ricorrenze
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Tradotto in tutto il mondo e vincitore dei più importanti Premi letterari, tra i quali il premio internazionale di letteratura IMPAC, il Nelly Sachs, il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane, ha vinto con Domani nella battaglia pensa a me il premio Rómulo Gallegos e il Prix Femina Etranger. Nel 2011 ha ricevuto inoltre il Premio Nonino[2].
Marías nasce a Madrid il 20 settembre del 1951, quartogenito dei cinque figli[3] di Julián Marías Aguilera (1914-2005), un filosofo, accademico e critico letterario originario di Valladolid (nella Castiglia e León), membro della Real Academia Española e discepolo prediletto del filosofo José Ortega y Gasset, e della madrilena Dolores Franco Manera, sorella del cineasta Jesús Franco (1930-2013)[4]. Grazie allo zio, Marías inizia a lavorare mentre è ancora studente nel mondo del cinema, facendo la comparsa in qualche suo film e traducendogli i copioni[4].
Laureatosi in Filologia inglese presso l'Università Complutense di Madrid, per due anni insegna Letteratura spagnola presso l'Università di Oxford e tiene corsi di letteratura e traduzione nel Wellesley College nel Massachusetts. In seguito, diviene professore di Teoria e traduzione presso l'Università Complutense di Madrid. Esordisce come scrittore precocemente, pubblicando nel 1971, a soli 19 anni, Los dominos del lobo, romanzo accolto positivamente da Juan Benet. Marías viene presto riconosciuto come il precursore di una narrativa che, prescindendo dal realismo, propone motivi nuovi e creativi. Nel 1972 pubblica Travesía del horizonte che ottiene una ottima critica e serve a situarlo sulla linea dei più inquieti giovani scrittori.
Nel 1979 pubblica El monarca del tiempo, opera eterogenea composta da tre racconti, un saggio e una pièce teatrale collegati dal tema del tempo. A essa seguono El siglo (1983) e El hombre sentimental, con il quale ottiene nel 1986 il Premio Herralde per la narrativa. Come traduttore inizia a destreggiarsi sulla versione El brazo marchito (The Withered Arm di Thomas Hardy) e La vida y opiniones del caballero Tristram Shandy (The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman di Laurence Sterne), per il quale il Ministero della Cultura gli assegna nel 1980 il Premio Nacional de Traducción Fray Luis de León. Javier Marías ha tradotto molti importanti autori anglosassoni, tra i quali Thomas Hardy, Joseph Conrad, Laurence Sterne, Yeats, Stevenson e Isak Dinesen.
Nel 1989 presenta a Madrid il suo romanzo intitolato Tutte le anime (Todas las almas), basato sull'esperienza vissuta durante la sua permanenza all'università di Oxford vincendo il Premio per la Città di Barcellona e viene eletto finalista al Premio Medicis per il migliore romanzo straniero pubblicato in Francia con il titolo Le roman d'Oxford. Nel 1996 questo romanzo servirà alla cineasta Gracia Querejeta, come base per la realizzazione del lungometraggio L'ultimo viaggio di Robert Rylands. Javier Marías diventa così uno dei più grandi nuovi valori della narrativa spagnola. Nel 1990 pubblica l'opera Mientras ellas duermen, una raccolta di racconti elaborati tra il 1975 e il 1990.
Ad essa segue Un cuore così bianco (Corazón tan blanco) del 1992, romanzo nel quale l'autore coniuga il discorso narrativo con quello riflessivo, proponendo un'affascinante indagine psicologica sulla convenienza del segreto all'interno delle più strette relazioni familiari. Per questo romanzo, il 3 aprile del 1993 Javier Marías viene insignito del Premio della Crítica della Narrativa in Lingua Castellana, che annualmente concede la Asociación Española de Críticos Literarios. Con il romanzo Corazón tan blanco, che viene definito "obra maestra" dall'eminente critico di letteratura tedesca Marcel Reich-Ranicki, lo scrittore è finalista al Premio Nacional de Narrativa 1993 e selezionato, nell'ottobre dello stesso anno, per il Premio Aristeión 1993 della letteratura europea.
Nel 1994 pubblica il romanzo Domani nella battaglia pensa a me (Mañana en la batalla piensa en mí), che nel 1995 gli vale il Premio Fastenrath della Reale Accademia della lingua. Nel giugno 1995 Javier Marías pubblica La vita del fantasma (Vida del fantasma), una raccolta di alcuni dei suoi articoli pubblicati sulla rivista El País; il 26 luglio ottiene il Premio internazionale del Romanzo Rómulo Gallegos per Domani nella battaglia pensa a me. Nel 1996, sempre per Domani nella battaglia pensa a me, è finalista al Premio Aristeión dell'Unione europea; nel mese di settembre viene selezionato per il Premio Medicis e, nel mese di novembre, riceve a Parigi il Premio Femina per il migliore romanzo straniero.
Javier Marìas alla Fiera del Libro di Torino (sabato 10 maggio 2008).
Nel 1996 pubblica Quando fui mortale (Cuando fui mortal), una raccolta di relazioni scritte tra il 1991 e il 1995; nel medesimo anno presenta L'uomo che sembrava non chiedere niente (El hombre que parecía no querer nada), una antologia di suoi testi realizzata dalla professoressa dell'Università di Venezia, Elide Pittarello. Nel 1997 il suo romanzo Un cuore così bianco vince a Dublino il Premio Internazionale della Letteratura IMPAC. Alla fine dello stesso anno presenta il suo libro Miramientos, e in seguito pubblica Negra espalda del tiempo.
Nel 1998, per la densità del contenuto e la sua originalità narrativa, Domani nella battaglia pensa a me riceve il Premio letterario internazionale Mondello città di Palermo come la migliore opera narrativa straniera. Nel 1999 Marìas presenta a Madrid Desde que te vi morir, un libro dedicato a Vladimir Nabokov nell'anno del suo centenario, e Seré amado cuando falte, una raccolta di articoli pubblicati negli ultimi anni. Nel 2000 lo scrittore riceve il Premio Internazionale Ennio Flaiano per il romanzo L'uomo sentimentale (El hombre sentimental), pubblicato in Italia nel 1999. Risale al 1992 Vite scritte (Vidas escritas) una raccolta[5] di brevi biografie tradotte e pubblicate da Einaudi nel 2004.
Nel 2008 vince il Premio Internazionale Città di Alassio, che gli viene consegnato il 10 maggio durante la Fiera Internazionale del Libro di Torino. Nello stesso periodo l'editore Passigli pubblica la sua raccolta di scritti giornalistici Faranno di me un criminale e Elide Pittarello, studiosa di letteratura spagnola e amica personale dello scrittore, pubblica due lunghe interviste.
In occasione dell'edizione economica del terzo volume di Il tuo volto domani (Tu rostro mañana, 2008), Marías ha aggiunto al volume un'appendice di tre ritratti come fossero scritti da tre personaggi del libro (il cui mestiere è appunto creare schede su personaggi per un'agenzia di spionaggio). Con una piccola introduzione che ne spiega l'origine, sono stati stampati da Einaudi in Interpreti di vita (collana "L'arcipelago" n. 185, 2011). Essi riguardano Silvio Berlusconi, Michael Caine e Lady Diana. Nel 2011 gli è stato conferito il Premio Nonino[2]; nello stesso anno ha pubblicato il romanzo Gli innamoramenti (Los enamoramientos), con il quale ha poi vinto la undicesima edizione (2014) del premio letterario internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa (la premiazione è avvenuta il 5 agosto 2014 a Santa Margherita di Belìce).
Javier Marías è morto nel 2022, a 70 anni, per complicazioni da Covid-19. [6]
Ezio Gribaudo
È morto Ezio Gribaudo, artista e editore torinese di 93 anni, che collaborò con Chagall, de Chirico, Fontana, Peggy Guggenheim, Miro, Moore. Ieri 18 luglio il decesso, nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione della sua autobiografia, «La bellezza ci salverà», edita da Skira.
Boris Pahor nato nel 1913 a Trieste, a sette anni assiste all’incendio del Narodni Dom, sede culturale principale in città della comunità slovena, esperienza che lo segna per tutta la vita, e che ricorre spesso nei suoi romanzi e racconti. Dopo aver frequentato il liceo classico presso il seminario di Capodistria, nel dopoguerra si laurea in Lettere all’Università e quindi, si dedica all’insegnamento della letteratura italiana. Arruolato e mandato al fronte in Libia, torna a Trieste dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma viene arrestato dai nazisti e quindi internato in vari campi di concentramento in Germania e in Francia. Sopravvissuto alla tragica esperienza dei lager, al termine del conflitto a Trieste aderisce a numerose imprese culturali social-democratiche e diviene uno dei più importanti punti di riferimento per la giovane generazione di letterati sloveni. La sua opera più nota è Necropoli, romanzo autobiografico sulla prigionia a Natzweiler-Struthof. È stato tradotto in francese, tedesco, serbo-croato, ungherese, inglese, spagnolo, italiano, catalano e finlandese.
Per Nuovadimensione ha pubblicato nel 2010 Piazza Oberdan, nel 2013 ha curato l’edizione del memoriale di sua moglie, Radoslava Premrl, Un eroe in famiglia. Mio fratello Janko-Vojko e nel 2015 ha pubblicato Quello che ho da dirvi. Dialogo tra generazioni lontane un secolo con la prefazione di Angelo Floramo.
Ricordiamo l'uomo e il politico a 100 anni dalla nascita, che ricorre il 25 maggio 2022
https://maremosso.lafeltrinelli.it/approfondimenti/enrico-berlinguer-politico-pci-anniversario
Due storie esemplari di eroismo civile, due vite dedicate ad affermare la giustizia, due testimonianze di inesauribile coraggio. Giacomo Bendotti le ripercorre restituendoci i momenti cruciali. Immagini e dialoghi che ci raccontano la necessità di proseguire la loro battaglia per l’onestà e non dimenticare i momenti più oscuri della nostra storia recente.
DUE GRAPHIC NOVEL D’AUTORE PER RICORDARE IL SACRIFICIO DI GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO A TRENT’ANNI DALLE STRAGI DI MAFIA.
Lo scrittore francese Romain Gary nasce a Vilnius, in Lituania, il 21 maggio 1914. Il nome è lo pseudonimo di Roman Kacew; il letterato è conosciuto anche con il nome di Émile Ajar. La madre, Mina Owczyńska, era un’ebrea di origine russa scappata dalla Rivoluzione di quegli anni; la sua professione era quella di attrice. Il padre, Ivan Mosjoukine, era uno dei più noti interpreti del cinema muto dell’epoca.
Gary arrivò in Francia all’età di 13 anni e dopo aver terminato gli studi universitari in Legge entrò nella France Libre di De Gaulle (l'aviazione francese). Dopo aver partecipato alla guerra arruolato nelle Force aériennes françaises libres, ottenne la Legion d’onore per la sua condotta valorosa.
In seguito intraprese la carriera diplomatica, occupando il ruolo di console generale di Francia in California.
L’esordio letterario di Romain Gary avvenne quando aveva 30 anni, con un romanzo intitolato “Educazione europea”.
Successivamente, nel 1956, scrisse “Le radici del cielo” - con il quale vinse il premio Prix Goncourt.
Uno dei suoi capolavori più riusciti e apprezzati dai lettori fu “La promessa dell'alba”, pubblicato nel 1960.
Con lo pseudonimo di Émile Ajar, nel 1975, scrisse invece il romanzo “La vita davanti a sé”, che ottenne il premio Prix Goncourt. "Prese in prestito" lo pseudonimo Emil Ajar dal cugino Paul Pavlevitch.
Avendo riscosso un notevole interesse nel pubblico, Romain Gary continuò a pubblicare con questo pseudonimo e pubblicò altri tre romanzi. Dopo qualche tempo il cugino cominciò a rilasciare interviste ai media francesi impersonando Ajar: la situazione sfuggì al controllo, tanto che non si riusciva più a capire chi aveva scritto cosa.
Ad un certo punto Paul Pavlevitch chiese il manoscritto de “La vita davanti a sé” per farlo vedere a qualche giornalista interessato. Gary, però, piccato, gli inviò solo delle fotocopie.
Nel 1962 lo scrittore sposò l’attrice statunitense Jean Seberg, ma il matrimonio non durò molto. La donna nel frattempo si ammalò di depressione e si uccise.
Lo scrittore, forse colpito da tale lutto e deluso dalla “burla” dello pseudonimo, proprio due giorni prima che la moglie si uccidesse, aveva inviato a Robert Gallimard (il suo editore) il libro intitolato “Vita e morte di Emil Ajar”, che scrisse nel febbraio 1979. Nel manoscritto aveva spiegato nei dettagli la burla colossale dello pseudonimo.
Nel 1976 fu pubblicato “Pseudo”, il terzo libro scritto con lo pseudonimo di Emil Ajar. Si tratta dell’unica opera non tradotta in Italia.
La vita dell'autore francese di origini lituane Romain Gary è stata piuttosto movimentata e burrascosa.
Il 2 dicembre 1980 Romain Gary si suicidò nella sua abitazione di Place Vendôme a Parigi, sparandosi un colpo di pistola alla testa.
Qualche giorno prima acquistò una vestaglia di colore rosso scarlatto per non destare troppo sconvolgimento in chi avrebbe ritrovato il suo corpo privo di vita.
Inoltre il letterato lasciò un messaggio nel quale spiegò che il suo gesto estremo non aveva alcun nesso con quello che aveva commesso sua moglie un anno prima.
“Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie. Romain Gary, 21 marzo 1979”.
Queste le ultime parole di Romain Gary, trovate in uno dei suoi ultimi scritti, che naturalmente risultarono profetiche di ciò che di lì a breve sarebbe accaduto.
Esiste però anche una sua frase in antitesi, tratta dall'opera "Cocco mio" (1974):
4 maggio 1655 - 27 gennaio 1732
storicamente riconosciuto come l'inventore del pianoforte
Nacque a Padova il giorno 4 maggio dell'anno 1655. Lavorò a Firenze presso la corte dei Medici nel periodo intorno all'anno 1690. Tra il 1698 e il 1700 inventò il gravicembalo con il piano e il forte, strumento musicale che venne successivamente chiamato fortepiano. Il gravicembalo di Bartolomeo Cristofori fu a tutti gli effetti lo strumento musicale precursore del pianoforte; esso sostituì il clavicembalo, che utilizzava il meccanismo dei salterelli, con un sistema di martelletti con lo scappamento: in questo modo rese possibile variare l'intensità del suono, variando la forza con cui si agiva sui tasti. Inizialmente gli strumenti musicali di Bartolomeo Cristofori non riscossero grande successo: a testimoniare tale direzione fu la riconversione in clavicembali di molti dei suoi gravicembali. E' ad ogni modo importante rilevare come l'invenzione di Cristofori aprì la strada a una larga sperimentazione che divenne sempre più forte. Tale ricerca portò poi al perfezionamento dello strumento da lui ideato, facendo nascere di fatto il moderno pianoforte. Bartolomeo Cristofori morì a Firenze all'età di 76 anni, il 27 gennaio 1732. Nella sua carriera di cembalaro costruì numerosi pianoforti: a noi purtroppo ne sono pervenuti solo tre.
L’Earth Day (Giornata della Terra) è la più grande manifestazione ambientale del pianeta, l’unico momento in cui tutti i cittadini del mondo si uniscono per celebrare la Terra e promuoverne la salvaguardia. La Giornata della Terra, momento fortemente voluto dal senatore statunitense Gaylord Nelson e promosso ancor prima dal presidente John Fitzgerald Kennedy, coinvolge ogni anno fino a un miliardo di persone in ben 192 paesi del mondo.
Le Nazioni Unite celebrano l’Earth Day ogni anno, un mese e due giorni dopo l'equinozio di primavera, il 22 aprile.
Dal 3 aprile ripartono le domeniche gratuite nei musei e nei luoghi della cultura statali italiani.
Con la conclusione dello stato di emergenza, il ministero della Cultura ha deciso di far ripartire l’iniziativa che era stata sospesa all’inizio del 2020. Da aprile, quindi, ogni prima domenica del mese, i musei, parchi archeologici e luoghi della cultura statali garantiranno l’accesso gratuito a tutti i visitatori “che potranno così tornare a beneficiare di un’iniziativa unica per favorire la conoscenza del patrimonio culturale italiano”, spiegano dal MiC.
Anche le visite durante le domeniche gratuite, come quelle che si svolgeranno durante gli ordinari giorni di visita, dovranno avere luogo nel pieno rispetto delle nuove misure di sicurezza previste dal citato Decreto.
Il 26 marzo alle 20,30 torna Earth Hour, l’Ora della Terra, è la più grande mobilitazione globale del WWF che, attraverso il gesto simbolico di spegnere le luci per un’ora, unisce cittadini, istituzioni e imprese in un momento di raccoglimento globale per la pace, la protezione del clima e per il nostro Pianeta. Il prossimo sabato dalle 20,30 di ciascun Paese, si terrà la 14esima edizione dell’ora di buio per il Pianeta, che coinvolgerà milioni di persone insieme a migliaia di città, monumenti e luoghi simbolo. Anche in Italia sono centinaia le iniziative e gli spegnimenti : Castello Sforzesco e la Torre del Filarete di Milano a Castel Sant’Angelo, il Colosseo e la Basilica di San Pietro al Vaticano, insieme alle facciate di Palazzo Madama, Montecitorio e Palazzo Chigi a Roma.
https://www.wwf.it/cosa-puoi-fare-tu/eventi/earth-hour-2022/
Da Milano a Vittoria, da Torino a Foligno, da Napoli a Roma, Firenze e ancora Pescara, Scanzano Ionico, Savona, Bari e tante altre città, si leggeranno i 1055 nomi di magistrati, uomini e donne delle forze dell’ordine, preti, giornalisti, sindacalisti, bambini, vittime della tratta che hanno perso la vita per la giustizia
L’Italia non dimentica le vittime innocenti delle mafie. Lunedì si celebra la XXVII giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di chi è stato ammazzato dalla criminalità organizzata, da Milano a Vittoria, da Torino a Foligno, da Napoli a Roma, Firenze e ancora Pescara, Scanzano Ionico, Savona, Bari e tante altre città, si leggeranno i 1055 nomi di magistrati, uomini e donne delle forze dell’ordine, preti, giornalisti, sindacalisti, bambini, vittime della tratta che hanno perso la vita per la giustizia.
L’iniziativa promossa da Libera e Avviso Pubblico in collaborazione con la Rai, quest’anno ha come piazza principale la città Napoli ma in contemporanea in migliaia di luoghi d’Italia e del mondo (Città del Messico, Bogotà e Buenos Aires, Quito, Uganda e Congo; a Parigi davanti la Tour Eiffel; a Marsiglia al vecchio porto; a Strasburgo davanti alla Corte europea dei diritti umani; a Berlino, Monaco Colonia, Lipsia, Madrid e La Valletta) in scuole, carceri, università, fabbriche, parrocchie, si terranno momenti di lettura, riflessioni, incontri, per fare memoria dei 1055 nomi che Libera ha scelto di non dimenticare.
“Non è la retorica della memoria, non è un evento, ma è una memoria viva. Loro – spiega il presidente e fondatore di Libera, don Luigi Ciotti – sono morti, uccisi dalla violenza criminale mafiosa, noi dobbiamo essere più vivi. È una memoria che non si esaurisce con il 21 marzo, tutti i giorni abbiamo una responsabilità e un impegno: non ingabbiare la memoria del passato, ma farla vivere nel presente e trasmetterla alle nuove generazioni. Il nostro Paese deve ricordare non solo i nomi importanti, ma tutti quei figli, padri, madri, mariti, mogli il cui dolore dei familiari è uguale e profondo. Il Paese deve scrivere quei nomi nelle proprie coscienze perché sono morti per la democrazia, per la libertà”. E anche il Coni e l’intero mondo dello sport è sceso in campo per ricordare le vittime innocenti delle mafie: atleti, federazioni e realtà sportive di promozione sociale in questo fine settimana hanno gareggiato indossando una maglia simbolica con la scritta “Lo sport non vi dimentica”.
Domenica, intanto, a Napoli le centinaia di familiari delle vittime di mafia, provenienti dalla Calabria, Sicilia, Puglia, Campania e dal Nord Italia si sono incontrati al monastero di Santa Chiara a piazza del Gesù per l’assemblea nazionale e a seguire la veglia ecumenica nella Basilica di Santa Chiara. Lunedì il corteo parte da Piazza Garibaldi alle nove del mattino per arrivare a piazza Plebiscito dove alle 10.30 inizierà la lettura dei nomi alla presenza anche del presidente della Camera, Roberto Fico. A concludere il tutto sarà don Luigi Ciotti: “Camminiamo a Napoli e in altre parti del mondo – dice il sacerdote – perché la memoria si trasformi in responsabilità e impegno anche per dire che le mafie e le guerre hanno la stessa radice: quella della violenza. La parola pace è l’unica parola per la quale dovremmo essere tutti abilitati a parlare con forza. Abbiamo bisogno di un Paese che valorizzi le cose positive e al tempo stesso sappia dissipare le ombre”.
CNDDU – Il Coordinamento Nazionale dei Docenti della Disciplina dei Diritti Umani in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, che si celebra il 21 marzo dal 2000, intende ricordare il valore potentissimo della poesia, una delle forme espressive più antiche e più belle utilizzate dall’uomo.
La giornata è stata istituita dall’ONU nel 1999 perché da sempre l’uomo ha affidato al linguaggio poetico le sue emozioni più profonde e più autentiche e ha capito, attraverso la poesia, non solo l’esperienza personale, ma anche quella di molti.
La poesia infatti è sempre stata portatrice sana di autentica bellezza perché ha veicolato le emozioni più forti e condivisibili dell’umana esistenza: felicità, gioia, serenità, ma anche tristezza, dolore, delusione, nostalgia, rimpianto. E ha raccontato fin dall’antichità, e ancora racconta, chi realmente siamo.
La poesia, oltre a stimolare ovviamente il pensiero creativo, è sempre stata un mezzo per scavare dentro noi stessi e comunicare oltre i confini e le differenze culturali.
Sostenere e promuovere questa giornata significa credere nel ruolo privilegiato che ha la poesia d promuovere la comunicazione, la comprensione interculturale e tutti i valori più belli dell’esistenza umana, come l’universale valore della Pace, che sempre più spesso lo vediamo vacillare e lontanissimo dagli uomini.
Molti sono stati i poeti che hanno usato la parola poetica come baluardo difensivo per proteggerci dallo sgretolamento di molti valori importanti, dall’intolleranza e dall’odio che minacciano l’umanità.
Molti sono i poeti che hanno scritto poesie sulla Pace e contro la guerra trasferendo nei cuori dei lettori emozioni e sentimenti personali. E anche, e soprattutto, in questi casi la poesia ha parlato agli uomini degli uomini, delle loro fragilità, delle loro paure, delle loro miserie.
La poesia quindi narra in versi il nostro cuore, e ad esso permette di ormeggiare quando è stanco e solo. O quando una felicità grande gli chiede di guardarla negli occhi. Ed è questo il nobilissimo motivo per cui LEI è Patrimonio dell’Umanità, appartiene a ognuno di noi, è di tutti, da sempre.
Il 21marzo è il giorno in cui, come diceva Pascoli, dobbiamo ascoltare il fanciullino che è in noi: “Il fanciullino è colui che parla agli animali, ai sassi, alle stelle, è colui che ha paura del buio”. La Giornata Mondiale della Poesia è il giorno in cui dobbiamo aprire quel vecchio libro di rime e lasciarci cullare dalla dolcezza dei versi, senza temere di aver smarrito ormai tutto il coraggio di cui abbiamo bisogno per andare avanti, senza temere di non sapere più amare, senza sentirci piccoli, soli, vulnerabili davanti alle avversità.
Lasciamo che la Poesia di Catullo, di Dante, di Rodari, di Trilussa, di Shakespeare, di Ungaretti, di Rimbaud, e di tanti poeti e poetesse di ieri e di oggi, ci racconti i traviamenti e le conquiste dell’uomo di sempre.
Il CNDDU, convinto sostenitore dell’importanza della parola poetica come ingrediente fondamentale per sensibilizzare l’uomo verso tematiche di Pace, Giustizia e Libertà, invita i docenti della scuola italiana di I e II grado ad avvicinare gli studenti alla poesia, la più eccelsa e compiuta forma d’arte che sa nutrire l’animo umano di bellezza come poche altre.
L’iniziativa che promuoviamo quest’anno è La Poesia per la Pace, perché chi ama la poesia è contro la guerra.
Si tratta di individuare un gruppo di poesie che raccontano/condannano gli orrori della guerra e poi provare a trovare analogie e differenze tra i vari testi e le parole-chiave per fare lavori di approfondimento in classe da collegare al difficile momento che stiamo vivendo. Ed essere, così, anche attraverso la parola poetica vicino all’Ucraina.
Tramite l’iniziativa da noi promossa per il 21 marzo, intendiamo ancora una volta utilizzare tutti gli strumenti e gli spunti possibili e tutti i momenti importanti, per condannare l’orrore che si sta compiendo davanti ai nostri occhi.
E la Poesia quest’orrore può, sa e deve condannarlo.
L’hashtag per la Giornata Mondiale della Poesia 2022 è #LaPoesiaperlaPace “Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra”
FORESTE E POESIA
Oggi si celebrano la Giornata mondiale della poesia e la Giornata internazionale delle foreste.
Al di là che non capisco l’urgenza di celebrare ogni giorno qualcosa, se non la vita stessa, condivido un bosco miniato che è diventato quasi un manifesto del mio modesto artigianato e ancor prima, del mio approccio e istinto a questo concerto di respiri e sguardi. So che vive in molte persone. Buone radici a voi.
#foreste #natura #boschi #alberi #poesia #boscominiato
#giornatamondialedellapoesia #GiornataDelleForeste
#homoradix #silvaitinerans #boscoitinerante
Firenze, 15 marzo 2022 - Sono almeno tre milioni le persone, soprattutto adolescenti, che soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Patologie come anoressia e bulimia sono risultate in crescita durante la pandemia di Covid 19. Secondo l'indagine dell'Istituto superiore di sanità, i disturbi alimentari sono aumentati di quasi il 40% rispetto al 2019, con un ulteriore abbassamento dell'età di esordio: il 30% di quanti ne soffrono ha meno di 14 anni. Emerge anche una maggiore diffusione fra i maschi, il 10% tra i 12 e 17 anni.
Persone sempre più giovani e fragili, che fanno fatica a far affiorare il disagio. Rispetto alle più frequenti diagnosi l'anoressia nervosa è rappresentata nel 36,2% dei casi, la bulimia nervosa nel 17,9% e il disturbo di binge eating, detto anche disturbo da alimentazione incontrollata, nel 12,4%.
In occasione della 11esima giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, che cade il 15 marzo, l'associazione Conversando Odv, con il sostegno dell'assessorato all'Educazione e al Welfare del Comune di Firenze, ha organizzato nel Salone dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio, un'iniziativa di informazione e sensibilizzazione sui disturbi della nutrizione e dell'alimentazione. Partecipano gli esperti che sul nostro territorio si occupano quotidianamente dei disturbi alimentarili esperti della sanità del territorio che si occupano direttamente o indirettamente delle cure dei disturbi alimentari: il dottor Brunetto Alterini, il professor Claudio Cricelli, il dottor Stefano Lucarelli, la dottoressa Barbara Mezzani, la dottoressa Barbara Paladini, la professoressa Tiziana Pisano, la professoressa Maria Cristina Stefanini e il professor Valdo Ricca..
Saranno proiettati anche alcuni video dei lavori realizzati dagli studenti delle scuole che hanno aderito al progetto di “peer education” promosso dall'associazione Conversando, accreditata presso l'azienda ospedaliero-universitaria di Careggi e composta da un gruppo di genitori che hanno vissuto l’esperienza di una figlia con disturbi del comportamento alimentare. Ha aperto la giornata il presidente di Conversando, Silverio Spitalieri.
