – 20 mm.
Glume: le glume, con forme lanceolate, apice acuto e consistenza erbacea, sono subuguali e possono racchiudere i fiori (sono grandi); possono avere da 9 a 11 venature. Lunghezza 20 – 30 mm.
Palea: la palea è un profillo lanceolato con alcune venature e margini cigliati.
Lemma: il lemma, interno all'apice, a consistenza coriacea, nella parte distale è bifido; in genere è glabro con pochi peli basali. Sul dorso è presente una resta inferiormente attorcigliata e ginocchiata. Lunghezza del lemma 12 – 25 mm. Lunghezza della resta: 30 – 50 mm.
I fiori fertili sono attinomorfi formati da 3 verticilli: perianzio ridotto, androceo e gineceo.
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:[6]
*, P 2, A (1-)3(-6), G (2–3) supero, cariosside.
Il perianzio è ridotto e formato da due lodicule, delle squame traslucide, poco visibili (forse relitto di un verticillo di 3 sepali). Le lodicule sono membranose e non vascolarizzate.
L'androceo è composto da 3 stami ognuno con un breve filamento libero, una antera sagittata e due teche. Le antere sono basifisse con deiscenza da una fessura laterale longitudinale. Il polline è monoporato.
Il gineceo è composto da 3-(2) carpelli connati formanti un ovario supero. L'ovario, pubescente all'apice, ha un solo loculo con un solo ovulo subapicale (o quasi basale). L'ovulo è anfitropo e semianatropo e tenuinucellato o crassinucellato. Lo stilo è breve con due stigmi papillosi e distinti.
Fioritura: da maggio a luglio.
I frutti sono cariossidi, ossia sono piccoli chicchi indeiscenti, con forme ovoidali, nei quali il pericarpo è formato da una sottile parete che circonda il singolo seme. In particolare il pericarpo è fuso al seme ed è aderente. L'endocarpo non è indurito e l'ilo è lungo e lineare. L'embrione è provvisto di epiblasto; ha inoltre un solo cotiledone altamente modificato (scutello senza fessura) in posizione laterale. I margini embrionali della foglia non si sovrappongono. A volte l'endosperma è liquido.
Come gran parte delle Poaceae, le specie di questo genere si riproducono per impollinazione anemogama. Gli stigmi più o meno piumosi sono una caratteristica importante per catturare meglio il polline aereo. La dispersione dei semi avviene inizialmente a opera del vento (dispersione anemocora) e una volta giunti a terra grazie all'azione di insetti come le formiche (mirmecoria). In particolare i frutti di queste erbe possono sopravvivere al passaggio attraverso l'apparato digerente dei mammiferi e possono essere trovati a germogliare nello sterco.[14]
La famiglia di appartenenza di questa specie (Poaceae) comprende circa 650 generi e 9 700 specie (secondo altri Autori 670 generi e 9 500[9]). Con una distribuzione cosmopolita è una delle famiglie più numerose e più importanti del gruppo delle monocotiledoni e di grande interesse economico: tre quarti delle terre coltivate del mondo produce cereali (più del 50% delle calorie umane proviene dalle graminacee). La famiglia è suddivisa in 11 sottofamiglie, il genere Avena è descritto all'interno della sottofamiglia Pooideae con 25 specie distribuite nelle regioni temperate del Mediterraneo, Europa, Africa e Asia.[5][6]
La sottotribù Aveninae (contenente il genere della specie di questa voce) è descritta all'interno della tribù Aveneae Dumort., 1824 e quindi della supertribù Poodae L. Liu, 1980. All'interno della tribù, la sottotribù Aveninae appartiene al gruppo con le sequenze dei plastidi di tipo "Aveneae" (definito "Poeae chloroplast groups 1"[15] o anche "Palstid Group 1 (Aveneae-type)"[16]).
All'interno delle Aveninae si individuano due subcladi. Avena si trova nel primo clade insieme ai generi Arrhenatherum e Helictotrichon.[17] Le specie di Avena formano una serie complessa di poliploidi. La specie di questa voce fa parte della sezione Avena, contenente tutte specie esaploidi. Un recente studio del gene 3-fosfoglicerato chinasi un enzima del plastidio nucleare (chiamato Pgk1) su 14 diplodi, 8 tetraploidi e 4 esaploidi del genere Avena ha evidenziato tre genomi principali (A - C - D) e diversi sottocladi, assegnando alla specie di questa voce il genoma ACD (esaploide) derivato probabilmente da un evento di allopoliploidizzazione indipendente.[18][19]
Le seguenti sono sinapomorfie relative a tutta la sottofamiglie (Pooideae):[5]
la fillotassi dell'inflorescenza inizialmente è a due livelli;
le spighette sono compresse lateralmente;
i margini embrionali della foglia non si sovrappongono;
l'embrione è privo della fessura scutellare.
Per il genere Avena è stata individuata la seguente sinapomorfia: l'ilo è lineare.
Il numero cromosomico di A. sativa è: 2n = 42[20] (esaploide[18]).
L'avena discende da A. sterilis, un'avena selvatica che si è diffusa come erba infestante di grano e orzo dalla Mezzaluna fertile (una regione che si estende dalle coste del Mediterraneo orientale all'altopiano iranico) all'Europa. Fu addomesticata circa 3.000 - 4.500 anni fa, e nelle condizioni più umide e fredde dell'Europa, favorevoli all'avena, presto divenne un cereale importante a sé stante ai margini più freddi dell'Europa.[12]
L'avena viene generalmente seminata all'inizio della primavera e raccolta in piena o tarda estate; nelle regioni meridionali dell'Europa e del Nord America può essere seminata anche in autunno. La specie più diffusamente coltivata è Avena sativa, mentre Avena fatua, nota con il nome comune di avena folle, è considerata una pianta infestante difficile da eliminare, che cresce in Europa, nel Nord America e in Asia.
Al momento del raccolto i chicchi d'avena consistono di cariossidi (frutti) altamente digeribili avvolte da un tegumento non digeribile. L'avena integrale è un alimento ricco di proteine (12%), grassi (7%), fibre (dal 12 al 14%) e carboidrati (circa 64%)[non chiaro]. Ha anche un buon contenuto di sali minerali, soprattutto calcio, magnesio, potassio, silicio e ferro, che ne fa un ottimo remineralizzante.
Rispetto alle varietà comuni fino a qualche tempo fa, quelle attualmente coltivate hanno rese più elevate e sono più ricche di proteine e di sostanze energetiche; sono inoltre più resistenti alla ruggine, ai virus e alle aggressioni di insetti. Se consumata sotto forma di cereali ottenuti dai chicchi tostati, l'avena è un'ottima fonte di proteine e di tiamina o vitamina B1.
Fu descritta già da Plinio il Vecchio. Essendo molto nutriente, l'avena integrale è ideale nelle convalescenze e durante l'allattamento. Possiede una buona percentuale di lisina. Regola la tiroide, rinforza i tendini e le ossa. Veniva somministrata ai cavalli per un buono sviluppo dei muscoli.
È utile come integratore a chi soffre di insonnia, depressione e disordini dell'appetito. Questo perché contiene due alcaloidi: la gramina, un composto indolico che pare agire sul recettore del neurotrasmettitore acido gamma-amminobutirrico o GABA; e l'avenalumina, che sembra agire positivamente sul metabolismo delle catecolammine.
Regola il colesterolo attraverso la presenza di alcuni composti steroidei (triterpenoidi e saponine) chiamati avenacine e avenacosidi A e B.
L'avena è priva di glutine[Nel paragrafo sotto è scritto che tutte le varieta' di avena contengono glutine], ma nelle preparazioni industriali è spesso contaminata con altri cereali contenenti glutine.[27]
Contiene carboidrati a lenta digestione, fibre, amido, proteine, grassi insaturi e ha un basso indice glicemico, ciò lo rende un alimento adatto ai diabetici.
È ricca di sali minerali, come potassio, calcio, fosforo e ferro e contiene anche le vitamine B, C ed E, contiene l’avenina, una sostanza che ha effetti benefici per l’energia del nostro corpo, il sistema nervoso e la tiroide. Favorisce la digestione, abbassa il colesterolo, e aiuta a combattere stress e depressione, ha inoltre proprietà lassative che aiutano in caso di stipsi. Inoltre previene l'osteoporosi grazie agli alti livelli di calcio.
Grazie alle sue innumerevoli proprietà viene molto utilizzata in campo cosmetico, in quanto risulta essere un toccasana per la pelle secca, sensibile e disidratata, e aiuta a rinforzare i capelli[28]
Tutte le varietà di avena in vendita contengono il glutine.[29] La cosiddetta farina d'avena "pura" si riferisce all'avena non mescolata con altri cereali contenenti glutine.[30] Quest'ultima tipologia è anche conosciuta con la controversa definizione di "avena senza glutine", etichetta che è stata usata in molti paesi per molto tempo in quanto essi avevano bisogno di distinguerla dall'avena non contaminata dal glutine presente negli altri alimenti con cui veniva mescolata. Oggi, nella maggior parte dei casi, solo leggendo la lista degli ingredienti è possibile identificare eventuali alimenti contenenti glutine.
Studi recenti mostrano che diverse varietà di avena hanno diversi gradi di tossicità da glutine.[30][31] Alcune varietà di avena pura sembrano avere un basso grado di tossicità e alcuni esperti ritengono che potrebbero essere incluse nella dieta priva di glutine, ma sarebbe essenziale conoscere esattamente la varietà utilizzata e attualmente non esiste alcuna regolamentazione in proposito.[30] Pertanto, chi soffre di sensibilità al glutine deve rivolgersi a un medico per conoscere la quantità di avena che può assimilare.[32] A dispetto del nome, etichettature come "avena pura", "avena senza glutine" o "farina d'avena priva di glutine" non sono varietà del tutto senza glutine.[33][34]
I chicchi di avena vengono destinati all'alimentazione umana o animale; le piante verdi sono spesso messe a fieno, immagazzinate nei silos e utilizzate come foraggio, mentre le piante essiccate costituiscono un ottimo materiale da lettiera per il bestiame. L'avena rappresenta un'importante coltura da rotazione nelle aziende agricole che dispongono di bestiame e di terreno arabile.
L'avena contiene antiossidanti che impediscono ai cibi grassi di irrancidire; per questa proprietà, viene generalmente usata come additivo di diversi cibi e nella produzione delle carte in cui si avvolgono gli alimenti.
Uno dei principali prodotti industriali ottenuti da questo cereale è il furfurolo, una sostanza chimica derivata dal tegumento della cariosside, utilizzata come solvente in alcuni processi di raffinazione industriale.
Inoltre, l'avena viene impiegata in distilleria per la produzione del whiskey.
Il grano o frumento, arcaicamente anche trittico (con questi nomi si indica sia la pianta sia le cariossidi di tale pianta), è un genere della famiglia graminacee, cereale di antica coltura, la cui area d'origine è localizzata tra Mar Mediterraneo, Mar Nero e Mar Caspio.
Generalità
Il termine "grano" deriva dal latino granum (cfr. tra l'irlandese gràn e l'albanese gruni, e tra il gotico kaurna, l'alto-tedesco antico corn e l'inglese corn), dalla radice indoeuropea gar- (cfr. il sanscrito g'arati) dal significato di "triturare", "fregare", "scorticare" da cui il greco antico gŷr-is (γῦρις), "fior di farina" (lett. "il cereale da macinarsi"). È anche possibile che "grano" derivi dalla radice ghar- ("spargere") e che quindi il sanscrito g'arati significhi "la cosa che si sparge, si dissemina".[1]
Ne esistono cinque specie principali:
Grano tenero (Triticum aestivum);
Grano duro (Triticum durum);
Spelta (Triticum spelta) o farro grande;
Farro piccolo (Triticum monococcum);
Farro medio (Triticum dicoccum);
La legge italiana[2] considera grano tenero e grano duro due varietà merceologiche, le uniche che possano essere associate al termine generico "frumento".
Sistematica
La classificazione del genere Triticum è complessa ed è stata oggetto di numerosi e successivi studi; quella di van Slageren è la più recente ed è attualmente accettata dalla maggior parte degli studiosi. Inoltre, alcuni studiosi hanno suggerito l'unificazione del genere Aegilops con il genere Triticum. Per queste ragioni è possibile trovare citazioni di altre specie appartenenti al genere Triticum, attualmente declassate al rango di sottospecie o assegnate al genere Aegilops.
Il genere Triticum comprende sei specie classificate in base al livello di ploidia (ossia al numero di cromosomi che compongono il genoma) e alla composizione genomica.
Due specie sono diploidi con 14 cromosomi, due tetraploidi con 28 cromosomi e due esaploidi con 42 cromosomi.
Il Triticum monococcum (diploide con genoma A m) comprende due sottospecie: T. monococcum aegilopoides, selvatico, e T. monococcum monococcum, coltivato, commercializzato con il nome di "piccolo farro";
Il T. urartu (diploide con genoma A) esiste esclusivamente in forma selvatica. Benché i genomi di T. monococcum e T. urartu siano molto simili, le due specie sono considerate distinte poiché non danno progenie fertile se interfecondate;
Il T. turgidum (tetraploide con genomi BA), commercializzato come "grano duro", è il frutto della ibridazione avvenuta tra una specie appartenente alla linea evolutiva dell'Aegilops speltoides e il polline del T. urartu. Il T. turgidum comprende numerose sottospecie di cui una delle più importanti è il T. turgidum dicoccum, coltivato e commercializzato con il nome di farro; dalla sottospecie T. turgidum dicoccum è stato successivamente derivato il grano duro (T. turgidum durum);
Il T. timopheevii (tetraploide con genomi GA), benché molto simile al T. turgidum, è il frutto di un'ibridazione più recente avvenuta tra l'Aegilops speltoides e il polline del T. urartu. Se interfecondate, T. turgidum e T. timopheevii non danno progenie fertile e sono pertanto considerate specie differenti. Al T. timopheevii appartengono due sottospecie: il T. timopheevii armeniacum, forma selvatica dalla quale è stata addomesticata una forma coltivata in alcune regioni del Caucaso, il T. timopheevii timopheevii;
Il T. aestivum (esaploide con genomi BAD) è derivato dall'ibridazione di una sottospecie coltivata di T. turgidum e il polline di una specie selvatica, l'Aegilops tauschii. Tutte le diverse sottospecie sono coltivate, ma la più importante è il grano tenero;
Il T. zhukovskyi (esaploide con genomi GAAm ) è derivato dall'ibridazione tra T. timopheevii timopheevii e il polline del T. monococcum. Anche questa specie esiste solo in forma coltivata ed è presente in alcune regioni del Caucaso.
Il grano duro e il grano tenero sono utilizzati per l'alimentazione umana. Dal grano duro si producono semole e semolati dai granuli grossi con spigoli netti, mentre dal grano tenero si ottengono farine dai granuli sottili e tondeggianti.
Le farine di frumento, in generale, sono utilizzate per la panificazione, per la produzione di paste alimentari fresche o sottovuoto, di biscotti, di dolci, e altri prodotti da forno. Con le semole, ricavate dal grano duro, si producono pasta alimentare secca, alcuni tipi di pane, soprattutto nel sud Italia (famosi sono il pane di Altamura, di Cutro e di Castelvetrano), e prodotti da forno essiccati a lunga conservazione.
La legislazione italiana (Legge n. 580 del 1967) prevede che la pasta secca debba essere fabbricata solo ed esclusivamente con semola di grano duro. Qualsiasi aggiunta, anche se parziale, di grano tenero costituisce una frode. Non così però in altri Paesi in cui è possibile utilizzare la farina di grano tenero anche per la pasta.
Dalle cariossidi si ricavano anche amido e, previa fermentazione, alcol.
I principali componenti della farina sono l'amido e il glutine ed inoltre destrina, zuccheri, gomme, piccole quantità di sostanze grasse, sostanze minerali, fosfati, sostanze coloranti e vitamine.
Con le moderne tecniche di macinazione, realizzate con laminatoi , dalla cariosside del frumento si separano come sottoprodotti: il germe, da cui si può ricavare un olio (detto olio di frumento) di colore giallo-bruno, soggetto ad irrancidirsi facilmente ed impiegato soprattutto nella produzione dei saponi; la crusca, adatta all'alimentazione zootecnica o come integratore alimentare per le diete.
Come prodotto di scarto, dalla coltivazione del grano deriva anche la paglia, impiegata per le lettiere dei bovini nelle stalle e per la fabbricazione della carta.
Le varietà note, derivate dalle specie maggiormente coltivate, sono numerosissime, nell'ordine di qualche migliaio. I frumenti teneri comprendono il maggior numero di varietà e hanno la massima estensione colturale anche perché sono i soli in coltivazione nei paesi nordici. I grani duri, invece, sono più tipici dei paesi con clima temperato caldo.
L'Italia è un forte produttore di frumento a motivo, tra l'altro, del clima favorevole a questa coltura. In Italia il frumento occupa circa il 35% dei seminativi, circa un terzo dell'intera superficie in rotazione agraria e il 70% della superficie coltivata a cereali.
Nella pratica agricola i frumenti si distinguono in invernenghi (o autunno-primaverili) e in marzuoli (o primaverili). Queste due definizioni si riferiscono al diverso ciclo vegetativo della pianta. I primi hanno un ciclo più lungo e devono essere seminati prima dell'inverno, da metà ottobre a metà novembre. I secondi hanno un ciclo vegetativo più breve e vengono seminati in marzo. In Italia si dà la preferenza ai frumenti a lungo ciclo vegetativo e di norma si ripiega su quelli a breve ciclo solo quando l'andamento stagionale in autunno è stato così sfavorevole da impedire gran parte delle semine in tempo utile.
Una ricerca svolta su 108 diverse varietà di grano duro, sia antiche che moderne, ha evidenziato che tutte le varietà di grano duro possiedono la stessa capacità di mettersi in simbiosi micorriza con le specie fungine Funneliformis mosseae e Rhizoglomus irregulare, che sono microrganismi benefici presenti nel suolo e che contribuiscono alla crescita della pianta permettendo di estrarre dal suolo le grandi quantità di nutrienti minerali fondamentali, a partire da fosforo e azoto[3][4].
Produzione
La produzione mondiale di frumento è stata nel 2009 di 681,9 milioni di tonnellate, di cui 138,7 nella sola Unione Europea. Sempre nel 2009 i primi cinque produttori mondiali sono stati la Cina (115 mt), l'India (81 mt), la Russia (62 mt), gli Stati Uniti d'America (60 mt) e la Francia (38 mt).
L'Italia produce annualmente circa otto milioni di tonnellate di frumento. Importanti produzioni provengono dalla provincia di Foggia, nota come il Granaio d'Italia.
In Europa i Paesi più forti produttori sono (nell'ordine) la Francia, la Germania, il Regno Unito, l'Italia, la Romania, la Spagna e l'Ungheria. In America i maggiori produttori sono il Canada, gli Stati Uniti d'America e l'Argentina.
Il volume di granaglie scambiato tra le nazioni in un anno è di 244 milioni di tonnellate. Più della metà è negoziato da Cargill, multinazionale con centro in Minnesota, e circa il 25-30% dalla Archer Daniels Midland (ADM).
Molte sono le cause avverse che danneggiano la coltivazione del frumento, tra queste ci sono i parassiti.
I 10 maggiori produttori di triticum nel 2018[5]
Paese
Produzione (tonnellate)
131.440.500
99.700.000
72.136.149
51.286.540
35.798.234
31.769.200
25.076.149
24.652.840
20.941.134
20.263.500
Mondo
735.179.776
Parassiti
I principali parassiti crittogamici sono le specie fungine del genere Puccinia (agenti causali della "ruggine") (vedi Basidiomiceti), Erysiphe (agenti causali dell'oidio o "mal bianco"), Fusarium (agenti causali della "fusariosi della spiga"), Gaeumannomyces (agenti causali del "mal del piede") e Ustilago (agenti causali del "carbone").
La "carie" del frumento è dovuta a due specie di Tilletia.
Un parassita fungino, la Claviceps purpurea, per quanto sia più comune sulla segale (Segale cornuta), talvolta dà origine anche sul grano, specialmente in quello duro, a speciali formazioni dette "sclerozi", che derivano dalla trasformazione dell'ovario in un corpo allungato, duro e di colore scuro. Gli sclerozi contengono composti alcaloidi molto tossici per l'uomo, per cui vi è un limite legale di tolleranza pari all'1‰ di sclerozi nella massa.
Fitofagi
Fra i fitofagi sono temibili le larve di alcuni elateridi (Agriotes lineatus, Agriotes pilosus, ecc.), alcune cimici (Aelia rostrata, Aelia acuminata), lo Zabrus tenebrioides e le larve di alcune farfalle dei nottuidi, tra cui Agrotis segetum. Vi sono anche parassiti che danneggiano le cariossidi già trebbiate ed immagazzinate, quali la calandra, le tignole ed il tenebrione.
Il terreno viene prima preparato con un'aratura di bassa-media profondità (20–35 cm), poi viene erpicato per affinarne la superficie e infine concimato. La semina si effettua a ottobre-novembre per le "colture invernali" che necessitano di molta umidità, per le altre colture la semina è primaverile. Se la semina è meccanizzata, avviene con una seminatrice a righe gravitazionale, che distribuisce i chicchi in file parallele poco distanziate, interrandoli a una profondità regolare di 2–3 cm; per un ettaro sono necessari circa due quintali di semi. Altre fasi della lavorazione sono la concimazione invernale (fatta di solito solo con concimi contenenti azoto ammoniacale, meno dilavabile dalle frequenti piogge di questo periodo), di norma integrato con fosforo ma anche con potassio, il diserbo chimico a febbraio per distruggere le erbe infestanti. La pianta si sviluppa rapidamente in primavera (levata) e raggiunge un'altezza pari a 40–80 cm; a giugno le spighe sono mature. Un vecchio metodo per controllare la maturazione consiste nello schiacciare i semi con i denti, quando sono duri e ruvidi è pronto per il raccolto.
Consiste nel taglio della pianta (mietitura) e nella separazione dei chicchi dalla paglia e dalla pula (trebbiatura). In genere queste due operazioni sono svolte contemporaneamente con l'impiego di una mietitrebbia.
Nelle regioni a clima temperato freddo si coltiva il grano "tenero". Nelle regioni a clima temperato caldo si coltiva invece il grano "duro". La resa per ettaro può variare sensibilmente in dipendenza di diversi fattori tra cui principalmente l'andamento climatico stagionale e la rotazione colturale effettuata. In media la resa è 25-90 q/ha (quintale/ettaro) per il grano tenero, 15-50 q/ha per il grano duro.
Nel 1974 fu ottenuta una mutazione di grano duro, il "Creso", irradiando con raggi X e raggi gamma[6] la varietà "Senatore Cappelli" (nome che il suo creatore Nazzareno Strampelli gli dette in onore del senatore Raffaele Cappelli, che gli aveva concesso i terreni per portare a termine le sue sperimentazioni[7]). Il fusto del Creso risulta più basso e dunque più resistente all'allettamento, determinato dal vento, che rende difficoltosa la mietitura compromettendone la resa. Questo genere di modificazione genetica è esclusa dall'applicazione della regolamentazione europea sugli organismi geneticamente modificati (OGM) in quanto è stata ottenuta tramite mutagenesi.
Storia
Il frumento fu tra le prime piante ad essere coltivate. Il centro della sua domesticazione è stato identificato dagli archeologi in località diverse dell'ampia area che dai rilievi iraniani e dalle montagne dell'Anatolia raggiunge la costa della Palestina, comprendendo la valle del Tigri e dell'Eufrate, area che per la sua forma è stata definita la Mezzaluna Fertile. Nella "Mezzaluna" il centro originario della coltura è stato fissato da studiosi diversi in punti differenti. Gli ultimi studi, condotti comparando il corredo genetico dei frumenti selvatici tuttora esistenti e di quelli coltivati, hanno fissato la culla della coltivazione proprio nel centro geometrico della "Mezzaluna fertile" sui monti Karacadag, una catena posta tra l'alveo del Tigri e quello dell'Eufrate.
Archeologi e storici hanno analizzato l'importanza che la coltura del frumento ha svolto per spingere le prime società umane a forme di organizzazione più complesse. Mentre gli ortaggi possono essere coltivati, infatti, anche attorno ad un campo di nomadi, il frumento, nelle condizioni climatiche della valle del Tigri-Eufrate, spinse i primi coltivatori a realizzare reti di canali per estendere la coltura, edificare le prime città difese da mura per tutelare il raccolto nel corso dell'anno e organizzare eserciti per difendere dai nomadi il territorio irrigato dai canali faticosamente realizzati, oltre che per procurare gli schiavi per estendere i canali a nuove superfici. Il frumento ha costretto, in questi termini, l'uomo a organizzare la società civile.