Prossimo appuntamento mercoledì 16 marzo, al teatro Puccini, con una serata, musicale e non, intitolata 'La voce serve ma è dal cuore che si srotola il canto' e ideata da Beppe Dati, a favore dell'associazione per sostenere l’impegno nella lotta ai disturbi alimentari. Parteciperanno giovani interpreti, cantautori, attori legati dall’intento di aiutare chi è fragile. L'ingresso è a offerta libera (contributo minimo di 25 euro pr gli adulti e 15 per gli studenti). Per informazioni prenotazioni: segreteria@conversando.org.
Conversando Odv, che organizza incontri quindicinali per accogliere altri familiari che hanno necessità di sostegno e dare loro suggerimenti su come affrontare la problematica, fa parte dell’associazione di secondo livello Consult@noi (www.consultanoidca.it) che raggruppa circa venti associazioni similari diffuse in undici regioni italiane e che siede al tavolo di lavoro sulla cura dei Dca
Buon Appetito, Anima Mia di Rosanna Galbiati
Buon Appetito,
Anima Mia
quando mangi, non lo sai,
ma danzi con la vita.
Se il piede incespica,
allora scopri l’armonia.
Sai perché nascono i fiori?
Perché la terra ascolta la voce del vento.
Così anche tu, sali tra le fronde degli alberi
e il vento aprirà per te i suoi segreti.
Giornata del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili
Notti più scure, futuro più luminoso
venerdì 11 marzo 2022, alle 18.30
Nella Giornata del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili, il MUSE - in collaborazione con la trasmissione di Rai Radio2 "Caterpillar" - propone un evento per riflette sul tema dell'inquinamento luminoso.
L'alterazione dei naturali livelli di luminosità notturna ha spesso ripercussioni ambientali, culturali ed economiche. Ne parliamo con Irene Borgna, antropologa e autrice del libro “Cieli neri”, premio “Mario Rigoni Stern” nel 2021, e con David Gruber, astrofisico, direttore del Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige.
Dopo la conferenza le luci nelle sale del MUSE si spegneranno permettendo ai partecipanti di esplorarle con le torce, guidati in percorsi sensoriali e di forte impatto emozionale.
Nasceva a Trieste il 9 marzo 1883 Umberto Saba, una delle voci più intense del Novecento letterario italiano.
Nel suo Canzoniere (1913-1948), un peculiare romanzo in versi, narrava la propria autobiografia poetica passando attraverso anni di storia italiana in un’accurata indagine psicologica che si tramutava in indagine sociale.
La poesia di Saba è umile, onesta, ma sottintende significati profondi che sembrano sondare gli abissi dell’anima. Il linguaggio si serve di un classicismo ritenuto anacronistico per l’epoca, che tuttavia contribuisce a dare ai componimenti uno stile peculiare che ricorda tratti Petrarca, Leopardi e Parini, ma riadattati in un pensiero più contemporaneo.
In occasione dell’anniversario della nascita del poeta ricordiamo la splendida poesia Amai, ritenuta la sua dichiarazione di poetica. Questa poesia fu pubblicata per la prima volta nella sezione Mediterranee, che comprende i componimenti composti tra il 1945 e il 1946, nell’edizione del Canzoniere del 1948.
Vediamo insieme testo, parafrasi e analisi del componimento.
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
Ho amato parole logorate,
consumate dall’uso di cui ormai nessuno osava servirsi.
Mi ha sempre affascinato
la rima fiore/amore,
la più antica e difficile del mondo.
Ho amato la verità che è sepolta nel profondo dell’anima,
come se fosse un sogno dimenticato, che solo il dolore
è capace di comprendere e consolare.
Il cuore quindi con paura
si avvicina alla verità, ma poi non la abbandona più.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
la poesia lasciata alla fine della mia partita [la vita, Ndr].
La lirica si compone di tre strofe in endecasillabi sciolti. L’incipit è segnato dall’anafora Amai, che emblematicamente dà il titolo al componimento e scandisce il ritmo e il tempo della poesia in tre atti distinti che ne segnano l’evoluzione.
Nella prima strofa con il verbo “amare”, coniugato al passato, Umberto Saba esprime la sua prima dichiarazione di poetica: afferma di aver sempre amato parole antiche, logorate dall’uso e di essersi servito di un lessico semplice, di matrice classica, che si discosta di proposito dallo stile delle Avanguardie novecentesche.
Il riferimento alla rima baciata “fiore/amore” non è casuale, ma rimanda a una celebre poesia del Canzoniere, Trieste, nel quale appaiono i seguenti versi:
Con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Dopo aver parlato dello stile della sua poesia, Saba passa ad analizzarne i contenuti. Nella seconda strofa l’autore fa riferimento a quella ricerca della verità che è lo scopo fondante della sua poesia.
La verità che giace al fondo è alla base della peculiare struttura psicanalitica del Canzoniere, che segna una rivoluzione nella poesia Novecentesca. È quella verità profonda sull’esistenza ostinatamente ricercata dal cuore dell’uomo, che spesso si comprende e percepisce solo nel dolore, che il poeta cerca di ritrarre ed esprimere attraverso i suoi componimenti.
La terza strofa infine presenta il verbo “amare” al presente: “Amo” e sembra rivolgersi direttamente al destinatario dei suoi versi. Con l’apostrofe “Te” si appella al suo lettore.
Umberto Saba conclude la sua dichiarazione di poetica affermando di augurarsi di lasciare almeno una poesia di valore al suo pubblico. Le ultime parole suonano come un testamento: nella buona carta alla fine del suo gioco, Saba sembra intravedere la poesia, sua unica eredità per il mondo.
Dopo la sua morte sarà infatti la poesia, che spera sia “buona”, a raccontare l’essenza della sua persona e la sua vita.
Anafora con polittoto: Amai...Amai ripetizione del verbo a breve distanza
Iperbole: Amai/M’incantò (vv.1-2)
Enjambement: scandisce il ritmo e l’andamento dei versi vv. 1-2, 3-4, 6-7, 9-10.
Metafora: che il dolore riscopre amica (vv. 6-7).
Personificazione: la verità (v.5) - il cuore (v.7).
Similitudine: come un sogno obliato (v.6)
Latinismo: l’uso del termine arcaico “obliato” per dire dimenticato (v.6)
I critici leggono in Amai una dichiarazione di poetica di Umberto Saba. Il componimento tuttavia può essere anche letto come l’espressione più profonda del pensiero e della psicologia dell’autore.
In sole tre strofe Saba esprime gli ideali che hanno guidato tutta la sua vita: l’ostinata ricerca della verità e la passione del cuore che si esprime attraverso gesti e parole semplici.
In pochi versi esprime tutto l’amore e il dolore che fanno parte dell’esistenza e si intrecciano ad essa in un connubio inscindibile. Saba parla dell’affannata ricerca di consapevolezza dell’anima umana e del suo perenne struggimento.
Persino in quella rima banale “fiore/amore”, ritornello della sua poetica, l’autore riesce a condensare un concetto dal valore inesprimibile: l’essenza della vita si esprime in quelle emozioni semplici, dal significato individuale eppure collettivo, che accomunano tutta l’umanità.
Pier Paolo Pasolini definì Umberto Saba come “il più difficile dei poeti contemporanei”. Lui sì che aveva capito che quella rima “fiore/amore” non era affatto scontata, ma il significato essenziale della poesia di ogni tempo e luogo.
A tutte le donne
Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l’emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d’amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d’amore.
La prima strofa della poesia definisce l’essere femminile come “fragile e opulento”, due termini che appaiono in aperta contraddizione, ma l’antitesi è voluta dalla poetessa e sottintende un significato implicito.
Il corpo della donna nel corso dei secoli è stato oggetto di mille battaglie: è dunque “fragile” perché terreno di scontri, violenze, pregiudizi e aggressioni. Però è definito anche “opulento” perché quel corpo è generatore di vita, nelle viscere della donna si compie il miracolo della nascita. La complessità dell’essere femminile è espressa da Alda Merini tramite l’apparente antitesi tra due aggettivi.
Emerge poi l’elemento del Sacro nei termini “Dio”, “Paradiso”, “colpa”. Le Sacre Scritture infatti vedono nella donna Eva, la peccatrice, colei che portò Adamo sulla strada del peccato. In lei Dio ancora vede la colpa, secondo la religione, malgrado tutte le violenze e le offese che il corpo femminile ha dovuto sopportare e subire nel corso dei secoli. Le battaglie delle donne per l’emancipazione sono quindi definite “sante guerre”, perché combattute come Crociate per legittimarsi addirittura di fronte allo sguardo divino.
La donna infine viene definita come “matrice del Paradiso”, quasi in riferimento alla donna angelicata descritta da Dante tramite Beatrice. Vi è questa aperta contraddizione dunque, radicata in letteratura, che Merini porta alla luce: tra donna Angelo e donna Peccatrice.
In tutta la lirica la poetessa si serve di termini appartenenti ad campi semantici opposti mostrando come nella donna convivano il dolore e la gioia, la bellezza e la colpa, la morte e la vita. Tramite questi accostamenti ci viene rivelata tutta la complessità che è insita nella femminilità, uno spettro d’emozioni vasto e continuamente cangiante.
Nell’ultima strofa, infine, Alda Merini sembra far levare le voci di tutte le donne in un appello corale. La voce femminile si innalza, come l’araba fenice dalle proprie ceneri, e leva un canto che “grida ancora vendetta”.
Gli ultimi versi sono una ribellione ai soprusi e agli abusi compiuti dagli uomini sul corpo delle donne: di quella bellezza sfregiata dalla violenza permane comunque uno scheletro d’amore, che appare come un aperto inno alla vita.
L’espressione “scheletro d’amore” è un ossimoro che trasuda di significati: la donna ridotta a uno scheletro dal male compiuto dagli uomini è ancora in grado di generare la vita e occuparsi dei propri figli.
Nei versi finali la donna “diventa grande come la Terra” in una perfetta similitudine con Madre Natura, lo spirito creatore originario. Tramite una metafora ardita ed efficace la donna viene dunque paragonata alla Creazione, diventandone l’espressione stessa.
Il “canto d’amore” che si innalza dalla donna, nonostante i sorprusi subiti nel corso del secoli, è ciò che fa andare avanti il mondo generando nuova vita, permettendo all’Umanità di rinnovarsi in un eterno ciclo.
poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo italiano, anche pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista
5 marzo 1922 - 2 novembre 1975
Pier Paolo Pasolini viene considerato uno dei più grandi intellettuali del XX secolo. Un alone di mistero avvolge ancora la morte dello scrittore, che avvenne il 2 novembre del 1975.
Grazie alla sua versatilità, si distinse in diversi ambiti della cultura, riuscendo a lavorare anche come pittore, linguista, romanziere, traduttore e saggista.
Molto attento alla società italiana e ai suoi cambiamenti, Pasolini suscitò spesso polemiche per via della radicalità dei suoi giudizi, estremamente critici nei confronti delle abitudini borghesi e della nascente – tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta – società dei consumi. Critico anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti, era omosessuale e il rapporto che ebbe con questa parte di sé fu al centro del suo personaggio pubblico.
Della sua famiglia Pasolini ha detto:
“Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana: un vero prodotto dell’incrocio... Un prodotto dell’unita’ d’Italia. Mio padre discendeva da un’antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ciò non le impedì affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma”.I
La vita di Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922. Primogenito, il padre era un tenente di fanteria e la madre una maestra delle elementari.
Nel 1925 nasce il fratello di Pasolini, Guido, ma la famiglia vive spostandosi costantemente e il suo unico punto di riferimento rimane Casarsa. Pasolini vive un rapporto simbiotico con la madre e, al contrario, un rapporto conflittuale col padre.
Nel 1928 Pier Paolo Pasolini esordisce come poeta, annotando su un quadernetto una serie di poesie e disegni. Questo quaderno andrà però perduto nel periodo della guerra.
Dalle elementari ottiene il passaggio al ginnasio di Conegliano e, in questi anni, fonda insieme a Luciano Serra, Franco Farolfi, Ermes Parini e Fabio Mauri un gruppo letterario per parlare di poesie. A soli 17 anni Pier Paolo ha già finito il liceo e si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna.
Nel periodo universitario collabora a Il Setaccio, periodico del GIL bolognese, e scrive poesie in italiano e friulano, poi raccolte nel primo volume Poesie a Casarsa. Partecipa anche alla realizzazione di un’altra rivista, Stroligut. Pasolini utilizza il dialetto allo scopo di levare l’egemonia culturale sulle masse alla chiesa.
Arriva il momento della seconda guerra mondiale, periodo veramente difficile per lo scrittore.
Egli viene arruolato sotto le armi a Livorno nel 1943 ma, l’8 settembre, fugge dopo aver disobbedito all’ordine di consegnare le armi ai tedeschi. Dopo essere stato un po’ in giro per tutta Italia, torna a Casarsa. Con la famiglia si sposta a Versuta, al di là del Tagliamento, perché è un luogo meno esposto ai bombardamenti. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio, ma quegli anni saranno segnati dalla morte del fratello Guido, massacrato in guerra dai garibaldini. La sua famiglia saprà della morte e delle circostanze solo a guerra finita.
La morte di Guido devasta la famiglia Pasolini e fa sì che Pier Paolo si leghi ancor di più alla mamma. Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo la sua tesi dal titolo “Antologia della lirica pascoliniana (introduzione e commenti)” e va a vivere definitivamente in Friuli. Qui lavora nella scuola media di Valvassone, in provincia di Udine, come insegnante.
Comincia in questi anni la sua militanza politica, con un avvicinamento al PCI nel 1947. Collabora anche col settimanale del partito Lotta e lavoro. Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa ma non viene visto bene dagli intellettuali comunisti friulani per questioni linguistiche; gli intellettuali scrivono usando la lingua del Novecento, Pasolini si esprime invece con quella del popolo.
Ciò lo fece passare per un personaggio disinteressato al realismo socialista e troppo cosmopolita. Questo rimane il solo periodo in cui Pasolini si è concretamente impegnato nella lotta politica, gli anni in cui disegnava e scriveva manifesti di denuncia contro il potere democristiano.
A partire dal 1949 viene travolto da una trafila giudiziaria che parte con un processo per corruzione di minore.
Sarà per lui umiliante, negli anni, essere oggetti di vari procedimenti che cambieranno per sempre la sua vita. Pasolini, per la sua posizione di comunista e anticlericale, è il bersaglio perfetto per un attacco da parte della DC. La denuncia per corruzione di minore viene sfruttata, in questo senso, non solo dalla DC ma anche dalla sinistra.
Per l’accusa che subisce Pier Paolo perde tutto: cerca di giustificarsi davanti ai carabinieri definendo l’avvenimento come uno sbandamento intellettuale, ma ciò peggiora solo la cosa e Pasolini viene espulso dal PCI, perdendo anche il posto di insegnante e incrinando momentaneamente il rapporto con la madre. A quel punto, insieme alla madre, Pasolini fugge da Casarsa per trasferirsi a Roma.
I primi anni a Roma sono difficili, segnati da povertà, solitudine e insicurezza, dato l’ambiente molto diverso delle borgate romane.
Pasolini prova a trovare lavoro con le sue forze, senza chiedere aiuto ai letterati che conosce, e arriva alla strada del cinema. Ottiene così una parte di generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e vende i suoi libri alle bancarelle rionali. Grazie al poeta Vittori Clemente, finalmente Pasolini trova un posto come insegnante in una scuola di Ciampino.
Sono questi gli anni in cui nasce il mito del sottoproletariato romano, scaturito dalla penna di Pasolini che cambia cornice alla sue opere e dalla campagna friulana passa alle disordinate borgate romane. In questo periodo prepara le antologie sulla sua poesia dialettale, lavora con il Paragone, dove pubblica la prima versione del primo capitolo di Ragazzi di vita.
A quel punto la vita a Roma comincia a sorridergli e Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio. Risale al 1955 la pubblicazione del romanzo Ragazzi di vita con Garzanti.
Il successo è vasto, sia da parte del pubblico che da parte della critica. Chi giudica male il suo operato sono gli intellettuali di sinistra, in particolare il PCI.
La Presidenza del Consiglio dei tempi promuove un’azione giudiziaria contro Pasolini e Garzanti ma il processo termina con l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato alcuno.
Il romanzo, che per un anno viene tolto dalle librerie, viene dissequestrato. Pasolini, però, diventa bersaglio anche per la cronaca nera, che lo accusa dei reati più assurdi, dalla rapina al favoreggiamento per rissa.
Pasolini, però, a quel punto della sua vita è già molto impegnato con la sua passione per il teatro e, nel ’57, collabora a Le notti di Cabiria, film di Fellini. Firma diverse altre sceneggiature , esordendo anche come attore nel film Il gobbo nel 1960. In questi anni continua a a raccogliere e pubblicare le sue poesie e scrive anche diversi saggi.
Il suo primo film come regista e soggettista risale al 1961 ed è Accattone. Vietato ai minori di 18 anni, il film suscita polemiche alla XXII mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige Mamma Roma e nel 1963 viene accusato di vilipendio alla religione dello stato per l’episodio La ricotta inserito nel film RoGoPaG.
Dal ’64 al ’75 Pasolini dirige moltissime pellicole, praticamente una all’anno, ottenendo moltissimo successo.
Il lavoro di regista lo fa girare parecchio tra India, Africa e medioriente.
In occasione della presentazione di due dei suoi film al festival di New York Pasolini rimane molto colpito dagli Stati uniti e dalla città che non dorme mai.
Anche negli anni ’70, i famosi anni delle rivoluzioni studentesche, Pasolini assume una posizione inedita, diversa da quella di tanti altri intellettuali di sinistra.
Seppur accettando e appoggiando le motivazioni dietro le rivolte studentesche, ritiene questi ragazzi antropologicamente dei borghesi e, proprio per questo, destinati già a fallire nello loro aspirazioni di rivoluzione.
Dopo la partecipazione a un’altra mostra del cinema di Venezia, Pasolini inizia a collaborare nel 1973 col Corriere della sera, intervenendo in maniera critica su alcune problematiche del paese.
Il 2 novembre 1975, sul litorale romano ad Ostia, più precisamente in un campo incolto, una donna scopre il cadavere di un uomo. Ninetto Davoli riconoscerà in lui Pierpaolo Pasolini.
Dell’omicidio verrà accusato Piero Pelosi, giovane che racconta di essere stato adescato da Pasolini alla stazione Termini di Roma, portato a cena e poi nel luogo di ritrovamento del cadavere. Secondo la sua versione, Pasolini avrebbe tentato un approccio di tipo sessuale e, vedendosi respinto, avrebbe reagito in maniera violenta causando la reazione del ragazzo. Pier Paolo Pasolini muore quindi assassinato il 2 novembre 1975, a 53 anni.
Come già chiarito, Pier Paolo Pasolini è stato un prolifico scrittore, regista e traduttore, sicuramente uno dei più significativi autori contemporanei. Tra le opere più significative ricordiamo:
Poesie a Casarsa
La meglio gioventù
Le ceneri di Gramsci
Il canto popolare
Ragazzi di vita
La religione del mio tempo
Trasumanar e organizzar
La nuova gioventù
Il sogno di una cosa
Vita attraverso le lettere (corrispondenza di Pasolini con Nico Naldini)
Nelle opere di Pier Paolo Pasolini è evidente la tristezza di uomo moderno che si affanna nella ricerca della verità. Estremamente critico vero la società del suo tempo, Pasolini disse che “a un inferno medievale con le vecchie pene si contrappone un inferno neocapitalistico”. Nel suo ultimo film, Salò e le ultime giornate di Sodoma (1975), si nota che qualsiasi speranza è tramontata e che la violenza, la distruzione e la morte prevalgono.
Sempre molto apprezzati dai giovani sono Ragazzi di vita e Una vita violenta, romanzi in cui Pasolini ha utilizzato un linguaggio tutto suo, a metà tra il gergo e il dialetto. In entrambi i libri i protagonisti sono i giovani di borgata e il loro mondo viene descritto con estrema precisione, quasi si trattasse di un documentario, e con un amore spassionato. Pasolini è affascinato dal fare anarchico di questi ragazzi, dal loro seguire impulsi e istinti sottraendosi alle regole.
Lo stile di Pier Paolo Pasolini è sempre, qualsiasi sia la forma che assumano le sue opere, incisivo e provocatorio. Col suo lavoro Pasolini mira ad accentuare gli aspetti più amari e crudi della vita, arrivando a metterne in evidenza anche gli aspetti repellenti, spesso. A tratti comico, più spesso drammatico.
Alla base della sua poetica c’è un nuovo modo di rapportarsi alla tradizione; Pasolini cerca, infatti, di allontanarsi e differenziarsi dalla poetica che andava al tempo, con elementi liricheggianti nel linguaggio uniti all’ermetismo. L’autore preferisce utilizzare strumenti stilistici prenovecenteschi, più vicini alla lingua quotidiana allo scopo di ridare razionalità al discorso poetico.
scrittore, poeta e politico italiano
4 marzo 1916 – 13 aprile 2000
Nato a Bologna il 4 marzo 1916 da una famiglia benestante di Ferrara, di origine ebraica, Giorgio Bassani trascorre l’infanzia e la prima giovinezza nella città estense.
Nel ’26 viene ammesso al Regio Liceo Ginnasio “Ludovico Ariosto”, dove consegue la maturità classica.
In quegli anni mostra un grande interesse per la musica e per il tennis, ma presto rinuncerà a tali passioni per dedicarsi interamente alla letteratura. Sin qui si possono riscontrare numerose analogie biografiche tra il narratore senza nome che racconta in prima persona le vicende de Il giardino dei Finzi-Contini.
Nel 1935 Bassani si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, che frequenta viaggiando come pendolare da Ferrara. Nel ’39, nonostante le leggi razziali approvate la regime fascista, si laurea con una tesi su Niccolò Tommaseo discussa con il professor Carlo Calcaterra, che sarebbe stato anche relatore di Pier Paolo Pasolini.
Negli anni dell’Università, Bassani conobbe anche il poeta Attilio Bertolucci e altri esponenti della cultura dell’epoca, come il pittore Giorgio Morandi e il critico dell’arte Roberto Longhi. Gli anni felici della gioventù di Bassani furono bruscamente interrotti dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, in costante analogia con quanto narrato nel suo libro-capolavoro.
Il 1940 è l’anno del suo esordio con il primo romanzo Una città di pianura, pubblicato sotto lo pseudonimo di Giacomo Marchi. Nello stesso periodo insegna Italiano e Storia agli studenti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche e si dedica all’attivismo politico clandestino contro la dittatura fascista. Nel 1943 venne rinchiuso, per alcuni mesi, in carcere in segno di condanna per la sua attività sovversiva nei confronti del regime.
La fama di scrittore giunse nel 1956 con la pubblicazione di Cinque storie ferraresi, con le quali vinse il Premio Strega.
Si trasferisce a Roma dove lavora come docente di Storia del Teatro presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Nel frattempo come consulente editoriale della casa editrice Feltrinelli, nel ’58 Bassani riesce a far pubblicare Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. A lui si deve il merito di aver fatto conoscere ai lettori italiani le opere di Jorge Luis Borges, Karen Blixen e soprattutto il capolavoro di Boris Pasternak, Il dottor Živago.
Il 1962 è l’anno del massimo successo editoriale di Giorgio Bassani. Il 9 febbraio 1962, sessant’anni, fu pubblicato Il giardino dei Finzi-Contini che donerà all’autore ferrarese fama imperitura. Il romanzo vince il premio Viareggio e in breve tempo conquista le classifiche internazionali. Nel 1970 ne verrà tratto un celebre film diretto da Vittorio De Sica.
Ormai Bassani è uno scrittore affermato. La sua carriera letteraria è costellata di successi, con il libro L’airone (1968) vince il premio Campiello e, quindici anni più tardi il premio Bagutta con In rima e senza. Nel 1987 venne tratto un altro celebre film dal suo racconto Gli occhiali d’oro, una storia scandalosa per l’epoca che narrava dell’emarginazione legata all’omosessualità.
Nel ’98, due anni prima della sua scomparsa, la sua opera omnia viene raccolta in un unico volume, pubblicato da Mondadori nella prestigiosa collana Meridiani riservata ai classici.
Giorgio Bassani morì a Roma il 13 aprile 2000, all’età di ottantaquattro anni. Fu sepolto a Ferrara, proprio nel cimitero ebraico dove immaginò la tomba dei Finzi-Contini. Il comune di Ferrara ha voluto ricordarlo con un monumento funebre circondato da un roseto. Il luogo del sonno eterno di Bassani ricorda curiosamente un giardino fiorito che rimanda alle prime pagine del suo capolavoro. La storia sembra sempre ricominciare daccapo, in un eterno ricordo.
Io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello. Rivedevo i grandi alberi sparsi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione. (...) E come se l’avessi ancora davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi Contini.
Una città di pianura, (scritto come Giacomo Marchi, Ndr) Milano, Officina d’Arte Grafica Lucini, 1940;
La passeggiata prima di cena, Firenze, Sansoni, 1953;
Gli ultimi anni di Clelia Trotti, Pisa, Nistri-Lischi, 1955, premio Veillon
Cinque storie ferraresi, Torino, Einaudi, 1956. (Contiene: Lida Mantovani;
La passeggiata prima di cena; Una lapide in via Mazzini; Gli ultimi anni di Clelia Trotti; Una notte del ’43). Riedito come Dentro le mura, Milano, Mondadori, 1973. premio Strega;
Le storie ferraresi, Torino, Einaudi, 1960. (Contiene: Il muro di cinta; Lida Mantovani; La passeggiata prima di cena; Una lapide in via Mazzini; Gli ultimi anni di Clelia Trotti; Una notte del ’43; Gli occhiali d’oro; In esilio)
Gli occhiali d’oro, Torino, Einaudi, 1958;
Il giardino dei Finzi-Contini, Torino, Einaudi, 1962. premio Viareggio
Dietro la porta, Torino, Einaudi, 1964;
(DE) Venedig. Stadt auf 118 Inseln, con Mario Soldati e Gianni Berengo Gardin, Starnberg, Josef Keller, 1965;
Due novelle, Venezia, Stamperia di Venezia, 1965;
L’airone, Milano, Mondadori, 1968. premio Campiello;
L’odore del fieno, Milano, Mondadori, 1972.
Il tempo passa inesorabile, ma il giardino dei Finzi-Contini resta, un luogo “letterario” che è divenuto reale e ancora parla all’immaginario dei lettori. Bassani è riuscito nell’impresa più ambita da ogni intraprendente scrittore: ha trasfuso un luogo vero, reale, nel simbolico.
Si può avere nostalgia di un posto in cui non si è mai stati? Basta leggere Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani per capire che sì, è possibile. Quelle pagine ci infondono una nostalgia struggente per un’epoca felice che ebbe breve durata, come un’invincibile estate travolta da un inverno precoce, o forse l’ultimo sogno della giovinezza.
Il sentimento di malinconia che pervade il libro, sin dall’inizio della narrazione, è uno dei motivi del successo del libro: l’autore ci parla del passato, per definizione destinato a finire, ma nel rievocarlo con una scrittura evocativa e sapiente ci trascina in un vortice di ricordi di cui non vorremmo mai vedere la fine. Il giardino dei Finzi-Contini è un romanzo che evoca ombre, fantasmi, un tempo ormai scomparso, ma nel ripercorrerlo lo rende vivo.
Furono questi gli ingredienti che resero il libro di Bassani un bestseller internazionale, letto e amato dai lettori di tutto il mondo. Ancora oggi è impossibile non accostarsi a quelle pagine senza provare un’attrazione ipnotica.
In un intervento scritto su L’Europa letteraria nel 1964 Giorgio Bassani si interrogava in questi termini sulle ragioni del successo:
Ma è stato poi così un gran successo quello del Giardino dei Finzi-Contini?
C’era una forma di incredulità ed era proprio l’autore a mettere in dubbio l’apprezzamento del romanzo da parte del pubblico. Aveva scritto un capolavoro e non se ne rendeva conto.
Giuseppe Fenoglio detto Beppe (Alba, 1º marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963) è stato un partigiano, scrittore e traduttore italiano.
Le sue opere presentano due temi principali: il mondo rurale delle Langhe e il movimento di resistenza italiana, entrambi ampiamente ispirati dalle proprie esperienze personali; allo stesso modo, Fenoglio si espresse in due stili: la cronaca e l'epos.
Fenoglio venne arruolato nel 1943; prima che completasse la scuola per ufficiali, l'Italia si arrese agli Alleati e la Germania nazista occupò la maggior parte del paese. Il suo reparto di addestramento si disperse e Fenoglio dovette affrontare un viaggio avventuroso per far ritorno a casa. A Roma trascorse alcuni mesi nascosto prima di unirsi ai partigiani nel gennaio 1944. Dopo aver combattuto fino alla fine della guerra si occupò di tradurre numerosi libri dall'inglese e scrisse le opere per cui è maggiormente noto, mentre lavorava per un'azienda vinicola ad Alba.
Il suo romanzo più noto e da molti considerato il migliore, il partigiano Johnny, venne pubblicato postumo per la prima volta nel 1968. Morì a Torino, a soli 40 anni, di cancro ai bronchi.
Casa di Beppe Fenoglio ad Alba, sita nei pressi del duomo
Primogenito di tre figli, Beppe nacque ad Alba nelle Langhe il 1º marzo 1922 da Amilcare, garzone di macellaio di fede politica socialista e seguace di Filippo Turati, e da Margherita Faccenda, donna di forte carattere. Nel 1928 il padre riuscì a mettersi in proprio, acquistando una macelleria in piazza del Duomo che gli fornì buoni proventi. Dopo di lui nascono Walter (1923-2007), futuro dirigente degli stabilimenti FIAT di Ginevra e Parigi, e Marisa (Alba 1933 - Stadtallendorf, Germania 2021).[1]
Da bambino, Beppe frequentò la scuola elementare "Michele Coppino" di Alba e si dimostrò un bambino intelligente e riflessivo, affetto da lieve balbuzie. Terminate le scuole elementari, la madre, su consiglio del maestro e malgrado le persistenti ristrettezze della famiglia, iscrisse il figlio al Liceo Ginnasio "Govone" di Alba.[1]
Alunno modello e appassionato della lingua inglese, fu lettore vorace e iniziò anche alcune traduzioni, che dovevano rivelarsi le prime di una lunga serie. Da allora il suo mondo culturale ideale saranno l'Inghilterra elisabettiana e quella rivoluzionaria.[2] Al liceo ebbe come insegnanti professori illustri e per lui indimenticabili, come Leonardo Cocito - insegnante di lingua italiana, comunista, che aderì tra i primi alla Resistenza come partigiano, tra le file di Giustizia e Libertà (nonostante la sua ideologia politica), poi nei badogliani, e che fu infine impiccato dai tedeschi il 7 settembre 1944 - e Pietro Chiodi, docente di storia e filosofia, grande studioso di Søren Kierkegaard e di Martin Heidegger; anche lui sarà in seguito partigiano, compagno di Cocito stesso, ma sarà deportato in un campo di concentramento tedesco, sopravvivendo alla guerra. Entrambi furono di ispirazione per la maturazione della coscienza antifascista di Fenoglio.[1]
Nel 1940 si iscrisse alla facoltà di Lettere dell'Università degli Studi di Torino, che frequentò fino al 1943, quando fu richiamato alle armi e indirizzato prima a Ceva (Cuneo) e poi a Pietralata (Roma), al corso di addestramento per allievi ufficiali.[1]
«Lo spettacolo dell'8 settembre locale, la resa di una caserma con dentro un intero reggimento davanti a due autoblindo tedesche not entirely manned, la deportazione in Germania in vagoni piombati avevano convinto tutti, familiari ed hangers-on, che Johnny non sarebbe mai tornato»
(Il partigiano Johnny, capitolo I)
Dopo lo sbandamento seguito all'8 settembre 1943, Fenoglio nel gennaio del 1944 si unì alle prime formazioni partigiane. In un primo momento si aggregò ai "rossi" delle Brigate Garibaldi, ma presto passò con gli "autonomi" o "badogliani" del 1º Gruppo Divisioni Alpine comandata dal maggiore Enrico Martini "Mauri" e della sua 2ª Divisione Langhe, brigata Belbo, comandata dal marò Piero Balbo "Poli" (Nord nel Partigiano Johnny) ed operante nelle Langhe, tra Mango, Murazzano e Mombarcaro.
Il giovane Fenoglio durante una partita di calcio con amici, intorno al 1945
Partecipò, assieme al fratello Walter, che aveva disertato dalla RSI dove si era arruolato inizialmente per evitare ritorsioni alla famiglia (dopo che il padre venne sequestrato per indurre Beppe a presentarsi, fu la reazione dei giovani di Alba e l'intercessione di monsignor Grassi a farlo liberare)[1][3], allo sfortunato combattimento di Carrù e alla straordinaria ma breve esperienza della Repubblica partigiana di Alba, indipendente tra il 10 ottobre e il 2 novembre 1944.[1]
Grazie alla conoscenza dell'inglese, svolge il ruolo di interprete e ufficiale di collegamento, tra il gennaio e l'aprile 1945, tra le forze armate angloamericane e il gruppo partigiano di Mauri e Balbo.[1]
Dall'esperienza di partigiano azzurro nasceranno i romanzi Primavera di bellezza, Una questione privata, Il partigiano Johnny e i racconti de I ventitré giorni della città di Alba.
Alla fine della guerra, Fenoglio riprese per un breve tempo gli studi universitari prima di decidere, con grande rammarico dei genitori, di dedicarsi interamente all'attività letteraria. Al referendum istituzionale del 1946 vota per la monarchia.[1] Nel maggio del 1947, grazie alla sua ottima conoscenza della lingua inglese, fu assunto come corrispondente estero di una casa vinicola di Alba. Il lavoro, poco impegnativo, gli permise di contribuire alle spese della famiglia e di dedicarsi alla scrittura. Viaggia poco, al massimo in Francia per lavoro, e non andrà mai a visitare l'amata Inghilterra.[1] Si adatta con molta difficoltà alla ripresa della vita quotidiana e famigliare.[4]
Nel 1949 comparve il suo primo racconto, intitolato Il trucco e firmato con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti, su Pesci rossi, il bollettino editoriale di Bompiani. Nello stesso anno presentò a Einaudi i Racconti della guerra civile e La paga del sabato, romanzo che ottenne un giudizio molto favorevole da Italo Calvino. Nel 1950 conobbe a Torino Elio Vittorini, che stava preparando per Einaudi la nuova collana "Gettoni", ideata per accogliere i nuovi scrittori; nella stessa occasione Fenoglio conobbe di persona Calvino (con il quale aveva intrattenuto fino a quel momento solamente una cordiale corrispondenza) e Natalia Ginzburg.[1]
Incoraggiato da Vittorini, riprese La paga del sabato e ne attuò una nuova stesura, ma a settembre abbandonò definitivamente il romanzo per organizzare una raccolta di dodici racconti, alcuni dei quali già inclusi nei Racconti della guerra civile. Nel 1952 la raccolta di racconti uscì, nella collana "Gettoni", con il titolo I ventitré giorni della città di Alba[5]. L'anno seguente Fenoglio completò il romanzo breve La malora, pubblicato ad agosto 1954.[1]
Seguì un'intensa attività come traduttore dall'inglese[6]: nel 1955 uscì sulla rivista Itinerari la traduzione de La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge. Iniziò intanto un grosso romanzo sugli anni 1943-1945, che presentò in lettura all'editore Garzanti nell'estate del 1958. Nell'aprile del 1959 uscì, nella collana "Romanzi Moderni Garzanti", Primavera di bellezza; firmò con Livio Garzanti un contratto quinquennale sui suoi inediti. Nello stesso anno ricevette il premio "Prato" e iniziò a scrivere un nuovo romanzo di argomento partigiano.[1]
Nel 1961, stimolato da Calvino a raccogliere i suoi nuovi racconti per presentarli al premio internazionale "Formentor", si mise a lavorare alla raccolta Racconti del parentado; alla firma del contratto con Einaudi, tuttavia, accettò il titolo di Un giorno di fuoco. La pubblicazione fu però sospesa: Garzanti rivendicava i diritti e le due case editrici non riuscirono a raggiungere un compromesso. Iniziò così a scrivere Epigrammi e una nuova serie di racconti, oltre alla collaborazione a una sceneggiatura cinematografica di tema contadino.[1]
Nel 1960 si sposò civilmente (durante la vita si dichiarò agnostico, sebbene amasse leggere la Bibbia di re Giacomo[7][8]) con Luciana Bombardi, che conosceva già dall'immediato dopoguerra. Nonostante le pressioni per un rito in chiesa, Fenoglio insistette per una cerimonia solamente civile e la sua decisione fece scandalo. Il sindaco si rifiutò di officiare il matrimonio e delegò al suo posto l'assessore Giulio Cesare Pasquero. Venne organizzata addirittura una manifestazione ostile nei loro confronti, ma la madre di Beppe riuscì a scongiurarla, ricorrendo al vescovo di Alba, monsignor Carlo Stoppa.[2] I coniugi Fenoglio compirono il viaggio di nozze a Ginevra. La moglie gli sopravvisse per quasi 50 anni, morendo nel 2012 ad Alba. La figlia Margherita nacque il 9 gennaio 1961; per l'occasione, Fenoglio scrisse due brevi racconti, La favola del nonno e Il bambino che rubò uno scudo.[1]
«Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano.»
(da I ventitré giorni della città di Alba)
Nell'inverno tra il 1959 e il 1960, in seguito a un esame medico, gli venne accertata un'infezione alle vie aeree, con complicazioni dovute alla forma di asma bronchiale che lo affliggeva ormai da anni che era degenerata in pleurite, a causa dell'eccessivo vizio del fumo (secondo la sorella minore Marisa, fumava anche sessanta sigarette al giorno, specie quando scriveva, motivo di litigio con la madre[9]), poi un problema alle coronarie.[1]
Nel 1962, mentre si trovava in Versilia per ritirare il premio "Alpi Apuane" conferitogli per il racconto Ma il mio amore è Paco, venne colpito da un attacco di emottisi. Rientrato precipitosamente a Bra, a una visita medica gli venne diagnosticata una forma di tubercolosi con complicazioni respiratorie.[1]
Si trasferì per un breve periodo (settembre e ottobre) a Bossolasco, a 757 metri d'altitudine, dove trascorse il tempo leggendo, scrivendo e ricevendo la visita degli amici. Ma presto per un aggravamento della malattia fu ricoverato in ospedale, prima a Bra e poi, in novembre, alle Molinette di Torino, e gli venne diagnosticato un cancro ai bronchi[1]. Ogni cura risultò inutile: in pochi mesi lo scrittore peggiorò irreversibilmente. Ormai senza speranza, Fenoglio rifiutò di effettuare la radioterapia al cobalto e visse la malattia con grande forza d'animo.[2] Durante gli ultimi giorni fu costretto a comunicare con un foglietto poiché venne tracheotomizzato a causa dei problemi respiratori.[1]
La morte lo colse, dopo due giorni di coma, la notte del 18 febbraio 1963, a neppure 41 anni (li avrebbe compiuti due settimane dopo); venne sepolto nel cimitero di Alba con rito civile, "senza fiori, soste né discorsi" (come chiese lui in un biglietto al fratello)[1], con poche parole dette sulla tomba dal sacerdote don Natale Bussi, amico ed ex professore di liceo.[1] Il suo romanzo più noto, Il partigiano Johnny, rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo nel 1968, vincendo il Premio Città di Prato.[1]
Nel 2001 è stato istituito a Mango il percorso letterario intitolato "Il paese del partigiano Johnny". Altri itinerari fenogliani sono stati istituiti, in seguito, a Murazzano e a San Benedetto Belbo, dove sono ambientati alcuni dei racconti di Langa più intensi e significativi.
Il 10 marzo 2005, all'Università di Torino, allo scrittore è stata conferita la "Laurea ad honorem" in Lettere alla memoria, alla presenza della moglie Luciana e della figlia Margherita, segno della fortuna in gran parte postuma della sua opera letteraria.[10]
I ventitre giorni della città di Alba, collana I gettoni n.11, Einaudi, Torino 1952.
La malora, Torino, Einaudi, 1954.
Primavera di bellezza, Milano, Garzanti, 1959.
Un giorno di fuoco, Milano, Garzanti, 1963. [Contiene:Una questione privata]
Una questione privata, Milano, Garzanti, 1963.
Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 1968.
La malora e altri racconti, Torino, Einaudi, 1968. [Contiene: La malora, L'affare dell'anima, Pioggia e la sposa, I ventitré giorni della città di Alba]
La paga del sabato, a cura di Maria Corti, Torino, Einaudi, 1969.
Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, a cura di Gino Rizzo, Torino, Einaudi, 1973.
La voce nella tempesta. Da "Cime tempestose" di Emily Brontë, a cura di Francesco De Nicola, Torino, Einaudi, 1974. [versione teatrale tratta dal romanzo]
Racconti partigiani, a cura di Ernesto Ferrero, Torino, Einaudi, 1976.
L'affare dell'anima e altri racconti, Torino, Einaudi, 1978.
Opere, edizione critica diretta da Maria Corti, 5 voll., Collana NUE, Torino, Einaudi, 1978.
I.1, Ur Partigiano Johnny, Collana NUE n.53*, Torino, Einaudi, 1978.
I.2, Il partigiano Johnny, Collana NUE n.53**, Torino, Einaudi, 1978.
I.3, Primavera di bellezza; Frammenti di romanzo; Una questione privata, Collana NUE n.53***, Torino, Einaudi, 1978.
II, Racconti della guerra civile; La paga del sabato; I ventitré giorni della città di Alba; La malora; Un giorno di fuoco, Collana NUE n.54, Torino, Einaudi, 1978.
III, Racconti sparsi editi e inediti; Quaderno Bonalumi; Diario; Testi teatrali; Progetto di sceneggiatura cinematografica; Favole, Collana NUE n.55, Torino, Einaudi, 1978.
Una crociera agli antipodi, Torino, Stampatori, 1980.
L'imboscata, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1992. ISBN 88-06-13048-X.
Romanzi e racconti, a cura di Dante Isella, Collezione Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi, 1992. ISBN 88-446-0002-1; Nuova ed. accresciuta, Einaudi, 2001, ISBN 978-88-446-0080-8.
Appunti partigiani 1944-1945, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1994. ISBN 88-06-13567-8.
Diciotto racconti, Torino, Einaudi, 1995. ISBN 88-06-13835-9.
Lettere, 1940-1962, a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2002. ISBN 88-06-16265-9.
Una crociera agli antipodi e altri racconti fantastici, a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2003. ISBN 88-06-16460-0.
Epigrammi, a cura di Gabriele Pedullà, Torino, Einaudi, 2005. ISBN 88-06-17670-6.
Tutti i racconti, a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2007. ISBN 978-88-06-18566-4.
Teatro, a cura di Elisabetta Brozzi, Torino, Einaudi, 2008. ISBN 978-88-06-19165-8. [Contiene: La voce nella tempesta; Serenate a Bretton Oaks; Atto unico; Solitudine; Io sparo
Tutti i romanzi, a cura di Gabriele Pedullà, Torino, Einaudi, 2012, ISBN 9788806228194.
Il libro di Johnny, a cura di Gabriele Pedullà, Collana Letture, Einaudi, Torino, 2015, ISBN 978-88-06-22543-8, pp. 500.
Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, 1955. - Prefazione di Claudio Gorlier, Collezione di poesia, Torino, 1964.
Kenneth Grahame, Il vento nei salici, a cura di John Meddemmen, Torino, Einaudi, 1982.
Quaderno di traduzioni, a cura di Mark Pietralunga, Torino, Einaudi, 2000. ISBN 88-06-14130-9. [versioni dall'inglese di Eliot, Coleridge, Masters, Browning]
Il 25 febbraio 1898 nasceva a Cagliari Fausta Cialente, considerata una delle interpreti più significative del Novecento letterario italiano.
Cialente vinse il Premio Strega nel 1976, alla veneranda età di settantotto anni, con il libro ritenuto il suo capolavoro Le quattro ragazze Wieselberger, basato sulle sue vicende familiari.
Fu il suo ultimo romanzo e senz’altro l’opera tramite la quale Fausta ricompose i fili intricati della sua esistenza appianandoli in un racconto che segue le trame della memoria.
Le foto di repertorio del Premio Strega la ritraggono come una donnina magra, compunta, dai nitidi occhi azzurri, che sembra più giovane dei suoi quasi ottant’anni. Dietro quello sguardo amabile, quel portamento elegante, si nascondeva tuttavia un fuoco indomabile, che animava la sua scrittura.
Scopriamo vita e opere di questa grande autrice, considerata l’anticipatrice del femminismo moderno in Italia.
Fausta Cialente: la vita
Nata il 25 febbraio 1898 da padre abruzzese e madre triestina, Fausta Cialente condusse una vita apolide, spostandosi continuamente da un capo all’altro del mondo.
Iniziò in tenera età per seguire il lavoro del padre, Alfredo, un ufficiale di fanteria, che costringe l’intera famiglia a continui cambi di residenza. Una volta cresciuta continuò a viaggiare al seguito del marito, Enrico Terni, compositore e agente di cambio con cui si trasferì per un lungo periodo ad Alessandria d’Egitto e quindi a Il Cairo.
Fu proprio durante la lunga permanenza in terra egiziana che Fausta riprese a coltivare la sua passione per la scrittura. Aveva iniziato a scrivere da bambina, piccole storielle, che già rivelavano un certo talento artistico. Il soggiorno in una terra esotica apre il suo sguardo e dona nuovo vigore alla sua scrittura. Cialente scrisse il suo primo romanzo, come Cortile a Cleopatra (1931) e la raccolta di racconti Pamela o la bella estate (1936). La sua era una “scrittura di confine”, che mescolava il modo di vivere nomade dell’autrice alla contaminazione di culture, usi e costumi,
Nelle sue opere si fa strada il pensiero socialista e antirazzista: Fausta Cialente si afferma sì come scrittrice, ma anche come un’attivista contro il regime autoritario di Mussolini. Nei suoi libri l’autrice trattava temi inconsueti per l’epoca, anticipando il femminismo moderno.
Durante la Seconda guerra mondiale collaborò alle trasmissioni di Radio Cairo, conducendo il programma di propaganda antifascista Middle West. In parallelo Cialente si dedicò al giornalismo militante dirigendo dirige il giornale per i prigionieri italiani Fronte Unito (1943-1945) e Il Mattino della domenica.
Da lontano Fausta assistette impotente allo sgretolamento della sua famiglia: il padre Alfredo, criticato dalla società borghese per il suo ruolo militare e costretto a separarsi dalla moglie, è morto. Un lutto ancora peggiore attende la scrittrice: la morte dell’amato fratello Renato Cialente, attore affermato, che viene ucciso dai fascisti in un attentato, punito per aver portato in scena un dramma sgradito al regime.
Nel 1947, a guerra conclusa, Fausta Cialente tornò in Italia per ricongiungersi alla madre ormai anziana. In questa seconda fase della sua vita iniziò a dedicarsi a tempo pieno al giornalismo, collaborando con varie riviste Rinascita, Italia Nuova, Noi donne, Il Contemporaneo e con il quotidiano comunista l’Unità. In questi anni riprese anche a pieno ritmo l’attività di scrittrice, affermandosi nel mondo letterario dell’epoca.
Dopo la separazione dal marito si trasferì a Roma con la madre. Alla morte di quest’ultima andò a vivere per un breve periodo nella villa di famiglia a Trevisago sul Lago Maggiore. Presto Fausta Cialente riprese la sua vita apolide, continuando a viaggiare per il mondo, spostandosi spesso tra l’Italia e il Kuwait dove viveva la sua unica figlia, Lily.
Negli ultimi anni della sua vita Fausta si trasferì definitivamente in Inghilterra, affiancando alla sua prolifica attività di scrittrice quella di traduttrice. In quel periodo tradusse in italiano molti classici della narrativa inglese, tra cui Piccole donne di Louisa May Alcott e Giro di vite di Henry James.
Morì a Pangbourne, nel Berkeshire, il 12 marzo 1994 all’età di novantaquattro anni.
Fausta Cialente: le opere
Il primo libro di Fausta Cialente Natalia (1931) ebbe una vicenda editoriale controversa. Alla sua prima uscita incappò nelle maglie della censura fascista a causa della vicenda interamente imperniata su un’ambigua amicizia fra due donne. La qualità del romanzo era indiscussa, tanto che vinse il premio Dieci conferito da Massimo Bontempelli; ma non arrivò al pubblico, fu condannato all’oblio, Dopo le difficili vicende editoriali che lo videro coinvolto il libro fu ripubblicato nel 1982, quando Cialente aveva ottantaquattro anni ed era ormai un’autrice affermata nel panorama internazionale.
I suoi primi romanzi furono caratterizzati dalle atmosfere esotiche e levantine, come Marianna (1931) (vincitore del premio Galante, Ndr), Cortile a Cleopatra (1936) e Pamela o la bella estate (1935) nei quali descrive una natura viva, colorata, profumata, in movimento. La psicologia dei personaggi viene resa da Cialente con gesti impercettibili e un’aggettivazione precisa e al contempo morbida. La sua è una prosa elegante che restituisce al lettore un nuovo modello di scrittura al femminile.
Dopo un lungo silenzio, nel 1961 Cialente pubblicò Ballata Levantina riproponendosi all’attenzione della critica. Cinque anni dopo si classificò quindi terza al Premio Strega con Un inverno freddissimo (1966), vicenda ambientata in una Milano invernale che descrive i problemi del difficile periodo postbellico.
Nel 1972 diede alle stampe il romanzo Il vento sulla sabbia e nel 1976 si aggiudicò finalmente il Premio Strega con Le quattro ragazze Wieselberger, romanzo in cui ricostruisce le memorie della sua infanzia, oggi considerato il suo capolavoro.
Nel libro vincitore del Premio Strega 1976, Le quattro ragazze Wieselberger, Cialente tramite le vicende di un’imprevedibile famiglia, raccontava mezzo secolo di storia italiana, in una prospettiva rivelatrice.
L’autrice parte dalla biografia materna per narrare la sua storia. Il libro si ispira infatti all’infanzia della madre, Elsa Wieselberger, nella Trieste austroungarica dell’Ottocento.
Le quattro sorelle Wieselberger sono delle giovani nobildonne talentuose e aggraziate, che appaiono inconsapevoli del loro tragico destino. La storia delle famiglia Wieselberger si intreccia alle vicende del proprio tempo, quindi al furore della guerra, e infine alla vita della stessa Fausta Cialente che prenderà il testimone dell’eredità familiare concludendo la narrazione.
Tramite il racconto della sua epopea familiare Cialente sembrò chiudere il cerchio della propria attività letteraria realizzando il senso, più segreto e vero, della sua vocazione artistica.
Il romanzo Le quattro ragazze Wieselberger è stato recentemente ripubblicato dalla casa editrice La Tartaruga nel 2018, con una magistrale prefazione scritta da Melania G. Mazzucco.
Questa nuova edizione offre una rinnovata attenzione all’opera di Fausta Cialente e mostra al mondo contemporaneo la sorprendente attualità della scrittura di questa grande autrice novecentesca.
scrittore americano
24 febbraio 1943 - 30 novembre del 2014
Oggi, 24 febbraio, lo scrittore Kent Haruf, morto nel 2014, avrebbe compiuto 79 anni.
Kent Haruf è uno di quegli autori che possono fare la storia dell’editoria: grande scrittore americano, rifiutato da tutti per decenni come John Williams, oggi è venerato come Carver. Haruf è arrivato in Italia grazie all’intuizione della casa editrice NN Editore, che a soli due anni della sua nascita si è lanciata, nel 2015, con la pubblicazione di Benedizione, vincendo oltre alla scommessa della critica, quasi unanime nel riconoscere l’importanza dello scrittore americano, anche quella del pubblico, che si è appassionato alla sua storia e alle sue storie.
Scrittore straordinario, noto per la Trilogia della pianura.
Kent Haruf nasce il 24 febbraio del 1943 a Pueblo, Colorado. Vive e cresce nel prototipo della famiglia americana di provincia: figlio di un pastore metodista e di un’insegnante. Si laurea nel 1965 presso la Nebraska Wesleyan University (dove in seguito insegnerà) e subito dopo aver ottenuto il titolo trascorre un paio di anni come insegnante di inglese per i bambini delle scuole medie nel corpo di pace in Turchia.
Alla chiamata alle armi per la guerra in Vietnam, sceglie di essere obiettore di coscienza e in sostituzione del servizio militare lavora in un ospedale di riabilitazione a Denver e in un orfanotrofio. Queste professioni saranno, insieme a molte altre, le sue attività primarie prima di scegliere di diventare scrittore: bracciante agricolo in una fattoria di galline in Colorado, operaio edile in Wyoming, assistente in una clinica riabilitativa a Denver e un ospedale a Phoenix, bibliotecario in Iowa, docente universitario in Nebraska e Illinois (University of Southern Illinois).
Nel 1973 si trasferisce con la prima moglie, Virginia Koon, e la figlia in Iowa per frequentare la prestigiosa Writers Workshop presso la University of Iowa, dove insegnavano alcuni scrittori illustri come John Irving, Seymour Krim e Dan Wakefield. La sua domanda viene inizialmente respinta, ma senza darsi per vinto presenta nuovamente la domanda e viene infine accettato all’ambito corso. Nel 1974, dopo aver conseguito un Master of Fine Arts, per provvedere al sostentamento della famiglia, accetta un impiego on una scuola superiore alternativa a Madison, Wisconsin.VEDI SU AMAZON
Nel 1976 diventa professore assistente presso la Nebraska Wesleyan University, in cui si era laureato. Nel 1982 pubblica il suo primo racconto, Now (And Then), in cui il narratore racconta il ritorno a casa della madre dal Wisconsin attraverso l’Iowa.
Nel 1984 pubblica una breve storia nella rivista letteraria Puerto del Sol, e poi, per i tipi di Harper & Row, il suo primo romanzo Vincoli: alle origini di Holt che riceve il Whiting Award e una citazione speciale nel Hemingway Foundation / PEN. Lo scrittore John Irving, suo insegnante all’Università dell’Iowa, lo aiuta mettendolo in contatto con il suo agente e nel 1990 riesce a pubblicare il secondo romanzo La strada di casa.VEDI SU AMAZON
Pur ricevendo buone recensioni dalla critica, i suoi primi due libri vendono pochissime copie e Haruf, con tre figli in età scolastica, vive un periodo di difficoltà economiche. Tuttavia il suo nome inizia a diventare noto nel settore accademico e per questo riesce a ottenere un incarico, dal 1990, alla Southern Illinois University Carbondale (dove insegnerà per circa dieci anni), potendo finalmente dedicarsi alla scrittura con un cuore più leggero.
Il successo letterario giunge solo nel 1999 quando Kent Haruf, ormai cinquantaseienne, pubblica il Canto della pianura: il romanzo vince il Mountains & Plains Booksellers Award e il Maria Thomas Award ed è finalista al National Book Award e al New Yorker Book Award. Grazie a questi riconoscimenti Haruf abbandona la carriera accademica per dedicarsi interamente all’attività della scrittura.VEDI SU AMAZON
Nel 2000, dopo aver vissuto per circa un decennio a Carbondale, Illinois, fa ritorno in Colorado e insieme alla seconda moglie Cathy Dempsey (che ha sposato nel 1995), si stabilisce in montagna, in una casa di tronchi vicino alla città di Salida. Nel 2004 pubblica Crepuscolo, il seguito del Canto della pianura, che vince il Colorado Book Award, e nel 2013 Benedizione.
Kent Haruf muore il 30 novembre del 2014 a causa di una malattia polmonare. La moglie racconta che Le nostre anime di notte, romanzo postumo e di incredibile successo, è stato scritto in fretta (cosa insolita per lui) pochi mesi prima di morire, quando già la sua salute era abbastanza precaria.