L'assicurare alla città di Roma il regolare approvvigionamento del grano divenne il cardine della politica dell'impero romano. Il frumento rientrava nelle abitudini alimentari della plebe romana, a differenza dei Siciliani, consumatori di hordeum (orzo) sulla base della tradizionale agronomia greca. Le abitudini della plebs romana indussero a promulgare la legge Terenzia Cassia volta a reperire frumento di buona qualità.[8]
Attrezzatura tradizionale per la pulitura del frumento in Sicilia (Museo Civico Nicola Barbato, Piana degli Albanesi)
Campi coltivati a frumento
Campo di grano in Belgio (Hamois) con la tipica presenza di fiordalisi e papaveri
Contratto futures sul frumento
Nome
Wheat Futures
Simbolo
W
Dimensione
5000 bushel
Tick
0.01 bushel
Scadenze
Gennaio, Marzo, Maggio, Luglio, Settembre, Dicembre
Borsa
Chicago Mercantile Exchange[9]
Il Wheat è il contratto futures con cui si scambia il frumento sui mercati finanziari.[9]
Il prezzo del frumento è influenzato dai seguenti fattori:[10][11]
Dollaro statunitense: La valuta statunitense è la valuta di riserva mondiale. Di conseguenza, il grano, come altre materie prime, viene quotato in dollari USA. I venditori di grano ricevono meno dollari per il loro prodotto quando la valuta statunitense è forte e più dollari quando la valuta è debole. Pertanto, un dollaro USA forte deprime i prezzi del grano, mentre un dollaro USA debole li solleva. Inoltre, poiché gli Stati Uniti sono uno dei principali esportatori di grano, è probabile che il suo prezzo continuerà a essere quotato in dollari USA.
Domanda e offerta: I governi spesso intraprendono azioni che provocano squilibri tra domanda e offerta nel mercato del grano. Ad esempio, negli ultimi anni l'India ha emanato dazi all'importazione sul grano nel tentativo di sostenere la produzione interna. Queste tasse potrebbero portare a una domanda depressa per le esportazioni e prezzi globali più bassi. D'altra parte, i paesi che sovvenzionano il grano con tasse o altri incentivi potrebbero cessare di farlo in futuro. Gli agricoltori passerebbero quindi alla coltivazione di altre colture, il che potrebbe causare una diminuzione delle forniture di grano e un aumento dei prezzi.
Mercati emergenti: I modelli demografici globali stanno cambiando. La crescita della popolazione nel mondo sviluppato è stagnante o in calo, ma l'Africa, il sud-est asiatico e il Medio Oriente stanno vivendo un boom demografico. Con l'aumento della popolazione in queste aree, aumenterà anche la loro domanda di cibo. Il grano è una fonte di cibo nutriente che cresce in una varietà di climi diversi, quindi probabilmente diventerà un elemento base nei mercati emergenti. Inoltre, man mano che questi paesi diventano più ricchi, il loro consumo di carne aumenterà probabilmente. Poiché il grano è un'importante fonte di mangime per il bestiame, anche questo dovrebbe aumentare i prezzi del grano. Naturalmente, se in queste regioni si verificassero importanti battute d'arresto economiche o politiche, i prezzi del grano probabilmente ne risentirebbero.
Clima: Le condizioni meteorologiche giocano un ruolo nella determinazione dei prezzi del grano. Se i raccolti soffrono a causa di troppe piogge o di condizioni simili alla siccità, i prezzi del grano potrebbero aumentare. D'altra parte, le condizioni meteorologiche ideali potrebbero aumentare i raccolti e abbassare i prezzi del grano. Tuttavia, l'offerta di grano è globale, quindi le scarse condizioni di crescita in una regione del mondo sono spesso compensate da condizioni favorevoli in un'altra area. *Sussidi sull'etanolo: Il governo degli Stati Uniti sovvenziona i coltivatori di mais per aiutare a incrementare la produzione di etanolo. Di conseguenza, negli ultimi anni gli agricoltori statunitensi hanno aumentato la superficie coltivata a mais a scapito del grano. Ciò ha comportato una minore produzione di grano e probabilmente ha contribuito ad aumentare i prezzi del grano. I sussidi per il mais sono politicamente controversi e, se dovessero cessare, la produzione di grano probabilmente aumenterà e i prezzi potrebbero scendere.
Il grano possiede il quadruplo dei geni di un essere umano. Un patrimonio genetico così ampio deriva dal fatto che il grano nasce della fusione di ben tre piante diverse, due graminacee e una pianta erbacea. Non è però ancora chiaro perché si sia conservato un numero così alto di geni di ognuna delle specie di prigione [12].
Nel folklore europeo si suppone spesso che lo spirito del grano si incarni in diversi animali: lupo, cane, lepre, gatto, volpe, gallo, oca, quaglia, capra, vacca, maiale, cavallo. Quando si taglia il grano l'animale fugge davanti ai mietitori e se un mietitore si ammala si ritiene che sia inciampato per errore sullo spirito del grano che l'ha quindi punito. La persona che taglia le ultime spighe o l'ultimo covone prende il nome dell'animale e conserva talvolta il nome per tutto l'anno. Talvolta chi ha battuto l'ultimo covone rappresenta esso stesso l'animale.[13] Queste incarnazioni zoomorfe dello spirito del grano mettono in evidenza il carattere sacramentale della cena del raccolto: per i mietitori si tratta dunque di un pasto sacramentale.
Il bulgur[1], in italiano "grano spezzato", è un alimento costituito da grano duro integrale germogliato, che subisce un particolare processo di lavorazione. I chicchi di frumento vengono cotti al vapore e fatti essiccare, poi vengono macinati e ridotti in piccoli pezzetti. È molto diffuso in Turchia, in Tunisia e anche in altri paesi del Medio Oriente e il suo nome deriva dal turco bulgur, che significa "orzo bollito" .
Varietà
Vi sono diverse forme di bulgur a seconda della grandezza dei granelli: le pezzature più grandi sono utilizzate per preparare minestre, quelle più fini per piatti freddi e insalate. Esiste anche il bulgur crudo, non germogliato e non precotto. Si ottiene spezzando direttamente il grano duro selezionato accuratamente, fino a ottenere una granulometria che permette la cottura in 10-15 minuti. Questo tipo di bulgur, non avendo subito i processi di germogliazione, essiccazione e precottura, mantiene tutte le caratteristiche e i benefici del cereale integrale: i granelli di grano duro infatti sono avvolti dalla loro crusca e provvisti del germe, conservando così le proprietà e il colore vivo del grano duro, inoltre dopo la cottura i granelli rimangono più consistenti. Il bulgur crudo, chiamato anche spezzatino di grano duro, viene prodotto da alcuni anni con grano duro coltivato in Italia.
Qualità nutrizionali
Il bulgur ha caratteristiche nutrizionali analoghe a quelle del frumento integrale: è quindi una buona fonte di fibre, vitamina B, fosforo e potassio. L'apporto calorico è piuttosto basso se paragonato ad altri cibi a base di cereali: 100 grammi di bulgur sono l'equivalente di circa 340 kcal.
Preparazione
Il bulgur precotto deve essere messo in ammollo in acqua per 20-30 minuti per farlo reidratare, poi deve essere messo a cuocere in una quantità d'acqua pari al doppio del suo volume per 10 minuti circa; successivamente lo si lascia nell'acqua di cottura per una decina di minuti per permettere un'ulteriore crescita di volume. Si può servire caldo come pilaf o freddo come tabbouleh. Il bulgur è anche l'ingrediente di base del quibe, un piatto che si presenta sotto diverse forme nella cucina mediorientale.
Il bulgur crudo, non essendo stato precotto, non ha bisogno di essere reidratato e quindi non deve essere messo in ammollo prima della cottura. Va direttamente cotto in acqua per 10 minuti circa. Il bulgur crudo, non avendo subito i processi di germogliazione, precottura ed essiccazione, durante la cottura assorbe più acqua e acquista più volume, con i granellini che rimangono ben separati tra di loro; si consiglia pertanto di cuocerlo con una parte di bulgur in 2,5 parti di acqua.
Kamut è un marchio registrato, di proprietà dell'azienda statunitense Kamut,[1][2] fondata nel Montana da Bob Quinn, dottore in patologia vegetale e agricoltore biologico. Il nome designa da un punto di vista commerciale la cultivar di grano della sottospecie Triticum turgidum ssp. turanicum[3] denominata Khorasan,[4] dal nome della regione iraniana Khorasan.
La produzione e la vendita di tale cultivar col nome commerciale di Kamut è strettamente regolamentata e deve essere certificata e rispettare una serie di norme stabilite dall'azienda statunitense.
Il grano prodotto dalla cultivar è stato registrato nel 1990 al Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti d'America (USDA) col nome ufficiale di QK-77[5] e veniva inizialmente venduto nelle fiere agricole del Montana col nome di "grano del faraone Tut". La protezione è successivamente scaduta.[4] La parola Kamut deriva dal relativo ideogramma geroglifico e significa "grano".
Coltivazione
La cultivar Khorasan può essere coltivata liberamente da chiunque e dovunque, ma solo il consorzio di agricoltori che fa capo all'azienda statunitense proprietaria del marchio registrato Kamut può legalmente apporre la denominazione Kamut sul suo raccolto. Secondo l'azienda, la presenza di questo marchio garantisce determinati standard qualitativi e l'assenza di ibridazioni; il grano Khorasan per avere il marchio Kamut deve essere coltivato secondo uno specifico metodo biologico esclusivamente nelle grandi pianure semi aride del Montana, dell'Alberta e del Saskatchewan.
Il miglio (Panicum miliaceum, L.) è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle graminacee. Rientra nel raggruppamento dei cereali minori.
Nelle regioni dell'Italia meridionale, il miglio viene solitamente indicato con il pittoresco vocabolo vernacolare di "vulpicoca" (vulp'coc). La radice etimologica del nome dialettale si deve alle caratteristiche inflorescenze paragonabili per forma alla coda della volpe.
Caratteri botanici
La pianta ha un portamento cespitoso, con numerosi culmi lignificati alla base, robusti, di altezza variabile dai 50 cm ai 150 cm, talvolta ramificati in alto.
Le foglie sono lineari-lanceolate, guainanti, con lamina larga fino a 1 cm e pubescente su entrambe le pagine. La ligula è pelosa.
I fiori riuniti in infiorescenze a pannocchia terminali, lunghe 15–20 cm, spesso pendenti su un lato. Ogni pannocchia è composta da racemi di spighette. La spighetta, lunga circa 4 mm, è composta da due brevi glume di 1–2 mm e due fiori. Ciascun fiore è racchiuso da due glume superiori (lemma e palea), lunghe circa 3 mm, e comprende un androceo di tre stami e un gineceo con stimma bifido e piumoso.
Il frutto è una cariosside ellittica, lucida, di colore bianco oppure variabile dal grigio al bruno al nero. Il peso di 1000 cariossidi è di 5-7 grammi.
Note ecobotaniche
Coltivata fin dalla preistoria, è una specie cosmopolita la cui origine è alquanto incerta. Dalla regione di origine la specie si è diffusa in tutto il Vecchio Continente e successivamente negli altri continenti. Attualmente è ancora coltivato in diverse regioni dell'Asia e dell'Africa, mentre la coltivazione nei paesi occidentali è sporadica e marginale. Si trova naturalizzata sui terreni incolti.
È una specie termofila e xerofila. Particolarmente esigente per quanto riguarda le temperature, nelle regioni temperate vegeta con ciclo primaverile-estivo. Ha una spiccata resistenza alla siccità e non mostra particolari esigenze pedologiche, perciò si presta per la coltivazione in aree aride o semidesertiche e su suoli poveri.
Storia
Secondo le varie ipotesi la specie sarebbe originaria del Medio Oriente oppure dell'Asia centrale oppure, quella più accreditata, dell'India. È accertato che la coltivazione del miglio risalga ad epoche preistoriche: in Italia è stato ritrovato in tombe del Neolitico.
Largamente utilizzato per l'alimentazione umana all'epoca dei Romani, raggiunse la massima diffusione nel primo Medioevo, durante il quale veniva considerato un ottimo sostituto della carne nei periodi di astinenza prescritti dalla Chiesa, successivamente iniziò un lento declino perché sostituito da altri cereali più produttivi.
Caratterizzato da una lunga conservabilità, è grazie a questo cereale stoccato nei magazzini cittadini che Venezia, assediata dai Genovesi nel 1378, si salvò dalla morte per fame.
Per secoli la polenta di miglio fu un piatto tipico dell'Italia settentrionale, in particolare in Veneto, Lombardia e Trentino. Tre piante di miglio compaiono nello stemma comunale di Miagliano, un piccolo centro della provincia di Biella.[1] Un mazzetto di miglio appare anche nello stemma del comune di Miglianico (da cui prende il nome) in provincia di Chieti.
Importanza economica
Nei paesi industrializzati dell'Europa, dell'America, dell'Oceania, questa specie ha perso del tutto importanza e ha una diffusione marginale anche come cereale foraggero. L'unico impiego economico è come componente di mangimi e becchime per i piccoli uccelli, anche se negli ultimi anni sta tornando di moda come alimento in diete particolari.
È invece ampiamente coltivato in aree semidesertiche dell'Asia e dell'Africa, nonostante abbia una diffusione nettamente inferiore rispetto a sorgo (Sorghum vulgare) e riso (Oryza sativa). La coltivazione del miglio interessa l'Africa subsahariana, il Medio Oriente, l'Ucraina, la Russia, il Kazakistan e, soprattutto, l'India e la Cina.
Note colturali
Date le sue esigenze termiche, leggermente superiori a quelle del mais, il miglio si coltiva, nelle regioni temperate, a ciclo primaverile-estivo. La semina si effettua a partire dalla primavera avanzata (fine aprile). Dal momento che ha un ciclo produttivo piuttosto breve (2-3 mesi), questo cereale si presta per la semina in secondo raccolto in estate, dopo la raccolta di un cereale o di un erbaio autunno-primaverile.
La coltivazione si pratica secondo gli stessi criteri del sorgo, come coltura da granella o da foraggio, impiegando nel primo caso 5–15 kg di seme per ettaro, nel secondo caso 30–40 kg per ettaro. La semina può essere fatta con seminatrice a righe. Per la concimazione si può impiegare un concime fosfo-azotato oppure un ternario con rapporto ottimale di 1:1,2:1 fra azoto fostoro e potassio. L'eventuale irrigazione può essere condotta con interventi di soccorso.
Raccolta
Come cereale da granella il miglio va raccolto prima della maturazione di morte in quanto la maturazione è scalare e la pannocchia sgrana facilmente. Va perciò mietuto precocemente e trebbiato dopo la completa essiccazione. Le rese sono dell'ordine di 1-2 tonnellate ad ettaro.
Come cereale foraggero va raccolto all'inizio della spigatura se utilizzato come foraggio verde, oppure alla maturazione cerosa se destinato all'insilamento. La produzione di massa verde è dell'ordine di 15-25 t/ha.
Usi
Nell'alimentazione umana occidentale odierna il miglio ha interesse marginale, venendo impiegato per produrre farine e semole utilizzate soprattutto dalla cucina macrobiotica.
Il valore dietetico è elevato, per il discreto tenore in proteine (11% in peso) (simile a quello del grano), sali minerali e fibra grezza.
È inoltre ricco di vitamine A e del gruppo B, specialmente niacina, B6 e acido folico, calcio, ferro, potassio, magnesio e zinco. Per il suo elevato contenuto di acido silicico, e non salicilico come erroneamente altrove riportato, è spesso considerato un vero e proprio prodotto di bellezza per pelle e capelli, unghie e smalto dei denti, stimolandone la crescita. Il miglio non contiene glutine, per cui la predisposizione alla panificazione è minore rispetto alle farine di orzo, frumento e segale. Quando viene combinato con il grano (o la gomma arabica nel caso di prodotti per celiaci), può essere utilizzato per produrre pane lievitato. Da solo, può venire utilizzato per "schiacce" non lievitate.
Poiché nessuno dei tipi di miglio è strettamente imparentato con il grano, è un alimento indicato per i celiaci o per chi soffre di altre forme di allergie o intolleranze al glutine o al grano. Il miglio è anche un blando inibitore della perossidasi tiroidea, l'enzima coinvolto nella sintesi degli ormoni tiroidei (uno studio del 2009[2] ha rilevato una stretta correlazione tra celiachia e tiroidite autoimmune nei pazienti in età pediatrica) e quindi non dovrebbe venire consumato in grandi quantità da chi soffre di problemi alla tiroide.
Nella medicina tradizionale cinese viene considerato un alimento tiepido, meno riscaldante dell'avena. Il suo considerevole contenuto in lecitina e colina lo rende particolarmente adatto alle persone sedentarie, chi è dedito a lavori intellettuali e ai convalescenti, nonché alle donne in gravidanza.
Essendo ricco di lipidi, lo stoccaggio sotto forma di fiocchi o farina è limitato nel tempo, mentre si conserva a lungo in chicco. È quindi consigliabile macinare i chicchi al momento dell'uso.
L'orzo comune (o orzo coltivato, o semplicemente orzo, per antonomasia; nome scientifico Hordeum vulgare L., 1753) è la specie economicamente più importante tra quelle coltivate del genere Hordeum, quella da cui si ricava l'orzo alimentare da cui dipende una considerevole parte dell'alimentazione mondiale.[1] È stata una delle prime otto colture rese coltivabili.
Origini
L'orzo coltivato deriva dall'orzo selvatico Hordeum spontaneum, con il quale conserva una grande affinità, tanto che alcuni studiosi li considerano un'unica specie in quanto interfertili. La specie viene quindi suddivisa nelle due sottospecie H. vulgare subsp. spontaneum (selvatica) e H. vulgare subsp. vulgare (domesticata). Entrambi sono diploidi (2n=14 cromosomi); la differenza principale consiste nella fragilità delle spighe selvatiche, che permettono la dispersione dei semi per mezzo del vento[2].
L'area di origine delle forme ancestrali può essere individuata nel Vicino Oriente, più precisamente nell'area compresa nelle attuali Israele, Giordania, Siria e nella parte sud dell'Anatolia. Secondo altre fonti invece, l'ancestrale selvatico è originario del Tibet. Tuttora in Etiopia e in Tibet si trovano molte specie spontanee. Le forme a cariosside nuda, che perdono facilmente le glumette a maturazione, sembrano invece essere originarie della Cina[3].
Si tratta con molta probabilità del cereale che per primo è stato coltivato dall'uomo: le testimonianze più antiche di coltivazione risalgono al 10 500 a.C., nel Neolitico[4]. Sicuramente tipi polistici erano coltivati in Mesopotamia nel 7 000 a.C. mentre nel 5 000 a.C. l'orzo era diffuso in Europa centrale e in Egitto, dove già nel 3 000 a.C. avveniva la trasformazione in birra. Intorno al 1000 a.C. aveva raggiunto la Corea. Fino al XV secolo era tra i cereali più diffusi per la panificazione.
Caratteri botanici[
Le classificazioni botaniche degli orzi coltivati sono numerose e oggetto di discussione da parte degli esperti; in questa sede viene ricordata la seguente:
Hordeum vulgare: comprende gli orzi polistici Hordeum vulgare var. tetrasticum e Hordeum vulgare var. exasticum
Hordeum disticum: comprende i tipi distici; la forma naturale è rappresentata da Hordeum spontaneum diffusa in Asia Sud-occidentale e Africa settentrionale
Le varietà tetrastiche sono caratterizzate da spighe formate da 6 ranghi (file in senso longitudinale della spiga) di cariossidi di cui 4 riuniti in due coppie, mentre le varietà esastiche presentano 6 ranghi di cariossidi equidistanti sulla spiga.
Le varietà distiche presentano solo 2 file di cariossidi sulla spiga
Gli orzi polistici presentano generalmente un numero più elevato di cariossidi per spiga e rese più elevate, negli orzi distici le spighe hanno un numero inferiore di cariossidi che sono però di maggiori dimensioni
L'orzo è un'erba annuale comprendente cultivar primaverili e cultivar autunnali, inoltre si distinguono orzi aristati e orzi mutici (senza reste sulle glume). La cariosside può essere nuda (le glume si staccano durante la trebbiatura) o vestita (le glume sono saldate alla cariosside)
L'orzo è una pianta erbacea annuale, che a maturità può raggiungere un'altezza di 60–120 cm, a seconda delle cultivar.
L'apparato radicale è fascicolato, formato da radici seminali (radici primarie) che si sviluppano alla germinazione del seme e radici avventizie derivanti dai culmi di accestimento che si formano dalla base del fusto nella zona detta corona. In terreni idonei può raggiungere, nella pianta adulta, la profondità di 2 metri.
Il culmo è cilindrico, suddiviso in 5-8 internodi cavi, separati da setti trasversali ai nodi. Gli internodi basali sono generalmente più corti. Grazie all'accestimento da ogni culmo si originano, mediamente, 2-3 culmi secondari, numero che può aumentare se si innalza la spaziatura alla semina, riducendo così il numero di piante a metro quadrato. Solitamente le varietà distiche accestiscono più di quelle polistiche.
Le foglie, disposte in modo alterno sul culmo, prendono origine dai nodi, e sono costituite da guaina (avvolgente il culmo), lamina, ligula poco appariscente ed auricole più lunghe rispetto ad altri cereali microtermi. L'angolo di inserzione della foglia sul culmo è tipico per ogni varietà. La foglia terminale detta foglia “a bandiera” è la più piccola e avvolge la spiga in formazione nella fase di botticella. La pagina inferiore della lamina fogliare è liscia, mentre in quella superiore sono presenti scanalature in cui sono presenti cellule epidermiche igroscopiche
L'infiorescenza è una spiga caratterizzata da rachide breve, a zig-zag, ai cui nodi (in numero variabile da 10 a 30) sono inseriti tre spighette uniflore. Tali spighette sono formate da glume sterili, ridotte a semplici formazioni pelose, che racchiudono al loro interno i fiori protetti da piccole brattee fertili: lemma (glumetta inferiore) e palea (glumetta superiore). La lemma avvolge la palea ed entrambe alla maturazione aderiscono alle cariossidi (frutto vestito), ad eccezione delle varietà dette a cariosside nuda. Nelle forme esastiche i tre fiori sono tutti fertili, quindi le spighe presenteranno tre file di cariossidi, mentre nei distici è fertile solo il fiore centrale per cui le spighe avranno solo due file di cariossidi. Le lunghe setole caratteristiche di questa specie (dette reste o ariste) prendono origine dalla nervatura mediana della lemma.
Il fiore, ermafrodita, è formato da tre stami e due stimmi pelosi; sono presenti anche due lodicole. L'impollinazione è anemofila.
Il frutto è una cariosside con pericarpo aderente al seme. e un solco ventrale che può essere più o meno marcato a seconda delle varietà. Il colore è generalmente giallognolo anche se alcune cultivar presentano cariossidi biancastre o addirittura rossastre o nere. Le dimensioni sono variabili da 8 a 12 mm in lunghezza e 3– 4 mm in larghezza, il peso di 1000 semi “vestiti” varia da 25 a 55 g (mediamente 45 – 50 g nei distici e 35 - 45 g nei polistici). Nelle cultivar distiche le cariossidi hanno dimensioni superiori nella parte centrale della spiga, mentre nelle polistiche le due file centrali sono simmetriche ed uniformi tra loro, mentre le cariossidi delle file laterali sono più piccole anche di un 20%.
Il riso (Oryza sativa L., dal greco antico όρυζα óryza) è una pianta erbacea annuale della famiglia delle Poaceae, di origine asiatica.
Insieme alla Oryza glaberrima, dal pericarpo pigmentato rosso coltivata in Africa, è una delle due specie di piante da cui si produce il "riso" inteso come alimento. L'Oryza sativa costituisce la stragrande maggioranza in quanto coltivata su circa il 95% della superficie mondiale di riso.
Descrizione
È una pianta erbacea, alta da 120 a 195 cm (può raggiungere anche i 5 metri di altezza) con radici avventizie ed embrionali, le quali hanno la caratteristica di sviluppare dei parenchimi aeriferi, che permettono al riso di vivere in ambiente acquatico. Il fusto (detto culmo) presenta internodi cavi e nodi pieni e si sviluppa in maniera simile al frumento.
Ha foglie di colore verde chiaro, a forma di guaina, lunghe parecchi centimetri e larghe due, con peli bianchi, corti e spessi; la ligula è lunga e sono presenti auricole pelose.
All'apice dello stelo presenta una pannocchia (infiorescenza a panicolo) terminale, a maturità pendente, costituita da spighette uniflore con fiori ermafroditi a sei stami e un pistillo; l'ovaia contiene un solo ovulo. Il frutto è una cariosside ellittica o sferica con glumelle molto sviluppate, la cariosside è vestita (risone), peso 25–45 mg.
Tassonomia
Esistono tre sottospecie:[1]
ssp. indica, tipica dei climi tropicali, alto valore di mercato, cariosside lunga e sottile, produttività media e coltivata in India, Cina meridionale, Filippine, USA meridionale, Italia, Brasile;
ssp. japonica, tipica dei climi temperati, produttività alta, cariosside corta e arrotondata, basso valore di mercato, coltivata in Giappone, Corea, Cina settentrionale, USA, Egitto, Italia;
ssp. javanica, di minore importanza.