La strada di casa, 1990
Canto della pianura, 1999
Crepuscolo, 2004
Benedizione, 2013
Le nostre anime di notte, 2015
Il 23 febbraio 1821 si spegneva a Roma il poeta John Keats, uno dei massimi esponenti del Romanticismo inglese.
John Keats nacque a Londra il 31 ottobre 1795. Il padre Thomas, nativo delle regioni dell'ovest, lavorava come garzone di scuderia presso John Jennings, proprietario della Swan and Hoop Inn (la Taverna del Cigno e del Cerchio), a Moorgate; finì per sposare il 9 ottobre 1794 Frances, la figlia di Jennings, al quale poi succedette negli affari. John fu il primo di cinque figli: suoi fratelli erano George (1797–1841), Thomas (1799–1818), Frances Mary "Fanny" (1803–1889), e un quarto del quale non si conosce l'identità, poiché morto giovanissimo.
Trascorse i primi anni di vita prevalentemente nella tenuta amministrata dal padre, fino a quando i genitori (che, essendo d'estrazione piuttosto modesta, non avevano le finanze per educarlo nei prestigiosi college di Eton o Harrow)[1] nell'estate del 1803 lo mandarono alla scuola privata del reverendo John Clarke, dove diede prova di carattere indolente e pugnace, facendo al contempo disparate letture. Qui respirò infatti un'atmosfera satura di letteratura, stimolata dal figlio del reverendo, Charles Cowden Clarke, un giovane di buona cultura e dal contagioso entusiasmo per la poesia che rimase legato - anche una volta finito il corso - a Keats da un saldo vincolo d'amicizia.[2]
La tranquillità di questi anni, tuttavia, iniziò ad incrinarsi, allorché Keats fu colpito da una serie di gravi disgrazie. Il 16 aprile 1804, quando Keats non aveva ancora nove anni, morì il padre per via d'un trauma cranico a seguito di una caduta da cavallo e nel marzo del 1810 perse anche la madre, malata di tubercolosi. I giovani fratelli Keats vennero così affidati alla nonna materna, la quale, però, non potendosene prendere cura, farà nominare due tutori: Richard Abbey e John Sandell. Proprio dietro loro volontà, nell'autunno 1810 John lasciò la scuola del reverendo Clarke per studiare e lavorare come apprendista presso Thomas Hammond, farmacista e chirurgo di Edmonton, nel nord di Londra, nonché vicino di casa e medico della famiglia Jennings.
https://it.wikipedia.org/wiki/John_Keats
Malato di tubercolosi, al momento della morte Keats aveva solo venticinque anni, ma da tempo era conscio del fatto che gli restasse ormai poco da vivere. In un’ultima lettera scritta all’amico Charles Armitage Brown affermava:
Ho la sensazione continua che la mia vita reale sia già passata, e di star quindi conducendo un’esistenza postuma.
Venne sepolto tre giorni dopo nel cimitero acattolico di Roma sovrastato dalla grande Piramide di Caio Cestio, risalente al I secolo a.C. La sua lapide fu eretta nella primavera del 1823 e circondata da margherite, assecondando la volontà del poeta.
Sulla sua tomba, Keats non volle scritti né il nome, né la data di morte, ma semplicemente un breve epitaffio, che recita:
Here lies one whose name was writ in water
Un’iscrizione poetica, dal significato sibillino. La lapide di John Keats spicca tra le altre tombe che ricoprono la superficie del cosiddetto Cimitero degli Inglesi proprio per quell’elegante scritta in corsivo, dall’accezione malinconica, che sembra alludere al continuo fluire dell’esistenza.
Keats voleva che il suo nome fosse dimenticato, che cadesse nell’oblio, ma lo ha trasformato in un monumento all’immortalità.
Sulla tomba tuttavia non è riportato il giorno esatto della morte di Keats, ma il giorno successivo: il 24 febbraio 1821. Per quale ragione?
In realtà non si tratta di un errore, ma di una diversità nel calcolo dei giorni tra il metodo romano e quello inglese.
All’epoca, a Roma, il giorno finiva circa mezz’ora dopo che le campane delle chiese suonassero l’ultima Ave Maria: per questo motivo la morte del poeta fu registrata ufficialmente dalle autorità il 24 febbraio e non il 23. Keats si spense alle undici di sera del 23 febbraio 1821, come riportano le testimonianze nelle lettere ufficiali, ma nella città eterna ormai era già un nuovo giorno.
Chi si trova di fronte alla tomba non sa il nome di chi vi è sepolto, solo che vi giace emblematicamente “Colui il cui nome fu scritto sull’acqua”.
Solo grazie alla breve iscrizione composta dagli amici John Severn e Charles Armitage Brown a corredo dei versi di Keats possiamo comprendere che si tratta di un “young english poet”, il che acuisce il sentimento di compassione dinnanzi a una morte così prematura:
Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”.
La lapide di John Keats sembra raccontare la sua storia: è una tomba peculiare, dal forte significato biografico. Non riporta né nome né data di nascita o di morte, nulla insomma che lasci presagire l’identità di chi vi è sepolto ma solo un’iscrizione irripetibile, che suona come l’accesso a un mondo arcano. Ma qual è il significato dell’iscrizione tombale di John Keats?
Scopriamone origine e significato.
Here lies one whose name was writ in water
Questi versi enigmatici non apparivano in nessuna opera del poeta inglese, Keats stesso non li aveva mai scritti o registrati in alcuna poesia o pagina di diario.
Nei suoi ultimi giorni, nella stanza dove giaceva al numero 26 di Piazza di Spagna, il giovane poeta ebbe numerosi visitatori: il suo medico, il dottor James Clark, che risiedeva proprio dall’altra parte della Piazza e si dice visitasse Keats fino a quattro o cinque volte al giorno. Un’infermiera inglese era sempre presente nell’assistere il malato, e altri amici restarono sino alla fine.
Per attestare l’origine dell’iscrizione funeraria ci basiamo solo sulla parola di John Severn che fu unico testimone delle ultime volontà di John Keats.
Alcuni giorni prima della morte di Keats, Severn registrò il verso “Writ in Water” in una lunga lettera-diario scritta all’amico comune Charles Armitage Brown.
L’espressione “Writ in Water” appare in tutte le varianti della lettera esaminate dai critici.
Writ in water
Non era un’espressione molto usata nel diciannovesimo secolo, ma con la morte di Keats la frase ebbe nuova vita, in molti la consideravano come sinonimo della morte del poeta.
L’enigmatica frase - che letteralmente significa scritto nell’acqua - era molto più diffusa nella letteratura del XVI e XVII secolo, mentre le prime versioni latine e greche risalgono all’antichità.
Si tratta di un proverbio, forse l’opposto perfettamente antitetico di “scolpito nella pietra”, che invece suggerisce l’idea di permanenza, mentre “scritto nell’acqua” rimanda all’impermanenza o a questioni di natura transitoria.
In alcuni contesti gli antichi affermavano che le parole scritte sull’acqua non avessero alcun valore perché destinate a svanire, come dimostra questa citazione di Sofocle:
Dovresti scrivere i giuramenti degli uomini malvagi sull’acqua.
La suggestione era data proprio dalla fugacità dell’acqua che sembrava rimandare al contempo alla caducità della vita, all’attimo che è già passato in un battito di ciglia.
Un’altra possibile fonte dell’espressione “Writ in Water” la ritroviamo nell’ Enrico VIII di William Shakespeare. In una rivisitazione dell’opera del drammaturgo John Fletcher, rappresentata per la prima volta in Inghilterra nel 1613, ritroviamo la frase:
Le cattive maniere degli uomini vivono nell’ottone; le loro virtù le scriviamo nell’acqua. (Atto IV, scena 2)
John Keats possedeva sia l’opera completa di Shakespeare che i quattro volumi di Dramatic Works of Jonson, Beaumont and Fletcher (Londra, 1811), regalatogli dal fratello George. È dunque possibile che il poeta inglese sia stato suggestionato da una di queste opere.
Forse non conosceremo mai la fonte esatta di quei celebri versi “Writ in Water” che si tramutarono nell’ultima volontà di John Keats. Probabilmente derivano da più fonti diverse, o forse da una suggestione del poeta inglese che trascorse i suoi ultimi giorni nella sua stanza a Piazza di Spagna ascoltando il lento scrosciare dell’acqua della “Barcaccia” del Bernini situata ai piedi della scalinata. Forse quel suono lento e cristallino fornì a Keats la sua ultima ispirazione.
Riguardo al significato dei versi scritti sulla lapide, invece, i critici sono abbastanza concordi sul fatto che John Keats tramite quelle parole volesse ritrarre il senso transitorio dell’esistenza umana. Quel nome “scritto sull’acqua” rimanda alla natura transitoria del viaggio dell’uomo nella vita.
Sembra che Keats attraverso quei versi volesse alludere a una sorta di esistenza postuma, di cui aveva spesso parlato nei suoi ultimi mesi di vita in varie lettere, come in preda a una visione.
Qui giace colui il cui nome fu scritto sull’acqua.
Forse John Keats credeva di non aver lasciato alcun segno indelebile nei suoi appena venticinque anni di vita.
La sua eredità, per quanto transitoria, è invece ancora “scolpita nella pietra” che rappresenta un monito eterno a ricordare quel “giovane poeta inglese”.
La tomba di John Keats nel cimitero acattolico di Roma è un’opera d’arte funeraria dal valore sopraffino che rimane come simbolo di un’esistenza dal valore immortale.
In un’ultima lettera scritta poche settimane dopo la morte di Keats l’amico Leigh Hunt confessava a John Severn:
Dì a Keats che ci ha soltanto preceduti sulla strada dell’immortalità, come in qualunque altra cosa lui abbia fatto.
Era l’8 marzo del 1821, erano passati quasi quindici giorni da quel drammatico 23 febbraio, ma Hunt parlava come se John Keats non se ne fosse mai andato, come se fosse ancora in vita, impegnato nel lungo cammino dell’immortalità.
Le sue metodologie educative furono inizialmente ispirate da quelle di Célestin Freinet, seguendo un indirizzo che lo fece diventare esponente del Movimento di cooperazione educativa.
La vita di Mario Lodi ha interpretato culturalmente la ricostruzione dell'Italia sulla pedagogia e sul mondo della scuola e dei bambini attraverso un impegno concreto e quotidiano. In questo contatto quotidiano con i bambini, con la loro osservazione partecipe, Lodi ha ridisegnato il valore educativo della scuola, cambiandone aspetti e metodologie.
Si diploma maestro all'Istituto magistrale di Cremona nel 1940. Da studente si ribella alle manifestazioni per la guerra organizzate dai fascisti: da quel "no" verrà la presa di coscienza che lo porterà poi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, all'impegno pedagogico per una scuola nuova in una società democratica. Durante la guerra subisce il carcere per motivi politici e nel 1945, dopo la Liberazione, aderisce a Piadena alla sezione del Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà e organizza le prime attività libere: un giornale aperto a tutti, il teatro, le mostre dell'artigianato locale, una scuola professionale gestita con docenti volontari.
Nel 1948 è nominato maestro di ruolo a San Giovanni in Croce, dove scopre le capacità creative dei bambini e la sua incapacità di maestro, formato dall'Istituto magistrale, a svilupparle e organizzarle nel lavoro scolastico con una metodologia coerente. Comincia un periodo di esperienze, incontri, dibattiti, seminari nel Movimento di Cooperazione Educativa, che ogni anno, nel convegno nazionale, si traducevano in una sintesi pedagogica. Nasceva così, con l'introduzione critica nella scuola italiana delle tecniche del pedagogista francese Celestin Freinet, un'impostazione pedagogica nuova e alternativa alla scuola trasmissiva di nozioni: il testo libero, il calcolo vivente, le attività espressive (pittura, teatro, danza, ecc.), la ricerca sul campo, la corrispondenza interscolastica, la stampa a scuola, la scrittura individuale di storie e di veri e propri libri (come Cipì).
Era un'impostazione che, insieme a quella dei bambini, liberava e formava la cultura del maestro. Parallelamente si dedica ad attività extrascolastiche, come la Biblioteca Popolare della Cooperativa di Consumo nella quale introduce la tecnica della stampa e pubblica i Quaderni di Piadena, documenti sulla ricerca sui vari problemi sociali realizzati dagli stessi giovani soci. All'interno della Biblioteca Popolare, nel 1957, si costituisce il Gruppo Padano per la ricerca dei documenti dell'espressività popolare in ogni sua forma tra i quali i canti popolari e i burattini. Il Gruppo Padano parteciperà poi a spettacoli a livello nazionale come Bella Ciao di Crivelli (presentato al festival di Spoleto nel 1967) e Ci ragiono e canto di Dario Fo.
Nel 1956 ottiene il trasferimento alla scuola elementare di Vho, suo paese natale. Qui, in ventidue anni di insegnamento, realizza molti libri: alcuni, scritti insieme ai suoi alunni, di fiabe e racconti (Bandiera, Cipì, La mongolfiera, ecc.), altri che documentano le sue esperienze pedagogiche: C'è speranza se questo accade al Vho (1963), Il paese sbagliato (Premio Viareggio 1971, sezione Opera prima saggistica[1]), Cominciare dal bambino (1977) e La scuola e i diritti del bambino (1983). Nel Pioniere dell'Unità[2] furono pubblicati tre suoi racconti: "Pesce vivo pesce morto, Il lupo della prateria e Lo spaventapasseri," Dal 1970, per dieci anni, dirige il gruppo di ricerca della Biblioteca di Lavoro che produce 127 libretti di letture, guide e documenti.
Da questo periodo diventa il punto di riferimento di tanti maestri di scuola elementare: da tutta Italia gli scrivono, lo invitano a convegni e dibattiti, i giovani insegnanti si ispirano al suo metodo didattico ed educativo. Nel 1978 va in pensione e inizia altre attività nel campo educativo: per tre anni dirige a Piadena la Scuola della creatività nell'ambito di un progetto della Regione in cui i bambini dai 3 ai 14 anni e gli adulti sperimentano le più diverse tecniche creative. Nel 1980, con un'indagine sul territorio nazionale, raccoglie e classifica 5000 fiabe inventate dai bambini, documentando così che la creatività infantile, nonostante l'avvento della televisione, è ancora viva se i bambini si trovano nelle condizioni di esercitarla e svilupparla.
Sulla spinta di questa indagine nasce nel 1983 A&B, un giornale interamente scritto e illustrato dai bambini in quanto cittadini che hanno il diritto costituzionale di esprimersi e di comunicare. Dal 1988 A&B diventa Il giornale dei bambini. Nel 1988, su richiesta di vari Comuni, insieme al gruppo redazionale di A&B riscrive la Costituzione Italiana in forma adatta ai bambini. Nello stesso anno in Piadena costituisce il Gruppo artisti piadenesi, con il fine di valorizzare le capacità creative di giovani e anziani nei vari campi per mezzo di mostre e pubblicazioni.
Con i proventi del premio internazionale LEGO, ricevuto nel 1989, fonda in una cascina a Drizzona, vicino a Piadena, dove Lodi si trasferisce, la Casa delle Arti e del Gioco, della cui cooperativa è presidente: un laboratorio dove si sperimentano, con la guida di esperti, tutti i linguaggi dell'uomo. Nella stessa sede sorge un Centro di Studi e Ricerche sulla cultura del bambino e una Pinacoteca dell'età evolutiva. Nel 1992 viene realizzata, in collaborazione con la Galleria Gottardo di Lugano, la mostra L'arte del bambino, esposta in numerose città, che dimostra quali alti livelli espressivi può raggiungere il linguaggio grafico autonomo.
Dai primi scarabocchi fino alla scoperta dell'astrattismo, le opere raccolte sono documenti della cultura del bambino spesso ignorate o distrutte dagli adulti. Negli anni successivi la Casa delle Arti e del Gioco pubblica 67 libretti di racconti, favole, poesie di bambini elaborati con il computer che esprimono atteggiamenti e sentimenti positivi come la collaborazione, il rispetto per la natura e per l'uomo, la felicità. Una serie è dedicata a racconti e leggende di bambini extracomunitari. Dal 1994 affronta il problema sociale dell'influenza negativa della televisione sui giovani, prima con il romanzo La TV a capotavola e poi con la campagna "Una firma per cambiare la TV" (oltre 550.000 firme raccolte e consegnate, tramite il Ministero della P.I,. al Capo dello Stato).
In seguito alla raccolta di firme nasce il libro Cara TV con te non ci sto più, scritto in collaborazione con il dottor Alberto Pellai e con la psicologa Vera Slepoj. Pubblica con La Casa delle Arti e del Gioco Alberi del mio paese (1992) e Rifiuti. La lezione della natura (1996): due libri guida, scritti in collaborazione con G. Maviglia e A. Pallotti, che sono una sintesi operativa di due corsi e uno strumento per l'educazione ambientale, per promuovere una cultura del comportamento responsabile. Dal 1995, per conto dell'Editoriale Scienza, dirige la collana Laboratorio Minimo che ha edito diversi testi guida per i ragazzi e gli educatori che intendono introdurre nella pratica scolastica l'atteggiamento scientifico. Nel 1998 cura, insieme alla figlia Cosetta, una nuova mostra di pitture di bambini dal titolo Alberi ed il relativo catalogo.
In collegamento alla mostra conduce i laboratori di educazione ambientale per i bambini e per gli operatori scolastici. Uno degli strumenti utilizzati è il libro-bianco Io e la natura (1999), che invita i bambini dai tre anni in su, con la guida di maestri, genitori e nonni, ad osservare direttamente l'ambiente naturale più vicino, conoscere il nome e il comportamento degli esseri viventi e disegnarli sulle pagine bianche del libro. Si vogliono così gettare le fondamenta di una cultura ambientale e aiutare i bambini a staccare lo sguardo passivo dal televisore.
Una delle attività della Casa della Arti e del Gioco, è la ricerca sui linguaggi multimediali, con un gruppo di lavoro di cui Mario Lodi è animatore, che si propone l'individuazione di opere di qualità, la loro presentazione critica nelle scuole e l'uso della telecamera da parte dei bambini per realizzare film. Negli ultimi anni della sua vita, con una scelta radicale, abbandonò la televisione, di cui criticava la bassa qualità determinata dalla logica dell'auditel, per circondarsi invece di persone vive, creative, che pensano e coltivano interessi culturali.
Documentò questo mondo reale, contrapposto al mondo virtuale televisivo, in forma di diario. Negli ultimi tempi, inoltre, Mario Lodi tenne, con bambini delle scuole elementari, medie e con allievi dell'Istituto Magistrale, corrispondenze scritte che, dal settembre 1999, sono pubblicate nella rivista "La Vita Scolastica". Nel 1999, in collaborazione con Editoriale Scienza e il Centro Gioco Natura Creatività "La lucertola" di Ravenna ha realizzato, con la consulenza di G. Maviglia, la mostra itinerante La scienza in altalena. Si tratta di una mostra di giocattoli "scientifici" costruiti dai bambini elaborando leggi fisiche.
Nel giugno 1999 ha pubblicato I bambini della cascina, premio Penne 1999: è la rievocazione della vita dei bambini e delle loro famiglie in una grande cascina padana, dal 1926 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Nell'ottobre 1999 è stato inaugurato a Cremona il Museo della città sottosopra realizzato dalla Azienda Energetica Municipale e dal Comune di cui Mario Lodi con G. Maviglia ha curato il progetto didattico. Nel giugno 2000 viene nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro membro della Commissione ministeriale per il riordino dei cicli scolastici.
Nel settembre 2000, cura, in collaborazione con la figlia Cosetta, la nuova mostra di pittura infantile "I ritratti dei bambini" che viene esposta per la prima volta dal FAI presso la villa Porta Bozzolo a Casalzuigno, in provincia di Varese. Nel novembre 2000 viene edito il libro La città sottosopra, per il sistema museale di Cremona. Dal 29 dicembre 2000 cura la rubrica quotidiana Il giornale dei bambini del quotidiano La Cronaca di Cremona: una pagina di letture e opere d'arte. Nel maggio del 2001 è stato nominato dal Ministero della Pubblica Istruzione membro del consiglio di amministrazione dell'INDIRE (ex biblioteca didattico-pedagogica) che si occupa della documentazione di esperienze realizzate nella scuola italiana, di aggiornamento dei docenti, ricerca e valutazione dei progetti.
Nel novembre 2001 comincia l'esperienza dello scambio di scritti autobiografici con bambini. Il 26 febbraio 2002 è pubblicato il libro A TV spenta. Diario del ritorno nel quale sono ripresi i motivi della critica alla televisione iniziata con la petizione Una firma per cambiare la TV (1994). Insieme al giovane ricercatore Yuri Meda ha prodotto una ricerca sul rapporto tra il potere fascista e la stampa per l'infanzia dal titolo Il Corriere dei Piccoli va alla guerra che si propone anche come ricerca sulla formazione dei bambini attraverso i media oggi e che diventerà una mostra.
Nell'ottobre del 2002 esce Il drago del vulcano e altre storie libro di favole per bambini. Nel novembre del 2004 in occasione dell'inaugurazione della galleria di Arte Moderna di Genova viene pubblicato Il castagno favola di Mario Lodi con illustrazioni di Alfredo Gioventù dedicato al dipinto di Antonio Discovolo. Dopo numerose pubblicazioni e collaborazioni prestigiose nel 2004 viene insignito della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell'ordine al Merito della Repubblica, in considerazione delle mete conseguite in campo culturale e pedagogico.
Nel novembre 2005 esce il libro Favole di pace, una raccolta di favole per bambini.
Nel marzo 2006 gli viene assegnato il Premio Unicef 2005 Dalla parte dei bambini "per aver dedicato tutta la sua vita ai diritti dei bambini perché avessero la migliore scuola possibile e per aver realizzato la Casa delle Arti e del Gioco" attraverso la quale promuove e valorizza la formazione degli insegnanti e le potenzialità espressive dei bambini.
In ottobre 2006 esce il libro Il cielo che si muove 15 racconti per adulti e bambini.
Nel novembre 2006, esce il libro Il pensiero di Brio con le illustrazioni di Emanuele Luzzati.
Lodi muore il 2 marzo 2014 nella sua casa di Drizzona; negli ultimi dieci giorni di vita le sue condizioni di salute erano gravemente peggiorate. Riposa nel cimitero di Piadena.
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
«Di iniziativa del Presidente della Repubblica»
— 28 maggio 2003[3]
1971: Premio Viareggio sezione Opera prima saggistica per Il paese sbagliato[1]
Gennaio 1989: dall'Università di Bologna la Laurea honoris causa in Pedagogia.
Novembre 1989: Premio Internazionale LEGO, conferito a "personalità ed enti che abbiano dato un contributo eccezionale al miglioramento della qualità di vita dei bambini".
Marzo 2006: "Premio Unicef" 2005 Dalla parte dei bambini per aver dedicato tutta la sua vita ai diritti dei bambini perché avessero la migliore scuola possibile e per aver realizzato la "Casa delle Arti e del Gioco" attraverso la quale continua a promuovere e a valorizzare la formazione degli insegnanti e le potenzialità espressive dei bambini.
Maggio 2006: "Premio Diomedea" della Biblioteca provinciale di Foggia e del Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri.
1957 Il permesso, Gastaldi, Milano
1960 Bandiera: drammatizzazione in tre atti, in «Letture drammatiche: teatro delle giovani. Rassegna di lettura teatro cinema radiotelevisione», 11-12, LDC, Torino, pp. 23-43
1961 Cipì, Messaggerie del Gallo, Milano
1962 I Quaderni di Piadena
1963 C'è speranza se questo accade a Vho
1968 Il permesso (Tradotta a l'spagnolo il 1983, Ediciones Alfaguara ISBN 84-204-3131-1)
1970 Il paese sbagliato: diario di un'esperienza didattica, Einaudi (Premio Viareggio 1971[1])
1971 Il corvo
1971 Il lupo della prateria
1971 La strabomba
1971 Nonno Agostino
1972 Il soldatino del pim pum pà
1974 Di Vittorio
1974 Gesù oggi
1974 Insieme
1975 Picasso con A. Gianola
1976 L'archeologo
1976 Storia di un ergastolano
1977 Cominciare dal bambino
1977 I pastelli
1978 Il mondo (5 voll.+ F. Tonucci, Guida al giornalino di classe)
1978 La mongolfiera
1978 Dialetto e altre lingue con Tullio De Mauro
1979 Dall'alfabeto al libro
1979 L'alfabeto
1979 Mare mi piaci
1979 Lingua e dialetti con T. De Mauro
1980 Vecchi mestieri in Valpadana
1982 Ciao, teatro!
1982 Guida al mestiere di maestro
1983 La scuola e i diritti del bambino
1985 Bandiera
1986 I sentimenti nelle poesie
1986 Il maestro (in C. Stajano, La mia professione)
1986 La fantasia nelle poesie
1986 La natura nelle poesie
1986 La pace e la guerra
1987 Bambini e cannoni
1987 La strega
1988 Costituzione e ragazzi
1989 Il mistero del cane
1989 Stella azzurra
1989 Storie di adultibambini
1990 Carosello magico
1990 Storie di sassi
1991 I diritti del bambino, dell'uomo e della natura
1991 Il mondo bambino
1992 Alberi del mio paese
1993 Fiabe dei bambini italiani
1993 L'orologio azzurro con A. Pallotti
1993 Nel cuore della terra con A. Pallotti
1994 La TV a capotavola
1996 La busta rossa
1996 Rifiuti. La lezione della natura
1997 Cara TV con te non ci sto più con A. Pellai e V. Slepoj
1998 Alberi
1998 I bambini volanti con A. Pallotti
1998 Il bambolo con A. Pallotti
1998 Il cielo che si muove
2000 La città sottosopra
2002 A TV spenta. Diario del ritorno
2002 Il drago del vulcano e altre storie
2004 Il castagno
2005 Favole di Pace
2006 Il cielo che si muove
2006 Il pensiero di Brio
Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci
Poeta, scrittore, critico letterario e accademico italiano
27 luglio 1835, Pietrasanta - 16 febbraio 1907, Bologna
Il 16 febbraio 1907 moriva nella sua casa di Bologna il poeta toscano Giosuè Carducci, sconfitto dalla cirrosi epatica. Aveva 72 anni.
Nel 1906, appena un anno prima della sua scomparsa, Carducci era stato il primo autore italiano a ricevere il premio Nobel per la Letteratura. Il prestigioso riconoscimento letterario gli era stato conferito in omaggio alla purezza dello stile, all’energia creativa e alla forza lirica che sprigionava dalla sua poetica.
Nell’anniversario della sua scomparsa ricordiamo Giosuè Carducci con una delle sue poesie più belle, l’ode Davanti San Guido scritta nel dicembre 1874, in cui il poeta ripercorre i luoghi che gli furono cari durante l’infanzia.
La poesia è contenuta in una delle raccolte più celebri dell’autore Rime Nuove (1861-1887) che è unanimemente ritenuta la massima espressione dell’opera carducciana.
Davanti San Guido è la narrazione di un viaggio mentale, raccontato attraverso le visioni evanescenti scorte attraverso il finestrino di un treno che unisce l’evocazione di paesaggi ormai scomparsi a una confessione intima e appassionata.
Scopriamo testo, parafrasi e analisi della poesia.
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.
Mi riconobbero, e – Ben torni omai –
Bisbigliaron vèr’ me co ’l capo chino –
Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh, non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! –
– Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva – oh di che cuore!
Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. – Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò,
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
– Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ’l lor bianco velo;
E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –
Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Titti – rispondea – ; lasciatem’ ire.
È la Titti come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio cipressi! addio, dolce mio piano! –
– Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia;
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co ’l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Pieno di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
– Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –
Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
Gli alti cipressi che, in doppio filare, costeggiano la strada verso l’oratorio di San Guido nella Maremma come dei giovani giganti sembrano correre incontro al poeta e guardarlo negli occhi.
I cari cipressi paiono riconoscerlo e, con le chiome piegate all’ingiù, bisbigliano dicendo che finalmente è tornato e gli domandano perché non scende dal treno per fermarsi un poco con loro, visto che la sera nella campagna è piacevole e lui conosce la strada.
Gli dicono di sedersi sotto la loro ombra profumata, da cui si sente il vento di maestrale che arriva direttamente dal mare. I cipressi confessano al poeta di non portare alcun rancore per i sassi che lui tirava loro da bambino, perché non erano colpi dolorosi.
Dicono che tra i loro rami gli usignoli fanno ancora il nido e si chiedono perché lui stia correndo via così velocemente. Di nuovo gli chiedono di restare mentre i passerotti vivaci volteggiano sereni tra le fronde.
Il poeta risponde affettuosamente ai cipressi, dicendo che loro sono tuttora i fedeli amici della sua età più bella (l’infanzia, Ndr), e che vorrebbe sinceramente poter restare in loro compagnia. Ma devono sapere che ormai non è più quel tempo, lui non è più un bambino e loro non sanno che ora è diventato un uomo celebre, un famoso intellettuale. Conosce il greco e il latino, scrive moltissimo, dice di non essere più quel bambino vivace e impertinente che tirava sassi alle piante.
Fra le cime dei cipressi sembra esserci un mormorio di incredulità, mentre rosseggia il tramonto si intravede come un sorriso caritatevole tra il verde scuro delle chiome.
Il poeta allora capisce che i cipressi e il sole hanno pietà di lui. Quel mormorio si trasforma presto in parole con cui i cipressi dicono al poeta che sanno benissimo che lui è un uomo infelice.
Lo sanno perché glielo ha riferito il vento, che è in grado di cogliere i sospiri degli uomini e sanno che nel profondo del poeta si agitano continui conflitti e tormenti che lui non sa come calmare.
Dicono al poeta di raccontare alle querce e ai cipressi la sua tristezza e il suo dolore. Gli consigliano di guardare il mare che è calmo e azzurro, di guardare come gli sorride il sole splendente che tramonta sull’acqua.
Gli dicono che il cielo è punteggiato dagli uccelli in volo e che il verso dei passeri è tanto allegro. Di notte si sentiranno cantare gli usignoli, quindi i cipressi chiedono ancora al poeta di fermarsi un attimo e di non inseguire quei cattivi pensieri che tanto lo fanno soffrire.
I crudeli fantasmi che escono dal profondo del vostro cuore - dicono i cipressi - tormentati pensieri che balzano come fiamme putride, uscite fuori dai vostri cimiteri. Fermati e noi domani, quando a mezzogiorno i cavalli si riposano all’ombra delle grandi querce e c’è silenzio in tutta la pianura assolata, canteremo per te quei cori che eternamente cantano tra terra e cielo; le ninfe usciranno fuori dagli alberi di olmo, facendoti aria con i loro veli bianchi.
L’immortale Dio Pan che sulle colline solitarie a quell’ora se ne va a passeggiare, calmerà i dissapori delle tue preoccupazioni, o uomo mortale, facendo affondare i tuoi tormenti nell’armonia divina della natura.
Il poeta risponde che oltre l’Appennino lo aspetta la Tittì (la sua bambina più piccola, Ndr) e quindi devono lasciarlo andare. Dice che la Tittì è come un uccellino, però non ha piume per potersi vestire.
Tittì mangia ben altre cose che le bacche di cipresso (come fanno i passerotti), dice anche di non essere un seguace di Manzoni che riesce a ottenere alti stipendi per vivere bene. Il poeta dice allora addio ai cipressi e alla pianura che gli è tanto cara.
I cipressi chiedono dunque al poeta cosa devono dire al cimitero, dove riposa la sua cara nonna. E sembrano fuggire come un corteo in lutto che brontola e se ne va via veloce.
In quel momento dalla cima del colle, lì dove c’è il cimitero, lungo la via costeggiata dai cipressi, al poeta sembra di rivedere nonna Lucia, una figura alta, solenne e vestita di nero.
La signora Lucia, coi capelli bianchi e mossi, che parlava il vero toscano, tanto bello e diverso dall’uso che ne fanno i seguaci di Manzoni.
La vede scendere dal cimitero parlando con un tono musicale, con quell’accento un po’ triste tipico della Versilia; il tono della nonna, forte e soave insieme, ricorda al poeta i canti popolari del Trecento.
Il poeta ricorda la nonna Lucia, dicendo quanto era bella la favola che gli raccontava da bambino, di raccontarla di nuovo all’uomo adulto la favola della fanciulla che cerca il suo amore perduto.
La favola dice che la giovane ha consumato sette paia di scarpe di ferro per poterlo ritrovare e sette bastoni di ferro ha rovinato per potersi appoggiare nel suo incerto cammino.
Ha riempito sette fiaschi di lacrime, ha pianto lacrime amare per sette lunghi anni, tuttavia il suo amato continua a dormire e anche quando è mattina non vuoi svegliarsi.
Si rivolge di nuovo alla nonna Lucia dicendo che quella favola è proprio bella e vera, e forse la felicità che il poeta ha cercato per tanti anni, forse si trova proprio nei luoghi della sua infanzia.
La pace si trova sotto a quei cipressi dove ormai non spera di sedersi mai più, oppure è lì nel cimitero dove riposa la nonna, tra quei cipressi sulla collina.
Il treno corre via sbuffando vapore, mentre il poeta osserva malinconico un branco di puledri correre dietro alla locomotiva in transito.
Vede anche un asino grigio che, mentre rosicchia un cardo rosso e azzurro, non si sposta d’un passo e non bada al rumore. L’asino non solleva neppure gli occhi al passaggio del treno e continua a brucare lentamente, con un indifferenza granitica, l’erba del prato.
Dal punto di vista metrico Davanti San Guido è un componimento in 29 quartine di endecasillabi con schema ABAB, a rima alternata.
La lunga ode, come attesta la datazione, fu iniziata da Carducci nel dicembre 1874 ma conclusa solo molto tempo dopo, nel 1886.
Agosto 1874. Giosuè Carducci si trova a bordo di un treno in corsa verso Nord che durante il viaggio attraversa i paesaggi della Maremma Toscana, territorio natale del poeta. I panorami familiari appena intravisti dal finestrino rievocano in Carducci le memorie delle sua lontana infanzia.
Il poeta intreccia un dialogo con i cipressi - entità naturali inanimate che vengono paragonate a giovinetti giganti - che dall’oratorio sacro di San Guido vanno fino a Bolgheri.
I cari cipressi sembrano riconoscere l’autore - un tempo bambino tra quelle strade - e pregarlo di fermarsi, di sostare un poco presso di loro. Carducci si abbandona quindi al ricordo commovente, malinconico e a tratti ironico, della propria infanzia perduta.
Sin dal principio Carducci confessa ai cipressi di non essere più il bambino vivace di allora che tirava sassi alle piante e correva a perdifiato. Ora è un uomo colto e raffinato, un intellettuale affermato che conosce il greco e il latino, ma si percepisce un fondo d’amarezza nelle sue parole. Solo i cipressi, che svettano come giovinetti nel sole accecante, sembrano comprendere il suo tormento e capire che in fondo è un “pover uomo”.
La campagna sul far della sera assume una forma idilliaca, il sole sembra sorridere tra le foglie mentre i passerotti volteggiano lieti tra le fronde. Il paesaggio naturale sembra predisporre la mente del poeta al ricordo suscitando nel suo animo una nostalgia struggente.
Attraverso le immagini appena intraviste dal finestrino di un treno Carducci si perde in un viaggio mentale nel quale le immagini evocate si intrecciano tra giovinezza e maturità. Tra le persone amate ormai scomparse il poeta ricorda la cara nonna Lucia e il racconto che lei era solita raccontare: la fiaba di una fanciulla che cerca il suo perduto amore (una fiaba popolare toscana all’epoca molto in voga quella di Re Porco, Ndr). E con quel ricordo Carducci sembra evocare la fragilità dei sogni e l’impossibilità dell’uomo di trovare la felicità tanto agognata. Alla spensieratezza fanciullesca dell’infanzia si contrappone quindi la disillusione dell’età adulta.
Il poeta quindi comprende che il tempo della sua infanzia è ormai lontano, perduto, irrecuperabile, come la bellezza di nonna Lucia. Nel suo cuore ruggisce un grido struggente d’addio:
Addio cipressi! Addio, dolce mia pianura!
Il viaggio si conclude simbolicamente al cimitero, dove conduce la duplice fila dei cipressi. Nel cimitero dove è sepolta la nonna Carducci sembra intravedere una visione di pace, una tregua dagli affanni della vita adulta, un ristoro di saggezza.
Ma il treno in corsa - come la vita - procede inarrestabile il suo viaggio, come a ricordare che no, non è tempo di morire.
Davanti San Guido si conclude con un’immagine bucolica che sembra essere un’ode alla natura della Maremma Toscana: puledri selvaggi si inseguono correndo dietro al treno - come un ricordo ruggente della giovinezza ormai perduta - mentre un asino grigio, solitario bruca l’erba silenzioso ignorando il chiasso dei cavalli e della locomotiva in transito.
La contrapposizione tra l’asino e i puledri sembra esemplificare un’ultima metafora della distanza tra la giovinezza e la maturità. Carducci sembra riconoscersi ora nel movimento placido e lento dell’asino grigio, che pare un simbolo della maturità destinata a sfociare nella vecchiaia. I passi quieti dell’asino che si limita a rosicchiare il cardo ricordano gli uomini che ormai non si aspettano più nulla dalla vita, nessuna felicità.
Il finale è tipicamente carducciano, nella corsa del treno che avanza il poeta riflette l’incedere della vita che impone all’uomo di superare l’angoscia e la nostalgia per fare dono al mondo della propria presenza operosa.
La figura retorica principale dell’ode carducciana Davanti San Guido è data dalla personificazione dei cipressi descritti sin dal principio come “giganti giovinetti”. È proprio il dialogo con i cipressi infatti il tema centrale su cui si snoda l’intera poesia, gli alberi accompagneranno l’autore lungo tutto il viaggio attraverso i ricordi.
Dominante è anche la figura retorica della prosopoea: i cipressi, entità naturali inanimate, prendono parola e si rivolgono direttamente alla persona del poeta. Come si può osservare al verso 5: “Ben torni ormai”/ “Perché non scendi? Perché non stai?”
Frequenti enjambement scandiscono il ritmo del testo, creando le pause opportune ed evocando i silenzi che intermezzano il ricordo.
Nel verso Bei cipressetti, cipressetti miei troviamo una doppia figura retorica: l’apostrofe (bei cipressetti) e il chiasmo dato dalla reciproca inversione del costrutto.
Nel trentunesimo verso Ghigno pio è un ossimoro: poiché viene accostato un termine di fatto dispregiativo il ghigno, sorriso beffardo e malefico, a un aggettivo dolce e bonario. Il “sorriso bonario” sembra quindi rappresentare lo stato d’animo del poeta, percorso da una nostalgia dolceamara.
Ritorna spesso l’anafora: E so legger di greco e di latino/E scrivo e scrivo/ e ho molte altre virtù ripetezione della congiunzione e.
Il testo è ricco di similitudini: Guizzan come/ Putride fiamme; v. 67, È la Tittì come una passeretta;, Canora discendea/ Come da un sirventese del trecento.
Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642) è stato un fisico, astronomo, filosofo, matematico e accademico italiano, considerato il padre della scienza moderna.[1][2][3] Personaggio chiave della rivoluzione scientifica,[4] per aver esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto anche "metodo galileiano" o "metodo sperimentale"),[1][5] il suo nome è associato a importanti contributi in fisica[N 1][N 2][3][6][7][8] e in astronomia.[N 3][9] Di primaria importanza fu anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico[N 4] e alla teoria copernicana.[N 5][10]
I suoi principali contributi al pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica grazie a cui la scienza abbandonava, per la prima volta, quella posizione metafisica che fino ad allora predominava, per acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia realistica che empiristica, volta a privilegiare, attraverso il metodo sperimentale, più la categoria della quantità (attraverso la determinazione matematica delle leggi della natura) che quella della qualità (frutto della passata tradizione indirizzata solo alla ricerca dell'essenza degli enti)[11] per elaborare ora una descrizione razionale oggettiva[N 6] della realtà fenomenica.
Sospettato di eresia[20] e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galilei fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa (denominata "Il Gioiello") ad Arcetri[21] Nel corso dei secoli il valore delle opere di Galilei venne gradualmente accettato dalla Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando Galilei.
Georges Simenon nasce a Liegi (Belgio) il 13 febbraio 1903. Il padre è il contabile Désiré Simenon, mentre la madre è Henriette Brüll, una casalinga belga di ceto borghese. Georges, da piccolo, ha numerosi problemi di salute, che causano numerose tensioni tra la famiglia dei Simenon e quella dei Brüll. Il rapporto tra il bambino e la madre non è tra l'altro molto semplice.
Nel corso della sua giovinezza frequenta scuole guidate dai gesuiti, avendo un rendimento scolastico eccellente. Presto però si rende conto di non sentirsi a suo agio in un ambiente così rigido e con innumerevoli dettami imposti dall'ordine cattolico gesuita.
Georges quindi si ribella alle restrizioni imposte dall'Istituto religioso e con il passare degli anni si distacca dalla religione cattolica, non frequentando più nemmeno i suoi luoghi di culto. Nonostante ciò continua ad amare gli studi classici e in particolar modo si dedica alla lettura di importanti opere letterarie di autori classici come Conrad, Dickens, Dumas, Stendhal, Stevenson e Balzac.
Nel periodo compreso tra il 1919 e il 1922 lavora come cronista per La Gazette de Liège, autografando i suoi articoli con lo pseudonimo di Georges Sim. Nel corso di questi anni collabora anche con altre riviste e inizia giovanissimo la sua carriera come scrittore. Nell'arco di questo periodo muore il padre Désiré, per cui lascia il Belgio per trasferirsi in Francia, a Parigi.
In Francia, grazie alle sue eccellenti doti letterarie, collabora con numerose riviste; per queste scrive tanti racconti settimanali. Dal 1923 al 1926 scrive numerose storie che riscuotono un grande successo tra i lettori dell'epoca. Dalla seconda metà degli anni Venti alla prima metà degli anni Trenta scrive tanti romanzi commerciali che vengono pubblicati da importanti case editrici come Tallandier, Ferenczi, Fatard.
Riesce, in questi anni, a realizzare ben centosettanta romanzi rientranti nel genere narrativo commerciale; questi testi sono tutti firmati con vari pseudonimi, tra cui si ricordano il già citato Georges Sim, Geroges Martin-Georges, Jean du Perry, Christian Brulls e Gom Gut.
Nel 1928 compie un affascinante viaggio sulla chiatta Ginette e sul cutter Ostrogoth, due importanti canali navigabili della Francia. Traendo ispirazione da questo viaggio riesce a realizzare una serie di interessanti reportage. L'anno seguente inizia a collaborare con la rivista "Il Détective", per cui scrive varie novelle, in cui per la prima volta viene presentato uno dei suoi più celebri personaggi letterari, il commissario Maigret.
Il grande successo letterario dei romanzi di Simenon attira l'interesse di grandi registi come Jean Tarride e Jean Renoir che traendo spunto da essi, producono due film: "Il cane giallo" e "Il Mistero del crocevia". E' in questo modo che lo scrittore si avvicina al mondo del cinema.
Negli anni Trenta, con la prima moglie Régine Renchon, viaggia tantissimo e sul finire del decennio i due coniugi hanno un figlio, Marc.
Nel 1940 si stabilisce con la famiglia a Fontenay-le-Comte, nella regione della Vandea. In quest'anno inizia anche la Seconda guerra mondiale durante la quale cerca in tutti i modi di aiutare i rifugiati belgi. Inizia in questo periodo anche una fitta corrispondenza epistolare con il celebre scrittore francese André Gide.
Presto, a causa di referti medici errati, si convince del fatto che le sue condizioni di salute non sono buone e che gli rimangono pochi anni di vita. In quest'occasione scrive la sua autobiografia nell'opera intitolata "Pedigree", dedicata al figlio Marc. Finita la guerra in Francia è accusato di collaborazionismo, per cui decide di trasferirsi negli Stati Uniti. In questi anni perde uno dei suoi fratelli, Christian, che muore in occasione della battaglia d'Indocina. In breve le accuse contro di lui cadono, poiché evita di collaborare con le forze naziste.
Negli Stati Uniti soggiorna prima nello Stato americano del Texas, poi in Connecticut. Nel corso della sua permanenza in America conosce Denyse Ouimet, che diventa di lì a poco la sua seconda moglie. Dal loro amore nascono tre figli: John, Marie-Jo e Pierre. Negli anni Cinquanta Simenon decide di lasciare gli Stati Uniti per tornare in Europa, soggiornando prima in Costa Azzurra per poi trasferirsi a Epalinges, in Svizzera.
Nel 1960 presiede la giuria del Festival di Cannes e stringe una grande amicizia con il regista italiano Federico Fellini. Pochi anni dopo divorzia dalla seconda moglie e nel 1972 realizza il suo ultimo celebre romanzo: "Maigret e il Signor Charles", in cui racconta l'inchiesta condotta dal commissario Maigret in merito alla scomparsa del notaio Gerard Levesque. Nel corso delle indagini Maigret scopre che l'uomo è solito lasciare la moglie per brevi periodi di tempo, poiché la loro relazione sentimentale è in crisi ormai da anni. La moglie riferisce al commissario che il marito è sempre tornato a casa, ma in quest'occasione è ormai scomparso da un mese. L'inchiesta prosegue e il commissario scopre che anche Nathalie in passato è stata una donna che intrattiene i clienti nei locali notturni, presentandosi con lo pseudonimo di Trika. Una volta sposatasi con Gerard, cerca di salvare il suo matrimonio, ma senza ottenere risultati, poiché il marito continua le sue scappatelle e diventa un assiduo frequentatore dei locali notturni, intrattenendosi con le donne che vi lavorano. Per sopportare l'infedeltà del marito, Nathalie beve tantissimo. Successivamente il cadavere dell'uomo viene trovato in avanzato stato di decomposizione e Maigret sospetta che ad avere ucciso Gerard sia stata proprio la moglie. Dopo avere commesso un altro delitto, la donna alla fine confessa di avere commesso proprio lei l'omicidio.
Dopo aver realizzato il suo ultimo romanzo lo scrittore decide di registrare i suoi pensieri su dei nastri magnetici, iniziando quindi a dedicarsi alla realizzazione di dettati. Nel 1978 un tragico evento sconvolge la sua vita: la figlia Marie-Jo si suicida; due anni dopo, Simenon decide di scrivere un nuovo romanzo autobiografico, "Memorie intime", dedicato alla figlia defunta.
Georges Simenon muore il 4 settembre 1989 a Losanna a causa di un tumore al cervello, dopo aver scritto più di cinquecento romanzi, settantacinque inchieste del commissario Maigret e ventotto racconti.
Il 10 febbraio è stato scelto a partire dal 2005 dal Parlamento italiano come “il Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, costretti ad abbandonare le loro case dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia, a seguito della sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Le foibe sono grotte carsiche, con un ingresso a strapiombo, dove i partigiani comunisti titini gettarono, tra il 1943 e il 1945, più di 3000 italiani. Il totale complessivo delle vittime “infoibate” è di 80,000, per lo più croati e sloveni, considerati nemici del progetto perseguito da Tito di una federazione comunista jugoslava sotto la leadership di gruppi dirigenti di origine serba.
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Nasceva l'8 febbraio 1828 Jules Verne, lo scrittore che inventò la fantascienza. Diventato famoso grazie ai suoi romanzi di avventure e viaggi in luoghi straordinari, nel fondo della Terra e sulla Luna, Verne fu un autore visionario. Scopriamo 15 curiosità sulla sua vita.
Nasceva l’8 febbraio 1828 a Nantes Jules Verne, lo scrittore che inventò la fantascienza.
Autore visionario, scrittore di trame avveniristiche e dal contenuto quasi profetico, Verne è oggi considerato uno dei padri fondatori del romanzo d’avventura e fantascientifico.
Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo la saga millenaria dei Viaggi straordinari che comprende tra gli altri: Viaggio al centro della Terra (1864), Dalla Terra alla Luna (1865), L’isola misteriosa (1874), Ventimila leghe sotto i mari (1869), Il giro del mondo in ottanta giorni (1873) e Michele Strogoff (1876), opere in grado di trasportare il lettore in avventure straordinarie dal fondo della Terra agli abissi del mare sino alla candida superficie della Luna.
I suoi libri sono oggi considerati dei classici della letteratura mondiale.
Le sue storie avventurose univano lo spirito romantico dell’avventura a un’attenta ricostruzione scientifica e tecnologica, tanto aggiornata da apparire futuribile.
La preveggenza di Jules Verne portò lo scrittore Ray Bradbury a dire, molti anni dopo quando ormai la possibilità di andare sulla Luna era diventata per l’umanità una realtà concreta:
Senza Verne, molto probabilmente non avremmo mai concepito l’idea di andare sulla Luna.
Attraverso le sue storie Jules Verne infatti ci ha fatto varcare in sogno i confini della Scienza, dischiudendo così un nuovo mondo alla nostra fantasia.
Allo scrittore francese è stato dedicato un cratere sulla Luna, che oggi porta il suo nome, e un asteroide: il 5321 Verne.
Verne si spense il 24 marzo 1905 ad Amiens, all’età di settantasette anni, ormai cieco e provato dalla malattia. Nella sua lunga vita scrisse oltre sessanta romanzi e numerose novelle, note in tutto il mondo.
Ma chi era veramente Jules Verne, lo scrittore che ha inventato la fantascienza? Scopriamo 15 curiosità sulla sua vita.
L’8 febbraio 1828, Pierre e Sophie Verne accolsero il loro primo figlio, Jules Gabriel. Il piccolo Verne nacque nella casa dei nonni materni a Nantes, una città della Francia occidentale. Il luogo di nascita di Verne ebbe un profondo impatto sulla sua scrittura. Nel XIX secolo, Nantes era una città portuale trafficata che serviva come un importante centro per i costruttori navali.
Il piccolo Jules crebbe dunque osservando le imbarcazioni navigare lungo la Loira e sognando di partire a bordo di una di esse.
Verne iniziò a scrivere poesie a soli 12 anni. Da adolescente, usava la poesia come uno sfogo per i suoi sentimenti romantici. Il giovane Verne si innamorò perdutamente di sua cugina, Caroline Tronson, che aveva un anno e mezzo più di lui. Scrisse e dedicò poesie a Tronson, le fece dei regali e partecipò ai numerosi balli in sua compagnia.
Sfortunatamente Caroline Tronson non ricambiava i sentimenti del cugino più giovane. Convolò a nozze pochi anni più tardi con un uomo molto più vecchio di lei.
Verne era appassionato di scrittura fin dalla più tenera età, tuttavia suo padre incoraggiò fortemente il giovane Jules a seguire le sue orme ed entrare nella professione legale. Poco dopo il matrimonio di Tronson, il padre di Verne sfruttò la depressione del figlio per convincerlo a trasferirsi a Parigi per studiare legge.
Jules Verne si laureò in legge nel 1851. La sua passione per la narrativa tuttavia non si era spenta e continuò a scontrarsi con suo padre a causa delle diverse visioni di carriera. Presto Verne decise di rinunciare alla professione di avvocato per dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
Il soggiorno di Verne a Parigi coincise con un periodo di intensa instabilità politica. La Rivoluzione del 1848 scoppiò poco dopo che Verne si trasferisse in città per studiare Legge. Anche se non partecipò in prima persona, il giovane Verne fu vicino al conflitto e alle sue turbolente conseguenze, compreso il colpo di stato che pose fine alla Seconda Repubblica Francese. “Giovedì i combattimenti sono stati intensi; alla fine della mia strada, le case sono state abbattute da colpi di cannone”, scrisse in una lettera alla madre durante i combattimenti che seguirono il colpo di stato nel dicembre 1851.
Nel maggio 1856, Jules Verne fu il testimone al matrimonio del suo migliore amico ad Amiens. Durante i festeggiamenti del matrimonio, Verne alloggiò presso la famiglia della sposa e incontrò Honorine de Viane Morel, sorella della sposa. Si prese una cotta per Morel, una vedova di 26 anni con due figli, e nel gennaio 1857, con il permesso della famiglia di lei, i due si sposarono.
Verne aveva bisogno di un reddito rispettabile per mantenere Morel e le sue figlie. Il fratello di Morel offrì quindi a Verne un lavoro in una società di cambio, e lui accettò, lasciando il suo lavoro in teatro per diventare un agente alla Borsa di Parigi.
Nel tempo libero tuttavia non smise di dedicarsi alla scrittura.
Nei primi anni 1860, Verne incontrò Pierre-Jules Hetzel, un affermato editore e direttore di rivista che aiutò il giovane autore a pubblicare il suo primo romanzo, Cinque settimane in pallone. Questo romanzo servì come volume apripista della saga dei Viaggi straordinari, una serie di decine di libri scritti da Verne e pubblicati da Hetzel. La maggior parte di questi romanzi, compresi titoli famosi come Ventimila leghe sotto i mari, apparvero a puntate nella rivista di Hetzel prima di essere pubblicati in forma di libro.
A partire dal 1863, Jules Verne accettò di scrivere due volumi all’anno per Hetzel, un contratto che gli fornì una fonte di reddito costante per decenni. Tra il 1863 e il 1905, Verne pubblicò 54 romanzi di viaggio, avventura, storia, scienza e tecnologia per la serie Viaggi straordinari.
In questo periodo lavorò a stretto contatto con Hetzel confrontandosi con lui su personaggi, struttura e trama fino alla morte dell’editore avvenuta nel 1886.
Durante gli anni 1860, la carriera di Verne stava decollando, il che gli garantiva un certo benessere economico. Così, nel 1867, comprò un piccolo yacht, che chiamò Saint Michel, in onore di suo figlio Michel. Quando non viveva ad Amiens, passava il tempo navigando per l’Europa fino alle Isole del Canale, lungo la costa inglese e attraverso il Golfo di Biscaglia
Verne scriveva in francese, ma le sue opere hanno sempre avuto un fascino internazionale. Dagli anni 1850, i suoi scritti sono stati tradotti in circa 150 lingue, rendendolo il secondo autore più tradotto di sempre. Le sue opere sono state più tradotte di quelle di William Shakespeare.
In classifica Jules Verne è secondo solo alla regina del giallo, Agatha Christie.
Sebbene Verne scrivesse principalmente per gli adulti, molti editori in lingua inglese consideravano i suoi scritti di fantascienza come giovanili e commercializzavano quindi i suoi libri nel mercato dell’infanzia. In molti i casi i traduttori hanno smorzato la prosa dello scrittore, semplificando le storie, tagliando i passaggi più studiati, riassumendo i dialoghi e, spesso, eliminando tutto ciò che poteva essere interpretato come una critica all’Impero Britannico.
A partire dai vent’anni, Verne iniziò a sperimentare improvvisi attacchi di dolore allo stomaco. Scrisse dei suoi strazianti crampi nelle lettere ai membri della famiglia, ma non riuscì mai ad ottenere una diagnosi adeguata dai medici.
Inoltre Verne soffrì di episodi di paralisi facciale nel corso della sua vita. Durante questi episodi dolorosi, un lato del suo viso diventava improvvisamente immobile. Dopo il primo attacco, i medici trattarono il suo nervo facciale con la stimolazione elettrica, ma non riuscirono a risolvere il problema. Recentemente i ricercatori hanno concluso che soffrisse della paralisi di Bell, una forma temporanea di paralisi facciale unilaterale causata da un danno al nervo facciale.
Nel marzo 1886, un incidente traumatico lasciò il 58enne Verne invalido per il resto della sua vita. Il nipote di Verne, Gaston, allora ventenne e affetto da una grave malattia mentale, divenne improvvisamente violento. Lo scrittore stava tornando a casa quando, di punto in bianco, Gaston gli sparò due volte con una pistola. Per fortuna, Verne sopravvisse, ma il secondo proiettile sparato da Gaston colpì la gamba sinistra dell’autore lasciandogli un danno permamente.