Dalle diverse sottospecie derivano le varietà (es. Arborio, Carnaroli, Originario, ecc.) diffuse per i diversi usi.
In Italia la legge n. 325 del 18 marzo 1958 (e successivi aggiornamenti) prevede la suddivisione di suddette varietà di riso secondo raggruppamenti che prendono talvolta il nome dal più conosciuto esponente (es. Arborio); in fase di commercializzazione viene poi riportato sulle confezioni il solo nome del gruppo di appartenenza (es. Arborio, Carnaroli) senza indicazione in etichetta della effettiva varietà contenuta nelle confezioni stesse (es. Volano, Poseidone).
Il riso è coltivato principalmente per uso alimentare.[2]
Altri utilizzi del riso sono:[1]
produzione del sakè, una bevanda alcolica ottenuta dalla sua fermentazione
produzione di farina di riso per uso zootecnico
utilizzo delle rotture di riso nella produzione della birra
produzione dell'amido.
Il punteruolo del riso (Lissorhoptrus oryzophilus) è un insetto che si nutre della pianta del riso sia nella parte fogliare sia radicale.
Il mais (Zea mays L., 1753), anche chiamato granturco[1] o granoturco[2], è una pianta erbacea annuale della famiglia delle graminacee, tribù delle Maydeae: addomesticato dalle popolazioni indigene in Messico centrale in tempi preistorici circa 10.000 anni fa[3], è uno dei più importanti cereali, largamente coltivato sia nelle regioni tropicali sia in quelle temperate, in quest'ultimo caso a ciclo primavera-estate.
Base alimentare tradizionale delle popolazioni dell'America Latina e di alcune regioni dell'Europa e del Nordamerica, nelle regioni temperate è principalmente destinato all'alimentazione degli animali domestici, sotto forma di granella, farine o altri mangimi, oppure come insilato, generalmente raccolto alla maturazione cerosa; è inoltre destinato a trasformazioni industriali per l'estrazione di amido e olio oppure alla fermentazione, allo scopo di produrre per distillazione bevande alcoliche o bioetanolo a scopi energetici.
L'infiorescenza femminile, che porta le cariossidi, si chiama correttamente spadice, ma viene più spesso impropriamente chiamata "pannocchia", mentre la pannocchia propriamente detta è l'infiorescenza maschile posta sulla cima del fusto (stocco) della pianta, che di contro viene talvolta chiamata impropriamente "spiga" per il suo aspetto. Le cariossidi sono fissate al tutolo e il tutolo è fissato alla pianta.
Per riferirsi al mais in lingua italiana si utilizzano diversi sinonimi, come frumentone, formentone, formentazzo, granone, grano siciliano, grano d'India, granoturco, granturco, melica, meliga e pollanca, alcuni derivati da dialetti locali o lingue minoritarie.
Il suo nome è di origine spagnola, maíz, a sua volta d'origine più precisamente taino, mahis;[4][5] la pianta proviene dal centro Messico dove rappresentava l'ingrediente base della cucina messicana preispanica. Il termine "granoturco" o "granturco" deriva da grano turco, ossia "esotico, coloniale" (contrapposto al Triticum aestivum).[6][7][8]
Storia
La maggior parte degli storici ritiene che il mais fu domesticato nella valle di Tehuacán del Messico.[9] Gli Olmechi e i Maya ne coltivavano numerose varietà nella zona del Mesoamerica. A partire dal 2500 a.C. si ebbe la diffusione delle colture attraverso gran parte delle Americhe.[10] L'intera regione sviluppò una rete commerciale basata sul surplus e la varietà delle colture di mais e dopo la scoperta delle Americhe gli esploratori e commercianti europei lo introdussero in altri paesi. Presente all'inizio del XVI secolo in Spagna e Portogallo, si diffuse rapidamente in Francia meridionale, Italia settentrionale, nei Balcani, poi in altre parti del bacino mediterraneo, lungo la costa occidentale dell'Africa, e giunse in Cina intorno al 1540-50.[11] Il mais si diffuse in regioni così diverse e lontane grazie al suo alto rendimento, al breve ciclo colturale e alla capacità di crescere in climi diversi con varietà ricche di zucchero chiamate generalmente mais dolce che di solito sono coltivate per il consumo umano, mentre le altre varietà sono utilizzate principalmente per l'alimentazione animale.
Tra i vari usi del mais troviamo la macinazione per creare farina, la spremitura da cui si ottiene l'olio di mais e la fermentazione e distillazione in bevande alcoliche come bourbon e whisky. Il mais trova anche utilizzo nell'industria chimica.
Un influente studio del 2002 ha dimostrato che, piuttosto che essere il risultato di domesticazioni indipendenti, tutto il mais è il risultato di una singola domesticazione nel sud del Messico risalente a circa 9 000 anni fa.[12] Lo studio ha anche dimostrato che i tipi di mais sopravvissuti più antichi sono quelli degli altopiani messicani. Successivamente vi fu la diffusione del mais da questa regione attraverso le Americhe lungo due percorsi principali. Questo è coerente con un modello basato sulla documentazione archeologica che suggerisce che il mais si sia diversificato negli altopiani del Messico per poi diffondersi fino alla pianura.[13]
Prima di essere domesticate le piante di mais producevano solo una piccola pannocchia di 25 mm e molti secoli di selezione artificiale da parte dei popoli indigeni delle Americhe portarono allo sviluppo di piante di mais in grado di far crescere alcune pannocchie per pianta che di solito erano lunghe diversi centimetri ciascuno.[3] Rispetto all'antenato del mais (il teosinte), le principali modificazioni furono: la riduzione delle glume (gli involucri che ricoprono i chicchi) fino alla quasi scomparsa, che rese i chicchi esposti, e quindi più facilmente utilizzabili dagli esseri umani; e il cambiamento della struttura della pianta, che nel mais è meno ramificata, con una sola infiorescenza maschile in cima e pannocchie meno numerose ma più grosse collocate a metà del fusto (caratteristica che facilitava la raccolta).[14]
Il mais è la tipologia di grano più coltivato in tutta l'America, con 332 milioni di tonnellate prodotte ogni anno nei soli Stati Uniti. Circa il 40% del raccolto - 130 milioni di tonnellate - è usato per etanolo da mais. Il mais geneticamente modificato costituisce l'85% del mais coltivato negli Stati Uniti nel 2009.[13]
Il mais fu portato per la prima volta in Europa da Cristoforo Colombo nel 1493, e nei primi decenni del Cinquecento si diffuse dalla penisola iberica alla Francia meridionale, all'Italia settentrionale e ai Balcani. Inizialmente non sostituì altri cereali, ma fu coltivato soprattutto negli orti o come foraggio. A lungo il suo ruolo nell'agricoltura e nell'alimentazione restò secondario.[15]
I contadini coltivavano il mais negli orti, perché questi di solito erano esenti da canoni e decime e il loro prodotto poteva essere direttamente utilizzato dalla famiglia del coltivatore. Ma in seguito i proprietari si resero conto delle potenzialità produttive della nuova pianta, che poteva avere rendimenti molto maggiori rispetto ai cereali tradizionali, e spinsero i contadini a estenderne la coltivazione. Il mais poteva diventare un alimento abbondante ed economico per i contadini e gli strati sociali inferiori, mentre il frumento e altre coltivazioni più pregiate potevano essere destinate alla vendita.
A ciò si aggiunsero l'aumento della popolazione e le carestie che colpirono molte regioni d'Europa nel XVIII secolo, che resero necessaria l'adozione di coltivazioni più produttive. Di conseguenza, a partire dalla metà del Settecento la coltura del mais si diffuse nei campi dei Balcani, della Valle Padana, della Francia meridionale, sostituendosi in larga parte al miglio e all'orzo, cereali "inferiori" tradizionalmente riservati alla parte più povera della popolazione. Non mancarono resistenze da parte dei contadini, che temevano, non senza ragione, un peggioramento delle loro condizioni di vita e del loro regime alimentare, che infatti si verificò.
Nelle regioni in cui il mais era diventato la coltura principale, esso divenne anche l'alimento centrale e quasi esclusivo per le popolazioni delle campagne, in genere sotto forma di polenta. Ma le diete a base di solo mais sono carenti di niacina assimilabile e provocano la pellagra, la cui comparsa e diffusione seguì l'affermazione di questa coltura e persistette fino a tutto l'Ottocento o anche all'inizio del Novecento, a seconda delle zone, «segno e simbolo di una povertà alimentare senza precedenti»[16]; nell'entrare in contatto con tale interessante coltura, Cristoforo Colombo o chi lo aveva diffuso in Europa aveva completamente ignorato il processo di nixtamalizzazione che era in uso nel paese di origine.
Economia
Il mais è ampiamente coltivato in molte regioni del mondo, e la sua produzione supera per quantità quella di ogni altro cereale.[17] Gli Stati Uniti producono circa il 40% del raccolto mondiale; tra gli altri maggiori produttori vi sono Cina, Brasile, Messico, Indonesia, India, Ucraina, Francia e Argentina.
Etimologia
Per riferirsi al mais in lingua italiana si utilizzano diversi sinonimi, come frumentone, formentone, formentazzo, granone, grano siciliano, grano d'India, granoturco, granturco, melica, meliga e pollanca, alcuni derivati da dialetti locali o lingue minoritarie.
Il suo nome è di origine spagnola, maíz, a sua volta d'origine più precisamente taino, mahis;[4][5] la pianta proviene dal centro Messico dove rappresentava l'ingrediente base della cucina messicana preispanica. Il termine "granoturco" o "granturco" deriva da grano turco, ossia "esotico, coloniale" (contrapposto al Triticum aestivum).[6][7][8]
Storia
La maggior parte degli storici ritiene che il mais fu domesticato nella valle di Tehuacán del Messico.[9] Gli Olmechi e i Maya ne coltivavano numerose varietà nella zona del Mesoamerica. A partire dal 2500 a.C. si ebbe la diffusione delle colture attraverso gran parte delle Americhe.[10] L'intera regione sviluppò una rete commerciale basata sul surplus e la varietà delle colture di mais e dopo la scoperta delle Americhe gli esploratori e commercianti europei lo introdussero in altri paesi. Presente all'inizio del XVI secolo in Spagna e Portogallo, si diffuse rapidamente in Francia meridionale, Italia settentrionale, nei Balcani, poi in altre parti del bacino mediterraneo, lungo la costa occidentale dell'Africa, e giunse in Cina intorno al 1540-50.[11] Il mais si diffuse in regioni così diverse e lontane grazie al suo alto rendimento, al breve ciclo colturale e alla capacità di crescere in climi diversi con varietà ricche di zucchero chiamate generalmente mais dolce che di solito sono coltivate per il consumo umano, mentre le altre varietà sono utilizzate principalmente per l'alimentazione animale.
Tra i vari usi del mais troviamo la macinazione per creare farina, la spremitura da cui si ottiene l'olio di mais e la fermentazione e distillazione in bevande alcoliche come bourbon e whisky. Il mais trova anche utilizzo nell'industria chimica.
Un influente studio del 2002 ha dimostrato che, piuttosto che essere il risultato di domesticazioni indipendenti, tutto il mais è il risultato di una singola domesticazione nel sud del Messico risalente a circa 9 000 anni fa.[12] Lo studio ha anche dimostrato che i tipi di mais sopravvissuti più antichi sono quelli degli altopiani messicani. Successivamente vi fu la diffusione del mais da questa regione attraverso le Americhe lungo due percorsi principali. Questo è coerente con un modello basato sulla documentazione archeologica che suggerisce che il mais si sia diversificato negli altopiani del Messico per poi diffondersi fino alla pianura.[13]
Prima di essere domesticate le piante di mais producevano solo una piccola pannocchia di 25 mm e molti secoli di selezione artificiale da parte dei popoli indigeni delle Americhe portarono allo sviluppo di piante di mais in grado di far crescere alcune pannocchie per pianta che di solito erano lunghe diversi centimetri ciascuno.[3] Rispetto all'antenato del mais (il teosinte), le principali modificazioni furono: la riduzione delle glume (gli involucri che ricoprono i chicchi) fino alla quasi scomparsa, che rese i chicchi esposti, e quindi più facilmente utilizzabili dagli esseri umani; e il cambiamento della struttura della pianta, che nel mais è meno ramificata, con una sola infiorescenza maschile in cima e pannocchie meno numerose ma più grosse collocate a metà del fusto (caratteristica che facilitava la raccolta).[14]
Il mais è la tipologia di grano più coltivato in tutta l'America, con 332 milioni di tonnellate prodotte ogni anno nei soli Stati Uniti. Circa il 40% del raccolto - 130 milioni di tonnellate - è usato per etanolo da mais. Il mais geneticamente modificato costituisce l'85% del mais coltivato negli Stati Uniti nel 2009.[13]
La diffusione del mais in Europa
Il mais fu portato per la prima volta in Europa da Cristoforo Colombo nel 1493, e nei primi decenni del Cinquecento si diffuse dalla penisola iberica alla Francia meridionale, all'Italia settentrionale e ai Balcani. Inizialmente non sostituì altri cereali, ma fu coltivato soprattutto negli orti o come foraggio. A lungo il suo ruolo nell'agricoltura e nell'alimentazione restò secondario.[15]
I contadini coltivavano il mais negli orti, perché questi di solito erano esenti da canoni e decime e il loro prodotto poteva essere direttamente utilizzato dalla famiglia del coltivatore. Ma in seguito i proprietari si resero conto delle potenzialità produttive della nuova pianta, che poteva avere rendimenti molto maggiori rispetto ai cereali tradizionali, e spinsero i contadini a estenderne la coltivazione. Il mais poteva diventare un alimento abbondante ed economico per i contadini e gli strati sociali inferiori, mentre il frumento e altre coltivazioni più pregiate potevano essere destinate alla vendita.
A ciò si aggiunsero l'aumento della popolazione e le carestie che colpirono molte regioni d'Europa nel XVIII secolo, che resero necessaria l'adozione di coltivazioni più produttive. Di conseguenza, a partire dalla metà del Settecento la coltura del mais si diffuse nei campi dei Balcani, della Valle Padana, della Francia meridionale, sostituendosi in larga parte al miglio e all'orzo, cereali "inferiori" tradizionalmente riservati alla parte più povera della popolazione. Non mancarono resistenze da parte dei contadini, che temevano, non senza ragione, un peggioramento delle loro condizioni di vita e del loro regime alimentare, che infatti si verificò.
Nelle regioni in cui il mais era diventato la coltura principale, esso divenne anche l'alimento centrale e quasi esclusivo per le popolazioni delle campagne, in genere sotto forma di polenta. Ma le diete a base di solo mais sono carenti di niacina assimilabile e provocano la pellagra, la cui comparsa e diffusione seguì l'affermazione di questa coltura e persistette fino a tutto l'Ottocento o anche all'inizio del Novecento, a seconda delle zone, «segno e simbolo di una povertà alimentare senza precedenti»[16]; nell'entrare in contatto con tale interessante coltura, Cristoforo Colombo o chi lo aveva diffuso in Europa aveva completamente ignorato il processo di nixtamalizzazione che era in uso nel paese di origine.
Economia
Il mais è ampiamente coltivato in molte regioni del mondo, e la sua produzione supera per quantità quella di ogni altro cereale.[17] Gli Stati Uniti producono circa il 40% del raccolto mondiale; tra gli altri maggiori produttori vi sono Cina, Brasile, Messico, Indonesia, India, Ucraina, Francia e Argentina.
La quinoa (AFI: /kwiˈnɔa/[1]; in spagnolo quínoa o quinua; Chenopodium quinoa Willd.) è una pianta erbacea annuale della famiglia delle Chenopodiaceae, come gli spinaci o la barbabietola.
I semi di questa pianta, sottoposti a macinazione, forniscono una farina contenente prevalentemente amido, il che consente a questa pianta di essere classificata merceologicamente a pieno titolo come cereale nonostante non appartenga alla famiglia botanica delle graminacee (Poaceae). Si distingue da altri pseudocereali per l'alto contenuto proteico e per la totale assenza di glutine[2][3]. Nella terminologia anglosassone, che attribuisce il significato di cereale (parola di origine latina) alle sole piante ascrivibili tra le graminacee (o poacee) e ai loro prodotti, la quinoa è invece classificata come pseudocereale. Per il suo buon apporto proteico costituisce l'alimento base per le popolazioni andine. Gli Inca chiamano la quinoa chisiya mama, che in quechua vuol dire «madre di tutti i semi».
Descrizione
Il fusto è legnoso ed eretto, da 30 cm fino a 3 m. Le foglie sono alterne con margine dentato. I fiori, ermafroditi o femminili, hanno un perigonio composto da 5 tepali verdi, 5 stami, pistillo piumoso con 2 o 3 stimmi e ovario supero uniloculare.
Proprietà
È ricchissima di betaina, una sostanza che si estrae dalla barbabietola da zucchero (da cui il nome scientifico di quest'ultima, Beta vulgaris var. saccharifera)[senza fonte]. La quinoa, non contenendo glutine, può essere consumata dai celiaci[4].
Varietà
Esistono oltre 200 varietà di quinoa. La varietà più utilizzata è la quínoa Real con un basso tenore di saponine. Altre varietà commercializzate sono: Bear, Cherry Vanilla, Cochabamba, dave 407, Gossi, Isluga, Kaslala, Kcoito, Linares, Rainbow, Red faro, Red head (che presenta una buona adattabilità ai climi piovosi), Temuco.
Coltivazione
La quinoa è testimone di biodiversità, già venerata dagli Inca come pianta sacra, viene coltivata da oltre 5000 anni sugli altopiani pietrosi delle Ande ad altitudini comprese tra 3800 e 4200 metri. È una pianta resistente che non richiede particolari trattamenti. Produce una spiga (panicolo) ricca di semi rotondi, simili a quelli del miglio. Le migliori varietà crescono nei territori salmastri del Salar, nelle zone di Oruro e Potosí (Quínoa real).
Lavorazione
La semina della quinoa può essere effettuata a fine marzo-aprile o tra settembre e ottobre, a seconda delle zone e delle varietà utilizzate (varietà a semina primaverile o autunnale). La raccolta si effettua nei mesi di aprile-giugno per le varietà a semina autunnale e a fine luglio-agosto per quelle a semina primaverile. Controllata e privata di eventuali impurità, viene poi lavata in acqua per eliminare la saponina, sostanza lievemente amara contenuta nella pianta. Infine viene essiccata tramite "secadores" solari.
La coltura della quinoa
Per il ruolo quasi sacro che la quinoa aveva presso le popolazioni andine, all'epoca della conquista spagnola si ebbe l'ovvio conflitto con la cultura cattolica che, al contrario, prevedeva centralità del pane di frumento nel rito eucaristico, e quindi il grano. La coltivazione della quinoa venne così combattuta e scoraggiata; solo in un secondo tempo, quando apparve evidente il miglior adattamento della quinoa all'ambiente andino, la sua coltivazione riprese piede.
Pur essendo una coltivazione di potenziale interesse economico, la quinoa risulta difficilmente coltivabile in ambienti con clima diverso. In particolare, per l'Italia, la quinoa mostra i seguenti limiti: temperature al di sopra di 32-34 gradi anche per breve tempo tendono a causare sterilità del polline nella maggior parte delle colture; la maggiore piovosità e l'elevata umidità atmosferica causano la germinazione dei semi maturi ancora sulla pianta; la quinoa è infine soggetta all'attacco di Aphis fabae (afide nero del fagiolo, particolarmente aggressivo verso le chenopodiacee durante la fase vegetativa) e di Nezara viridula (cimice verde) e altri cimicidi in fase di maturazione del seme. La presenza di coccinelle può limitare e risolvere l'attacco degli afidi, altrimenti letale se lasciato a sé. La specie italiana più vicina a C. quinoa è Chenopodium album, quest'ultima si dimostra estremamente più resistente ai parassiti e assai più aggressiva rispetto a C. quinoa.
Anno internazionale della quinoa
Il 2013 è stato dichiarato, da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, Anno internazionale della quinoa[6] (IYQ), come riconoscimento per i popoli indigeni andini, che hanno mantenuto, controllato, protetto e conservato la quinoa come cibo per le generazioni presenti e future attraverso la conoscenza e le pratiche del vivere in armonia con la natura. L'obiettivo è quello di focalizzare l'attenzione del mondo sul ruolo che la quinoa gioca a sostegno della biodiversità, sul suo valore nutritivo, sull'eliminazione della povertà a sostegno del raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio.
Il ruolo di Segretariato dell'Anno internazionale sarà svolto dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura. La Bolivia, tra i principali produttori di quinoa, avrà la presidenza del Comitato di coordinamento, mentre il Perù, l'Ecuador e il Cile condivideranno la vice presidenza con Francia e Argentina che avranno il compito di relatori.
Consumo
La quinoa può essere consumata previa decorticazione in minestre o risotti. La farina di quinoa è indicata da sola o mescolata a farine di cereali, per tutti gli utilizzi normali della farina quindi: dolci, pane, pasta. La quinoa è priva di glutine, quindi adatta anche ai celiaci.
Amaranthus è un genere di angiosperme dicotiledoni della famiglia delle Amaranthaceae.
Comprende specie annue o perenni a distribuzione cosmopolita.
Alcune specie di amaranto sono coltivate come ortaggi a foglia, pseudocereali e piante ornamentali. La maggior parte delle specie di Amaranthus tuttavia sono erbe annuali estive infestanti dei campi[1].
Etimologia
Il nome Amaranthus, da cui deriva il termine amaranto con cui si indica il colore tipico dell'infiorescenza di alcune specie, deriva dal greco e fa riferimento alla persistenza dell'infiorescenza. Viene infatti formato dalle parole 'a' (alfa privativa, che significa 'non') e 'maráino' (io appassisco) e significa quindi 'pianta che non appassisce'.
Usi
Alimento
Integratori e cosmetici
L'olio di amaranto contiene squalene in una percentuale di circa il 5% degli acidi grassi totali[2]. Lo squalene viene estratto dall'amaranto come alternativa a base vegetale al più costoso olio di squalo per l'uso in integratori alimentari e cosmetici.
Piante ornamentali
Il genere contiene anche diverse piante ornamentali ben note, come Amaranthus caudatus, pianta annuale dalla rapida crescita, con foglie, gambi e fiori viola, rossi e dorati.
Specie
Il genere comprende circa 75 specie, 10 delle quali sono dioiche e originarie del Nord America e le restanti 65 specie monoiche ed endemiche in tutti i continenti, dalle pianure tropicali all'Himalaya
Il farro (dal latino far), nome comune usato per tre differenti specie del genere Triticum, rappresenta il più antico tipo di frumento coltivato, utilizzato come nutrimento umano fin dal Neolitico. Si distinguono:
farro piccolo o farro monococco (Triticum monococcum);
farro medio o farro dicocco o semplicemente farro (Triticum dicoccum);
farro grande o farro spelta o semplicemente spelta (Triticum spelta).
Lo stesso argomento in dettaglio: Triticum monococcum.
Il farro piccolo è quello di più antica coltivazione, la prima forma di frumento coltivata. Si trovano reperti del suo predecessore selvatico Triticum boeticum risalenti al X-IX millennio a.C. nell'odierna Turchia, probabile zona d'origine.[1] I primi reperti di coltivazione sono attribuiti al VIII-VII millennio a.C.
Semi di farro piccolo con e senza glume
Ogni spighetta porta una singola cariosside, molto raramente due, e questo ne fa il frumento con il rendimento alimentare peggiore tra quelli coltivati. Oggi è la specie meno coltivata per la scarsa resa e gli alti costi di lavorazione.
La coltivazione del farro medio storicamente segue di pochissimo quella del piccolo farro. Derivato dalla specie selvatica Triticum dicoccoides, è di maggiore produttività del precedente dato che ogni spighetta porta due cariossidi, molto raramente tre, e dovette a questa sua caratteristica la domesticazione e la diffusione più veloci. Proprio la velocità di diffusione iniziale rende più difficile risalire alla zona di origine esatta, zona che è comunque da collocare tra il Mediterraneo e il Caucaso.
A questa specie appartiene la grande maggioranza del farro coltivato in Italia, sia oggi sia in epoca storica (circa 2000 anni fa).
In Italia è coltivato su piccoli appezzamenti soprattutto in Garfagnana, una valle della Toscana settentrionale, dove è all'origine di varie ricette tipiche: minestra di farro, farro con fagioli, torta di farro. Al cereale prodotto nell'Alta Valle del Serchio e tuttora lavorato in impianti molitori di tipo tradizionale, con macine di pietra, è stata riconosciuta dall'Unione Europea l'indicazione geografica protetta Farro della Garfagnana. Gli iscritti all'albo sono attualmente un centinaio.
La domesticazione del farro grande o farro spelta segue di due millenni quella delle altre due varietà e può essere ricondotta a una zona più orientale, vicina al Caspio.
Il farro grande deriva dall'incrocio tra il farro dicocco e l'Aegilops squarrosa, una graminacea selvatica. Anch'esso ha spighette con due, raramente tre, cariossidi.