Dopo l’incidente, Gaston fu mandato in un manicomio. Non gli fu diagnosticato un disturbo specifico, ma la maggior parte degli storici ritiene che soffrisse di paranoia o schizofrenia.
Verne non si riprese mai completamente dall’incidente. Il proiettile danneggiò gravemente la sua gamba sinistra, e il suo diabete complicò il processo di guarigione. Un’infezione secondaria lo lasciò con una forma di notevole zoppia che persistette fino alla sua morte avvenuta nel 1905.
Le opere di Jules Verne hanno influenzato la nascita dello Steampunk, il sottogenere della fantascienza che prende ispirazione dalla tecnologia industriale del XIX secolo. Alcuni dei personaggi di Verne, così come le macchine immaginarie di cui scriveva, sono apparsi in importanti opere steampunk. Per esempio il capitano Nemo di Ventimila leghe sotto i mari è apparso come personaggio nella serie a fumetti The League of Extraordinary Gentlemen.
Alcune delle tecnologie immaginate da Verne nella finzione divennero poi realtà. Una delle macchine sognate da Verne, il Nautilus, il sottomarino elettrico di Ventimila leghe sotto i mari, prese vita anni dopo.
Il libro fu pubblicato nel 1869, e i primi sottomarini a batteria furono lanciati nel 1880.
Inoltre Verne scrisse di grattacieli, ascensori, automobili con motori a combustione interna, treni e luci elettriche. Era incredibilmente in anticipo sul proprio tempo. Scrisse persino di un gruppo di calcolatori meccanici ( che ricordano i moderni computer) che potevano comunicare tra loro attraverso una rete (non vi ricorda Internet?).
Impressionante per un uomo nato nel 1828.
poeta, scrittore, traduttore, giornalista e accademico
L’8 febbraio 1888 nasceva ad Alessandria d’Egitto, Giuseppe Ungaretti, celebre poeta, scrittore e accademico italiano.
Nelle migliori poesie di Giuseppe Ungaretti si intravede la poetica di uno dei principali autori del Novecento che ha influenzato gli autori a lui successivi ridefinendo totalmente il lavoro degli autori precedenti. Ma soprattutto nelle poesie di Ungaretti si vede la sua vita e le sue esperienze esistenziali che così tanto hanno segnato il suo percorso scrittorio. La guerra è presente in molte poesie di Ungaretti, ma soprattutto la vita e la gioia di esistere si vede nei migliori componimenti del poeta.
Giuseppe Ungaretti era un poeta, scrittore e accademico italiano che ha avuto un’influenza grandissima nel campo della poesia e nel panorama letterario a lui successivo. La ragione? Il suo virare verso l’Ermetismo. Vita e poetica di Giuseppe Ungaretti sono sempre state legate a doppio filo poiché è dalle sue esperienze personali che l’autore trae tutto il materiale utile per produrre le sue opere, soprattutto per quanto riguarda il suo vissuto in prima persona in trincea.
Nelle sue opere dedicate alla guerra Ungaretti è in grado di riportare con magistrale meticolosità, schiettezza e scelte lessicali ben precise la sofferenza provata in guerra arrivando così a fornire veri e propri mezzi espressivi per comunicarla.
Ecco le poesie più conosciute e più importanti di Giuseppe Ungaretti, quelle che a scuola vengono sempre studiate e che capita spesso siano oggetto anche di molte prove di verifica, compresa la maturità.
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, 1918: questa poesia, il cui titolo reale è “Soldati”, è stata scritta verso la fine della Prima guerra mondiale ed è famosissima per essere una delle più corte poesie al mondo veicolando però un significato molto ampio. Come accennato, Giuseppe Ungaretti si è trovato in prima linea, nelle trincee della Grande guerra, precisamente nel Bosco di Courton, in Francia. Questa brevissima frase altro non fa che descrivere l’esperienza del poeta come soldato dando vita a uno dei componimenti chiave che meglio descrivono il pensiero e la poetica dell’autore.
M’illumino d’immenso, 1918: anche in questo caso il titolo originale della poesia è “Mattino”, anche se rimane maggiormente conosciuta come M’illumino d’immenso. Anch’essa tra le poesie più note dell’autore, in pochi versi Ungaretti riesce a spiegare la sua condizione esistenziale e l’intera corrente letteraria dell’Ermetismo, di cui è capostipite e uno degli autori più emblematici. Analizzando il testo emerge come il poeta altro non voglia fare se non descrivere l’esperienza di un uomo che assiste al sorgere del sole dopo la notte.
I fiumi, 1916: in questa poesia Ungaretti parla di un momento tutto suo sulle rive del fiume Isonzo, mentre si trova in Trincea. Il poeta decide, trasportato dalla notte, di fare un bagno e a contatto col fiume Isonzo ricorda altri tre fiumi che hanno rappresentato diverse fasi della sua vita: il Serchio le origini, il Nilo infanzia e adolescenza, la Senna gli studi e il diventare poeta e l’Isonzo, infine, la guerra e quel momento di pace in guerra.
Non gridate più, 1945: un breve compimento, ideato dopo il bombardamento del Verano durante la Seconda guerra mondiale. Il componimento fa parte della raccolta “Il dolore”, la poesia è un grido di dolore e soprattutto una preghiera a tutti gli uomini. Nelle poche righe del componimento Ungaretti chiede agli uomini di provare un sentimento che troppo spesso si dimentica: la pietà.
Veglia, 1915: la poesia è stata scritta da Ungaretti nel suo periodo passato come soldato nella Prima guerra mondiale, momento che è rimasto impresso in maniera traumatica nella sua memoria. Il poeta avverte vicino a sé la morte, un elemento che gli fa paura e che lo porta a riflettere sulla sua esistenza. Una poesia che rappresenta un vero e proprio inno alla vita, mentre il soldato Ungaretti ha davanti agli occhi la morte di soldati amici e nemici.
Il porto sepolto, 1916: ancora oggi questa poesia è una delle più emblematiche dell’autore, la più rappresentativa del suo modo di scrivere. Il porto del titolo è il simbolo di un viaggio dello scrittore nel suo Io più profondo. Il porto inabissato del componimento diventa un simbolo del viaggio che ciascuno dovrà fare all’interno di se stesso.
Risvegli, 1916: una delle poesie contenute nella raccolta Il porto sepolto, quella che maggiormente si lega alla religione e alla spiritualità. Questo componimento ancora una volta è ispirato dall’esperienza devastante che fu la guerra per lo scrittore, la poesia diventa un inno alla vita e alla bellezza di sentirsi vivi.
Charles Dickens
scrittore britannico, giornalista e reporter di viaggio
7 febbraio 1812 -9 giugno 1870
Charles Dickens è stato uno scrittore britannico ma anche un giornalista e un reporter di viaggio vissuto nel XIX secolo. Le opere famose di Charles Dickens, tra romanzi e racconti, sono davvero tante e si tratta sia di romanzi sociali, come ad esempio “Canto di Natale” o “Oliver Twist”, che di prove umoristiche come Il circolo Pickwick.
Quando si pensa a Charles Dickens viene automatico annoverarlo tra gli autori più famosi della storia della letteratura non solo inglese ma mondiale; capace di creare storie immortali, scrittore abilissimo e comprensibile ai più, il successo di Dickens va ben oltre il suo tempo, rendendo moltissime delle sue opere immancabili in una biblioteca che si rispetti.
Charles Dickens nasce a Portsmouth, Inghilterra, il 7 febbraio 1812. Secondo di otto figli, il padre lavora nell’ufficio della Marina e la madre è figlia di un funzionario statale.
Il nome completo di Dickens è Charles John Huffman Dickens: da bambino trascorre i primi anni della sua vita visitando posti diversi per via del lavoro del padre. Già dalla prima adolescenza la passione per la lettura comincia ad emergere, con preferenza particolare per le opere del teatro elisabettiano e per i romanzi di Smollett, Defoe e Fielding passando per “Mille e una notte” e per “Don Chisciotte” di Cervantes.
Nel 1824, quando Dickens ha solo 12 anni, suo padre viene arrestato per debiti e rinchiuso in prigione dove rimane per qualche mese finché, grazie a una piccola eredità di famiglia, riesce a ripagare il debito. Durante il periodo di assenza del padre, Charles, uno dei fratelli maggiori, deve lavorare come manovale entrando a far parte del grosso scandalo del lavoro minorile tanto diffuso a quei tempi in Inghilterra. Le condizioni di lavoro si rivelano sin da subito tremende: la fabbrica, simile a una baracca sporca, è infestata dai topi e piena di suoi coetanei che incollano etichette su flaconi di lucido per scarpe.
Queste esperienze segnano l’adolescenza di Dickens per sempre, diventando poi d’ispirazione per il mito che sarà con le sue invenzioni letterarie. Charles continua a lavorare anche una volta che il padre esce dal carcere seguendo il suo volere, smettendo solo dopo un anno grazie alla madre.
Nel 1825 Charles è libero di riprendere i suoi studi presso la Wellington Academy di Hampstead Road, che deve però abbandonare dopo due anni perché la famiglia non può permettersi la retta.
Dopo questi due anni Dickens ricomincia a lavorare come fattorino presso uno studio legale diventando poi, passato un anno, cronista parlamentare fino al 1829, quando ottiene l’incarico di giornalista presso la Law Courts dei Doctors. A 19 anni Dickens si innamora per la prima volta di una giovane, figlia di un banchiere, con la quale intraprende una relazione poi interrotta bruscamente a causa delle disparità sociali e della contrarietà della famiglia di lei rispetto al matrimonio. Questa rottura segna il giovane Charles nel profondo.
Nel 1835 Charles incontra Catherine Hogarth, che sposa dopo solo un anno, stringendo un rapporto significativo con le due cognate: Mary, che muore nel 1837 a soli 16 anni, lasciando un vuoto incolmabile in Dickens, colpito da una grave crisi psicologica, e Georgina, 12 anni più giovane della moglie, che entra a far parte gradualmente della famiglia dello scrittore e che non lo lascia nemmeno quando Charles e Catherine ottengono la separazione legale, tollerando anche la successiva relazione di lui con Ellen Ternan.
Le due cognate ispirano poi parecchie opere di Dickens, nelle quali ci sono personaggi in cui i lettori riconoscono le loro caratteristiche.
Nel 1837 nasce il primo di otto figli di Dickens e in quello stesso anno arriva anche il successo per l’autore, che pubblica “Oliver Twist” e “Quaderni di Pickwick” (poi diventato "Circolo Pickwick") a puntate. Entrambi i libri saliranno alla ribalta diventando successi mondiali. Inizia così il periodo più fertile e strabiliante per la creatività di Dickens, che dura quindici anni, durante il quale scrive tutte le sue opere di maggior successo, con “David Copperfield” all’apice.
Passato un po’ di tempo il suo successo supera i confini dell’Inghilterra diffondendosi sia in Europa che in America, tanto da portarlo negli Stati Uniti per un lungo periodo di tempi nel 1842, dove si interessa anche del sistema carcerario. Nel 1844 Dickens arriva anche in Italia, a Genova per la precisione, dove vive con la famiglia fino ad aprile del 1845. Nel ‘46 prosegue il suo viaggio in giro per l’Europa andando in Svizzera e poi in Francia e, anche in questo caso, prestando molta attenzione alle strutture carcerarie: organizzazione e finalità vengono analizzate dimostrando la sensibilità squisita dell’autore rispetto a temi sociali, sviluppata in seguito alle esperienze traumatiche dell’infanzia.
La vita di Dickens viene stravolta nel maggio 1855, quando incontra Ellen Terner: l’amore per lei lo spinge ad abbandonare la moglie e la famiglia pur di iniziare una nuova vita con lei. A poco più di 40 anni Charles Dickens è già famosissimo a livello nazionale, oggetti delle odi delle masse e sempre impegnato in letture pubbliche delle sue opere non solo in Inghilterra ma anche all’estero. Ellen Terner, dal canto suo, lo segue docilmente pur nascondendo un carattere duro e materno che fa da guida a lui nei momenti difficili.
Verso la fine del 1867 Charles parte nuovamente per l’America per portare anche lì le sue letture pubbliche ma si ammala gravemente, riprendendosi a stento. Comincia a scrivere la sua ultima opera (“Il mistero di Edwin Drood”) nel 1869 non riuscendo però a portarla a termine per via delle condizioni fisiche ormai irrecuperabili per via delle complicazioni polmonari protratte. Il colpo di grazia gli arriva da un’emorragia cerebrale, che lo uccide in un solo giorno, il 9 giugno 1870, quando ha soli 58 anni. Viene sepolto con grandi onori presso il Poet’s Corner della cattedrale di Westminster.
I romanzi e le opere di Charles Dickens segnano e segneranno per sempre uno dei momenti più alti del romanzo sociale ottocentesco anche grazie all’influenza giornalistica data dall’esperienza dello scrittore. L’affabulazione si mescola con l’attenzione nei confronti della realtà sociale e delle esigenze del lettore, col quale si genera una comunicazione ad alti livelli in qualsiasi caso. Dalle opere di Charles Dickens si può trarre uno spaccato veritiero di ciò che era la società inglese del suo secolo tramite gli ambienti, i personaggi e le situazioni.
Vediamo ora le opere più celebri di Charles Dickens.
Romanzi di Charles Dickens
Trilogia di Londra, 1836 - edito in Italia nel 2015
Il Circolo Pickwick, 1836-1837
Le avventure di Oliver Twist, 1837-1839
Nicholas Nickleby, 1838-1839
La bottega dell’antiquario, 1840-1841
Barnaby Rudge, 1841
Martin Chuzzlewit, 1843-1844
Dombey e Figlio, 1846-1848
David Copperfield, 1849-1850
Casa Desolata, 1852-1853
Tempi difficili, 1854
La piccola Dorrit, 1855-1857
Racconto di due città, 1859
Grandi speranze, 1860-1861
Il nostro comune amico, 1864-1865
Il mistero di Edwin Drood, 1870 - incompleto
Il naufragio della Golden Mary, 1856
Canto di Natale, 1843
Le campane, 1844
Il grillo del focolare, 1845
La battaglia della vita, 1846
Il patto col fantasma, 1848
Il Natale da adulti, 1851 - 2012 traduzione italiana
Storia di un bambino, 1852 - 2012 traduzione italiana
Storia del parente sfortunato, 1852 - 2012 traduzione italiana
Storia di Nessuno, 1853 - 2012 traduzione italiana
Storia di uno studente, 1853 - 2012 traduzione italiana
Perdersi a Londra, 1853
L’agrifoglio (1855)
Passeggiate notturne, 1860
Mugby Junction, 1866
Guardie e ladri
La casa dei fantasmi
La signora Lirriper, 1885
Ecco di seguito raccolte tutte le frasi celebri di Charles Dickens:
“Quale nobile esempio delle soavi leggi inglesi! Permettono ai poveri persino d’andare a dormire!”
“La comunicazione elettrica non sarà mai un sostituto del viso di qualcuno che con la propria anima incoraggia un’altra persona ad essere coraggiosa e onesta”
“C’è una saggezza della testa, e... una saggezza del cuore”
“Nessuno è inutile in questo mondo se è capace di alleggerire i pesi di un altro uomo”
“Non chiudere mai le tue labbra a coloro ai quali hai aperto il cuore”
“Se la malattia e la tristezza sono contagiose, non c’è niente al mondo così irresistibilmente contagioso come il riso e il buonumore”
“Quando bevi dell’acqua, non dimenticare la sorgente dalla quale scaturisce”
“Non fare domande, e non ti verranno dette bugie”
“Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi”
“Non c’è rimorso tanto profondo quanto quello impotente, e se vogliamo risparmiarci le sue torture, ricordiamocelo in tempo”
“Onorerò il Natale nel mio cuore e cercherò di tenerlo con me tutto l’anno”
“Ci sono corde nel cuore umano [...] che sarebbe meglio non fare vibrare”
“Se non ci fossero persone cattive non ci sarebbero buoni avvocati”
“Qualunque uomo può essere allegro e affabile quando è ben vestito. Non c’è un gran merito in questo”
“Compatisco la sua ignoranza e lo disprezzo”
“L’operosità è l’anima degli affari e la chiave di volta della prosperità”
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti
di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
https://www.sololibri.net/Ulisse-Joyce-analisi-libro-personaggi.html
A partire dagli articoli apparsi sull'inserto culturale settimanale del quotidiano, Elisabetta Bolondi riporta un ricordo personale sull'Ulisse di Joyce.
Pubblicato il 31-01-2022
Questa settimana l’inserto culturale del “Corriere della Sera”, “La Lettura”, dedica le sue prime 10 pagine a un centenario fondamentale per la storia della letteratura del ’900: nel 1922 fu pubblicato l’Ulisse di James Joyce.
Nuccio Ordine firma un pezzo dal titolo La poesia salverà il mondo, Cristina Taglietti informa che in occasione del centenario la libreria parigina Shakespeare&Company (la sua fondatrice Sylvia Beach curò la prima pubblicazione dell’Ulisse) organizza una lettura integrale del libro con 100 voci che si alterneranno, tra loro Margaret Atwood e Jennette Winterson. Emanuele Trevi racconta una vicenda poco nota, i sette mesi che Joyce trascorse a Roma, tra il 1906 e il 1907: non un soggiorno piacevole, non una riga scritta in quei mesi. Però una documentata breve nevicata romana forse dette lo spunto allo scrittore per la conclusione del racconto che conclude la raccolta Gente di Dublino (Dubliners). Si tratta di The Dead (I morti), forse tra le pagine più significative della narrativa novecentesca.
Il centenario di Ulisse tuttavia mi colpisce in modo personale: ebbi il privilegio negli anni ’70 di seguire il corso monografico tenuto dal professor Agostino Lombardo proprio sull’Ulisse. Ora vi è una nuova traduzione del libro di Enrico Terrinoni (Bompiani 2021); allora l’unica traduzione italiana per l’edizione Mondadori, collana La Medusa, era quella di Giulio De Angelis. La difficoltà nella lettura, pur se in traduzione, del capolavoro Joyciano non spaventava gli studenti di allora, che riempivano tutto l’emiciclo dell’aula 1 di lettere alla Sapienza, con blocchi di appunti e matita che correva frenetica sulle pagine del libro per non perdere le preziose chiose del professore, data l’enorme difficoltà di comprensione del testo. Per l’esame finale erano suggeriti libri, come la monumentale biografia di Richard Ellmann (Feltrinelli 1964) molto impegnativa, o più semplicemente un tascabile de il Castoro, Joyce, di Walton Litz (1967).
Dublino, Trieste, Zurigo, Roma. Le città in cui visse il grande scrittore irlandese, un suggerimento di lettura importante, a partire dai racconti più facili da decifrare, ma non dimenticando la conclusione celeberrima dell’Ulisse, il monologo di Molly Bloom, citato anche se non troppo letto o conosciuto:
“ …e allora mi chiese se io volevo si dire di sì al mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno si è me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato si è il suo cuore batteva come impazzito e si dissi si voglio. Si."
https://www.youtube.com/watch?v=2xG_1fjF4io
Giornata della memoria 2022: 10 libri per non dimenticare
https://www.sololibri.net/giornata-memoria-2022-libri-non-dimenticare.html
scrittrice
25 gennaio 1882-28 marzo 1941
Virginia Woolf, nasceva il 25 gennaio 1882 a Londra, una delle personalità più profonde e complesse del secolo scorso.
La vita di Virginia Woolf è stata a dir poco affascinante e a raccontarla sembra quasi di parlare di un personaggio letterario più che di una scrittrice in carne e ossa. Nata Virginia Stephen in una famiglia molto numerosa, padre autore e madre modella, sarà sempre circondata da un vivace clima intellettuale. Con Vanessa, la sorella, instaurerà un legame speciale che durerà tutta la vita. Durante la sua infanzia subisce un tentativo di stupro da parte di un fratellastro e nel 1895 resta orfana di madre. Inizia sin da giovanissima a soffrire di nevrosi e più avanti negli anni svilupperà anche una terribile depressione, ma la sua vocazione letteraria è forte in lei sin dai suoi anni più teneri.
Intorno ai vent’anni collabora con diverse realtà come il Times Litterary Supplement e insegna storia nel Collegio di Morley. Vive inoltre con Vanessa e il fratello Thoby a Bloomsbury, un celebre quartiere di Londra in cui un gruppo di intellettuali si riuniscono per discutere di politica, arte, storia: sarà questo circolo speciale a dominare la vita culturale inglese per circa un trentennio.
Virginia Woolf si interessa spesso alla condizione delle donne e milita nel movimento femminista inglese, battendosi per il suffragio femminile. Gli anni della gioventù furono anni fervidi dal punto di vista della produzione letteraria. Nel 1915 scrive il suo primo romanzo, La crociera.
Nel 1920 pubblicherà Notte e giorno, nel 1925 il celebre La signora Dalloway, romanzo in cui la storia si svolge in una sola giornata.
Nel 1912 sposa Leonard Woolf, teorico politico con cui nel 1917 fonderà la Hogarth Press, una casa editrice di cui si stimano le pubblicazioni ancora oggi.
L’attività letteraria e critica di Virginia Woolf è prolifica e unica nel suo genere, tanto che oggi consideriamo questa autrice una delle principali figure della letteratura del XX secolo grazie anche al suo stile: abbandonò la tecnica di narrazione tradizionale per svilupparne una più moderna. Il monologo interiore e il flusso di coscienza sono al cuore delle sue opere.
Ma la produzione letteraria di Virginia Woolf non consiste solo di romanzi: nel 1929 esce Una stanza tutta per sé, un saggio basato sui suoi discorsi alle conferenze tenute a Newnham e Girton, college femminili dell’Università di Cambridge. In questo testo troviamo un trattato innovativo, brillante, ricco di arguzia ed analisi sociali tutto incentrato sulla figura della donna, e nello specifico, sulla donna scrittrice.
Oltre a Leonard, Virginia Woolf vive forse il suo più grande amore con Vita Sackville-West, poetessa e scrittrice inglese che sarà la protagonista indiscussa del suo romanzo intitolato Orlando.
Tra le altre opere più celebri dell’autrice, che ci ha lasciato anche diari, lettere, saggi e racconti brevi, ci sono anche Le onde e Gita al faro.
Virginia Woolf muore suicida il 28 marzo 1941, ha 59 anni. Si annega nel fiume Ouse, non lontano dalla sua abitazione, lasciando una delle lettere più strazianti, tenere e indimenticabili di sempre al marito e a tutti noi.
La crociera (1915)
La signora Dalloway (1925)
Gita al faro (1927)
Una stanza tutta per sé (1929)
Le onde (1931)
Flush. Biografia di un cane (1933)
Roger Fry (1940)
Tra un atto e l’altro (1940)
Diari di viaggio in Italia e in EuropaIl 25 gennaio 1882 nasceva a Londra Virginia Woolf, la scrittrice inglese che ha rivoluzionato il panorama letterario del Novecento.
Il suo nome di battesimo era Adeline Virginia Stephen, ma di quella Adeline Stephen le generazioni future non avrebbero conservato alcuna memoria, esiste solo Virginia Woolf (cognome che la scrittrice adottò in seguito al matrimonio con lo scrittore ed editore Leonard Woolf, Ndr) divenuta un’icona.
La personalità complessa e sfaccettata di Virginia Woolf, la sua intelligenza fine così meravigliosamente riflessa nelle pagine dei suoi romanzi e saggi, affascinano i lettori di ogni tempo.
Woolf è considerata la madre della letteratura moderna grazie all’invenzione dell’innovativo stream of consciousness, il cosiddetto flusso di coscienza, che trova massima espressione nei suoi capolavori La signora Dalloway (1925) e Gita al faro (1927) in cui i pensieri dei personaggi travalicano le tradizionali barriere di spazio e tempo.
Inoltre, Woolf è oggi considerata un’icona del femminismo contemporaneo grazie all’audacia dei pensieri espressi nel saggio Una stanza tutta per sé (1929), in cui rivendicava il diritto delle donne di essere ammesse a una cultura che fino a quel momento si era rivelata di esclusivo appannaggio maschile. Woolf fu una delle prime scrittrici inglesi a battersi per il suffragio femminile, precorrendo i tempi.
Una delle ultime ragioni che hanno forgiato la leggenda di Virginia Woolf è, infine, la sua tragica morte. Il 28 marzo del 1941, Virgina Woolf si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, nel Sussex, non lontano dalla sua abitazione, Monk’s House. Lasciò al marito Leonard una toccante lettera d’addio che oggi è ritenuta il suo testamento.
Scopriamo 15 curiosità inedite sulla vita della grande scrittrice britannica. Alcune sono aneddoti divertenti, altre paure e manie che hanno caratterizzato l’esistenza di Virginia Woolf alimentando la sua personalità sopra le righe.
1. Virginia Woolf una volta scrisse che la sua morte sarebbe stata: “L’unica esperienza che non potrò mai descrivere”.
2. Lavorò come insegnante part-time in una scuola serale per integrare il suo reddito. Quando insegnava al Morley College, che offriva corsi serali per la classe operaia che cercava di migliorare la propria alfabetizzazione, Woolf chiedeva ai propri studenti di scrivere dei lunghi saggi su loro stessi.
3. In una delle sue ultime estati ebbe un tracollo psichico. In quel periodo affermava che gli uccelli cinguettassero in greco e che il re Edoardo VII dicesse maledizioni nascondendosi in un cespuglio del suo giardino.
4. Virginia Woolf era una cliente difficile, spesso litigava con i negozianti criticando i prodotti che costoro avevano in vendita. In queste circostanze non perdeva occasione di elencare quali prodotti lei riteneva dovessero invece avere in vendita.
5. Dopo il matrimonio, Woolf pensò che avrebbe dovuto imparare alcune abilità domestiche, così si iscrisse a una scuola di cucina. L’esperienza non andò affatto a buon fine. Anziché preparare deliziosi manicaretti, la scrittrice finì per cuocere accidentalmente la fede all’interno di un pasticcio di carne.
6. Prima ancora che la piccola Virginia compisse sette anni, la madre Julia le insegnò latino, francese e storia.
7. Tentò di suicidarsi per la prima volta all’età di ventidue anni, saltando da una finestra. La finestra da cui saltò, tuttavia, non era abbastanza alta e lei rimase illesa.
8. Quando Virginia Woolf chiese a T.S. Eliot durante una cena di gala di definire la sua fede in Dio, il poeta si avvalse della facoltà di non rispondere.
9. Quando Virginia Woolf, per conto della sua casa editrice la Hogarth Press, ricevette il manoscritto di James Joyce contenente i primi capitoli dell’Ulisse, ne rifiutò la pubblicazione. La scrittrice si riferiva ai lettori di Joyce definendoli “quelle persone”, appartenenti a “un mondo sotterraneo” e interessati più alla fama che al talento.
10. La prima pubblicazione ufficiale di Virginia Woolf fu un saggio sulle sorelle Brontë, intitolato Haworth, novembre 1904. Il pezzo apparve sul The Guardian il 21 dicembre 1904. Virginia, che venerava le sorelle Brontë come idoli letterari, scrisse il pezzo dopo un pellegrinaggio presso la loro casa di famiglia.
11. Virginia e suo marito Leonard avevano una relazione aperta, che includeva il permesso di frequentare altre persone. Nel 1922 Virginia incontrò la scrittrice e poetessa Vita Sackville-West con la quale ebbe un’intensa relazione documentata da diverse lettere passionali.
12. A Vita Sackwille West Virginia Woolf dedicò il suo romanzo Orlando (1928), trasfigurazione letteraria del loro amore.
13. Woolf scrisse a lungo stando in piedi davanti a un tavolo alto nove metri. Sosteneva che la scrittura non fosse un’attività molto diversa dalla pittura e che questo espediente le consentisse di avere una visuale migliore e generale dell’opera.
14. Una delle cose che odiava di più al mondo era essere osservata e, soprattutto, fotografata.
15. Per un certo periodo Virginia Woolf considerò l’idea di sposare l’amico e collega del circolo Bloomsbury, Lytton Strachey. Quest’ultimo era omosessuale e lei lo considerava come un fratello. Credeva che la loro unione sarebbe stata perfetta e avrebbe evitato le complicazioni comuni alla maggior parte dei matrimoni.
Eravate a conoscenza delle curiosità e le manie di Virginia Woolf? Quale vi ha sorpreso di più? Vi aspettiamo nei commenti.
25 giugno 1903 - 21 gennaio 1950
George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, si spegneva in un ospedale di Londra il 21 gennaio 1950, a causa della tubercolosi, all’età di soli 46 anni.
Orwell era stato uno degli autori più rivoluzionari del suo tempo, impegnato in una scrittura lucida e allegorica in grado di smascherare la sopraffazione dei regimi totalitari e ogni forma d’ingiustizia sociale.1948 (il titolo è infatti l’inversione delle cifre dell’anno di pubblicazione, Ndr), in cui descrive un mondo distopico dominato da una fantapolitica totalitaria. Da quest’opera deriva anche il noto aggettivo “orwelliano”, che richiama quel clima di autoritarismo e oppressione che caratterizza la società descritta da Orwell.
Nel corso della sua vita George Orwell scrisse anche numerosi saggi di stampo politico e sociologico, affiancando all’attività di scrittore quella di giornalista impegnato sul campo. Nel saggio Perché scrivo, un autentico manifesto di scrittura, l’autore dichiarò che ogni riga da lui scritta intendeva essere un attacco al totalitarismo.
Ma ora scopriamo 15 curiosità sulla vita di George Orwell
Di George Orwell si elogia spesso il capolavoro 1984, ormai ritenuto uno dei classici della letteratura mondiale, e la sua attività di scrittore. Tuttavia ci sono molti altri aspetti della vita di Orwell da non sottovalutare, che possono rivelarsi persino più interessanti dei suoi romanzi.
Ecco 15 curiosità
1. Il piccolo Orwell odiava la scuola
Eric Blair, questo il nome originario dell’autore, trascorse cinque anni alla St. Cyprian School a Eastbourne, Inghilterra. In seguito parlò dell’esperienza nel saggio Such Were the Joys. Nello scritto definiva gli insegnanti della scuola “mostri terribili e onnipotenti” ed etichettò l’istituzione stessa come “una scuola costosa e snob che era in procinto di diventare più snob e, immagino, più costosa”. All’epoca il saggio fu ritenuto troppo diffamatorio per essere stampato. Fu pubblicato nel 1968, dopo la morte dello scrittore.
2. Fu espulso più volte
Il giovane Orwell fu espulso dal college per aver inviato un messaggio di compleanno attaccato a un topo morto al geometra della città, secondo quanto riporta il suo biografo Sir Bernard Crick in George Orwell, A Life, la prima biografia completa di Orwell. E mentre studiava all’Eton College, Orwell inventò una canzone diffamatoria su John Crace, il direttore della scuola, in cui si prendeva gioco dell’aspetto di Crace e della sua passione per l’arte italiana. Insomma, il piccolo Orwell era davvero un ragazzino pestifero.
3. Fece svariati lavori saltuari
Tutti devono pagare le bollette, e nemmeno George Orwell faceva eccezione. Orwell si è a lungo destreggiato tra vari lavori part-time mentre scriveva libri nel tempo libero. Nel corso degli anni, ha lavorato come ufficiale di polizia per la polizia imperiale indiana in Birmania, come insegnante di scuola superiore, come commesso di libreria. In seguito è stato reporter per la BBC durante la Seconda guerra mondiale. Prima del successo come scrittore Orwell ha lavorato come lavapiatti a Parigi e come raccoglitore di luppolo nel Kent, in Inghilterra.
Questi lavori erano a scopo di ricerca mentre sperimentava la vita di un vagabondo e scriveva il suo primo libro basato sul suo personale esperimento sociologico, dal titolo Senza un soldo a Parigi e a Londra. Scelse di pubblicare il libro con uno pseudonimo, George Orwell, che segnò l’inizio della sua fortuna.
4. Fu arrestato
Nel 1931, mentre sperimentava la povertà per scrivere il suo primo libro, Orwell si fece intenzionalmente arrestare. Voleva avere un assaggio della prigione e avvicinarsi ai barboni e ai piccoli furfanti, spiega il suo biografo. All’epoca, Orwell aveva usato lo pseudonimo di Edward Burton e si era spacciato per un povero pescivendolo. Dopo aver bevuto diverse pinte e quasi un’intera bottiglia di whisky e aver dato in escandescenza Orwell fu arrestato. Tuttavia non fu mandato in prigione come aveva sperato, e fu rilasciato dopo aver trascorso 48 ore in custodia. In seguito Orwell scrisse di questa esperienza in un saggio inedito intitolato Clink.
5. Aveva molti tatuaggi
Quando lavorava come militare in Birmania, Orwell si fece tatuare le nocche. Adrian Fierz, che conosceva Orwell, riferì al biografo Gordon Bowker che i tatuaggi erano piccole macchie blu, “a forma di piccoli pompelmi”, e Orwell ne aveva uno su ogni nocca. Lo scrittore fece i tatuaggi per una forma di superstizione. Alcune tribù birmane credevano che i tatuaggi li avrebbero protetti dai proiettili.
6. Parlava sette lingue straniere
In un saggio del 1944 Orwell dichiarò: “Nella mia vita ho imparato sette lingue straniere, comprese due lingue morte, e di queste sette ne conservo solo una, e non in modo brillante”. Nella sua giovinezza infatti Orwell imparò il francese da Aldous Huxley, che fu professore nel suo collegio. Orwell era fluente in francese, e in diversi momenti della sua vita, ha studiato latino, greco, spagnolo e birmano.
7. Combatté nella Guerra civile spagnola
Come il collega Ernest Hemingway e altri scrittori, Orwell rimase invischiato nella Guerra civile spagnola.
All’età di 33 anni infatti Orwell arrivò in Spagna, poco dopo lo scoppio dei combattimenti del 1936, sperando di poter scrivere alcuni articoli di giornale come inviati. Invece finì per unirsi alla milizia repubblicana per combattere il fascismo perché “sembrava l’unica cosa concepibile da fare”. L’anno seguente, fu colpito al collo da un cecchino, ma sopravvisse. Scrisse dell’esperienza nel saggio Omaggio alla Catalogna.
8. Rischiò di perdere il manoscritto de La fattoria degli animali
Nel 1944, la casa di Orwell al 10 Mortimer Crescent a Londra fu colpita dai bombardamenti. Orwell, sua moglie Eileen e il loro figlio Richard Horatio si salvarono, ma la loro casa fu distrutta. Lo scrittore tornò tra le macerie alla ricerca dei suoi libri e delle sue carte, soprattutto del manoscritto diAnimal Farm. Trascorse ore a frugare tra le macerie finché non ritrovò tutte le pagine del manoscritto.
9. Aveva una capra di nome Muriel
George Orwell e sua moglie Eileen si occupavano di diversi animali da fattoria nella loro casa di Wallington, in Inghilterra. Tra gli animali vi era anche la capra Muriel. Orwell diede lo stesso nome alla capra protagonista del libro La fattoria degli animali, descritta come uno dei pochi animali intelligenti nella fattoria.
10. Fu il primo a usare il termine Guerra Fredda
Il primo uso registrato della frase guerra fredda in riferimento alle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica può essere fatto risalire al saggio di Orwell del 1945 Tu e la bomba atomica, che fu scritto due mesi dopo che le bombe atomiche furono sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Nel saggio George Orwell infatti descriveva "uno stato che era allo stesso tempo inespugnabile e in uno stato permanente di guerra fredda con i suoi vicini.
11. Fece propaganda anti-comunista
Orwell si identificava come un socialista democratico, ma la sua simpatia non si estendeva ai comunisti. Nel 1949 compilò una lista di artisti che sospettava avessero tendenze comuniste e la passò alla sua amica Celia Paget, che lavorava per l’Information Research Department del Regno Unito. La lista di Orwell includeva Charlie Chaplin e alcune decine di altri celebri attori, scrittori, accademici e politici.
12. Odiava le riviste di moda femminili
Per circa un anno e mezzo, Orwell tenne una rubrica quotidiana intitolata As I Please per il giornale Tribune, in cui condivise i suoi pensieri su tutto, dalla guerra alla verità oggettiva alla critica letteraria. Una di queste rubriche del 1946 conteneva una brutale critica alle riviste di moda americane. Delle modelle che apparivano sulle quelle pagine, scrisse: “I fianchi stretti sono generali, e le mani snelle e non prensili come quelle di una lucertola sono abbastanza universali”.
13. Suo padre non voleva che scrivesse
Spinto a diventare un membro della polizia imperiale birmana dal padre, in gioventù Orwell venne spedito a Burma e ritornò in Inghilterra dopo aver contratto una malattia infettiva. A quel punto decise che si sarebbe dedicato esclusivamente alla scrittura.
14. L’origine del suo pseudonimo
Nato con il nome di Eric Arthur Blair, lo scrittore coniò il suo pseudonimo unendo il nome St. George (santo patrono dell’Inghilterra, Ndr) e il fiume Orwell che si trova nella contea del Suffolk in Inghilterra.
15. Rischiò di annegare
Un giorno del 1947, mentre si prendeva una pausa dalla scrittura di 1984, George Orwell portò suo figlio e i nipotini a fare una gita in barca attraverso il Golfo di Corryvreckan nella Scozia occidentale. Ma il loro gommone si rovesciò gettandoli tutti in mare. Fortunatamente, tutti e quattro sopravvissero, e il libro che in seguito fu intitolato Nineteen Eighty-Four (originariamente il titolo era The Last Man in Europe) fu finalmente pubblicato nel 1949, solo sette mesi prima della morte di Orwell per tubercolosi.
19 gennaio 1921
scrittrice americana
Nasceva oggi centouno anni fa, il 19 gennaio 1921, la scrittrice americana Patricia Highsmith. Regina del noir, abile animatrice della suspense, Highsmith sembra incarnare le contraddizioni dei propri ambigui personaggi.
Patricia Highsmith nasceva in Texas centouno anni fa, il 19 gennaio 1921.
Raramente la vita di un autore è degna dei suoi romanzi, ma nel caso di Highsmith la biografia supera l’opera romanzesca o, meglio, la completa, perché quella di Mary Patricia Plangman, in arte Patricia Highsmith, fu a tutti gli effetti l’esistenza di una scrittrice. Solitaria, schiva, meditativa, Highsmith condivideva tutto con i suoi personaggi: pensieri, vicissitudini e persino le nevrosi.I SU AMAZON
Nei suoi diari, pubblicati postumi nel 2021 in occasione del centenario della sua morte, con il titolo Patricia Highsmith: Her Diaries and Notebooks, 1941-1995 la scrittrice tiene traccia della propria quotidianità tormentata. I diari sono il frutto di oltre ottomila pagine di appunti e note sparse, raccolte in oltre cinquantasei quaderni, dal 1941 fino all’anno della sua morte.
Nelle sue tracce di scrittura, Highsmith parla molto delle proprie relazioni scandalose con altre donne, dei suoi viaggi per l’Europa, del suo amore per la città e la vita notturna. Una moderna Ernest Hemingway, Patricia dichiara senza indugio che è bene bere la mattina prima di mettersi a scrivere perché: “Serve per smorzare le troppe energie”.
Già da questi pochi frammenti emerge un personaggio singolare, che visse sempre secondo le sue regole. Ma scopriamo più approfonditamente vita e opere di Patricia Highsmith.
Mary Patricia Plangman nacque il 19 gennaio 1921, a Forth Worth, in Texas. Era l’unica figlia dell’artista di origine tedesca Jay Bernard Plangman (1889-1975) e Mary Coates. La coppia divorziò dieci giorni prima della sua nascita.
Nel 1927, Patricia, sua madre e il suo patrigno adottivo, l’artista Stanley Highsmith, che sua madre aveva sposato nel 1924, si trasferirono a New York. A soli dodici anni, la piccola Patricia fu mandata dalla madre a Fort Worth, sua città natale, dove visse con la nonna materna per un anno.
In seguito la scrittrice definì quel periodo come “l’anno più triste della mia vita” e raccontò di essersi sentita abbandonata dalla madre. Tuttavia fu proprio la nonna a insegnarle a leggere e a iniziarla al piacere della lettura grazie ai testi della sua ampia biblioteca. Highsmith mostrò una spiccata predisposizione per la scrittura già in tenera età, iniziando a scrivere racconti in cui sprigionava la sua straordinaria carica immaginativa.
In seguito tornò a New York con la madre e il patrigno: la famiglia visse principalmente a Manhattan, ma anche ad Astoria, nel Queens.
Nel 1942, Patricia Highsmith si laureò in Letteratura al Barnard College. Dopo la laurea fece domanda per un lavoro come redattrice presso Harper’s Bazaar, Vogue, Mademoiselle, Time, Fortune e The New Yorker, ma non venne mai accettata. Si adattò dunque ai lavori più disparati, facendo anche la commessa da Bloomingdale’s in un reparto giocattoli durante le festività natalizie.
Nel 1948 grazie a una raccomandazione dell’amico Truman Capote, Highsmith fu accettata nell’esclusivo ritiro per scrittori di Yaddo durante l’estate. Così poté dedicarsi completamente alla scrittura del suo primo romanzo, Strangers on a Train (Sconosciuti in treno nell’edizione italiana, Ndr), che le assicurò un discreto successo inaugurando la sua carriera di autrice noir. Il libro fu pubblicato nel 1950 e pochi anni dopo l’acclamato regista Alfred Hitchcock ne trasse un film.
In seguito Highsmith scrisse il suo secondo romanzo The Price of Salt (oggi meglio noto con il titolo di Carol, da cui è stato tratto il celebre film di Todd Haynes del 2015, Ndr) sotto lo pseudonimo di Claire Morgan. La Highsmith firmò il libro con il proprio vero nome solo quarant’anni dopo la pubblicazione, oggi è ritenuto il suo capolavoro.
Seguirono Acque profonde (1957), Gioco per la vita (1958) e una serie di thriller psicologici di successo tra i quali ricordiamo L’alibi di cristallo (1965), Senza pietà (1965), La spiaggia del dubbio (1969). la raccolta di racconti Schegge di vetro (1979).
Nel 1955 iniziò a scrivere il ciclo di romanzi dedicati al personaggio di Tom Ripley, affascinante truffatore e assassino, da cui sono state tratte le pellicole omonime Il talento di Mr Ripley (1999) e Il gioco di Ripley (2002).
Nonostante il successo crescente dei suoi romanzi (ne scrisse oltre una ventina, Ndr) la vita di Patricia Highsmith era continuamente attraversata da cicli di depressione. Soffrì di anoressia nervosa, di anemia e il suo alcolismo cronico si aggravò con il passare degli anni.
In un appunto del suo diario, datato gennaio 1970, scriveva:
Ora sono cinica, abbastanza ricca... sola, depressa e totalmente pessimista.
Patricia Highsmith iniziò a condurre una vita sempre più ritirata e solitaria. Soffriva di un male di vivere inspiegabile. A un certo punto decise di ritirarsi a vivere in Svizzera, nel paese ticinese di Aurigeno, una località sperduta, fuori dal mondo.
In Svizzera, Highsmith trascorse il resto della sua vita, in solitaria, circondata dai suoi amati gatti.
In un’intervista rilasciata nel 1991 dichiarò di preferire la compagnia degli animali a quella delle persone, e aggiunse:
Scelgo di vivere da sola perché la mia immaginazione funziona meglio quando non devo parlare con le persone.
Con la sua patria adottiva, la Svizzera, sviluppò un rapporto di profondo amore, tanto che sono svariate le commemorazioni in suo onore tenute in terra elvetica, l’ultima una rassegna cinematografica al Film Festival di Locarno a lei dedicata. Sempre nella città di Locarno l’anno scorso si sono tenute le riprese di un documentario dedicato alla memoria della scrittrice.
Negli ultimi anni sollecitata dal quotidiano francese Le Monde scrisse una breve storia ambientata in Ticino, dal titolo A long way form hell, una storia che parla del Ticino rurale, inspiegabilmente a lieto fine.
Quell’ultimo racconto segna uno stacco dalla produzione letteraria precedente, più cupa e pessimista. Forse finalmente Patricia Highsmith si era riconciliata con la vita, aveva messo a tacere i propri demoni.
Si ritirò in una casa in campagna a Tegna, nelle Terre di Pedemonte, una residenza da lei stessa progettata nei minimi dettagli. Qui trascorrerà gli ultimi anni della sua vita, sino alla morte avvenuta il 4 febbraio 1995, in compagnia di “due gatti siamesi malaticci”.
Morta il 4 febbraio 1995, oggi Patricia Highsmith riposa nel cimitero di Tegna, circondata dai suoni idilliaci della natura.
In un appunto del suo diario aveva consegnato ai posteri un commovente autoritratto, che ora sembra svincolarla da quel personaggio burbero e ostile che il mondo letterario le ha cucito addosso:
“Chi sono io? Solo un riflesso negli occhi di chi mi ama”.
I suoi romanzi in Italia sono stati pubblicati da Bompiani, e in seguito riediti dalla casa editrice milanese La nave di Teseo che sta pubblicando l’opera omnia della Highsmith in occasione del centenario della nascita della scrittrice. L’ultima pubblicazione è Donne (La Nave di Teseo, 2021), un’antologia di racconti inediti in cui si respirano le atmosfere impalpabili, in bilico tra suspense e non detto, create magistralmente dall’autrice.
Scrittore prolifico, esordì prima come poeta per poi affermarsi come romanziere. Le sue opere sono segnate da uno spiccato autobiografismo e da una forte connotazione psicologica e sociale.
Mario Tobino nasce a Viareggio. Dopo il ginnasio, per tenere a freno una certa esuberanza e sopravvenuta insofferenza agli studi i genitori lo spediscono per un anno in collegio, a Collesalvetti. Ritornato a casa, inizia gli studi liceali a Massa, tuttavia ottiene la maturità da privatista a Pisa. Il ragazzo mostra fino dal liceo un grande interesse per autori quali Machiavelli e Dante, il che può essere interpretato come segno premonitore della sua sensibilità e attitudine allo scrivere.
Il giovane, dal carattere volitivo e insofferente, dimostra una certa propensione agli studi umanistici. Tuttavia, la sua encomiabile aspirazione di aiutare il prossimo malato lo porta ad iscriversi alla facoltà di medicina all'Università di Pisa, studi che proseguono e si concludono con la laurea in medicina nel 1936 all'Università di Bologna. Contemporaneamente al periodo universitario, svolge un'attività letteraria sia pur limitata per il poco tempo a disposizione, pubblicando alcuni scritti su riviste aperte ai contributi dei giovani letterati; nel 1934, con il riscontro positivo della critica, pubblica Poesie, la sua prima raccolta di versi.
Tobino dopo la laurea viene chiamato ad assolvere il servizio militare in un primo tempo a Firenze poi come ufficiale medico nel Quinto Alpini a Merano. Tornato a casa a Bologna si specializza in neurologia, psichiatria e medicina legale, e incomincia a lavorare all'ospedale psichiatrico di Ancona. Durante la sua permanenza in questo luogo di sofferenza e di disagio compone una serie di poesie, pubblicate nel 1939 col titolo Amicizia.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale viene richiamato e inviato sul fronte libico dove rimane fino al 1942: questa esperienza è raccontata nel romanzo Il deserto della Libia (1952) da cui sono stati tratti due film, Scemo di guerra (1985) di Dino Risi e Le rose del deserto (2006) di Mario Monicelli.
Ritornato in Italia, pubblica la raccolta di poesie Veleno e Amore, il romanzo Il figlio del farmacista e i racconti riuniti sotto il titolo La gelosia del marinaio, e riprende a lavorare in ospedali psichiatrici, prima per alcuni mesi a Firenze, in seguito definitivamente a Maggiano (modificato in "Magliano" nei due romanzi/pamphlet dedicati a questa esperienza) in provincia di Lucca.
Nel 1943 partecipa attivamente alla Resistenza contro i nazifascisti in Toscana, e dalle vicende di lotta partigiana e fratricida prende spunto per scrivere il romanzo Il clandestino.
Nel dopoguerra Tobino si dedica con tutte le sue forze morali e spirituali alle sofferenze dei malati di mente, e contemporaneamente prosegue la sua attività di scrittore, raggiungendo una notorietà sempre più vasta e riconoscimenti numerosi.
Muore ad Agrigento l'11 dicembre 1991.
Contrario alla chiusura dei manicomi realizzata in seguito alla Legge Basaglia (1978), Tobino «diceva che la sua vita era lì, che i pazzi erano i suoi simili» e che «La cupa malinconia, l’architettura della paranoia, le catene delle ossessioni esistono anche se si chiude il manicomio».[1]
Mario Tobino (a destra) durante una premiazione con Giorgio Mondadori
Poesie, Bergamo, Cronache, 1934
Amicizia, in Meridiano di Roma. L'Italia letteraria, artistica, scientifica, a. XI, n. 49, 5 dicembre 1937
Veleno e amore, Firenze, Edizioni di rivoluzione, 1942
L'asso di picche, Firenze, Vallecchi, 1955
Il figlio del farmacista, in Il Selvaggio, n. 2, 15 febbraio 1938, poi Milano, Corrente, 1942
La gelosia del marinaio, Roma, Tumminelli, 1942
Bandiera nera, Roma, Istituto grafico tiberino, 1950
L'angelo del Liponard, Firenze, Vallecchi, 1951; Milano, Mondadori, 1963
Il deserto della Libia, Torino, Einaudi, 1951
Le libere donne di Magliano, Firenze, Vallecchi, 1953
Due italiani a Parigi, Firenze, Vallecchi, 1954
La brace dei Biassoli, Torino, Einaudi, 1956
Passione per l'Italia, Torino, Einaudi, 1958
Il clandestino, Milano, A. Mondadori, 1962
Sulla spiaggia e di là dal molo, Milano, A. Mondadori, 1966,
Una giornata con Dufenne, Milano, Bompiani, 1968
Per le antiche scale. Una storia, Milano, A. Mondadori, 1972
Biondo era e bello, Milano, A. Mondadori, 1974
La bella degli specchi, Milano, A. Mondadori, 1976
Eolina la fata dei mozzi, Teramo, Lisciani & Zampetti, 1978
Il perduto amore, Milano, A. Mondadori, 1979
Gli ultimi giorni di Magliano, Milano, A. Mondadori, 1982
La ladra, Milano, A. Mondadori, 1984
Zita dei fiori, Milano, A. Mondadori, 1986
Tre amici, Milano, A. Mondadori, 1988. ISBN 88-04-31053-7
Il manicomio di Pechino, Milano, A. Mondadori, 1990. ISBN 88-04-33540-8
Una vacanza romana, Milano, A. Mondadori, 1992. ISBN 88-04-35670-7
La verità viene a galla. Commedia in due tempi, Milano, A. Mondadori, 1987. ISBN 88-04-30043-4.
Ascolta ragazzo: la droga mai, Lucca, Pacini Fazzi, 1978.
Pisa. La Piazza dei Miracoli, Novara, De Agostini, 1982.
Il carnevale di Viareggio, con Renzo Pellegrini e Carlo Alberto Di Grazia, Milano, A. Mondadori, 1988. ISBN 88-04-31874-0.
1962: Premio Strega con Il clandestino,[2]
1966: Premio Selezione Campiello con Sulla spiaggia e di là dal molo,[3]
1972: Premio Campiello con Per le antiche scale,[3]
1976: Premio Viareggio con La bella degli specchi,[4]
1990: Premio Elba con Il manicomio di Pechino.
Per le antiche scale, regia di Mauro Bolognini (1975)
Sulla spiaggia e di là dal molo, regia di Giovanni Fago (1999)
Scemo di guerra, regia di Dino Risi (1985)
La brace dei Biassoli, regia di Giovanni Fago (1981)
Le rose del deserto, regia di Mario Monicelli (2006)
L'ammiraglio, regia di Anton Giulio Majano (1965)
Giornalista e scrittrice
È morta il 12 gennaio all’ospedale di Venezia la giornalista e scrittrice veneziana Luciana Crovato Boccardi, decana delle giornaliste della moda italiana, studiosa di moda e di costume, per decenni l’inviata speciale, nonché la firma di riferimento de “Il Gazzettino”. Nata a Venezia il 2 ottobre 1932 in una famiglia di musicisti, era vicina ai 90 anni, ma le sue condizioni si sono aggravate improvvisamente. Il marito, Virgilio Boccardi, caporedattore alla Rai, era scomparso tre anni fa. Lascia il figlio Emiliano.VEDI SU AMAZON
La notizia della scomparsa della giornalista e scrittrice è stata annunciata dalla casa editrice Fazi, per la quale nel 2021 aveva pubblicato il suo romanzo d’esordio La signorina Crovato, racconto di formazione e storia della sua infanzia, sospesa tra finzione e realtà, e in seguito, sempre nel 2021 Dentro la vita che racconta gli anni della maturità, sempre con una prosa brillante e realista, mai malinconica:
“Ieri se n’è andata una donna forte, coraggiosa, unica, che qualche anno fa decise di affidarci la storia della sua vita, una vita speciale, come tutte le vite, ma che lei aveva saputo raccontare col suo piglio deciso, uno stile incalzante capace di trasmettere energia e una voce perfettamente sincera. Lavorare con lei è stato esaltante, a volte faticoso, sempre istruttivo. Era una gran professionista in tutto: attenta ai particolari, gran lavoratrice, metteva il cuore in ogni cosa. Lei non correggeva i testi, scriveva tutto di filato e poi casomai riscriveva. Starle dietro è stato difficile ma anche molto divertente.
Ci mancherai Luciana, per sempre ex signorina Crovato”.
Una vita resiliente quella della signorina Crovato, coniugata Boccardi, nata dall’unione tra Raoul Masin Crovato, clarinettista zingaro “bolscevico” ateo convinto, segnato da una menomazione fisica, e Marcella Salvadori, una delle donne più belle di Venezia.
“Mai paura di niente” era il motto del padre di Luciana, che la figlia avrebbe fatto suo e che traspare nitido dalle pagine dove l’autrice rievocava il proprio vissuto, la sua non facile infanzia e adolescenza, illuminata da personaggi indimenticabili, che si muovono sullo sfondo di una delle città più belle del mondo: Venezia.
In “Dentro la vita”, dedicato al marito Virgilio Boccardi, la scrittrice ricordava il suo lavoro alla Biennale, organizzando i più importanti festival di musica e di teatro proseguendo la storia appassionante della propria esistenza, fatta di dolore, gioia e di tanta determinazione. Sarebbe stato sicuramente interessante e piacevole leggere il terzo volume della sua vita piena di ricordi.
“Un mese prima avevo compiuto cinquantotto anni: cominciava il terzo tempo della mia vita. Alzai lo scialle, sfiorata da un vento leggero. Non immaginavo che quel venerdì 5 novembre avrebbe cambiato la mia vita…”.
Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha ricordato con queste parole la figura della “Leonessa di Venezia”:
“Oggi il Veneto, assieme a tutto il mondo della moda e del giornalismo, piange una straordinaria donna e giornalista, partita da una Venezia popolare, sanguigna, culla della musica e di quel fervore culturale tipico del dopoguerra, ha saputo arrivare alle vette del prêt-à-porter parigino, passando per la Biennale. Una donna che ha conosciuto la povertà dopo una tragedia familiare devastante, ma che grazie alla propria intraprendenza, genio e resilienza, è riuscita ad affermarsi diventando la giornalista di riferimento della moda in Europa. La sua vita insegna che se hai voglia di riuscire devi sudare, ma ce la puoi fare. Luciana Boccardi si è spenta così, nella sua amata Laguna, lasciando un vuoto in tutti gli ambienti in cui si è distinta, dalla Biennale al giornalismo”.
Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990
Poeta, critico letterario, traduttore, scrittore e insegnante italiano.
«Tonica, terza, quinta,
settima diminuita.
Resta dunque irrisolto
l'accordo della mia vita?»