Il farro spelta non si adatta particolarmente al clima italiano, dove viene coltivato su una superficie di circa 500 ha. Gran parte di quello presente oggi sulle tavole italiane proviene dall'Europa Centrale e Orientale e dalla Francia.
Caratteristiche comuni
La caratteristica comune di queste tre specie, caratteristica per cui vengono anche definiti grani vestiti, è che il chicco dopo la trebbiatura rimane rivestito dagli involucri glumeali (si parla di forte aderenza delle glume e delle glumelle alla cariosside). Perciò si effettua una svestitura prima dell'uso alimentare. Esistono macchine decorticatrici o meglio svestitrici che provvedono all'operazione.
Il farro è famoso per essere stato la base dell'alimentazione delle legioni romane che partirono alla conquista di quello che sarebbe divenuto l'impero[2]. Veniva usato soprattutto per preparare pane, focacce (libum) e polente (puls)[3]. La stessa parola "farina" deriva da "farro".
L'importanza del farro è testimoniata dal fatto che un'antica forma di matrimonio era detta confarreatio perché gli sposi mangiavano una focaccina di farro. Il matrimonio confarreato era il solo riconosciuto per certi effetti religiosi: ad esempio i sacerdoti dovevano avere i genitori che avessero contratto questo tipo di matrimonio.
Tuttavia la sua coltivazione è andata via via riducendosi nel corso dei secoli perché soppiantato dal grano tenero, discendente dal farro grande, e duro, discendente dal farro medio, con resa maggiore e minori costi di lavorazione.
Oggi spesso la coltivazione del farro è associata all'agricoltura biologica e al tentativo di valorizzare zone agricole marginali, non adatte alla coltivazione intensiva di frumento. Nonostante l'alto costo c'è stato un certo successo in questo lavoro di riscoperta, successo dovuto alle caratteristiche organolettiche e nutrizionali di queste tre specie, in particolare il maggiore contenuto proteico rispetto ad altri frumenti.
Nel farro è presente il glutine in quantità minore che nel frumento; comunque il farro mischiato al frumento rimane un alimento inadatto ai celiaci.
La coltivazione del farro è stata rivalutata negli ultimi anni, in particolar modo da aziende agricole interessate alla produzione biologica, essendo esso una pianta rustica che non necessita di chimica per la sua coltivazione, e anche per le sue ottime proprietà nutrizionali.
Con la farina di farro è possibile fare un pane con un gusto più aromatico di quello della farina di frumento.
Il farro è uno dei tipi di frumento meno calorici: 100 g apportano circa 340 kcal; inoltre contiene l'aminoacido essenziale metionina, carente in quasi tutti gli altri cereali.
Il farro contiene buone quantità di vitamine del gruppo B e anche proteine.
Il farro per essere consumato deve essere lavorato con uno o più dei seguenti passaggi:
Decorticatura o svestitura che significa togliere il vestito, chiamato anche glumella o lolla ai semi di farro. Nel farro piccolo questo vestito è abbastanza aderente, mentre nel farro grande questo vestito è già aperto e quindi l'operazione di svestitura è facilitata. Con questa lavorazione è già possibile consumarlo come chicco in zuppe o minestre.
Perlatura o semi-perlatura che significa eseguire una lavorazione simile a quella eseguita anche sul riso o nell'orzo, lavorazione che graffia la superficie del seme per renderlo più chiaro e ridurre la quantità di fibre.
Macinazione ovvero il processo di trasformazione del chicco in farina, farina che può nel farro essere utilizzata nella panificazione e nella realizzazione di pasta.
Il grano saraceno (Fagopyrum esculentum) è una specie di pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Poligonacee. È una pianta erbacea e annuale, compie il suo ciclo biologico in 80-120 giorni.
Per le sue caratteristiche nutrizionali e l'impiego alimentare, questo vegetale è stato sempre collocato commercialmente tra i cereali,[1] pur non appartenendo il grano saraceno alla famiglia delle Gramineae, in quanto il termine cereale non è botanico e scientifico bensì merceologico e letterario. Il grano saraceno è naturalmente senza glutine ma può essere tossico in grandi quantità.
Etimologia
L'epiteto specifico esculentum viene dal latino e significa ‘buono a mangiarsi’.
Morfologia
Raggiunge un'altezza che varia, a seconda delle varietà, dai 60 ai 120 centimetri. L'apparato radicale fascicolato è composto da radici poco sviluppate; il fusto cilindrico, glabro; il culmo principale presenta diversi rami con infiorescenza apicale, presenta un colore che va dal verde all'inizio del ciclo per poi virare verso il rosso al momento della maturazione e della morte della pianta; il numero di culmi dipende soprattutto dalla fertilità del terreno e dalla densità di semina.
Le foglie ovato-triangolari acuminate, alterne, peduncolate alla base e sessili verso la parte distale della pianta. Le infiorescenze raccolte in panicoli laschi hanno fiori bianchi o rosa a seconda della varietà raccolte con calice formato da cinque sepali verdi. Gli stami sono otto, l'ovario è monospermo sormontato da uno stilo terminale con tre stigmi.
Le piante sono auto sterili, l'impollinazione avviene in entomofilia o anemofilia tra piante della stessa specie o tra piante di specie diverse. Il frutto è un achenio di forma triangolare; il pericarpo può presentare un colore variante dal bruno al nero, più o meno lucido con eventuali screziature, avvolge l'endosperma e l'embrione composto da due cotiledoni.
Origini e diffusione
Nel tardo Medioevo la pianta raggiunse l'Europa arrivando sulle coste del mar Nero e poi nel Meclemburgo e nell'Eifel (Germania) dove è documentata nel XV secolo con il nome di Heenisch, cioè l'odierno Heidenkorn, vale a dire "grano dei pagani". Nel XVII secolo giunse in Svizzera dove è conosciuta con il nome di Heyden o Heidenkorn, mentre a metà del XVI secolo la pianta è documentata per la prima volta in Italia in un atto relativo alle proprietà della famiglia Besta di Teglio in Valtellina con il nome di formentone. La pianta venne in seguito introdotta nel Ducato di Modena nel 1621 ad opera del commerciante di origine ebraica Donato Donati[2][3]. Più recentemente alcuni ricercatori hanno indicato la zona dell'Himalaia orientale come probabile centro di addomesticazione primario.
Composizione chimica
Il grano saraceno è ricco di sali minerali, in particolare ferro, zinco e selenio.
Composti aromatici
La salicilaldeide (2-idrossibenzaldeide) fu identificata come componente caratteristica dell'aroma del grano saraceno[13]. Il 2,5-dimetil-4-idrossi-3(2H)-furanone, l'(E,E)-2,4-decadienal, fenilacetaldeide, il 2-metossi-4-vinilfenolo, il (E)-2-nonenal, decanale ed esanale contribuiscono altresì al suo aroma. Essi possiedono tutti un valore di attività odorosa superiore a 50, ma l'aroma di queste sostanze nel loro stato isolato non assomiglia a quello del grano saraceno[14].
Uso
È una pianta mellifera, da cui si può ottenere del miele monoflorale se in zone con estese coltivazioni. Si consuma nelle minestre, specialmente di verdure e, in forma di farina, per la preparazione della polenta taragna, della polenta saracena, delle crespelle e della pasta alimentare (famosi i pizzoccheri e le manfrigole della Valtellina, la soba giapponese e i bliny (блины) russi) o anche come porridge come la kasha e la grechka della cucina slava e per la preparazione di dolci o biscotti.
Dal grano saraceno le api producono il miele nazionale della Lettonia.
Il grano saraceno contiene un glucoside denominato rutina, un composto fitochimico che tonifica le pareti dei vasi capillari riducendo il rischio di emorragie nelle persone affette da ipertensione e migliorando la microcircolazione nelle persone con insufficienza venosa cronica.[18] Le foglie di grano saraceno essiccate da usare per infusione vengono commercializzate in Europa sotto il marchio "Fagorutin."
Il grano saraceno contiene D-chiro-inositolo, un componente del sistema di messaggeri secondari per la trasduzione del segnale dell'insulina che si è riscontrato essere carente nel diabete di tipo II e nella sindrome dell'ovaio policistico (SOPC). Sono in corso studi sul suo uso nel trattamento del diabete di tipo II.[19] Ricerche sul D-chiro-inositolo e sulla SOPC hanno evidenziato risultati promettenti.[20][21]
Si è rilevato che una proteina del grano saraceno si lega saldamente al colesterolo. Sono in corso studi sul suo uso per ridurre il colesterolo plasmatico nei soggetti che presentano iperlipidemia.[22]
Allergia al grano saraceno
Il grano saraceno è un potente allergene in grado di indurre, in pazienti sensibilizzati, anche reazioni acute quali l'anafilassi[23]. I casi di anafilassi indotti dall'ingestione di grano saraceno sono stati riportati prevalentemente in Asia (Giappone e Corea soprattutto), e più recentemente anche in Europa, specialmente in Italia, dove il grano saraceno è stato descritto essere un "allergene nascosto".[24][25] Un articolo pubblicato da Heffler E e colleghi, dimostra come le reazioni allergiche, anche gravi, indotte dall'ingestione accidentale di grano saraceno come allergene nascosto in alimenti quali la pizza o altri prodotti con farinacei, non sono così rare come precedentemente descritto, per lo meno nel nord Italia.
La soia o soja (Glycine max (L.) Merr.) è una pianta erbacea della famiglia delle Leguminose, oggi delle Fabaceae, dopo la suddivisione in tre famiglie nuove, che approssimativamente corrispondono alle vecchie sottofamiglie in cui era divisa la famiglia delle Leguminose. È originaria dell'Asia orientale ed è coltivata per scopi alimentari. Allo stato spontaneo esiste una specie affine, Glycine soja, la soia selvatica.
Descrizione
La soia è una pianta annuale, con una crescita che va da prostràta (con altezza massima di 20 centimetri) a eretta (altezza 2 metri). È tipica la peluria brunastra che ricopre molte parti della pianta (legume, fusti, foglie).
Le foglie sono trifogliate, con singole foglioline piuttosto grandi (lunghe 6–15 cm e larghe 2–7 cm).
I frutti sono legumi corti (3–8 cm) e contengono pochi semi (di solito da 2 a 4) di diametro 5–11 mm.
Le radici, analogamente ad altre leguminose, ospitano un batterio simbionte, Bradyrhizobium japonicum che opera la fissazione dell'azoto atmosferico.
Distribuzione e storia
La soia selvatica (Glycine soja) cresce in un vasto areale che si estende in Estremo Oriente.
La soia vera e propria (Glycine max) non esiste allo stato spontaneo, ma si ritiene che sia derivata da Glycine soja (per altri però da Glycine ussuriensis). La sua coltivazione fu iniziata in Cina almeno 5000 anni fa.
In Europa la soia arrivò inizialmente come oggetto di studio nei giardini botanici (1737 in Olanda, 1739 in Francia ecc.) e solo nell'Ottocento se ne iniziò la coltivazione. In America la soia è nominata già da Benjamin Franklin nel 1775, ma la sua coltivazione è iniziata in modo significativo solo ai primi del Novecento.
Oggi la soia è coltivata in tutto il mondo. I primi cinque produttori sono, nell'ordine, Stati Uniti, Brasile, Argentina, Cina e India. Va peraltro notato che la produzione nei paesi extra-asiatici è destinata in gran parte all'alimentazione degli animali e all'esportazione, mentre la soia rimane un componente marginale nella dieta delle popolazioni locali.
Forma transgenica
Oltre alla forma di origine naturale (ormai in percentuale minoritaria), esiste oggi anche la soia geneticamente modificata (OGM), la quale costituisce ormai dal 40 al 100% del totale, prevalentemente nell'alimentazione animale e da questa si trasferisce quindi direttamente nell'alimentazione umana.
Già nel 1995 la Monsanto Company ha introdotto i semi di soia Roundup Ready, modificati per essere più resistenti agli erbicidi. La modifica consiste nell'inserimento di un gene proveniente dal batterio Agrobacterium e rende la pianta insensibile al glifosato, sostanza erbicida particolarmente efficace e dal costo particolarmente contenuto, che può così essere proficuamente impiegata nel diserbo chimico delle coltivazioni.[1]
La forma OGM si è diffusa notevolmente, tanto che negli Stati Uniti è divenuta largamente maggioritaria, perché in tale regione la diffusa pratica di monocoltura (o ridotta rotazione) e le grandi superfici coltivate ne rendono particolarmente competitiva la coltivazione rispetto alle varietà non-OGM, per le quali gli interventi di diserbo meccanizzato divengono particolarmente onerosi.[2] Le coltivazioni di soia OGM infatti vengono diserbate proprio tramite lo spargimento di glifosate da velivolo, limitando al minimo l'uso di trattori e macchine operatrici al suolo; inoltre la possibilità di ricorrere all'efficace diserbo chimico rende meno importanti le lavorazioni del suolo prima della semina, rafforzando la tendenza a seminare direttamente su suolo non lavorato (semina diretta), con ulteriori grandi risparmi.
Coltivazione
La soia può essere coltivata in tutti i climi temperati e subtropicali. I risultati migliori si ottengono dove l'estate è calda, ma non troppo, con temperature medie comprese tra i 20 °C e i 30 °C. Temperature medie tra 30 °C e 40 °C sono comunque ben tollerate.
In Italia per anni la soia, usata prevalentemente come olio, era esclusivamente di importazione.
Negli anni ottanta Raul Gardini, manager della Ferruzzi, una delle maggiori aziende di trading di prodotti agro-alimentari, organizzò massicce importazioni di soia dalle aziende collegate al suo gruppo poste in Argentina. Successivamente la legislazione italiana fu estremamente larga di sovvenzioni per gli agricoltori che producessero soia.[3] Si verificò il cosiddetto miracolo soia.[4] Alcune aziende specializzate stipularono contratti di lavorazione con gli agricoltori impegnandosi a ritirare a prezzi convenuti il raccolto. Come per operazioni analoghe, furono molti i sospetti che l'operazione di distribuzione dei sussidi non fosse trasparente. Le cifre in gioco furono imponenti.[5]
Usi
La soia trova applicazione in tre modi principali:
per l'alimentazione umana, sotto forma di semi interi o preparazioni da essi derivate,
per l'alimentazione degli animali da allevamento, ormai in prevalenza di tipo OGM,
come fertilizzante teoricamente naturale, ma anch'essa ormai in prevalenza di origine OGM.
La soia nell'alimentazione umana costituisce una fonte proteica non animale, che può essere utilizzata sotto molte forme:
la farina di soia, ricca di proteine e povera di glucidi.
il latte di soia, bevanda ricca di proteine, senza colesterolo.
l'olio di soia è un olio alimentare, contenente una proporzione assai equilibrata d'acidi grassi omega-6 e omega-3.[6]
il tofu o "formaggio di soia", prodotto a partire dal latte di soia.
il miso, prodotto a partire da una pasta di soia fermentata, utilizzato nelle zuppe e nelle salse, come aromatizzatore.
la salsa di soia (o soyu), una salsa prodotta a partire dai semi di soia fermentati e da un cereale torrefatto fermentato e invecchiato.
il tamari, una salsa di soia fermentata, da un gusto più pronunciato di quello del soyou.
la polpa di soia, prodotto che rimane dopo la filtrazione di tofu e latte di soia, utilizzato come ingrediente in diverse cucine.
il germoglio di soia, ottenuto con la germinazione del seme, è un ingrediente nutriente e saporito noto per le sue proprietà dietetiche.[7]
il caffè di soia è un surrogato del caffè utilizzato nella montagna friulana, veneta, trentina (fasolin da Bondù) e nel Tirolo. Veniva ottenuto dalla tostatura e macinazione dei semi, mescolati poi ad orzo, anch'esso tostato.
Germogli di soia
Salsa di soia (accanto a un dim sim)
Bottiglie di latte di soia
Tofu cinese
L'uso nei mangimi per animali da allevamento ha assunto particolare importanza negli ultimi decenni in tutte le specie allevate, tanto per poligastrici come i bovini, quanto, soprattutto, per i monogastrici, (volatili, suini, specie ittiche, etc.), per l'alto valore biologico della proteina, ricca di tutti gli aminoacidi essenziali, tranne la metionina, per altro facilmente addizionabile con gli integratori disponibili in commercio. La sua presenza nei mangimi è molto variabile seconda della specie animale cui sono destinati e della tipologia del mangime stesso; in larga approssimazione, dal 10 all'80% nei cosiddetti nuclei, usati in quantità di circa un kg capo/giorno nei bovini all'ingrasso.
La triturazione dei semi, specialmente per la produzione di olio, ha come sottoprodotto (nel caso di spremitura meccanica) i pannelli di soia, con un tenore di proteine grezze dell'ordine del 40 - 44%. Trova un interesse evidente nell'alimentazione delle vacche da latte e dei bovini da carne in particolare di quegli animali nutriti a partire dall'insilato di mais, le cui proteine sono in quantità inferiore ai fabbisogni e di limitato valore biologico. I pannelli comunque devono essere tostati prima del consumo per inattivare termicamente fattori antinutrizionali presenti nei semi.
In Francia il 70% dei pannelli commestibili è costituito da pannelli di soia.
Derivati dai pannelli le proteine testurizzate di soia sono largamente utilizzati come alimenti di piscicoltura e per gli animali di compagnia.
La soia è uno dei prodotti alimentari più coltivati nel mondo e la sua produzione mondiale si attesta attualmente a poco più di 200 milioni di t.[8]
L'uso come fertilizzante naturale, in particolare con la tecnica della rotazione delle colture, è documentato fin dall'antichità. È un uso che trova paralleli con altre leguminose, per esempio in Italia con l'erba medica, i cui residui colturali, in particolare quelli ipogei, lasciano nel terreno sostanza organica ricca di azoto.
Esistono usi secondari della soia, oltre ai tre principali. Per esempio, la soia è stata usata, in misura limitata, come fibra tessile.
Problemi in discussione
L'uso della soia OGM ha sollevato un vivace dibattito, sia per gli effetti economici (positivi per la maggior produttività, negativi per la dipendenza da un brevetto), sia per gli effetti ambientali e sanitari (ben tollerati o irrilevanti secondo i sostenitori, incerti o pesantemente negativi secondo gli oppositori).
Anche l'utilizzo della soia, naturale o OGM, è stata oggetto di discussioni. Alcuni criticano il fatto che la soia sia usata più per l'alimentazione animale che per l'alimentazione umana diretta, prediletta dai vegetariani.
Glycine soja o soia selvatica è una pianta annuale della famiglia delle leguminose (Fabaceae). È comunemente considerata l'antenata della più diffusa e coltivata soia (Glycine max).
Il colza (Brassica napus L., 1753) o navone[1] è una pianta angiosperma dicotiledone, dal fiore giallo brillante (o bianco a seconda della varietà), appartenente alla famiglia delle Brassicaceae.[2]
Viene coltivata per l'utilizzo dei semi molto ricchi in olio, anche se le varietà spontanee contengono quantità non trascurabili di acido erucico, un composto tossico. Sono state nel tempo selezionate e commercializzate molte varietà con un contenuto di acido erucico inferiore al 2%.
Descrizione
Brassica napus cresce fino a 100 cm di altezza con foglie basali glabre, carnose, pinnatifide e glauche peduncolate mentre le foglie superiori sono sessili.
La colza ha un accrescimento indeterminato, termina con uno scapo fiorale, che porta fiori gialli in infiorescenza. I fiori sono larghi circa 17 mm, attinomorfi, formati da quattro petali in una tipica forma a croce, alternati a quattro sepali. L'androceo è tetradinamo ovvero è formato da 6 stami di cui due stami laterali con filamenti corti e quattro stami mediani con filamenti più lunghi le cui antere si staccano dal centro del fiore durante la fioritura.
La fioritura è scalare e a seguito della fecondazione produce i frutti che sono silique, lunghe 5–10 cm, verdi da immature poi tendenti a imbrunire. I frutti contengono numerosi piccoli semi tondi con un diametro di 1,5–3 mm.
La colza presenta una radice fittonante abbastanza profonda.
Distribuzione e habitat
Brassica napus, in Italia, è una specie avventizia sfuggita alla coltivazione ed inselvatichita. è presente in tutte le regioni, spesso naturalizzata[3].
Tassonomia
Brassica napus (n = 19 cromosomi) è un ibrido, deriva dalla fusione di due genomi quello di Brassica oleracea (cavolo, n = 9) e quello di Brassica rapa (rapa, n = 10).
Sono note moltissime varietà tra cui:[senza fonte]
Brassica napus L. var. annua
Brassica napus L. var. napus
Brassica napus L. var. oleifera
Brassica napus L. var. pabularia
Le colture del genere Brassica, compresa la colza, sono state tra le prime piante ad essere ampiamente coltivate dall'umanità già 10.000 anni fa. Il colza veniva coltivato in India già nel 4000 a.C. e si è diffuso in Cina e in Giappone 2000 anni fa. La colza è coltivata prevalentemente come coltura invernale nella maggior parte dell'Europa e dell'Asia a causa della vernalizzazione richiesta per avviare il processo di fioritura. Si semina in autunno e rimane come rosetta basale di foglie durante l'inverno. Nella primavera successiva emette la parte vegetativa seguita dalla fioritura. In genere fiorisce nella tarda primavera e fruttifica per un periodo di 6-8 settimane fino a mezza estate[4].
Predilige terreni di medio impasto, profondi, freschi ed esenti da ristagno idrico. Infatti, l'irrigazione non viene effettuata, preferendo, mediante terreno profondo, approvvigionarsi dell'acqua piovana. Il seme è la parte di valore della coltura che viene anche coltivata come coltura di copertura invernale. Provvede a una buona copertura del suolo in inverno ma impoverisce il terreno. Nelle colture poliennali è infatti considerata una pianta "depauperante" poiché lascia il terreno in condizioni di fertilità peggiori di quelle che trova. La pianta viene miscelata nel suolo tramite aratura o usata come pacciamatura.Coltivata nei climi nordici (soprattutto in Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Paesi Bassi) come foraggio per animali, fonte di olio vegetale alimentare e come combustibile nel biodiesel. La colza è uno dei raccolti principali in India, coltivato sul 13% dei terreni agricoli.
In Europa, la colza viene coltivata principalmente come foraggio (per via dell'elevato contenuto di lipidi e medio di proteine), ed è la scelta europea prioritaria per evitare la dipendenza dalla soia americana e l'importazione di semi di soia geneticamente modificati.[senza fonte]
I maggiori produttori di colza nel 2018[5]
Paese
Produzione (tonnellate)
20.342.600
13.281.200
8.430.000
4.945.589
3.893.071
3.670.600
2.203.869
2.750.600
2.012.000
1.988.697
La colza viene coltivata per la produzione di alimenti per animali, oli vegetali commestibili e biodiesel. Alcune varietà di colza sono vendute come verdura, soprattutto nei negozi asiatici.
Secondo il Dipartimento di agricoltura degli Stati Uniti nel 2000 la colza era la terza fonte di olio vegetale al mondo dopo la soia e la palma.[6]
L'olio di colza viene ricavato dai semi della pianta. L'olio viene usato in alimentazione dopo essere stato raffinato e miscelato ad altri oli poiché all'origine ha sapore e odore poco gradevoli.
L'olio di colza contiene acido erucico, tossico per gli esseri umani ma usato come additivo alimentare in piccole dosi. Proprio per il contenuto di acido erucico l'olio di colza non era ammesso per l'alimentazione umana in Italia.
Canola è una specifica varietà di colza dal basso contenuto di acido erucico che è stata sviluppata in Canada: il suo nome è composto da Canadian oil low acid (Olio canadese a basso contenuto di acido). Il contenuto di acido erucico è limitato dalla normativa del governo a un massimo del 2% di in peso negli Stati Uniti[7] e 5% nell'UE[8].
La lavorazione dei semi per ricavare l'olio produce un residuo usato nell'alimentazione degli animali da allevamento. Questo sottoprodotto è un alimento molto ricco di proteine e può competere con la soia. È usato principalmente per nutrire i bovini, ma anche per maiali e polli (meno importante per questi ultimi).
Il sottoprodotto per animali ottenuto da varietà spontanee ha tuttavia un alto contenuto di acido erucico e glucosinolati (causa di disturbi del metabolismo per bovini e suini). Di migliore qualità i sottoprodotti ottenuti dalle cultivar canola (Canadian oil low acid specifica varietà di colza dal basso contenuto di acido erucico)[9].
L'uso dell'olio di colza per la produzione di biodiesel potrebbe essere una valida alternativa ma solo per pochi veicoli per sostituire in tempi rapidi i combustibili per autotrazione attuali.
Secondo la Coldiretti dalle oleaginose come la colza sono ricavabili 850 kg di biodiesel per ettaro, mediamente un veicolo consuma più di una tonnellata di biodiesel all'anno e i veicoli sono circa 34 milioni. Dato che la superficie agricola utile (SAU) italiana è di 13 milioni di ettari si evince che è realistico alimentare col biodiesel solo qualche permille del parco veicolare italiano (anche se si potrebbe importare dall'estero come avviene già per il petrolio).
Secondo la Coldiretti sono alimentabili circa 200-300 000 veicoli col biodiesel italiano. Tra i tanti veicoli importanti da alimentare a biodiesel spiccano quelli che coltivano il cibo.
Alcune associazioni di coltivatori si stanno organizzando in modo da produrre colza e semi di girasole che verranno trasformati in loco in biodiesel e usati senza pagare accise e iva esclusivamente per fini agricoli (trattori, motofalciatrici, ecc, ecc). In questo modo la produzione alimentare sia per uso umano che animale diventerebbe meno dipendente dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio.
Al momento la produzione è limitata e di conseguenza i prezzi non sono competitivi con quelli del gasolio. Tuttavia bisogna considerare che in molti paesi (come l'Italia) il prezzo finale dei carburanti è molto accresciuto dalla tassazione e che le coltivazioni (italiane ed europee) sono pesantemente sovvenzionate sia dall'Italia sia dall'Europa, quindi il prezzo dell'olio di colza è il risultato di sovvenzioni e non è un prezzo da libero mercato[senza fonte]Nel 2005 si diffuse la voce secondo cui l'olio di colza puro poteva essere usato come carburante per le motorizzazioni diesel. Tuttavia il mensile Quattroruote ha effettuato una prova con una Fiat Punto che ha però avuto esiti disastrosi (occlusione degli iniettori e creazione di depositi dovuti all'elevata viscosità dell'olio non trattato).[10]
La colza è una pianta mellifera[11].
La colza produce molto nettare da cui le api ricavano un miele chiaro, ma pungente, molto apprezzato nell'Europa centrale e settentrionale. Deve essere estratto immediatamente dopo la sua fabbricazione, perché cristallizza rapidamente nel favo rendendo impossibile l'estrazione.
Questo miele in Italia di solito viene mescolato con varietà più dolci se usato come prodotto da tavola o venduto come prodotto da pasticceria.
La colza è stata collegata a effetti negativi per gli affetti da asma e febbre da fieno. Secondo alcuni il polline della colza sarebbe all'origine dell'aumento dei disturbi respiratori. Tuttavia questo è improbabile poiché la colza è una pianta ad impollinazione entomofila, i cui granuli vengono trasportati principalmente dagli insetti. Forse l'odore caratteristico del fiore viene impropriamente associato dagli allergici ai loro disturbi. C'è anche qualche recente prova che l'uso estensivo di questo e simili oli vegetali nell'alimentazione stia portando a un consistente aumento nei casi di degenerazione maculare dell'occhio.
La lenticchia (Lens culinaris Medik.) è una pianta dicotiledone della famiglia delle Fabaceae (o Leguminose)[1], coltivata sin dall'antichità. È una pianta annuale, i cui frutti sono dei legumi che contengono due semi rotondi appiattiti, commestibili, ricchi di proteine e ferro, noti come lenticchie con diverse varietà, particolarmente apprezzati in Europa, anche se la produzione mondiale non è elevata ( 3.841.883 t (2004)).
Rappresenta una delle prime specie domesticate: testimonianze archeologiche relative alla grotta di Franchthi in Grecia dimostrano che venisse mangiata tra il 13.000 e l'11.000 a.C..[2] È stata una delle prime colture domesticate e il suo consumo viene attestato nell'episodio biblico di Esaù, nella Genesi.
La lenticchia è una pianta annuale erbacea, alta da 20 cm a 70 cm. Gli steli sono dritti e ramificati.
Le foglie sono alterne e composte (imparipennate con 10-14 foglioline oblunghe) e terminano con un viticcio generalmente semplice o bifido. Sono munite alla base di stipole dentate.
I fiori, a corolla papilionacea tipica della sottofamiglia delle Faboideae, sono di color bianco o blu pallido e riuniti in grappoli da due a quattro. Il calice è regolare, a cinque denti sottili e relativamente lunghi. La fioritura avviene tra maggio e luglio.
I frutti sono dei baccelli appiattiti, corti, contenenti due semi dalla caratteristica forma a lente leggermente bombata. Il colore dei semi varia secondo le varietà da pallido (verde chiaro, biondo, rosa) a più scuro (verde scuro, bruno, violaceo).
Questa specie è originaria delle regioni temperate calde del mondo antico:
Asia Minore e Vicino Oriente: Turchia, Siria, Libano, Israele, Giordania, Iraq, Iran
Caucaso e Asia Centrale: Azerbaigian, Georgia, Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Afghanistan e Pakistan.
La lenticchia è coltivata nel mondo intero, ma non cresce praticamente più allo stato selvatico[senza fonte].
La specie comprende quattro sottospecie principali:[1]
Lens culinaris subsp. culinaris (lenticchia coltivata), qualche volta considerata una specie distinta
Lens culinaris subsp. odemensis
Lens culinaris subsp. orientalis
Lens culinaris subsp. tomentosus
Svariate sono le cultivar di Lens culinaria in tutto il mondo. In Europa alcune cultivar sono state considerate prodotti tipici e dotate di denominazioni di origine (per es. la lenticchia verde di Puy AOC in Francia).
In alcuni casi vengono vendute decorticate come la lenticchia corallo o rosa o la Petite Golden.
Commercialmente le cultivar si possono dividere in base al colore - verde (Richlea, Laird), giallo, rosso, marrone (Masoor dalla buccia marrone e l'interno aranciato) - e alla taglia (piccole, medie, grandi).
In Italia, le lenticchie più rinomate e diffuse sono:
Lenticchia di Altamura, a Indicazione geografica protetta (I.G.P.)
Lenticchia di Castelluccio di Norcia, a Indicazione geografica protetta (I.G.P.)
Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio, prodotto agroalimentare tradizionale e presidio di Slow Food
Lenticchia di Ustica, prodotto agroalimentare tradizionale e presidio di Slow Food
Lenticchia di Onano, prodotto agroalimentare tradizionale e presidio di Slow Food
Lenticchia di Rascino, prodotto agroalimentare tradizionale e presidio di Slow Food
Lenticchia di Colfiorito, prodotto agroalimentare tradizionale
Lenticchia di Villalba, prodotto agroalimentare tradizionale
Lenticchia di Ventotene, prodotto agroalimentare tradizionale
Lenticchia di Valle Agricola, prodotto agroalimentare tradizionale
Lenticchia nera di Leonforte o dei Monti Erei, prodotto agroalimentare tradizionale
La lenticchia è relativamente tollerante alla siccità e viene coltivata in tutto il mondo.
Secondo i dati forniti dalla FAOSTAT (FAO) nel 2013 la produzione mondiale di lenticchie è stimata in 4,9 milioni di tonnellate.[4]
Le malattie da funghi che colpiscono la lenticchia sono l'antracnosi (Ascochyta pisi), la ruggine (Uromyces ervi), la peronospora (Peronospora viciae) e il marciume basale (Sclerotinia sclerotiorum). Tra gli insetti il più dannoso è il tonchio (Bruchus signaticornis).
Quella delle lenticchie viene ritenuta una delle più antiche coltivazioni dell'uomo, che si stava avvicinando all'agricoltura.[5]
Secondo la tradizione, le lenticchie simboleggiano la prosperità e il denaro, in quanto hanno una forma che ricorda quella delle monete. Per tale motivo, in Italia durante il cenone di San Silvestro si mangiano le lenticchie (spesso come accompagnamento di zampone o cotechino), come simbolo di prosperità per l'anno nuovo.
Nella cultura ebraica le lenticchie, insieme alle uova, fanno parte delle cerimonie tradizionali del lutto perché la loro forma rotonda simboleggia il ciclo di vita dalla nascita alla morte.
In Etiopia le lenticchie stufate chiamate kik o kik wot accompagnano la focaccia injera, il piatto nazionale. Lenticchie a pasta gialla sono inoltre usate per fare uno stufato non piccante che è uno dei primi cibi solidi per lo svezzamento dei bambini.
Il nome deriva dal latino cicer. È noto che il cognome di Cicerone discendeva da un suo antenato che aveva una caratteristica verruca a forma di cece sul naso.
L'epiteto specifico arietinum si riferisce invece alla somiglianza che hanno i semi con il profilo della testa di un ariete.
È stata una delle prime colture domesticate; il cece coltivato deriva da forme selvatiche del genere Cicer, probabilmente da Cicer reticulatum. Le specie selvatiche si sono originate probabilmente in Turchia, mentre le prime testimonianze archeologiche della coltivazione del cece risalgono all'età del bronzo e sono state rinvenute in Iraq; i ceci si diffusero in tutto il mondo antico: antico Egitto, Grecia antica, Impero romano.
La pianta, annuale, presenta una radice ramificata profonda (le più profonde possono arrivare anche a 1,20 m di profondità) che le dona una media resistenza alla siccità. Gli steli sono ramificati, eretti e pelosi con altezza variabile tra i 40 e gli 80 cm. Le foglie sono opposte e composte con 6-7 paia di foglioline ellittiche e denticolate; i fiori possono essere bianchi, rosei o rossi; i semi, rotondeggianti, lisci o rugosi, sono commestibili.
Il cece è la terza leguminosa per produzione mondiale, dopo la soia e il fagiolo; la coltivazione avviene principalmente in India e Australia. In Italia la coltivazione non è molto diffusa a causa delle basse rese e della scarsa richiesta; viene consumato principalmente in Liguria e in Toscana, dove piatti tipici a base di ceci sono la farinata e la panissa, nelle regioni centrali come minestra e nelle regioni meridionali insieme con la pasta.[2]. In Sicilia ne viene utilizzata la farina per produrre le panelle, l'impasto a base di farina di ceci viene fritto nell'olio.
Questa pianta trova le sue condizioni ottimali in ambienti semiaridi, nei climi temperati viene seminato a fine inverno, data la sua scarsa resistenza al freddo, e raccolta durante l'estate. La semina avviene tipicamente con seminatrici di precisione o seminatrici da frumento opportunamente regolate in modo da non spezzare il seme.
Questo viene disposto a una distanza tra le file di 35–40 cm a una profondità di semina di 5–7 cm e con una densità di 20-30 piante al metro quadro. Per prevenire attacchi crittogamici alla pianta i semi vanno prima conciati. Raggiunta la maturazione il cece può essere raccolto sia con il metodo tradizionale, ormai quasi scomparso, estirpando la pianta e lasciandola essiccare in campo per poi sgranarla a mano o con mietitrebbiatrice con pick-up al posto dell'organo falciante, sia con metodi meccanici con l'intervento di mietitrebbiatrici possibili solo in terreni livellati e su varietà a portamento eretto. Presenta una produzione media di 3.5 tonnellate per ettaro con produzione di paglia dalle scarse qualità nutrizionali per utilizzo zootecnico.
Durante il suo ciclo necessita di una concimazione di 40–60 kg/ettaro di fosforo. Per quanto riguarda il fabbisogno di azoto, esso è fornito dai batteri del genere Rhizobium che, in simbiosi con questa pianta, si occupano della fissazione dell'azoto atmosferico nel terreno.
Il cece non sopporta terreni troppo fertili che gli comportano una bassa allegagione, argillosi per asfissia radicale o ristagni idrici.
Tra i funghi che colpiscono il cece vi sono l'antracnosi (Ascochyta rabiei), la ruggine (Uromyces cineris-arietini) e il marciume carbonioso (Macrophomina phaseolina).
Gli insetti maggiormente dannosi sono il tonchio dei ceci (Callosobruchus ornatus) e la mosca minatrice del pisello (Phytomiza atricornis).
La fava (Vicia faba L. 1753) è una pianta della famiglia delle Leguminose o Fabaceae[1].
Possiede un apparato radicale fittonante, con numerose ramificazioni laterali di struttura reniforme (tubercoli radicali) nei primi 20 cm che ospitano specifici batteri azotofissatori (Rhizobium leguminosarum).
Il fusto ha sezione quadrangolare, cavo, ramificato alla base, con accrescimento indeterminato, alto da 70 a 140 cm.
Le foglie, stipolate, glauche, pennato-composte, sono costituite da 2-6 foglioline ellittiche.
I fiori sono raccolti in brevi racemi che si sviluppano all'ascella delle foglie a partire dal 7º nodo. Ogni racemo porta 1-6 fiori pentameri, con vessillo ondulato, di colore bianco striato di nero e ali bianco o violacee con macchia nera. La fecondazione è autogama.
Il frutto è un legume allungato, cilindrico o appiattito, terminante a punta, eretto o pendulo, glabro o pubescente che contiene da 2 a 10 semi con ilo evidente, inizialmente verdi e di colore più scuro (dal nocciola al bruno) a maturità.
In relazione alla grandezza del seme, in Vicia faba L. vengono distinte quattro varietà botaniche:[senza fonte]
Vicia faba var. paugyuga con semi molto piccoli, di origine indiana, non è coltivata
Vicia faba var. minor Beck, detta comunemente "favino", con peso dei 1000 semi inferiore a 700 grammi e baccello clavato e corto; è utilizzata come foraggio o sovescio;
Vicia faba var. equina Pers., detta comunemente "favetta", con peso dei 1000 semi compreso tra 700 e 1000 grammi e baccello clavato e allungato; è utilizzata come foraggera;
Vicia faba var. major Harz. con semi grossi, il peso dei 1000 semi è superiore a 1000 grammi, il baccello è lungo 15–25 cm ed è pendulo e di forma appiattita che contiene 5-10 semi. Appartengono a questa varietà le cultivar da consumo fresco.
Secondo un'antica tradizione agraria, nell'orto sarebbe bene seminare alcune fave all'interno delle altre colture poiché questo legume, oltre ad arricchire il terreno di azoto, attirerebbe su di sé tutti i parassiti, che di conseguenza non infesterebbero gli altri ortaggi.[senza fonte] La fava viene avvicendata come coltura miglioratrice tra due frumenti. Il terreno viene preparato in estate, poi affinato e concimato: la semina si fa a righe o a buchette, in modo da avere 8-10 piante/m2. Essendo una pianta che teme il caldo, nelle zone climatiche temperate calde la semina delle fave va effettuata in autunno o all'inizio dell'inverno, con raccolti a partire da circa 180 giorni dopo. Per le zone molto fredde è meglio seminare in primavera[2].
Il fosfato di ammonio è il principale concime chimico utilizzato per la produzione di fave.
Tra gli insetti che attaccano la fava il più importante è l'afide nero della fava (Aphis fabae). Tra le avversità da funghi vi sono la muffa grigia della fava (Botrytis fabae), la ruggine della fava (Uromyces fabae) e l'antracnosi della fava (Ascochyta fabae).
È celeberrima l'idiosincrasia di Pitagora e della sua Scuola per le fave: non solo si guardavano bene dal mangiarne, ma evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. Secondo la leggenda, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone (di Crotone), preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave.[3]
Favismo
La carenza di G6PD è strettamente legata al favismo, una manifestazione clinica caratterizzata da una crisi emolitica in risposta al consumo di fave. Il termine "favismo" è stato impiegato anche per indicare la carenza di questo enzima; si tratta però di una terminologia impropria, dal momento che non tutte le persone affette da questo disturbo manifesteranno una reazione clinicamente osservabile al consumo di questi legumi.
https://it.wikipedia.org/wiki/Carenza_di_glucosio-6-fosfato_deidrogenasi
Il pisello (Pisum sativum L., 1753) è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia Fabaceae, originaria dell'area mediterranea e orientale.
La pianta è coltivata per i suoi semi, consumata come alimento o utilizzata come alimento per il bestiame. Il termine designa anche il seme della pianta, ricco di amidi e proteine (dal 16 al 40%)[1].
Il pisello è coltivato dall'era neolitica e ha accompagnato i cereali nelle origini dell'agricoltura nel Vicino Oriente. Nell'Antichità e nel Medioevo è stato un alimento base in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Ai nostri giorni, la sua coltura è praticata nei cinque continenti, particolarmente nelle regioni a clima temperato dell'Eurasia e dell'America del Nord.
Il pisello secco è un alimento tradizionalmente importante in alcuni paesi, in particolare nel subcontinente indiano e in Etiopia, ma è relativamente in disuso come farinaceo e come fonte di proteine nella maggior parte dei paesi occidentali, dove è ormai principalmente coltivato per l'alimentazione animale o per l'esportazione. Dopo il XVII secolo, il pisello è divenuto un legume fresco popolare, la cui consumazione durante tutto l'anno è favorita dalle tecniche di conservazione e di surgelazione.
Assieme ad alcuni cereali (farro, frumento, orzo) e ad altre leguminose (vecce, lenticchie e ceci), il pisello fu una delle prime specie domesticate dall'uomo quando, circa 8000 anni fa, nella regione della Mezzaluna Fertile, nacque l'agricoltura. Resti sia di piante selvatiche, sia di piante coltivate, sono stati trovati in numerosi siti archeologici del Neolitico. In seguito, la coltura si è diffusa verso ovest in Europa e verso est sino all'India.[2][3][4]
La coltura del pisello nell'Antichità era praticata dai Greci e dai Romani, come risulta dalle citazioni di Teofrasto nella sua Historia Plantarum (III secolo), di Lucio Columella in De re rustica e di Plinio nella sua Naturalis historia, scritta intorno all'anno 77 della nostra era.
Sotto Carlo Magno, i piselli sono citati come pisos mauriscos tra gli ortaggi raccomandati nel Capitulare de villis[5]. I piselli secchi, facili da conservare, costituivano nel Medioevo una delle principali risorse alimentari delle classi povere, spesso cucinati con il lardo.
Verso la fine del XIV secolo, alla corte dei Medici fu selezionata una varietà nana da consumare fresca, i cosiddetti "piselli novelli". Nel 1533, quando Caterina dei Medici sposò Enrico II di Francia, i piselli novelli furono introdotti in Francia.[6] La novità gastronomica ebbe un notevole successo e fu ribattezzata "petit pois", nome che è arrivato sino ai nostri giorni. La popolarità dei "petits pois" raggiunse l'acme sotto il regno di Luigi XIV, divenendo oggetto di una vera e propria moda gastronomica.[7]
Nel corso del XX secolo, nei paesi occidentali (Europa, America del Nord), grazie alle tecniche di coltivazione intensiva e di raccolta meccanizzata, si assiste alla industrializzazione della produzione dei piselli, ulteriormente stimolata dallo sviluppo della industria conserviera e della surgelazione.[6]
Il pisello è una pianta erbacea rampicante annuale. L'apparato radicale è a fittone, potendo raggiungere una profondità di un metro in condizioni di suolo favorevoli, ma molto ramificato, soprattutto nello strato superficiale del terreno. Le radichette di 2º o 3º ordine presentano delle nodulosità, sedi della azotofissazione. Il batterio coinvolto è Rhizobium leguminosarum biovar. viciae, ugualmente presente nei generi Lathyrus e Lens[8][9].
Il fusto, poco ramificato, di lunghezza variabile da 50 cm a 2 m, sino a 3 m nelle varietà foraggere[10], è a crescita indeterminata. È cavo, a sezione cilindrica, e si arrampica aggrappandosi ai supporti per mezzo dei viticci delle foglie. Si caratterizza per un certo numero di nodi, o maglie, di cui i primi sono puramente vegetativi (cioè emettono solo foglie o ramificazioni) e i successivi riproduttivi (cioè che producono fiori). Tra le varietà e cultivar più precoci, i primi fiori possono apparire dal quarto nodo, mentre nelle più tardive possono non apparire che al 25°[1].
Le foglie, opposte, sono composte da uno a quattro paia di foglioline sessili, opposte, che terminano in un viticcio semplice o ramificato. Le foglioline sono intere, obovate, da 1,5 a 6 cm di lunghezza. In alcune varietà, sono parzialmente trasformate in viticci. Nelle varietà di tipo 'afila', tutte le foglioline sono rimpiazzate da viticci, e le funzioni foliari (fotosintesi) sono assicurate dalle stipole. Al contrario nelle varietà di tipo 'acacia', i viticci sono trasformati in foglioline.
Le foglie possiedono alla loro base due grandi stipole avvolgenti, arrotondato e seghettate alla base. Spesso più grandi delle foglioline, possono raggiungere 10 cm di lunghezza. Certe varietà hanno delle stipole allungate caratteristiche, dette «ad orecchie di coniglio». Le stipole presentano talvolta delle macchie rosse (presenza di antociani), caratteristiche di certe varietà foraggiere[11].
Le due prime foglie primordiali sono ridotte a delle scaglie.
I fiori, di tipo «papilionaceo», sono zigomorfi, a ovario supero e cleistogami. Compaiono all'ascella delle foglie, solitari o raggruppati in racemi lassi di due o tre fiori. Il calice, di colore verde, è formato da cinque sepali fusi e presenta cinque denti diseguali. La corolla conta cinque petali molto differenziati: un grande petalo situato superiormente e diretto in alto detto vessillo, da due petali laterali che somigliano alle due ali di una farfalla e sono detti appunto ali, avvolgenti la carena, formata dai due petali inferiori parzialmente fusi. La corolla è generalmente bianca, talora rosa, porpora o violetta. L'androceo è detto diadelfo e comprende dieci stami, uno libero e nove saldati fra di loro in una doccia aperta verso l'alto. Il pistillo è formato da un carpello unico uniloculare a placentazione marginale portante degli ovuli ricurvi (detti ovuli campilotropi). Tale carpello è interpretato come l'evoluzione di una foglia ripiegata lungo la sua nervatura mediana e saldata ai suoi margini, ai quali sono attaccati gli ovuli.
La formula fiorale è:
K (5), C 5, A(9)+1, G 1[12].
La fecondazione è principalmente autogama con meno dell'1% di impollinazione eterogama: l'impollinazione avviene prima della apertura del fiore (cleistogamia), il che facilita la selezione di linee genetiche pure e il mantenimento di varietà stabili ma complica l'ottenimento di nuovi ibridi. Tuttavia alcune specie di imenotteri apoidei della famiglia dei Megachilidi sono capaci di penetrare nei fiori e di provocare impollinazione incrociata[13].
Il frutto è un baccello deiscente bivalve, di 4–15 cm di lunghezza, contenente de 2 a 10 semi tondeggianti lisci o rugosi, di 5–8 mm di diametro. I baccelli presentano differenze morfologiche secondo le varietà; la loro forma generale è dritta o più o meno arcuata, con estremità più o meno affilate o tronche. Presentano generalmente una membrana sclerificata, detta pergamena, che è assente in alcune varietà. Il loro colore è generalmente verde, talora violetto.
Come in tutte le leguminose, i semi sono exalbuminosi e le riserve nutritive a disposizione dell'embrione sono contenute nei due cotiledoni emisferici ipertrofici che rappresentano la quasi-totalità del volume dei semi. A maturità possono essere di colore verde pallido e ricchi di clorofilla, ovvero biancastri, gialli o bruni. Alcuni semi verdi ingialliscono con il tempo. Possono essere lisci o rugosi.
La loro taglia è molto variabile secondo le varietà e cultivar. Il peso di 1000 semi secchi può andare da meno di 150 g a 350 g[14].
La germinazione del pisello è ipogea. I semi possono conservare la loro facoltà germinativa da tre a cinque anni. Non sottostanno al fenomeno della dormienza e possono dunque germinare immediatamente dopo aver raggiunto lo stadio di maturazione.
I cotiledoni contengono delle sostanze di riserva, in media 50% di amido e sino al 25% di proteine. L'amido è costituito da amilosio e da amilopectina in proporzioni variabili: più amilopectina nelle varietà a seme liscio e più amilosio in quelle a seme rugoso, che contengono di contro più carboidrati (vedere il paragrafo Composizione e valore nutritivo)[15]. La parte proteica è costituita essenzialmente da tre frazioni proteiche solubili: le albumine, le viciline e le legumine. La frazione delle albumine contiene, in modeste quantità, diverse proteine enzimatiche biologicamente attive: lipossigenasi, lectine, inibitori delle proteasi[16].
Il genoma del pisello comprende sette paia di cromosomi (numero cromosomico 2n=14)[17]. La sua taglia è stimata a 4500 M coppie di basi, di cui il 90 % è costituito da sequenze ripetute di tipo retrotrasposone[18].
Temperatura: il pisello coltivato è una pianta di clima temperato fresco e relativamente umido. È meno sensibile al freddo dei fagioli e può germinare a partire da +5 °C. Le giovani piante (prima della fioritura) possono sopportare le gelate, ma i fiori possono essere distrutti dal freddo, a partire da -3.5 °C e i nodi vegetativi a partire da -6 °C. La temperatura media ottimale di crescita si situa tra 15 e 19 °C. Oltre i 27 °C, lo sviluppo vegetativo e la impollinazione rischiano di essere compromessi.
Pluviometria: la pluviometria ideale si colloca tra 800 e 1000 mm per anno.
Fotoperiodismo: il pisello è leggermente sensibile al fotoperiodo: la fioritura è stimolata dall'allungamento delle giornate.
Suolo : il pisello s'adatta a tutti i tipi di suolo, a patto che sia ben drenato e che abbia una buona capacità di ritenzione dell'acqua; il pH ottimale si colloca tra 5,5 e 7,0.
La specie Pisum sativum appartiene al genere Pisum, classificato nella tribù delle Fabeae (o Viciae) in compagnia dei generi affini Lathyrus L. (cicerchie), Lens Mill. (lenticchie), Vavilovia Fed. e Vicia L. (vecce)[19].
La specie Pisum sativum presenta una notevole diversità genetica che si manifesta nelle numerose variazioni dei caratteri morfologici dei fiori, delle foglie, dei fusti, dei baccelli e dei semi, il che ha motivato le diverse classificazioni delle forme intraspecifiche.
Le principali sottospecie e varietà sono le seguenti[20][21]:
Pisum sativum subsp. elatius (Steven ex M. Bieb.) Asch. & Graebn. : è la forma selvatica dell'attuale pisello coltivato, originaria della parte orientale del bacino del Mediterraneo, sino al Caucaso, all'Iran e al Turkmenistan.
Pisum sativum subsp. elatius (Steven ex M. Bieb.) Asch. & Graebn. var. pumilio Meikle (sin. Pisum sativum subsp. syriacum Berger) : è la sottospecie più xerofita, presente nella vegetazione delle praterie aride e delle foreste di querce del Vicino oriente e del Medio oriente, da Cipro e dalla Turchia sino alla Transcaucasia, l'Iraq e l'Iran.
Pisum sativum subsp. transcaucasicum Govorov : coltivata nel nord del Caucaso e nella parte centrale delle montagne transcaucasiche.
Pisum sativum subsp. abyssinicum (A. Braun) Govorov : il pisello d'Abyssinie è una sottospecie coltivata in Etiopia e in Yemen. Presenta un singolo paio di foglioline, dei fiori rosso-violetti, dei semi brillanti con ilo nero[22].
Pisello 'Roveja', cultivar traditionale italiano di Pisum sativum subsp. sativum var. arvense
Pisum sativum subsp. asiaticum Govorov : sottospecie coltivata dal Vicino e Medio oriente sino alla Mongolia, al nord-est della Cina, al Tibet e al nord dell'India, oltreché in Egitto. Utilizzata nell'alimentazione animale.
Pisum sativum subsp. sativum : è attualmente la sottospecie più diffusa, derivata dalla domesticazione di P. sativum subsp. elatius.
Comprende tre varietà e innumerevoli cultivar:
Pisum sativum subsp. sativum var. arvense - pisello foraggero
Pisum sativum subsp. sativum var. sativum - pisello comune
Pisum sativum subsp. sativum var. macrocarpon - pisello mangiatutto, conosciuto anche come taccola, di cui si mangia anche il baccello, in quanto i semi rimangono allo stato embrionale.
Un cultivar diffuso in Italia centrale è la roveja o il pisello dei campi, che produce un baccello viola-scuro con piselli verdi. Questa stessa caratteristica si trova anche nel kapucijner, una varietà di piselli olandesi. Una volta seccati i piselli diventano di color marrone.
Il pisello è soggetto a diversi tipi di coltura, a seconda dei paesi e della destinazione dei prodotti. I piselli secchi sono coltivati tradizionalmente in un certo numero di paesi del Terzo Mondo dove costituiscono una coltura di sussistenza, praticata nella stagione fredda o in altitudine, in particolare in Africa orientale (Etiopia, Uganda, Kenya). Nei paesi industrializzati (Europa, Canada, Stati Uniti) è essenzialmente una coltura meccanizzata rivolta principalmente all'alimentazione animale, all'industria conserviera e alla surgelazione, ma anche in orticoltura professionale per il mercato del fresco. I piselli sono spesso presenti negli orti familiari.
Il pisello si riproduce unicamente per seme. In terreni poveri la inoculazione delle sementi con ceppi di Rhizobium può migliorare la resa della coltura, ma tale pratica non è generalmente necessaria nella maggior parte dei casi[23].
Nei paesi temperati, il pisello si semina sia a fine inverno o all'inizio della primavera, sia in autunno, nelle regioni dove le gelate non sono troppo temibili, o più a nord ricorrendo a delle varietà resistenti al freddo (varietà invernali). Il pisello è in effetti una pianta annuale senza dormienza, che può essere seminata senza necessità di vernalizzazione. Le varietà invernali permettono di guadagnare in precocità di raccolta e in rendimento. Per i piselli da conserva, seminati in primavera, le semine sono scaglionate in maniera da distribuire il carico di lavoro delle macchine. Nei paesi tropicali e subtropicali, i piselli si coltivano nella stagione fredda. In Cina e a Taiwan è praticata la coltura intensiva in serra di cime di piselli mangiatutto, che vengono raccolti freschi non appena la pianta raggiunge i 10 cm di altezza[24].
Il ciclo vegetativo dei piselli è di circa 140 giorni per le varietà primaverili, potendo scendere a 90 giorni per le varietà ultra-precoci e a 240 giorni per le varietà invernali.
Tutte le varietà di pisello sono delle linee pure. Nel mondo sono note diverse migliaia di cultivar differenti. Nel Catalogo europeo delle specie e varietà autorizzate per la coltura (settembre 2008)[25], figurano 1390 varietà, di cui 514 di piselli foraggeri e 776 di piselli orticoli.
La distinzione tra le varietà si basa su numerosi caratteri morfologici; il GEVES (Groupe d'Etude et de contrôle des Variétés et des Semences) ne ha approvati ben 73 che soddisfano i criteri di distinzione, omogeneità e stabilità[26]. Questi caratteri riguardano in particolare la forma e il colore dei semi, dei baccelli, delle foglie, dei fusti, l'altezza delle piante, la presenza di antociani, la forma dei granuli d'amido, la resistenza a diverse malattie[27].
Diversi organismi nel mondo si fanno carico di mantenere delle collezioni di cultivar al fine di preservare le risorse genetiche, tra cui l'Istituto Vavilov a San Pietroburgo, il John Innes Centre di Norwich, l'Australian Temperate Field Crops Collection di Horsham, l'Institut national de la recherche agronomique (INRA) in Francia[28].
Trentadue varietà di piselli sono state ottenute mutagenesi indotta, tecnica che ha permesso in particolare di creare le cultivar di tipo afila, con foglioline trasformate in viticci. Quattordici varietà sono state ottenute per irradiazione con raggi X o gamma e le altre mediante incroci[29].
Piselli orticoli
Tra i piselli orticoli, esistono varietà con semi lisci o rugosi (più zuccherini); questo carattere è uno di quelli utilizzati da Gregor Mendel nei suoi studi sulla trasmissione ereditaria dei caratteri (vedi sotto), così come il colore dei semi (gialli o verdi). La selezione delle varietà si basa anche sulla precocità del ciclo, e sulla presenza o meno nel baccello della «pergamena». Ci sono poi varietà nane e varietà rampicanti, che necessitano di tutore.
Nell'opera Plantes potagères di Vilmorin-Andrieux, pubblicata nel 1883, vengono elencate 170 varietà di piselli orticoli, suddivise in base alla loro origine geografica, in varietà francesi, inglesi e tedesche. Le varietà sono classificate come piselli da sgusciare e piselli senza pergamena, con semi tondi o con semi rugosi, rampicanti o nane.[30]
Tra le denominazioni delle varietà, alcune richiamano una caratteristica del baccello: 'Serpette', 'Corne de bélier'; altre rimandano all'area geografica di produzione dell'epoca: 'Pois de Clamart', 'Pois de Marly', 'Merveille d'Étampes', 'Michaux de Nanterre'.
Molte di queste varietà sono oggigiorno scomparse, ma alcune sono ancora presenti nei cataloghi, come per esempio il pois Téléphone (varietà rampicante con semi rugosi).
Piselli da conserva
I piselli da conserva sono delle varietà utilizzate per la coltura in pieno campo, finalizzata all'industria conserviera o della surgelazione. I semi di piccolo calibro (extra fine) erano in passato i più ricercati, perché sinonimi di tenerezza, in quanto si trattava di varietà a semi grossi raccolte precocemente; oggigiorno i selezionatori hanno ottenuto delle varietà con semi molto piccoli e la finezza del calibro non è più necessariamente sintomo di tenerezza.[34]
Piselli da foraggio
I piselli foraggeri sono i piselli destinati all'alimentazione animale, sotto forma di foraggio o di semi secchi. Si tratta di varietà con fiori purpurei e con semi grigi, lisci o rugosi (Pisum sativum subsp. sativum var. arvense)[35].
Esempi di varietà: Assas (INRA, 1964), Picar (Carneau Frères, 1992).
Piselli proteici
Le varietà di piselli proteici o proteaginosi sono a seme liscio, di colore verde o giallo, di grosso calibro, a fiori bianchi, senza tannini, aventi un tasso elevato di proteine e una debole attività antitripsinica.
Esempi di varietà: Finale, Solara (varietà di tipo 'afila'), Isard (varietà invernale).
Rotazione delle colture
Nella rotazione colturale che si effettua nella coltivazione a pieno campo, i piselli sono spesso la prima coltura, a cui si fa seguire quella dei cereali, che possono giovarsi dell'arricchimento del suolo in azoto.[senza fonte]
Semina
La coltura del pisello necessita di suoli ben aerati. La semina si fa in linee regolarmente spaziate da 20 a 50 cm, a una profondità media di 3 – 5 cm. L'utilizzo di seminatrici di precisione permette di controllare meglio la profondità di interramento dei semi e la densità della semina[36]. Questa può variare da 80 a 120 piante per metro quadro secondo le varietà.
Controllo delle piante infestanti
È necessario controllare lo sviluppo delle erbacee infestanti nelle prime fasi della coltura. In orticoltura può essere sufficiente il diserbaggio manuale, ma nelle colture intensive può essere necessario l'utilizzo di diserbanti chimici.
Per la preparazione del terreno si può utilizzare il metodo della «falsa semina» che consiste in una preparazione superficiale del terreno qualche settimana prima della semina vera e propria, in modo da eradicare le "erbacce" e rimuoverle prima della semina.
Per i piselli da conserva, una attenzione particolare deve essere prestata all'eliminazione della morella comune (Solanum nigrum), una infestante comune e tossica, le cui bacche immature, rotonde e verdi, possono facilmente confondersi con i piselli[37].
Tutoraggio
Le varietà "mangiatutto" sono generalmente rampicanti e necessitano di tutori, così come le piante di piselli orticoli coltivate negli orti familiari. Possono essere impiegati diversi tipi di tutore: reti, fili metallici, grigliati, bastoni, canne, ecc. Il tutoraggio è meno necessario per le varietà nane e sarebbe di costo proibitivo nelle colture a pieno campo oltre a risultare di ostacolo alla raccolta meccanica.
Fertilizzazione
L'apporto di azoto è inizialmente inutile, il fabbisogno (circa 250 kg/ha) essendo coperto dal residuo presente nel suolo e soprattutto (circa il 70 %) dalla fissazione simbiotica che si produce nelle nodosità delle radici, la cui attività sarebbe inibita da un apporto massivo di azoto.
Il fabbisogno di potassio e di fosforo deve essere garantito da una fertilizzazione fosfo-potassica che deve apportare al massimo, tenendo conto del tenore iniziale del suolo, 50 kg di potassio (K2O) e 160 kg di fosforo (P2O5) per ettaro, quest'ultimo di preferenza sotto forma di solfato di potassio, per apportare anche lo zolfo necessario.
Irrigazione
Le colture di pisello hanno un rilevante bisogno di acqua, specialmente nello stadio di «inizio di fioritura - allegagione», nell'ordine di circa 300 mm per ciclo di coltura. L'irrigazione può essere necessaria in alcune regioni o nei terreni a scarsa ritenzione d'acqua; nei paesi temperati, le riserve del suolo e le precipitazioni durante il periodo di vegetazione sono spesso sufficienti a soddisfare il fabbisogno delle colture.
Raccolta
Per i piselli da sgusciare destinati al mercato del fresco e per le varietà "mangiatutto", la raccolta viene effettuata manualmente. Può essere effettuata in più fasi, in funzione del grado di maturità, per ottenere la migliore qualità possibile. Il pisello in baccello non sopporta l'immagazzinamento e deve essere commercializzato rapidamente.
Per i piselli destinati all'alimentazione umana uno dei principali criteri di qualità è la tenerezza del seme, legata alla precocità dell'epoca di raccolta. Essa viene misurata in base all'indice tenderometrico, che corrisponde alla pressione necessaria per schiacciare un certo volume di piselli.
Per i piselli destinati all'industria della conservazione/surgelazione, la raccolta è effettuata con l'aiuto di automotrici raccoglitrici-sgranatrici. Queste macchine raccolgono meccanicamente i baccelli e li riversano in una camera di battitura, costituita da tre tamburi rotanti che permettono di sgranare i baccelli per frizione, senza danneggiare i semi relativamente fragili. Questo tipo di raccolta comporta comunque una perdita del prodotto dell'ordine del 5-25%[38].
Per la raccolta dei piselli secchi si utilizza la mietitrebbiatrice[39]. La raccolta inizia quando i piselli presentano un tasso di umidità residua del 14% circa, tasso che deve essere ulteriormente ridotto mediante essiccazione prima della conservazione.
Per i piselli secchi, il rendimento medio a livello mondiale è di 1,7 tonnellate per ettaro; in Europa si raggiungono rese medie di 4 t/ha, mentre in Africa la resa è al massimo di 1 t/ha. Per i piselli freschi il rendimento può arrivare da 4 a 7 t/ha.[40]
I piselli sono sensibili alle gelate e al piegamento degli steli (tranne che per le varietà con stelo rigido), alla degradazione del suolo, oltre che a varie carenze in minerali dello stesso.
I piselli possono essere attaccati da diversi agenti fungini, batterici o virali.
Le principali malattie aventi una rilevanza economica sono[41]:
il marciume dei semi dovuto a differenti funghi del genere Pythium;
la necrosi radicale, dovuta fra l'altro a Fusarium solani e a Aphanomyces spp.;
le malattie crittogamiche dell'apparato vegetativo quali la peronospora del pisello (Peronospora pisi), la muffa grigia (Botrytis cinerea), il mal bianco del pisello (Erysiphe pisi), la sclerotinia della soia (Sclerotinia sclerotiorum), la ruggine del pisello (Uromyces pisi) e l'antracnosi (Colletrichum pisi);
diverse malattie virali, tra cui il giallume apicale del pisello, dovuto al virus PTYV (Pea Top Yellow Virus - Luteoviridae) e il mosaico comune del pisello, dovuto al virus virus PCMV (Pea Common Mosaic Virus - Potyviridae).
Numerosi insetti parassiti attaccano le colture di pisello nei loro differenti stadi[8][42][43]
Coleotteri
La sitona del pisello (Sitona lineatus) è un piccolo coleottero curculionide che divora le foglie facendo delle tacche semicircolari sul bordo e le cui larve si nutrono delle radici, indebolendo le piante.
Il tonchio del pisello (Bruchus pisorum) è un piccolo coleottero che attacca i baccelli in formazione e completa il suo sviluppo all'interno dei semi maturi e secchi, fuoriuscendone attraverso un foro circolare.
Esiste anche un crisomelide originario del Sud America (Zabrotes subfasciatus), la cui larva è nota come "bruco tropicale del pisello", che si riproduce nei semi secchi di diverse specie di leguminose.
Ditteri
La cecidomia del pisello (Contarinia pisi) è un dittero che provoca la formazione di galle sui fiori, provocandone la caduta.
Lepidotteri
Le larve della tortrice dei piselli (Cydia nigricana, Tortricidae) attaccano voracemente i semi. I piselli sono inoltre suscettibili di attacchi da parte dei bruchi di diverse specie di lepidotteri della famiglia Noctuidae che si nutrono delle loro foglie tra cui: Ceramica pisi, Lacanobia oleracea, Autographa gamma, Mythimna unipuncta.
Rincoti
L'afide verde del pisello (Acyrthosiphon pisum) danneggia foglie e stipole ed è inoltre il vettore di diverse malattie virali.
Tisanotteri
Il tripide del pisello (Frankliniella robusta) e il tripide dei cereali (Thrips angusticeps) sono dei minuscoli insetti (taglia di 1 mm) che attaccano fiori e baccelli e le cui larve si sviluppano all'interno dei baccelli. Provocano essiccazione e arresto della crescita delle piante.
Nelle regioni mediterranee, le colture dei piselli possono essere parassitate da piante del genere Orobanche, e in particolare da Orobanche crenata, che si attacca alle radici della pianta ospite[40].
Con più di 18 milioni di tonnellate raccolte nel 2007, i piselli sono la quarta leguminosa a livello mondiale per produzione, dopo la soja (216 Mt), le arachidi (35 Mt) e i fagioli (28 Mt).[44]
Secondo le statistiche dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), nel 2007, la produzione mondiale di piselli secchi ha raggiunto 10 128 486 tonnellate per una superficie di 6 896 172 ettari di seminato, con un rendimento medio di 14,69 quintali per ettaro.
Nello stesso anno, la produzione dei piselli freschi ha raggiunto 8 264 769 tonnellate per una superficie di 1 087 674 ettari di seminato, con un rendimento medio di 7,6 quintali per ettaro. I due principali produttori di piselli freschi, Cina e India, rappresentano circa il 70 % del totale mondiale.
Per quanto riguarda i piselli secchi, vi sono nel mondo più di 90 paesi produttori, di cui i primi cinque rappresentano più dei due terzi della produzione totale ei primi quindici più del 90 %. Il Canada, con 3 milioni di tonnellate, circa il 30 % della produzione mondiale, è di gran lunga il principale paese produttore. La sua produzione, concentrata nelle provincie dell'ovest, è essentialmente destinata all'esportazione. L'Unione europea, che totalizza 1,53 milioni di tonnellate, è di fatto il secondo produttore mondiale. I rendimenti più elevati si registrano in Europa occidentale.
Valori nutrizionali per 100 g
Energia
23
Totali
56
15
Totali
1,7
12
0,77
0,20
3,1
3
60
5,5
380
130
930
40
3,5
Dalla pianta di pisello si ricavano vari tipi di alimento, sia per l'uomo sia per il bestiame:
Piselli secchi
Piselli surgelati
Piselli "mangiatutto"
i piselli secchi, cioè i semi raccolti a maturità, costituiscono un legume secco, e sono utilizzati anche per gli animali domestici, sia come grani interi (volatili) sia sotto forma di farina (suini e bovini) ; rappresentano inoltre una importante materia prima per l'industria di trasformazione (amidi, estratti proteici)
i piselli freschi, sia sotto forma di semi immaturi sia di baccelli interi ugualmente immaturi, sono un legume fresco
i giovani germogli foliari sono anch'essi usati nell'alimentazione umana, particolarmente in Asia, così come i semi germogliati
la pianta nel suo insieme, sia fresca sia essiccata, è utilizzata come foraggio per i ruminanti.
Composizione e valore nutritivo
Tutte le varietà di piselli hanno in comune di essere un alimento ricco energicamente e in proteine, che vengano consumati freschi o secchi.
I piselli secchi (12% di umidità) sono dei farinacei, comparabili ad altre leguminose (fagioli secchi, lenticchie, fave secche, ceci) e ai cereali per il loro valore energetico (330 cal/100 g). La porzione glucidica dei piselli è essenzialmente formata da amido (amilosio e amilopectina in proporzione variabile a seconda della varietà) e rappresenta circa 50% del seme. Gli zuccheri sono invece il 6% dei nutrienti del seme e sono principalmente saccarosio e oligosaccaridi, fra cui lo stachiosio. Come tutti i semi di leguminose, il pisello ha un indice glicemico moderato, vicino a 32 (100 è il valore attribuito per convenzione al glucosio).
Sono anche ricchi in proteine. Queste, con un valore alto in lisina, sono deficienti in alcuni amminoacidi essenziali come la metionina e il triptofano. Sono quindi complementari ad alcuni alimenti a base di cereali, come il pane, che mancano invece di lisina. In alimentazione animale, il pisello fa parte delle proteaginose, i cui prodotti sono destinati alla produzione di mangimi ad alto tenore proteico.
La ricchezza in fibre del pisello è considerata come un aspetto positivo per l'alimentazione umana, ma non per l'alimentazione degli animali poiché le fibre impediscono l'assimilazione delle proteine e dell'amido negli animali con un solo stomaco.
I piselli sono una buona fonte di minerali, in particolare di potassio, fosforo, calcio e ferro, oltreché di vitamine B, in particolare di folati o vitamina B9 (70 µg/100 g)[46]. Si caratterizzano inoltre per il bassissimo contenuto in lipidi, meno del 2%, prevalentemente rappresentati da acidi grassi insaturi o polinsaturi, e per l'assenza di glutine.
La ingestione dei piselli può scatenare in alcuni soggetti delle reazioni allergiche. Esse sono provocate da alcune proteine, le viciline, presenti anche in molte altre leguminose[47].
Alimentazione umana
Nell'alimentazione umana i piselli orticoli si utilizzano sia freschi, sia secchi.
I piselli freschi, noti come «piselli novelli» (o «petit pois» in francese) possono essere consumati subito dopo la raccolta ovvero essere conservati o surgelati; alcune varietà, le cosiddette «mangiatutto», si consumano con tutto il baccello.
Secondo il Codex Alimentarius i piselli conservati e surgelati possono essere distinti, in base al calibro, in 3-5 classi, da extra-fini a medi[48]. I calibri più piccoli sono molto ricercati per le conserve, mentre la surgelazione privilegia i calibri maggiori.
Calibro
Dimensioni
extra-fini
sino a 7.5 mm
finissimi
sino a 8.2 mm
fini
sino a 8.75 mm
medio-fini
sino a 10.2 mm
medi
oltre 10.2 mm
Nell'Unione europea, sia i piselli da sgusciare sia i "mangiatutto" devono rispettare delle norme di commercializzazione fissate da un regolamento comunitario del 1999, che prevede la loro classificazione in due categorie in base ad alcuni standard di qualità[49].
Nei piselli secchi il seme, che può essere verde o giallo, viene ripulito dei suoi tegumenti e i due cotiledoni sono separati. I piselli secchi vengono spesso preparati in forma di creme o purea.
In Asia si utilizzano come risorsa alimentare anche le foglie tenere e i giovani germogli. Dalla torrefazione dei semi dei piselli secchi si ricava inoltre un surrogato del caffè[50].
Alimentazione animale[modifica | modifica wikitesto]
In generale, si definiscono «piselli foraggeri» tutti i tipi di piselli destinati all'alimentazione animale. Il termine può riferirsi sia alla pianta intera, sotto forma di foraggio o di insilato, sia ai piselli secchi noti come «piselli proteici» o «proteaginosi», utilizzati come mangime[51].
Il pisello foraggero viene tradizionalmente coltivato in associazione con un cereale (segale, triticale o avena), che funge da tutore. L'associazione cereale/leguminosa risulta abbastanza equilibrata sotto il profilo nutrizionale.[52]
I piselli secchi, ricchi in amminoacidi, sono utilizzati principalmente come mangime per i suini e per i volatili e hanno un valore nutritivo equivalente a quello del frumento[53]. Per il loro alto contenuto proteico sono una materia prima particolarmente interessante nell'alimentazione degli animali monogastrici, anche se presentano una digeribilità molto variabile, generalmente inferiore a quella di alimenti come la soja[54].
Usi agricoli[modifica | modifica wikitesto]
I piselli, al pari di altre leguminose a crescita rapida come le vecce o le cicerchie, possono essere coltivati come sovescio, per arricchire il suolo di azoto e migliorare la sua struttura[55].
Uso nella ricerca scientifica[modifica | modifica wikitesto]
Gregor Mendel
Nel XIX secolo, l'abate e botanico austriaco Gregor Mendel (1822-1884) utilizzò i piselli nei suoi studi sulla trasmissione ereditaria dei caratteri, da cui scaturirono le Leggi di Mendel, base della moderna genetica.
I suoi studi, pubblicati nel 1865 con il titolo Versuche über Pflanzen-Hybriden (Esperienze sull'ibridazione delle piante), ottennero il riconoscimento che meritavano solo all'inizio del XX secolo.
La scelta di questa specie è legata a molteplici ragioni: al suo ciclo breve e alla facilità di coltivazione; alla sua capacità di autoimpollinarsi, che facilita la creazione di linee genetiche pure e il controllo della ibridazione; all'esistenza di cultivar con caratteri differenziati, facili da analizzare, come il colore dei fiori, il colore e la forma dei semi e dei baccelli[56].
Usi medici
Studi effettuati in India hanno mostrato che l'olio estratto dai semi di pisello secchi ha delle proprietà contraccettive. Il principio attivo è un idrochinone (m-xiloidrochinone). Somministrato alle donne per via orale, sotto forma di capsule di gelatina, ha permesso una riduzione del 60% dell'incidenza di gravidanza[57].
Uso ornamentale
Pur non potendo competere con il pisello odoroso, alcune varietà di P. sativum hanno un reale interesse ornamentale per i loro fiori, come per esempio la varietà a fiori bianchi 'Magnum bonum', presentata al Chelsea Flower Show del 1992[58], o la varietà 'Blauwschokker', con fiori rosa e viola e baccelli purpurei.
I piselli sono rappresentati nel quadro di Georges de La Tour (1593-1652) I mangiatori di piselli, custodito presso la Gemäldegalerie di Berlino.[59].
Piselli in baccello e già sgusciati figurano tra le merci offerte dalla Fruttivendola di Vincenzo Campi (1536-1591) (Pinacoteca di Brera, Milano).
Un baccello di pisello socchiuso, del quale si intravedono i semi, rappresenta la bocca de L'Estate di Arcimboldo (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
Nel 1911, Pablo Picasso dipinge una natura morta in stile cubista intitolata Piccione con piselli (in francese Le Pigeon aux petits pois) (Musée d'art moderne de la Ville de Paris)[60].
Nel 1833, Charles Nodier pubblica il racconto Tesor di fave e Fior di pisello (titolo originale in francese Tresor des feves et Fleur des pois), nella quale «Fior di pisello» (locuzione utilizzata nel XIX secolo per esprimere distinzione ed eleganza) è una principessa salvata da «Tesor di fave», un giovane ragazzo di umili origini, che riceve in cambio tre piselli che gli permetteranno di realizzare tre desideri[61].
Nel 1835, Hans Christian Andersen pubblica il racconto La principessa sul pisello, nella quale un seme di pisello nascosto sotto il materasso rivela la natura regale della protagonista. Essere come la principessa sul pisello è divenuto un comune modo di dire per stigmatizzare un atteggiamento altezzoso e snob.
Nel 1997, Philippe Delerm dedica alla sgusciatura dei piselli un capitolo de La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita.[62]
«È facile sgusciare i piselli. Una pressione del pollice sulla costola del baccello e quello si apre, docile, offerto. Alcuni, meno maturi, sono più recalcitranti – un'incisione dell'unghia permette allora di lacerare il verde e di sentire l'umidore e la polpa densa, appena sotto la buccia falsamente scabrosa. Poi si fanno scivolar giù le palline con un solo dito. L'ultima è davvero minuscola. (...) Basterebbero cinque minuti, ma è piacevole prolungare, rallentare il mattino, baccello dopo baccello, con le maniche rimboccate. Passiamo la mano nelle palline sgranate che riempiono la ciotola. Sono morbide; tutte quelle rotondità contigue formano come un'acqua verde chiaro e ci meravigliavamo di non ritrovarci con le mani bagnate»
Il fagiolo comune (Phaseolus vulgaris L.) è una pianta annua della famiglia delle Leguminose (anche detta Fabaceae), originaria dell'America centrale. Fu importato, a seguito della scoperta dell'America, in Europa dove esistevano unicamente fagioli di specie appartenenti al genere Vigna, di origine asiatica: i fagioli del genere Phaseolus si sono diffusi ovunque soppiantando il gruppo del mondo antico, in quanto si sono dimostrati più facili da coltivare e più redditizi (rispetto al Vigna la resa per ettaro è quasi doppia).
La prima descrizione botanica del fagiolo comune, sotto il nome di Smilax hortensis , è attribuita ai botanici Hieronymus Bock e Leonhart Fuchs nel 1542.
In Species Plantarum del 1753, Linneo classificò i fagioli conosciuti ai suoi tempi nei generi Phaseolus e Dolichos elencando 11 specie di Phaseolus cui 6 specie coltivate e 5 specie selvatiche.
Dopo varie revisioni tassonomiche, The Plant List ha conservato tre delle specie di Linneo:
P. vulgaris , il fagiolo comune,
Phaseolus coccineus, il fagiolo spagnolo,
Phaseolus lunatus , il fagiolo di Lima
e ha trattato gli altri binomi come non accettati, non risolti o riclassificati nei generi Vigna o Glycine.
I fagioli asiatici una volta attribuiti al genere Phaseolus sono stati trasferiti nel genere Vigna, cosicché il genere Phaseolus comprende oggi esclusivamente specie di origine americana [1].
Come con la maggior parte delle specie del genere, il genoma del fagiolo ha 11 coppie di cromosomi (2n = 22). Con k625 paia di basi per genoma aploide, è il più piccolo della famiglia delle leguminose[2].
ll fagiolo è una pianta erbacea, annuale, con portamenti differenti in base alle varietà.
Esistono due gruppi principali: i fagioli rampicanti, simili al tipo originale, e i fagioli eretti e più ramificati.
Il portamento della pianta è determinata principalmente dal suo genoma, ma le condizioni ecologiche nelle varie fasi fenologiche possono influenzarla. Per esempio, una temperatura elevata (30 °C) nella fase della prima foglia trifogliata innesca sempre un portamento rampicante[3].
Il fagiolo ha una radice principale non dominante che viene rapidamente integrata con radici laterali. Le radici possono raggiungere la profondità di un metro se il terreno è adatto. le radici sono in simbiosi radicale con batteri azoto fissatori, principalmente Rhizobium etli e Rhizobium phaseoli. Le condizioni ottimali per lo sviluppo di noduli sono una temperatura da 25 a 30 °C e un pH da 6 a 7. La quantità di azoto fissata può raggiungere i 200 kg per ettaro.
Gli steli rampicanti non sono molto ramificati e avvolgono il loro supporto in senso antiorario. Possono raggiungere i 2-3 metri di altezza. le cultivar nane sono più ramificate, erette, alte da 40 a 60 cm e si prestano meglio alla meccanizzazione delle colture.
Le foglie adulte sono picciolate, stipolate, alterne e trifogliate. Le foglioline hanno una forma ovale-acuminata, quasi a forma di losanga e sono lunghe da 6 a 15 cm e larghe da 3 a 11 cm.
I 10 maggiori produttori di fagiolo nel 2018[4]
Paese
Produzione (tonnellate)
6.220.000
4.779.927
2.915.030
1.700.510
1.324.407
1.210.359
1.196.156
1.039.109
765.977
607.929
Principali varietà da seme:
Bingo
Blason de Biella
Blu della Valsassina
Borlotto Lingua di Fuoco e Borlotto Lingua di Fuoco Nano
Borlotto Suprema nano
Borlotto di Vigevano nano
Cannellin Scaramanzin negrèè
Cannellino o Lingot
Fejuolo pacificus el drammoso cotenna
Cantare
Giallorino della Garfagnana
Lamon (Lucian Fejuol)
Meraviglia di Venezia nero
Romano Pole
Fesciela lamon negrucc fagiolos de Biella
Castagnaio fejuolo marron's
Sossai Extra Large (varietà protetta)
Stregonta e Stregonta nano
Superbo Migliorato
Elegante fagiolo
Fagiolo maggiolino
Maggiolo fagiolino
Fagiolo patrone
Principali varietà "mangiatutto" (fagiolino, piattone, ecc.):
Anellino Giallo e Verde
Beurre de Rocquencourt
Bobis Bianco
Bobis a Grano Bianco e Bobis a Grano Nero
Cornetto Largo Giallo e Cornetto Largo Verde
Nano Burro mangiatutto
Nerina mangiatutto
Paguro fagiolato mangiatutto
Prelude nano mangiatutto
Slenderette mangiatutto
Superpresto mangiatutto
Trionfo Violetto mangiatutto
Wade mangiatutto
Fagiolo tianese o fagiolo di Tiana . Prodotto agroalimentare tradizionale della Regione Sardegna
Borlotto nano di Levada Prodotto agroalimentare tradizionale
Fagiolino "Meraviglia di Venezia" Prodotto agroalimentare tradizionale
Fagiolo "Badda" di Polizzi Generosa (Pa), presidio internazionale di Slow Food
Fagiolo di Mandia [1] , inserito tra i prodotti tradizionali del Cilento della Regione Campania, sono coltivati sui terreni di Mandia di Ascea nel Parco Nazionale del Cilento.
Fagiolo di Controne Prodotto Agroalimentare Tradizionale
Fagiolo di Saluggia Prodotto agroalimentare tradizionale
Fagiolo Gialét Prodotto agroalimentare tradizionale
Fagiolo rosso scritto del Pantano di Pignola
Fagiolo Scalda Prodotto agroalimentare tradizionale
Fagiolo Tondino di Villaricca (NA)[6]
Fasóla posenàta di Posina (var. fagiolo di Spagna) Prodotto agroalimentare tradizionale
Fagiolo a pisello del Turano
Il fagiolo viene coltivato per i semi, raccolti freschi o secchi (fagioli), oppure per l'intero baccello da mangiare fresco (fagiolini o cornetti). Le varietà a ciclo vegetativo più lungo, nelle regioni temperate sono seminate in primavera, quelle a ciclo più breve in estate. Nel caso dei fagioli rampicanti è necessaria la collocazione di sostegni.[8]
I funghi che colpiscono il fagiolo sono: l'antracnosi (Colletrotrichum lindemuthianum), la ruggine del fagiolo (Uromyces phaseoli), la peronospora del fagiolo (Phytophthora phaseoli) e il marciume carbonioso (Macrophomina phaseolina). Tra gli insetti nocivi ci sono i miridi Calocoris norvegicus e Lygus campestris, la piralide delle leguminose (Etiella zinckenella), la mosca grigia dei semi (Delia platura) e il tonchio del fagiolo (Acanthoscelides obtectus).
I semi di fagiolo crudi e anche i frutti acerbi sono spesso causa di avvelenamenti nei bambini, poiché i fagioli vengono da essi riconosciuti come alimento. Solo tramite una lunga cottura viene distrutta la proteina velenosa (fasina).[9] Alcuni popoli indigeni, infatti, estraggono questo principio attivo, che è alla base di alcuni veleni, tra i quali il più pericoloso e mortale è sicuramente la miscela con il loto. Il fagiolo ben cotto, però, contiene composti solforati e cromo che contribuiscono a contenere la glicemia e i livelli ematici di colesterolo e trigliceridi e a prevenire l'aterosclerosi e le malattie cardiache.[senza fonte] La fasina è presente anche nella soia.[10]
Fragaria L., 1753 è un genere di Magnoliophyta (dette più comunemente Angiosperme), appartenente alla famiglia delle Rosaceae conosciuto per la produzione del falso frutto fragola. Per fragola si intendono i falsi frutti delle piante del genere Fragaria a cui appartengono molte specie differenti.
Comunemente con questo termine si intende la parte edibile della pianta: anche se le fragole sono considerate dei frutti dal punto di vista nutrizionale, non lo sono dal punto di vista botanico, in quanto i frutti veri e propri sono i cosiddetti acheni, ossia i "semini" gialli che si notano sulla superficie della fragola. La fragola è un falso frutto o frutto aggregato perché deriva da un fiore che aveva più pistilli, ognuno dei quali, dopo le fecondazione, ha formato un achenio. La parte rossa non è altro che il ricettacolo ingrossato.
La pianta, al di fuori del sistema riproduttivo, ha sistemi di moltiplicazione non sessuale, come lo stolone, ramificazione laterale radicante per mezzo della quale può produrre nuove piantine che sono di fatto cloni dello stesso individuo vegetale. Le fragole oggi comunemente coltivate sono ibridi derivanti dall'incrocio tra varietà europee e varietà americane.
Dotate di un buon contenuto calorico a causa dell'elevato tenore zuccherino, le fragole rappresentano una eccellente fonte di vitamina C e di flavonoidi.[2][3][4] Della famiglia dei flavonoidi fanno parte gli antociani, i quali sembrerebbero essere responsabili delle potenziali caratteristiche anti-infiammatorie delle fragole.[
Oltre alle fragole selvatiche esistono numerosissime varietà di fragole coltivate, a cui ogni anno se ne aggiungono di nuove, alcuni esempi:
"Alba", forma conica allungata, lucida, ottima produzione, maturazione precoce
"Arosa", fragola rustica, forma rotondeggiante, resistente al tatto, media produzione
"Belrubi", di forma allungata, di grosse dimensione e con un gran contenuto di zuccheri
"Candonga", il risultato di 7 incroci tra diverse varietà, nasce nel Metapontino, Basilicata. Ad identificarla sono la sua forma elegante, il rosso vivo che la caratterizza e la sua polpa carnosa. Questo prodotto è stato presentato tra l’8 e il 10 febbraio 2017 a Fruit Logistica.
"Carezza", a forma conica regolare, di grandi dimensioni
"Darselect", colore rosso intenso, di grandi dimensioni, dal sapore molto dolce e un aroma da vera fragola.
"Gorella", a forma di cuore
"Nera di San Mauro", coltivata a San Mauro Torinese.
"Pocahontas", di forma rotonda
"Roxana", colore rosso intenso, ottima produzione, maturazione medio tardiva
"Sabrosa", varietà nata in Spagna da incroci naturali. È adatta al clima Mediterraneo. Il frutto ha forma conica allungata e di colore rosso brillante. Il calibro è di dimensioni medio-grandi. Ciascuna fragola pesa in media 22-23 g. La polpa è rossa e croccante (durezza media ≥ 350 g/cm2). È una fragola aromatica e molto zuccherina (°Bx ≥ 7,5). Il sapore e l'aroma sono intensi. Dolcezza e acidità sono ben bilanciate. Il periodo della raccolta è da gennaio a giugno.
"Senga Sengana", ha colore scuro e consistenza morbida. È più piccola e tonda della media.
"Tortona", disponibile per pochi giorni all'anno (i primi di giugno), ha le dimensioni di un lampone, ha un profumo intenso ed è assai deperibile. È custodita da un presidio Slow Food.
Il lampone (Rubus idaeus L., 1753) è un arbusto da frutto appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere Rubus; l'omonimo frutto, di colore rosso e sapore dolce-acidulo, è molto apprezzato da solo o come ingrediente nelle preparazioni alimentari.
Descrizione
La fioritura avviene normalmente tra maggio e giugno mentre il frutto, composito, matura in tarda estate o inizio autunno. Cresce tipicamente negli spazi aperti all'interno di un bosco o colonizza opportunisticamente parti di bosco che sono state oggetto di incendi o taglio del legno. È facilmente coltivabile nelle regioni temperate e ha una tendenza a diffondersi rapidamente. Il frutto del lampone è un aggregato di drupe. È un arbusto latifoglia e caducifoglia e produce molti polloni. La pianta può raggiungere 1,8 metri di altezza.
Ci sono varietà a frutto rosso o giallo. Nero è il colore di Rubus occidentalis, arbusto americano in genere commercializzato come "lampone nero" benché sia una specie a sé stante, con verghe dal tronco rossiccio e di dimensioni maggiori, e con frutti di sapore diverso.
Habitat
Cresce anche selvatico in zone collinari e di montagna del centro Europa. Il lampone predilige i luoghi parzialmente ombrosi e terreni sub-acidi e freschi.
Coltivazione
Tra i lamponi ci sono varietà bifere, che producono frutti due volte all'anno, e unifere, che producono frutti una sola volta all'anno. Produce annualmente molti polloni dalle radici, ma ognuno vive due anni, è cioè biennale. I polloni producono frutti al secondo anno in luglio-agosto, dopodiché seccano e vanno tagliati. Nel caso di biferi producono frutti già al primo anno in settembre-ottobre.
Usi
Il lampone è una pianta mellifera e bottinata dalle api; è usato per ricavarne del miele, ma si produce quello monoflorale solo in certe zone dove è sufficientemente diffuso. I frutti sono normalmente utilizzati nella preparazione di confetture, sciroppi e gelatine. È da notare che la maggior parte delle cultivar di lampone commerciale non sono costituiti da Rubus idaeus puri, bensì da ibridi tra rubus idaeus e rubus strigosus,[1] per quanto quest'ultimo in passato era comunque considerato una sottospecie di Rubus idaeus.
I principi attivi contenuti nella pianta sono i tannini, la vitamina C, il flavone e acidi organici. Come erba medicinale ed erba officinale il lampone può essere usato come diuretico e colagogo. L'infuso di foglie è utile contro la diarrea. L'estratto di foglie e gemme è consigliato negli ultimi mesi di gravidanza per tonificare i muscoli dell'utero e migliorare le contrazioni.
Il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus L., 1753) è un arbusto da frutto appartenente alla famiglia delle Ericaceae e al genere dei Vaccinium, il cui frutto, il mirtillo, viene catalogato tra i frutti di bosco.
Non va confuso con il mirtillo gigante americano, specie ampiamente coltivata e venduta, alta fino a 2–3 m e con frutti più grandi.
Descrizione
Il mirtillo nero è un piccolo arbusto, caducifoglia e latifoglia, con portamento espanso di altezza compresa tra 20 e 60 cm, le cui foglie sono ovali e verde chiaro. Si allarga più in orizzontale che in verticale, ma con crescita molto lenta.
I fiori sono bianchi e hanno una forma tipica a orcio rovesciato, con petali saldati tra loro, come tutte le Ericacee. L'ovario è infero. La fioritura si ha in maggio, mentre la fruttificazione in luglio-agosto.
I frutti sono piccole pseudobacche bluastre, in quanto hanno l'aspetto di bacche, ma alla loro formazione contribuiscono ovario, sepali, petali e stami.
Composizione chimica[modifica | modifica wikitesto]
I principali costituenti sono le antocianine (0,5%); altri costituenti sono i tannini, alcuni acidi organici tra cui quelli idrossicinnamici e l'acido salicilico, vari glicosidi flavonolici e flavan-3-oli, iridoidi, terpeni e pectine.[1]
La specie cresce spontanea in Eurasia. In Italia è presente sulle Alpi e sugli Appennini.
Vaccinium myrtillus presenta una valenza cenotica ed ecologica piuttosto ampia in quanto è presente nelle peccete e nelle faggete subalpine e montane, purché con substrato a pH acido.
Nel Parco Nazionale dell'Appennino Tosco-Emiliano, nella zona del Passo del Cerreto, è stata individuata una popolazione di Vaccinium myrtillus con i frutti bianchi, quasi del tutto privi di pigmenti (antociani). Le cause del fenomeno potrebbero essere di ordine patologico o genetico.
Il mirtillo contiene quantità di acidi organici (citrico, malico,...), zuccheri, pectine, tannini, mirtillina (glucoside colorante), antocianine, vitamina A, C e, in quantità minore, vitamina B. I frutti si consumano freschi o trasformati in succo o confettura, o anche in pasticceria.
Produzione
I mirtilli presenti nei circuiti commerciali mondiali appartengono alla specie Vaccinium corymbosum; il Vaccinium myrtillus è invece una specie selvatica e la sua distribuzione è limitata ai mercati locali, prevalentemente nelle aree montane e a piccole produzioni di confetture e gelatine.[2]
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
I frutti essiccati hanno proprietà astringenti e possono essere utilizzati come antidiarroici. Alcune delle sostanze presenti nel mirtillo si sono dimostrate utili per la circolazione sanguigna, per gli occhi, e anche contro il diabete. In particolare si sottolineano le proprietà favorevoli delle antocianine sui capillari della retina essendo in grado di proteggere le pareti dei vasi capillari e di svolgere un'azione benefica sulla microcircolazione e nei problemi vascolari.[3]
I frutti del mirtillo venivano utilizzati per tingere di blu violetto i tessuti.
È pianta visitata dalle api per il polline ed il nettare.[4]
Si presenta come arbusto perenne, sarmentoso con fusti aerei a sezione pentagonale lunghi anche oltre 6 metri, provvisti di spine arcuate.
È una semicaducifoglia; infatti, molte foglie permangono durante l'inverno.
Le foglie sono imparipennate, variabilmente costituite da 3 a 5 foglioline a margine seghettato di colore verde scuro, ellittiche o obovate e bruscamente acuminate, pagina superiore glabra e pagina inferiore tomentosa con peli bianchi e spine nella nervatura principale.
I fiori, bianchi o rosa, sono composti da cinque petali e cinque sepali. Sono raggruppati in racemi a formare infiorescenze di forma oblunga o piramidale. Il colore dei petali varia da esemplare a esemplare con dimensioni comprese tra i 10 e 15 mm. La fioritura compare al principio dell'estate, in giugno.
Il frutto commestibile, la mora, è composto da numerose piccole drupe, verdi al principio, poi rosse e infine nerastre a maturità, derivanti ognuna da carpelli separati ma facenti parte di uno stesso gineceo. In Italia il frutto è maturo in agosto e settembre; il gusto è variabile da dolce ad acidulo.
La moltiplicazione della pianta avviene per propaggine apicale o talea.
Il suo areale comprende quasi tutta l'Europa, il Nordafrica e il sud dell'Asia. È stata introdotta anche in America e Oceania.
La pianta è indicativa di terreni profondi e leggermente umidi. La riproduzione è sessuale attraverso i semi contenuti nelle drupe, ma anche vegetativa attraverso l'interramento di rami che danno origine ad una pianta nuova.
È considerata una infestante in quanto tende a diffondersi rapidamente e si eradica con difficoltà. Né il taglio né l'incendio risultano efficaci. Anche gli erbicidi danno scarsi risultati. Poiché è una pianta eliofila, tollera poco l'ombra degli altri alberi, pertanto si riscontra nel mantello dei boschi e lungo i sentieri, nelle siepi e nelle macchie.
Spesso nei boschi i rovi formano delle vere barriere intransitabili. Specialmente in associazione con la vitalba, essi possono creare dei grovigli inestricabili spesso a danno della vegetazione arborea che viene in pratica aggredita e soffocata. Tali situazioni sono quasi sempre l'espressione di un degrado boschivo.
Il nome scientifico di questa specie è composto dal nome di genere Rubus e da quello di specie ulmifolius.
Rubus (dal latino ruber, rosso) potrebbe far riferimento al colore dei frutti maturi di altre specie dello stesso genere, come il lampone, o direttamente alla forma immatura del frutto di questa specie stessa.
Ulmifolius (dal latino ulmus, olmo e folia, foglia) deriva dalla similitudine con le foglie dell'albero Ulmus minor.
Usi
La pianta è utilizzata anche per delimitare proprietà e poderi, con funzioni principalmente difensive, sia per le numerose e robuste spine che ricoprono i rami, sia per il fitto e tenace intrico che essi formano, creando una barriera pressoché invalicabile.
Altre funzioni delle siepi di rovo sono nella fornitura di nettare per la produzione del miele anche monoflorale, in Spagna e Italia, e ancora nella associazione di specie antagoniste di parassiti delle colture (ad esempio le viticole), e nella formazione di corridoi ecologici per specie animali.
Il frutto, annoverato tra i cosiddetti frutti di bosco, ha discrete proprietà nutrizionali con marcata presenza di vitamine C e A. Cento grammi di more fresche contengono infatti 52 kcal, 0,7 g di proteine, 0,4 g di lipidi, 12,8 g di glucidi, 32 mg di calcio, 0,6 mg di ferro, 6,5 er (equivalente in retinolo) di vitamina A, 21 mg di vitamina C. Presenta indicazioni in erboristeria per le sue proprietà astringenti e lassative.
Si tratta di un frutto delicato, che mal si presta a lunghe conservazioni. È commercializzato per scopi alimentari al naturale e come guarnizione di dolci, yogurt e gelati, oppure nella confezione di marmellate, gelatine, sciroppi, vino e acquavite (ratafià).
Nell'uso popolare, i giovani germogli, raccolti in primavera, sono ottimi lessati brevemente e consumati con olio, sale e limone, al pari di molte altre erbe selvatiche primaverili.
I germogli primaverili, colti quando il sole è alto, lavati e lasciati a macerare in una brocca di acqua fredda tutta la notte, producono una bevanda rinfrescante.
Le more presentano un contenuto nutrizionale significativo in termini di fibra alimentare, vitamina C, vitamina K, acido folico - una vitamina B, e il minerale essenziale manganese
Le more rappresentano un'eccezione tra le altre bacche della specie Rubus per via dei semi grandi e numerosi, non sempre apprezzati dai consumatori. Essi contengono grandi quantità di acidi grassi omega-3 (acido alfalinolenico) e omega-6 (acido linoleico), proteine, fibra alimentare, carotenoidi, ellagitannini e acido ellagico.
Farmacognosia
Dalla parte aerea di Rubus ulmifolius sono stati isolati 3 nuovi antroni: rubantrone A, B e C. Il rubantrone A ha mostrato di possedere attività antimicrobica verso Staphylococcus aureus.[3]
Ribes (L., 1753) è l'unico genere appartenente alla famiglia delle Grossulariaceae, diffuso nell'intero emisfero boreale ed in Sudamerica[1].
Comprende piante coltivate a scopo alimentare (come il ribes rosso, l'uva spina, e il cassis utilizzato in Francia per la crème de cassis) e a scopo ornamentale.
Sono arbusti diffusi in quasi tutta l'Europa e in gran parte del Nordamerica. È presente anche in tutta l'Asia a nord di una linea che collega il Caucaso al Giappone meridionale, in aree ristrette del Nordafrica e lungo le Ande fino alla Terra del Fuoco.[2]
Il genere Ribes comprende attualmente 192 specie[1] ripartite, dall'inclusione del genere Grossularia al suo interno, in due diversi sottogeneri:
Sottogenere Ribes (L., 1753)
Sottogenere Grossularia ((Tourn.) Mill., 1754)
Secondo la moderna classificazione APG IV il genere Ribes, incluso nella famiglia Grossulariaceae, fa parte dell'ordine Saxifragales, dove è il taxon più vicino, a livello evolutivo, alle Saxifragaceae[3].
In passato invece, con la classificazione Cronquist, le Grossulariacee, e quindi il genere Ribes, venivano invece classificate all'interno dell'ordine Rosales. I generi Itea e Escallonia, qui inclusi nella classificazione tradizionale, sono stati inseriti dalla classificazione APG IV rispettivamente nelle due piccole famiglie di Iteaceae ed Escalloniaceae[4][5].
Le specie del genere Ribes si propagano facilmente per talea, margotta o semina. Le talee daranno frutti in 2 o 3 anni, mentre la semina in 4-5 anni.
Il Ribes è ottimo per il consumo fresco (come succhi e macedonie o semplicemente come frutta fresca), la preparazione di confetture e liquori.
È consigliato per aumentare la resistenza dei capillari e per diminuirne la permeabilità. I suoi frutti sono ricchi di flavonoidi, antociani e vitamina C.
Viene utilizzato anche per alleviare i disturbi delle allergie[6].
Ribes nigrum (L., 1753), comunemente noto come ribes nero, è una pianta appartenente alla famiglia delle Grossulariaceae, originaria di Europa e Russia asiatica[1].
Oltre al ribes nero, esiste anche il ribes rosso e il ribes bianco[2].
Distribuzione e habitat
La pianta è originaria delle zone montuose dell'Eurasia, ed è spontanea nel nord e nel centro dell'Europa e in Asia settentrionale[3].
Descrizione
L'arbusto è alto fino a 2 metri con fogliame deciduo e fusti ramosi. La corteccia è liscia, da chiara a rossastra nei fusti giovani, mentre diviene scura nei fusti vecchi. Le foglie sono grandi, piane, picciolate, con tre - cinque lobi, apice acuto e margine dentato. La pagina inferiore, coperta da un leggero tomento, è ricca di ghiandole giallastre dalle quali emana un caratteristico odore. I fiori appaiono in primavera, raccolti in racemi pendenti, sono pentameri, di colore verde-biancastro, poco appariscenti. I frutti, delle bacche nere globose ricche di semi con all'apice le vestigia del fiore, compaiono in agosto-settembre. Si differenzia molto dal ribes rosso per il colore, l'aroma, il sapore e destinazione dei frutti. Le foglie, le gemme ed i frutti sono intensamente profumati per la presenza di ghiandole contenenti oli essenziali.[4]
Coltivazione
Il ribes nero viene coltivato prevalentemente a scopo alimentare, ma negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede la finalità terapeutica. Il terreno consigliato è caratterizzato da un impasto medio, sciolto, ricco di humus e tendente all'acido. La distanza consigliata tra le file è di 3 metri mentre sulla fila è sufficiente lasciare 1,5 m tra un individuo e l'altro. La moltiplicazione della specie avviene principalmente per talea di ramo. Salvo particolari condizioni non necessita di interventi irrigui. Tenendo presente che il ribes fruttifica prevalentemente sui rami di un anno e poco su quelli corti e inseriti su legno vecchio, l'operazione di potatura deve essere rivolta ad assicurare il rinnovo delle vegetazione.[5
Usi
Alimentari
È alla base della Crème de cassis (cassis è il nome francese del ribes nero), un liquore a 20 % vol con cui si prepara il kir, con l'aggiunta di vino bianco.[6]
Secondo il Callo viene utilizzato in fitoterapia e gemmoterapia per stimolare le ghiandole surrenali a produrre cortisolo, un cortisone endogeno che aiuta l'organismo a reagire alle infiammazioni. Utilizzato anche per malattie cutanee (eczema e psoriasi). Il cortisolo genera una reazione essenziale ad ogni tipo di stress o lesione. Stimola la conversione di proteine in energia ed elimina le infiammazioni, inibisce inoltre temporaneamente l'azione del sistema immunitario.
Ribes uva-crispa (L., 1753), comunemente nota come uva spina, è un pianta appartenente alla famiglia delle Grossulariaceae, originaria di Europa e Medio Oriente[1]. Le sue bacche, commestibili, sono considerate frutti di bosco.
L'uva spina è un piccolo arbusto perenne, latifoglia e caducifoglia, spinoso a rami intricati, alto circa 50–200 cm. La sua forma biologica è "NP - nano-fanerofita", cioè pianta legnosa con gemme perennanti poste tra 20 cm e 2 m dal suolo.
Ha foglie lobate, senza stipole, di pelosità variabile.
I fiori, solitari o a racemo di 2-3 fiori, hanno un breve peduncolo. Il calice è formato da cinque sepali giallo-verdi, gialli o porporini, di 5–7 mm. La corolla è formata da cinque petali minori dei sepali, alternati ad essi. Il fiore ha 5 stami epipetali (disposti in corrispondenza dei petali). L'ovario è infero, con uno stilo bifido. La fioritura avviene in aprile e la fruttificazione si ha ad agosto.
Il frutto è una bacca edule di dimensione e pelosità variabile con alcuni semini all'interno; ne esistono diverse varietà con colore rosso o giallo. Le radici sono superficiali e non vanno in profondità.
Distribuzione e habitat
L'uva spina è una pianta eurasiatica, originaria di Europa e parte del Medio Oriente e del Nordafrica. A causa della sua popolarità come pianta da frutto è stata tuttavia introdotta dall'uomo in un areale ben più ampio, che include America Settentrionale ed Estremo Oriente. In Italia è comune sulle Alpi e sull'Appennino centro-settentrionale, fino al Molise[3]. Cresce nei boschi e nelle radure di montagna, dai 100 ai 1600 m di quota.
L'uva spina predilige posizioni semi-ombreggiate e luoghi freschi, patendo la siccità prolungata. Vegeta in terreni sub-acidi e non troppo compatti. È molto resistente al freddo e non teme le gelate tardive; inoltre è rustica e molto resistente alle malattie.
Il frutto è commestibile; aromatico, succoso e dolce a piena maturazione. Può essere usato fresco, per fare confetture, sciroppi e gelatine. L'uva spina è poco conosciuta ed è catalogata tra i frutti minori o insoliti. Come erba medicinale ed erba officinale, l'uva spina può essere utilizzata grazie al contenuto di vitamina C, vitamina A, polifenoli, sali minerali, acido malico.
Morus L. è un genere di piante della famiglia delle Moracee[1], originario dell'Asia, ma anche diffuso, allo stato naturale, in Africa e in Nord America. Comprende alberi o arbusti da frutto di taglia media, comunemente chiamati gelsi.
Il nome generico Morus viene dal latino mōrus, parola mediterranea attestata anche nel greco μόρον móron[2] "nero" per via del colore dei frutti di alcune varietà[3]. La parola latina si è poi diffusa in area germanica (antico alto tedesco mūrboum, tedesco Maulbeere) e celtica insulare (gallese mwyar)[3].
Le foglie sono alterne, di forma ovale o a base cordata con margine dentato. Le principali specie conosciute e rinvenibili in Italia e in Europa sono il gelso bianco (Morus alba) e il gelso nero (Morus nigra), mentre le altre sono di varie parti del mondo.
Il "frutto" del gelso è, più propriamente, una infruttescenza detta sorosio costituita da tanti piccoli frutti accostati, generati da altrettanti fiori, e quindi altrettanti ovari. Il tutto è disposto su uno stelo.
Il genere comprende le seguenti specie:[1]
Morus alba L. (gelso bianco), coltivato, originario dell'Estremo Oriente
Morus boninensis Koidz.
Morus cathayana Hemsl., diffuso in Cina, Corea e Giappone
Morus celtidifolia Kunth (gelso texano), diffuso dagli Stati Uniti fino all'Argentina
Morus indica L. (gelso indiano), coltivato, originario della regione himalaiana
Morus insignis Bureau, diffuso nell'America centrale e meridionale
Morus koordersiana J.-F.Leroy
Morus liboensis S.S.Chang, esclusivo del Guizhou (Cina)
Morus macroura Miq., diffuso dal Tibet all'Indocina
Morus microphylla Buckley
Morus miyabeana Hotta
Morus mongolica (Bureau) C.K. Schneid., dell'Asia orientale
Morus nigra L. (gelso nero), coltivato, originario del Medio Oriente
Morus notabilis C.K. Schneid., endemico in Yunnan e Sichuan (Cina)
Morus rubra L. (gelso rosso), coltivato, originario del Nordamerica
Morus serrata Roxb. (gelso himalaiano), proprio della regione himalaiana e terre adiacenti
Morus trilobata (S.S. Chang) Z.Y. Cao, endemico in Guizhou (Cina)
Morus wittiorum Hand.-Mazz., presente solo in Cina
Linneo aveva inserito nel genere Morus anche altre specie, che già a partire dalla fine del '700 furono spostate nel genere affine Broussonetia. Anche queste specie sono indicate con il nome volgare di "gelso", in particolare Broussonetia papyrifera, il gelso da carta.
Le specie del genere Morus vengono coltivate per diversi scopi:
I frutti (more di gelso nere, di gelso bianche, di gelso rosso) sono edibili (famosa la granita siciliana ai gelsi). Inoltre da essi vengono estratti oli essenziali usati come aromatizzanti per cosmetici naturali e sigarette elettroniche.
Le foglie (soprattutto del gelso bianco) sono utilizzate in bachicoltura come alimento base per l'allevamento dei bachi da seta, e questo giustifica la presenza residua nelle campagne.
Come piante ornamentali.
Per ricavarne legname facilmente lavorabile, buona legna da ardere e per ricavarne pertiche flessibili e vimini per la fabbricazione di cesti; per l'ultimo uso spesso gli alberi sono drasticamente capitozzati.
Da agenti fungini
Cancro dei rami – dal fungo Necria galligena
Cancro delle radici – dai funghi Rosellinia necatrix e Armillaria mellea
Macchie fogliari – dal fungo Mycosphaerella morifolia
Carie del legno – dai funghi dei generi Ganoderma, Fomes, Coryolus.
Da agenti animali
Corrosione a cunicolo delle parti legnose provocata dalle larve dei Rodilegno rosso e giallo: Cossus cossus e Zeuzera pyrina
Infestazione del legno dalla Cocciniglia bianca del Gelso: Pseudaulacaspis pentagona
Spoliazione fogliare causata da larve di Lepidotteri: Lymantria dispar, Hyphantria cunea et alt.
molti volatili sono ghiotti dei frutti dolci dei vari morus e se ne cibano in quantità riducendo il raccolto
Il giuggiolo (Ziziphus jujuba Mill.) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rhamnaceae[2] e al genere Ziziphus, noto anche come zizzolo o anche dattero cinese, natsume o tsao (cinese semplificato: 枣; cinese tradizionale: 棗; pinyin: zǎo). Il frutto viene detto comunemente giuggiola o zizzola.
Si ritiene che il giuggiolo sia originario dell'Africa Cento-settentrionale e della Siria, e che sia stato successivamente esportato in Cina e in India, dove viene coltivato da oltre 4000 anni. I romani lo importarono per primi in Italia e la chiamarono ziziphum (dal greco ζίζυφον, zízyphon).
In Italia però fu diffuso dai veneziani, dapprima in Dalmazia, poi sulle isole della laguna e infine sulla terraferma, nella zona dei Colli Euganei, quella più idonea nel nord-est alla loro coltura per esposizione e clima.[3]
STRUTTURA E FORMA
Infiorescenza
Fogliame
Il giuggiolo è una caducifoglia e latifoglia, dal portamento generalmente di albero e talvolta di arbusto; può arrivare in esemplari antichi anche 200 anni e con un'altezza di 8-12m, ma spesso è più basso per le potature. Le foglie sono arrotondate, di un verde chiaro e brillante.
Le radici vanno molto in profondità, fatto che rende il giuggiolo resistente a calura e siccità anche in terreni detritici.[3] La struttura dell'albero è molto articolata e i rami sono ramificati e contorti con una corteccia molto corrugata che si sfalda, come quella del fusto; i rami sono ricoperti di spine.
Il giuggiolo produce un gran numero di fiori di piccole dimensioni dal colore bianco verdastro; la fioritura avviene in giugno-agosto; la maturazione dei frutti tra settembre e ottobre.[4]
I frutti sono delle drupe che hanno un unico seme all'interno; hanno le dimensioni più o meno di un'oliva, con buccia di colore dal rosso porpora al bruno e polpa giallastra. La zizifina, un composto che si trova nelle foglie del giuggiolo, sopprime nell'uomo la percezione del sapore dolce. Se colto quando non ancora maturo (ossia quando presenta un colore verde uniforme), il frutto del giuggiolo, la giuggiola, ha un sapore simile a quello di una mela. Con il procedere della maturazione, tuttavia, il frutto si scurisce, la superficie si fa rugosa e il sapore diviene via via più dolce, fino ad assomigliare a quello di un dattero. Le giuggiole si consumano sia fresche, appena colte dall'albero, sia quando sono leggermente raggrinzite.
C'è un solo nocciolo all'interno del frutto, simile a quello di un'oliva, che nella cucina persiana è noto come annab.
La specie è presente allo stato spontaneo in Asia centrale e nella regione del Caucaso.[1]
Al di fuori del suddetto areale la presenza degli alberi di giuggiole è pressoché sempre dovuta a coltivazione, attuale o residua, pur esistendo una presenza significativa di piante naturalizzate. È possibile trovare esemplari di giuggiolo nei climi più diversi, tuttavia la pianta dà buoni frutti soltanto alla fine delle estati calde.
La denominazione Ziziphus jujuba è stata giudicata nomen conservandum a spese del sinonimo Ziziphus zizyphus (nomen rejiciendum).[5] Zizyphus sativa Gaertn. e Z. vulgaris Lam. var. inermis sono sinonimi di Zizyphus jujuba Mill. var. inermis.
A differenza di altre specie della stessa famiglia, è in grado di sopravvivere ad inverni freddi, con temperature fino a −15 °C. Non ha particolari esigenze di terreno.
La crescita della pianta è molto lenta per la formazione di cortissimi brachiblasti, ma è molto longeva e diventa plurisecolare. La presenza di alberi di mole significativa, e quindi molto vecchi, in seguito allo sconvolgimento agrario del secolo scorso, è alquanto rara; si trovano spesso solo presso vecchie case coloniche, o cascinali abbandonati, su suolo povero ma non disturbato.
I semi della pianta sono molto restii a germogliare a causa dell'endocarpo molto duro e robusto, un modo semplice per aggirare il problema è il taglio della punta del seme con delle forbici da potatura per agevolare l'ingresso dell'umidità all'interno del seme.
Frequentemente la pianta è propagata più facilmente per mezzo dei numerosi polloni radicali che produce in abbondanza.
In Giappone e Cina, dove il giuggiolo è più coltivato, sono presenti diverse varietà che differiscono per forma e dimensione del frutto, ad esempio con frutto maliforme o piriforme.
È una pianta mellifera molto visitata dalle api[6] e se ne può ottenere un miele, ma in Italia la produzione è occasionale per la presenza solo sporadica della pianta.
Il giuggiolo era usato in passato, in alcune regioni italiane, per creare siepi difensive nei confini degli appezzamenti. In ragione delle spine e del fitto intreccio dei rami la siepe di giuggiolo costituiva una barriera pressoché impenetrabile. Sovente viene utilizzato come pianta ornamentale.
Nel Veneto, sui Colli Euganei, principalmente a Galzignano Terme esiste una coltivazione più intensiva che si è affermata negli ultimi anni grazie alla produzione del "Brodo di Giuggiole" un infuso di giuggiole e frutti autunnali, come uva Moscato, le cotogne Cydonia oblonga, scorze di limone, uva e melagrane. La ricetta moderna deriva molto probabilmente da una preparazione in voga presso i Gonzaga nel Rinascimento, i quali erano soliti deliziare gli ospiti con un liquore a base di questi frutti. Oltre che per la produzione di questo liquore, le giuggiole vengono utilizzate per la preparazione di marmellate e confetture e aromatizzare grappe, oppure vengono conservate sotto spirito (principalmente grappa) per essere consumate entro l'anno.
Tra le ricette più gustose che utilizzano la Giuggiola come ingrediente è celebre quella per cucinare i biscotti[7], ideali per accompagnare la colazione: per preparare 20 biscotti dovrete procurarvi 100 grammi di giuggiole denocciolate e tagliate a fette, 200 grammi di farina gialla per polenta, 150 di farina 00, 60 grammi di zucchero, 1 uovo, 2 cucchiai di lievito per dolci, 50 grammi di burro, mezzo bicchiere di latte e aggiungere un po’ di sale.
Narra Omero (Odissea, libro IX) che Ulisse e i suoi uomini, portati fuori rotta da una tempesta, approdarono all'isola dei Lotofagi (secondo alcuni l'odierna Djerba), nel nord dell'Africa. Alcuni dei suoi uomini, una volta sbarcati per esplorare l'isola, si lasciarono tentare dal frutto del loto, un frutto magico che fece loro dimenticare mogli, famiglie e la nostalgia di casa. È probabile che il loto di cui parla Omero sia proprio lo Zizyphus lotus, un giuggiolo selvatico, e che l'incantesimo dei Lotofagi non fosse provocato da narcotici ma soltanto dalla bevanda alcolica che si può preparare coi frutti del giuggiolo.
Una specie affine al giuggiolo, lo Zizyphus spina-christi, è ritenuto dalla leggenda una delle due piante che servirono a preparare la corona di spine di Gesù. L'altra sarebbe il Paliurus spina-christi chiamata comunemente "marruca".
Pare che per gli antichi Romani il giuggiolo fosse il simbolo del silenzio, e come tale adornasse i templi della dea Prudenza.
In Romagna e in altre regioni, in molte case coloniche era coltivato adiacente alla casa, nella zona più riparata ed esposta al sole. Si riteneva che fosse una pianta portafortuna. Era presente anche in quasi tutti gli orti delle campagne del Veneto.
Secondo gli scritti di Erodoto, le giuggiole potevano essere usate, dopo aver fermentato, per produrre un vino, le cui più antiche preparazioni risalgono a Egizi e Fenici.
Ad Arquà Petrarca, comune veneto dove i giuggioli sono ancora piantati nei giardini di molte abitazioni, i frutti sono utilizzati per preparare ottime confetture, sciroppi e il proverbiale brodo di giuggiole, un antico liquore.
I frutti del giuggiolo hanno un blando effetto lassativo.
Capparis Tourn. ex L. è un genere della famiglia Capparaceae comprendente piante fruticose, lianose o arboree distribuite in regioni temperate, subtropicali e tropicali di Africa, Eurasia e Oceania.[1]
In Italia vegeta il cappero (Capparis spinosa), a foglie glauche e stipole generalmente caduche ed erbacee.
Le specie di questo genere hanno foglie alterne, semplici, provviste di stipole spinescenti, fiori ermafroditi, attinomorfi e tetrameri, solitari o riuniti in racemi, con androceo composto da numerosi stami e ovario peduncolato. Il frutto è una capsula uniloculare contenente più semi.
Il cappero (Capparis spinosa L., 1753) è un piccolo arbusto o suffrutice ramificato a portamento prostrato-ricadente della famiglia Capparaceae.[1] Della pianta si consumano i boccioli, detti capperi, e più raramente i frutti, noti come cucunci o frutti di cappero. Entrambi si conservano sott'olio, sotto aceto o sotto sale.
Il portamento è cespitoso, con fusto subito ramificato e rami lignificati solo nella parte basale, spesso molto lunghi, dapprima eretti, poi striscianti o ricadenti.
Le foglie sono alterne e picciolate, a lamina subrotonda e a margine intero, glabre o finemente pelose, di consistenza carnosa. La forma della lamina è ovata, il margine è liscio, le nervature sono pennate e non è una foglia composta. Il nome dato alla specie è dovuto alla presenza, alla base del picciolo, di due stipole trasformate in spine. Nella varietà inermis, la più comune, le stipole sono erbacee e cadono precocemente.
I fiori sono solitari, ascellari, lungamente peduncolati, vistosi. Calice e corolla sono tetrameri, composti rispettivamente da 4 sepali verdi e 4 petali bianchi. L'androceo è composto da numerosi stami rosso-violacei, provvisti di filamenti molto lunghi. L'ovario è supero, con stimma sessile.
Il frutto è una capsula oblunga e verde, a forma di fuso, portata da un peduncolo di 2–3 cm, fusiforme e carnosa, con polpa di colore rosaceo. Contiene numerosi semi reniformi, neri o giallastri, di 1–2 mm di dimensioni. A maturità si apre con una fessura longitudinale. Comunemente i frutti sono chiamati cucunci o cocunci.
Secondo il sistema Cronquist la famiglia delle Capparaceae apparteneva all'ordine Capparales; l'Angiosperm Phylogeny Group la assegna all'ordine dei Brassicales sin dalla classificazione APG III.[2]
La pianta entra in riposo durante i mesi freddi. In piena primavera riprende l'attività vegetativa e fiorisce nei mesi di maggio e giugno. La fioritura si protrae durante l'estate in condizioni di umidità favorevoli e in tarda estate riprende d'intensità per diminuire progressivamente al sopraggiungere dell'autunno.
Il cappero è coltivato fin dall'antichità ed è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e in Asia occidentale fino all'Oman.[1] È spontaneo solo su substrati calcarei: nel suo ambiente naturale cresce sulle rupi calcaree, nelle falesie, su vecchie mura, formando spesso cespi con rami ricadenti lunghi anche diversi metri. È una pianta eliofila e xerofila con esigenze idriche limitatissime.
Pur essendo una pianta rupicola, il cappero trae vantaggio dalla coltivazione in piena terra e irrigato moderatamente ha uno sviluppo più rigoglioso, producendo fiori da maggio a ottobre. Si propaga per seme o preferibilmente per talee. La talea si esegue in estate, prelevando un pezzo di 7–10 cm di un ramo legnoso di 2-3 anni d'età, quindi lo si pone in una cassetta riempita di torba e sabbia.
Per favorire la radicazione è consigliato l'uso di polveri radicanti. Formatesi le radici, si prelevano le piantine e si invasano singolarmente in vasetti di circa 10 cm di diametro. La propagazione per seme è difficoltosa dato che la germinazione dei semi è buona solo se i semi sono seminati immediatamente dalla raccolta dai frutti, è invece molto difficoltosa (germinabilità del 5 - 10%) quando entrano in dormienza (cioè si essiccano), la preparazione con semi in acqua calda e poi in ammollo per qualche giorno aumenta la germinabilità. La possibilità di germinazione aumenta anche qualora la semina venga eseguita nei mesi invernali (dicembre - gennaio).
Si semina in cassette, riempite di torba e sabbia, lasciate all'aperto nel periodo estivo e riparate in autunno–inverno. Nella primavera successiva si può trapiantare la nuova pianta direttamente nel terreno o singolarmente in un vaso. La semina può avvenire anche direttamente nelle fessure di muri a secco ben esposti al sole in autunno. Occorre però inserire i semi pressati in una manciata di muschio che proteggerà il seme durante l'inverno e lo terrà umido, altra soluzione: inserire dei semi dentro un fico maturo, o in una zolletta di fango pressato inserendo poi il tutto nella fessura del muro. Le piantine nasceranno verso maggio-giugno.
Le proprietà aromatiche sono contenute nei boccioli del fiore, comunemente chiamati capperi. Utilizzati in gastronomia da millenni, si raccolgono ancora chiusi e si conservano in macerazione sotto sale o sotto aceto. I capperi sono solitamente usati per aromatizzare le pietanze e si sposano bene con una grande varietà di cibi: dalla carne, al pesce, alla pasta.
Il frutto, di sapore simile ma più delicato del cappero, è detto cucuncio, cocuncio o capperone e si trova in commercio sotto sale, sott'olio o sotto aceto. È usato tradizionalmente nella cucina eoliana per condire piatti di pesce. Gli eoliani usano anche dissalare i cucunci o i capperi e consumarli al pari di una qualsiasi verdura, di solito in insalata. In ambito culinario vengono utilizzate anche le giovani foglie come insalata, previa cottura per pochi minuti in acqua bollente.
L'ampia diffusione in Sicilia e l'uso tradizionale che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato i capperi ad essere inseriti nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (MiPAAF) come prodotto tipico siciliano.[3] Il Cappero di Pantelleria ha invece ottenuto l'Indicazione geografica protetta (IGP). Fin dall'antichità è diffusa la credenza che attribuisce proprietà afrodisiache al cappero.[4][5]
I capperi contengono più quercetina in rapporto al peso di ogni altra pianta[6]. In erboristeria è utilizzata la corteccia della radice. I principi attivi hanno proprietà diuretiche e protettrici dei vasi sanguigni. Può essere utilizzata nella cura della gotta, delle emorroidi, delle varici. Un infuso preparato con radici di cappero e germogli giovani era utilizzato in medicina popolare per alleviare i reumatismi.