(G. Caproni, Cadenza, 1972)
Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio del 1912 dai genitori Attilio Caproni e la madre Anna Picchi.[1] È probabile che la famiglia Caproni abbia ascendenze germaniche e che un lontano parente, Bartolomeo Caproni, lo zi' Meo, fosse un “contadino e consulente linguistico” del Pascoli. Il padre di Giorgio, Attilio, figlio di un sarto che aveva fatto il garibaldino, era nato a Livorno e lavorava come ragioniere nella ditta dei Colombo, importatori di caffè: era un appassionato di musica «amava la Scienza con la S maiuscola. Il suo Dio, era la Ragione, sempre con la R maiuscola. In materia di religione il suo atteggiamento era quello di un'assoluta indifferenza. La madre, Anna Picchi, figlia di Gaetano Picchi, guardia doganale ed “ebanista” a tempo perso, e di Fosca Bettini, frequentò da ragazza il Magazzino Cigni, una delle case di moda allora in auge a Livorno […]. Fu donna d'ingegno fino e di fantasia, sarta e ricamatrice abilissima, suonatrice di chitarra, ecc. Amava molto frequentare i circoli e ballare.».”[2].
Gli anni tra il 1915 e il 1921 sono “anni di lacrime e miseria nera”: “dopo il richiamo alle armi di mio padre […] capitombolammo in via Palestro, in coabitazione con la bellissima Italia Bagni nata Caproni e suo marito Pilade, massone e bestemmiatore di professione nonché barbiere dirimpetto allo Sbolci, arcifamoso fra gli scaricatori per i suoi fulminanti ponci al rhum”[3]. Caproni impara a leggere da solo, a quattro anni, sulle pagine del Corriere dei Piccoli, frequenta l'Istituto del Sacro Cuore “dove feci la prima e la seconda elementare tra i mi rallegro di Suor Michelina, lei minacciandomi ogni volta di levarmi il distintivo di guardia d'onore”; “le suore mi riempivano di santini. Erano molto affettuose. Ma il buon Dio che cercavano di farmi amare passava su di me come l'acque su una pietra dura”. Frequenta la terza elementare alle comunali Gigante “dove il maestro Melosi, sadicamente, si divertiva a farmi piangere sul De Amicis”[4]. Al termine della prima guerra mondiale la famiglia si trasferisce nella casa più grande di via de' Larderel. Proprio in questo periodo incominciano le scorrerie squadriste, particolarmente violente a Livorno, ed a queste Caproni si riferisce quando scrive “anni duri in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per la strada”[4]. Rievoca poi con nostalgia le passeggiate domenicali con il padre “Erano i tempi in cui mio padre Attilio, ragioniere, mi portava con mio fratello Pier Francesco agli Archi in aperta campagna, o – se d'estate – ai Trotta o ai famosi bagni Pancaldi, quando addirittura, un po' in treno e un po' in carrozza, non ci spingevamo fino a San Biagio nella tenuta di Cecco, allevatore e domatore di cavalli, bravissimo in groppa ai più focosi”[4]. Col padre si reca al Teatro degli Avvalorati dove vede Mascagni dirigere la Cavalleria rusticana. È affascinato dai treni e sogna di fare il macchinista “con mio fratello trascorrevo ore, nei nostri liberi pomeriggi livornesi, sul cavalcavia nei pressi dell'acqua della Salute, gli occhi incantati sul rettifilo del binario dove, fra poco, o come per prodigio, sarebbe apparso il direttissimo delle 16 e 17 o il rapido (l'espresso, si diceva, allora) tutto vagoni-letto delle 19, che fascinosamente veniva chiamato Valigia delle Indie"[5]. A testimonianza di questa passione, un trenino elettrico Rivarossi resterà per sempre in bella vista nel suo studio e con i suoi allievi, a scuola, userà i trenini per istruirli giocando. Precoci le prime letture “a Livorno, quando ancora facevo la seconda elementare, scoprii fra i libri di mio padre un'antologia dei cosiddetti Poeti delle origini (i Siciliani, i Toscani). Chissà perché mi misi a leggerli con gusto, insieme con il Corriere dei piccoli.”. Risale a questi anni anche il primo incontro con la Commedia dantesca che il padre comprava a dispense in “edicola, nella edizione Nerbini di Firenze con le splendide illustrazioni di Doré”. È probabile che già a Livorno, Caproni abbia preso quello che chiama “il baco della letteratura”[6] e abbia scritto il primo tentativo di racconto (“un racconto sul diavolo”, intitolato Leggenda montanina, ancora conservato fra le sue carte). Del suo carattere malinconico già mostratosi durante l'infanzia “ero un ragazzaccio, sempre in mezzo alle sassaiole, quando non me ne restavo incantato o imbambolato. Non ero molto allegro: tutto mi metteva veleno in partenza: mi noleggiavo per un'ora la barca o la bicicletta, e già vedevo quell'ora finita. Ne soffrivo in anticipo la fine”[7][8][9].
A proposito di Livorno scriverà: “esisterà sempre, finché esisto io, questa città, malata di spazio nella mia mente, col suo sapore di gelati nell'odor di pesce del Mercato Centrale lungo i Fossi e con l'illimitato asfalto del Voltone (un'ellisse contornata di panchine bianche e in mezzo due monumenti alle cui grate di ferro sul catrame io potevo vedere, sotto il piazzale immenso schiacciando ad esse il viso fino a sentire il sapore invernale del metallo l'acqua lucidamente nera transitata dai becolini pieni di seme di lino”)[10].
1922-1929
Dopo la nascita della terza figlia, Marcella, nel marzo del 1922 i Caproni, dopo una breve sosta a La Spezia, si trasferiscono a Genova, dove il padre, rimasto senza lavoro in seguito al fallimento della sua ditta, era stato assunto dall'azienda conserviera Eugenio Cardini, con sede nel palazzo Doria. Ecco alcune delle parole scritte da Caproni per salutare la sua città natale: “Mentre l'ultima bandiera rossa s'ammainava in fiamme in via del Corallo, o lungo via del Riseccoli [oggi via Palestro] e viale Emilio Zola pieno di ghiande e di polvere, in carrozza me ne andai per sempre alla ferrovia. E da quel giorno Livorno non la rividi più, vidi per l'ultima volta dal finestrino i prati rigati dai sentieri fra il trifoglio quasi neri degli Archi e il camposanto dei Lupi, dove erano sotterra i miei nonni”. A Genova la famiglia Caproni abita in via S.Martino e poi in Via Michele Novaro, piazza Leopardi e via Bernardo Strozzi: "La città più mia, forse, è Genova. Là sono uscito dall'infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo. Questo e soltanto questo, forse, è il motivo del mio amore per Genova, assolutamente indipendente dai pregi in sé della città. Ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi". Tra gli hobby più curiosi coltivati in questi anni è da rilevare la passione per l'allevamento di piccoli rettili e anfibi (tritoni, salamandre, lucertole). Finisce le elementari alla scuola Pier Maria Canevari e frequenta le complementari alla Regia Scuola Tecnica Antoniotto Usodimare, studiando contemporaneamente violino e composizione all'Istituto musicale Giuseppe Verdi, in Salita Santa Caterina (ottiene anche una medaglia d'oro per il solfeggio), dove si diploma nel 1925. Proprio studiando composizione Caproni racconta di avere scritto per la prima volta dei versi: "Da ragazzo studiavo armonia musicale, tentavo di comporre dei corali a quattro voci. Normalmente al tenore si affidano dei versi, che io attingevo dai classici più musicabili e piani, come Poliziano, Tasso o Rinuccini, finché un giorno mi accorsi che il mio maestro - questi versi - non li leggeva nemmeno. Da allora mi feci vincere dalla pigrizia e cominciai a scriverne di miei. È così che ho iniziato; poi il musicista è caduto ed è rimasto il paroliere, ma non è un caso che tutto questo sia accaduto a Genova, città di continua musicalità per il suo vento. Andavo al ponte dell'Alba, dove alla ringhiera ci sono dei dischi che fischiano una musica straordinariamente moderna. I miei amici versi sono nati in simbiosi con il vento". Tra le prime letture vanno annoverate Schopenhauer, Verne, Machado, Lorca e una passione per i film di Francesca Bertini.
1930-1932
All'età di diciotto anni, Caproni abbandona le ambizioni di violinista, dopo aver molto faticato sul bellissimo violino Candi, prestatogli dal maestro Armando Fossa: «Ormai ero un giovanotto. Studiavo di giorno e la notte suonavo nell'orchestra di una balera. Le canzoni in voga erano "Noi che siamo le lucciole", "Adagio, Biagio"...Intendiamoci: suonavo anche nelle opere. Violino di prima fila. Tutti dicevano che avevo un brillante avvenire. Ma una sera, chiamato a sostituire il primo violino in un a solo della Thaïs di Jules Massenet, me la cavai abbastanza bene, però ebbi un'emozione tale che capii di non essere tagliato per quella professione. E a casa spezzai lo strumento. Avevo diciotto anni.» Per quanto riguarda i suoi interessi letterari invece: "Fino a diciott'anni non sono stato che un solitario studente di violino, alle prese con l'Alare o il Mazas o il Kreutzer, e di letteratura altro non ho saputo che quella imparata a scuola o comprata sulle solite bancarelle. Non solo: ma anche quando mi decisi a sotterrare, per scrivere i primi versi, il piccolo feretro nero della mia prima illusione, amorosamente portato sotto il braccio per tanti anni, nemmeno allora mi introdussi nel cosiddetto mondo letterario, ammesso che a Genova ne esistesse, in quel torno di tempo, uno." I suoi amici abituali di allora sono il poeta e critico Tullio Cicciarelli, poi giornalista al «Lavoro», il futuro critico teatrale e regista Giannino Galloni, e soprattutto compagni di studio di violino (Ferdinando Forti, Adello Ciucci, con il quale compie molte letture). Scrive intanto, e copia a macchina la domenica nello «scagno» del padre in piazza della Commenda, le prime poesie, «vagamente surrealiste, o forse futuriste», influenzato dalle pagine dell'«Italia letteraria» («i versi furono per me il surrogato della musica tradita»). Si impiega presso lo studio dell'avvocato Colli, in via XX Settembre, dove scopre e sottrae l'Allegria di Ungaretti, «vero e proprio sillabario» poetico: «M'insegnava infatti a ritrovare in casa nostra il sapore perduto della grande - semplice - poesia parola per parola, silenzio per silenzio, e non unicamente sulle pagine rubate che mi stavan sott'occhio, ma anche, chissà per quale contagio (ed è la più grande lezione che mai abbia appreso da un nostro poeta contemporaneo) sulle pagine che già credevo d'aver letto di altri grandi poeti antichi e moderni, che ora invece (dopo la scansione dell'Allegria) mi pareva non di rileggere, ma di leggere per la primissima volta, e con una partecipazione intima che prima non m'ero sognata». Risale a questo periodo anche l'incontro con gli Ossi di seppia montaliani, comprati su una bancarella nell'edizione Ribet del 1928: "M'incontrai per la prima volta con Ossi di seppia intorno al '30, a Genova, e subito quelle pagine m'investirono con tale energia [...] da diventar per sempre parte inseparabile del mio essere, alimento e sangue della mia vita, indipendentemente e al di sopra dei riflessi, benefici o malefici, che tale poesia ha potuto avere sui pochi e poveri versi che ho scritto. | Montale ha per me il potere della grande musica, che non suggerisce né espone idee, ma le suscita in una con l'emozione profonda, e posso dire ch'egli è uno dei pochissimi poeti d'oggi che in qualche modo sia riuscito ad agire sulla mia percezione del mondo". Legge poi Cardarelli, i poeti della «Riviera ligure», Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Giovanni Boine, Mario Novaro e soprattutto Camillo Sbarbaro, incontrato anche su Circoli, di cui Caproni diventa assiduo lettore. Invia alcune poesie proprio alla rivista Circoli che però vengono respinte da Adriano Grande con parole non troppo incoraggianti: "Egregio Signore, la poesia è fatta per tre quarti di pazienza. Abbia molta pazienza e aspetti." Anche da questi rifiuti nasce l'esigenza di una «risillabazione» della propria poesia, perseguita con un singolare sguardo all'indietro: «Ho sentito il bisogno di riimmergermi nella tradizione, dopo tante invenzioni lambiccate e incomprensibili. E siccome la cura doveva essere radicale, ho scelto, per iniziare questo viaggio all'indietro, il Carducci, ossia il poeta che mi era più antipatico. E così parecchi hanno detto, ma quasi sempre dietro mia indicazione, che c'è in me un che di carducciano (del Carducci "macchiaiolo" naturalmente). Comunque, Carducci a parte, le mie vere fonti sono i poeti delle origini, dai siciliani ai toscani prima di Cavalcanti: poeti che usavano una lingua in fondo ancora inesistente, e quindi dura, spigolosa, non addomesticata a ritmi cantabili.». Al 1932 Caproni ha sempre fatto risalire il proprio vero esordio poetico.
Le prime raccolte, Come un'allegoria (nel 1936) e Ballo a Fontanigorda (nel 1938), escono per l'editore genovese Emiliano degli Orfini. Dal settembre 1933 all'agosto 1934 compì il servizio militare nel 42º reggimento fanteria di stanza a Sanremo. Nel 1939, dopo un breve periodo a Pavia, si trasferisce a Roma, dove abiterà per tutta la vita, pur trascorrendo le estati a Loco di Rovegno, dove aveva insegnato in gioventù e conosciuto Rina Rettagliata, la compagna della vita e moglie dal 1937. Dopo essere stato richiamato alle armi, nel giugno 1940 fu inviato a combattere la fulminea campagna di Francia, che molti anni dopo avrà a definire «un capolavoro di insensatezza»[11]. Tale esperienza lo condusse in una fase di profonda riflessione e ripensamento, che però non gli impedì di esprimersi con toni celebrativi verso il regime in alcuni articoli pubblicati nella rivista Augustea tra il 1938 e il 1940. L'8 settembre 1943 si trovava a Loco. Posto di fronte all'eventualità di arruolamento nelle brigate della Repubblica di Salò preferì entrare nella Resistenza, attiva in Val Trebbia, svolgendo, come commissario del Comune di Rovegno, compiti essenzialmente civili. Fu per molti anni maestro elementare, iniziando a Casorate Primo la sua esperienza di insegnamento.
Nel 1948 partecipò al Congresso Mondiale degli Intellettuali per la Pace, che si tenne a Breslavia[12].
La raccolta Il passaggio di Enea raccoglie tutte le sue poesie pubblicate fino al 1956 e riflette la sua esperienza di combattente durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza e raccoglie le poesie delle raccolte precedenti.
Muore a Roma nel gennaio 1990.[1] È sepolto con la moglie Rina nel cimitero di Loco di Rovegno.
Nella sua poesia canta soprattutto temi ricorrenti (Genova, la madre e la città natale, il viaggio, il linguaggio), unendo raffinata perizia metrico-stilistica a immediatezza e chiarezza di sentimenti. Nel corso della sua produzione Caproni procede sempre maggiormente verso l'utilizzo di una forma metrica spezzata, esclamativa, che rispecchia l'animo del poeta alle prese con una realtà sfuggente impossibile da fissare con il linguaggio. Questo stile è evidente anche nell'impiego della forma classica del sonetto, impiegato in forma "monoblocco", ovvero senza divisioni strofiche. Caproni spezza la regolarità e il ritmo del sonetto utilizzando rime interne, enjambements, una sintassi spesso franta e il ricorso a interiezioni[13][14]. L'ultima fase della sua poesia (da Il muro della terra in poi) insiste sul tema del linguaggio come strumento insufficiente e ingannevole,[15] inadeguato a rappresentare la realtà:
«Concessione
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa»
(da Res amissa[16])
La tomba del poeta Caproni e della moglie a Loco di Rovegno
All'inizio del XXI secolo la Provincia di Genova ha istituito il Parco Culturale "Giorgio Caproni", con sede a Montebruno. Uno dei luoghi interessati è il Sentiero Poetico Giorgio Caproni a Fontanigorda (GE), il paesino cantato dal poeta in una delle sue prime raccolte e distante solo un paio di chilometri dal luogo (Loco di Rovegno) nel quale il giovane Caproni insegnò alle Elementari tornato dal fronte.
A Livorno, una targa posta in Corso Amedeo l'11 novembre 2007[17] ricorda il luogo in cui Giorgio Caproni nacque
«Qui nacque Giorgio Caproni
Poeta delicato e forte come la città
che lo vide nascere»
Inoltre, sempre nella città natale, il 14 febbraio 2009 gli è stata intitolata una piazza del centro, in via Maggi, zona Piazza Cavour.
A Fontanigorda, paesino dell'entroterra genovese, il 12 agosto 2009 è stato inaugurato il centro culturale Giorgio Caproni. Il centro è stato aperto a cura dell'associazione di gemellaggio fra Fontanigorda e Saint-Maime. La località della Val Trebbia fu cara al poeta che nel 1938 le dedicò una delle sue prime opere "Ballo a Fontanigorda" e a pochi passi dal borgo si trova la passeggiata sul "sentiero di Caproni".
All'esame di maturità del 2017, per l'analisi del testo nella prova di lingua italiana è stata scelta la poesia Versicoli quasi ecologici (da Res Amissa)[18].
Caproni è stato un fine traduttore dal francese (e più raramente da altre lingue). In particolare si ricordano di lui le prime traduzioni in italiano di opere quali Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline. Alcune sue traduzioni poetiche sono state raccolte in Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa, con prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo (Einaudi, 1998), su progetto dello stesso Caproni, che dichiarò di non aver «mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell'atto che, comunemente, viene chiamato tradurre»[19].
Radura per soprano e pianoforte del compositore Luca Brignole, su testo dell'omonima poesia di Caproni, è stata composta nel 2012 per celebrare il centenario della nascita del poeta, ed eseguita al Conservatorio Niccolò Paganini di Genova durante l'omaggio a lui dedicato[20].
Amico stimato di Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni nel 1975 prese parte al suo ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, doppiando l'attore non professionista Giorgio Cataldi nel ruolo dello spietato, apatico e lunatico Monsignore.[21]
Statale 45 - Io, Giorgio Caproni è il titolo di un film scritto, diretto e interpretato dall'attore Fabrizio Lo Presti dedicato a Caproni. Nato come cortometraggio per la partecipazione a un concorso indetto dalla provincia di Genova nel 2006, ottenuta la menzione d'onore e sollevati pareri positivi da parenti e amici di Caproni, è diventato lungometraggio nello stesso anno. Il risultato finale è una docufiction prodotta da Les Films Du Caniveau in collaborazione con la comunità montana della Val Trebbia, nella quale i figli del poeta, Silvana e Attilio Mauro, recitano nel ruolo di se stessi.[22]
Il cappotto di lana è il titolo di un cortometraggio di finzione, diretto da Luca Dal Canto, dedicato al poeta labronico e realizzato in occasione del Festival Caproni organizzato a Livorno nel dicembre 2012.[2
Opere (parziale)
Come un'allegoria (1932-1935), prefazione di Aldo Capasso, Genova, Degli Orfini, 1936.
Come un'allegoria, prefazione di Rosanna Bettarini, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, "Quaderni del tempo", 2002. ISBN 978-88-7494-0806
Genova di tutta la vita, a cura di Giorgio Devoto, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, "Quaderni di poesia", 1997. ISBN 978-88-7494-0025
Ballo a Fontanigorda, Genova, Degli Orfini, 1938.
Finzioni, Roma, Istituto grafico tiberino, 1941.
Cronistoria, Firenze, Vallecchi, 1943.
Stanze della funicolare, Roma, De Luca, 1952. Premio Savinio di Poesia nell'ambito del Premio Viareggio[24]
Stanze della funicolare, introduzione di Anna Dolfi, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, "La Biblioteca Ritrovata", 2012. ISBN 978-88-7494-2428
Litania, 1954
Il passaggio di Enea. Prime e nuove poesie raccolte, Firenze, Vallecchi, 1956.
Il seme del piangere, Milano, Garzanti, 1959. Premio Viareggio di Poesia[24]
Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Milano, Garzanti, 1965.
Il Terzo libro e altre cose, Torino, Einaudi, 1968.
Versicoli del Controcaproni, 1969 e seguenti, inediti
Il muro della terra, Milano, Garzanti, 1975.
Erba francese, Senningerberg (Lussemburgo), Origine, 1979.
L'ultimo borgo. Poesie, 1932-1978, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Rizzoli, 1980.
Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982.
Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1983.
Il conte di Kevenhüller, Milano, Garzanti, 1986.
Allegretto con brio, Lugano, Laghi di Plitvice, 1988.
Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989. ISBN 88-11-66900-6.
Res amissa, a cura di Giorgio Agamben, Milano, Garzanti, 1991. ISBN 88-11-63101-7.
L'opera in versi, edizione critica a cura di Luca Zuliani, Milano, A. Mondadori, 1998. ISBN 88-04-43586-0.
Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa, Torino, Einaudi, 1998. ISBN 88-06-14298-4.
I faticati giorni. Quaderno veronese 1942, a cura di Adele Dei, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2000.
Giorni aperti: itinerario di un reggimento al fronte occidentale, Roma, Edizioni di Lettere d'oggi, 1942
Il labirinto, Milano, Rizzoli, 1984. ISBN 88-17-79002-8.
La valigia delle Indie e altre prose, a cura di Adele Dei, Pistoia, Via del vento, 1998.
Aria celeste e altri racconti, Milano, Libri Scheiwiller, 2003. ISBN 88-7644-395-9.
Racconti scritti per forza, a cura di Adele Dei, con la collaborazione di Michela Baldini, Milano, Garzanti, 2008. ISBN 978-88-11-68337-7.
Frammenti di un diario. 1948-1949, a cura di Federico Nicolao, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1995.
Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016 è stato un semiologo, filosofo, scrittore, traduttore, accademico, bibliofilo e medievista italiano.
Della semiologia, la sua materia di specializzazione, Eco fece il cardine del suo pensiero che espresse ne Il Trattato di semiotica generale: dallo studio dei segni linguisti determinò che l’interpretazione dell’oggetto muta a seconda delle persone che lo considerano cosicché in base al punto di vista varia l’oggetto (o il testo) interpretato. Ne consegue che la verità non è mai univoca ma si struttura sulla base di un infinito processo interpretativo.
Ecco Umberto Eco fu la più perfetta rappresentazione di questo “processo interpretativo”: la sua acuta analisi del reale prendeva spunto proprio da quella stessa “semiotica interpretativa” da lui creata. Eco chiama “contenuto nucleare” quello costituito dalla somma delle diverse interpretazioni e concezioni dell’oggetto in uso. Il significato, dunque, viene determinato dalla nostra esperienza generale o conoscenza del mondo, va a sommarsi a stereotipi e altre strutture culturalmente predefinite che abbiamo appreso nel tempo.
Umberto Eco applica la sua teoria dell’interpretazione alla letteratura ma anche al mondo in generale, affidando all’individuo un ruolo attivo come lettore e quindi come coscienza determinata.
Come scrisse nel libro I limiti dell’interpretazione pubblicato per la prima volta nel 1990 e ora riedito da La Nave di Teseo:
Le opere letterarie ci invitano alla libertà dell’interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del linguaggio e della vita.
E in conclusione:
Ora penso invece che il mondo sia un enigma benigno, che la nostra follia rende terribile perché pretende di interpretarlo secondo la propria verità.
Questo elogio della libertà d’interpretazione racchiude in sé la statura intellettuale di Umberto Eco, benché appaia riduttivo definire la sterminata produzione letteraria del Professore in poche righe.
Franco Loi nasce a Genova nel 1930 da padre sardo e da madre emiliana. Seguendo il padre ferroviere si trasferisce nel 1937 a Milano dove frequenta gli studi diplomandosi in ragioneria. Successivamente lavorerà come contabile allo scalo merci di Lambrate. In seguito lavora come impiegato allo scalo merci del porto di Genova fino al 1950 per diventare poi, nel 1955, incaricato per le relazioni pubbliche presso l'Ufficio pubblicità de La Rinascente e nel 1962 lavora all'Ufficio stampa della casa editrice Arnoldo Mondadori Editore.
Dopo essere stato attivo militante comunista, ha aderito al movimento della nuova sinistra, ma dagli anni settanta ha lasciato sostanzialmente l'attività politica assumendo posizioni molto personali con forte accentuazione di una religiosità anarchico-libertaria. La sua prima produzione poetica nacque tutta in una breve stagione, tra il settembre 1965 e l'estate 1974 quasi "sotto dettatura", così il poeta rievoca quegli anni fondamentali: "scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno, mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno".
Esordisce solo nel 1973 come poeta in dialetto e ha subito un buon successo con l'opera I cart pubblicata dall'Edizione Trentadue di Milano e l'anno dopo, 1974, con Poesie d'amore edite da Il Ponte. Nel 1975 il poeta dimostra di aver raggiunto la completa maturità di espressione con il poema Stròlegh, pubblicato da Einaudi con prefazione di Franco Fortini, di cui una parte aveva già visto la pubblicazione nel secondo "Almanacco Dello Specchio" ricevendo una critica positiva da Dante Isella.
Nel 1978 Einaudi pubblica la raccolta Teater e nel 1981 l'opera L'Angel viene edita a Genova dalle Edizioni San Marco dei Giustiniani. Sempre nel 1981, grazie alla raccolta L'aria (Einaudi), vince il Premio nazionale "Lanciano" di Poesia dialettale, di cui diventa giurato a partire dalla XVI edizione (1986) fino alla sua conclusione nel 2008[2].
Nel 2005 pubblica per Einaudi L'aria de la memoria, in cui raccoglie tutte le poesie scritte tra il 1973 e il 2002, alcune delle quali apparse già nelle raccolte I cart e Poesie d'amore. Molte altre sono le sue opere, tutte in dialetto milanese, tra le quali Lünn, Liber, Umber, El vent, Isman, Aquabella, Pomo del pomo.
Oltre alle poesia, Franco Loi si dedica alla narrativa (si ricorda il libro di racconti L'ampiezza del cielo, Milano, Gallino Editore, 2001) e alla saggistica. E' stato vincitore del Premio Bonfiglio per la raccolta Stròlegh e del premio Nonino per Liber; in seguito ha ricevuto il Premio Librex Montale e il Premio Brancati 2008 (sezione poesia) con il libro Voci d'osteria.[3] È stato insignito dalla Provincia di Milano della medaglia d'oro e ha inoltre ricevuto dal Comune di Milano l'Ambrogino d'oro e il "Sigillo Longobardo della Regione Lombardia"[4].
Contributore di numerose riviste e redattore del Il Sole 24 ore, a dicembre del 2018 rilascia alla rivista Affari Italiani un'intervista dal titolo Mussolini ha fatto più di tutti per gli operai, nella quale riprende la retorica del cosiddetto paradosso democratico, sostenendo che la sua azione in termini mutualistici, assistenziali e previdenziali restò ineguagliata dai politici successivi.[5]
È morto il 4 gennaio 2021 all’età di 90 anni nella sua casa di Milano. Le sue ceneri sono tumulate in una celletta del Cimitero Monumentale, nell'Ossario centrale[1]
Temi ricorrenti nelle opere di Loi sono la guerra, la scoperta della presenza del male nella storia, la sensazione di un tradimento perpetrato e di ferite non rimarginabili, l'energia dell'invettiva, il rimpianto di un paradiso perduto, ma anche la costanza dell'invocazione della preghiera. Il titolo della sua raccolta più famosa "Stròlegh" (astrologo), composta in due tempi nell'estate 1970 e nella primavera 1971, rimanda a un sogno a occhi aperti, a una profezia rassicurante.
Il nono passaggio della poesia è dedicato a Piazzale Loreto, luogo fondamentale nell'esperienza di Loi, situata a poche centinaia di metri da dove allora abitava, in Via Casoretto: fu lì che, ancora ragazzino, il 10 agosto 1944, vide quei partigiani uccisi "gettati sul marciapiede come spazzatura"[6], e nel 1945 i cadaveri di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti lì trucidati. I due momenti sembrano confondersi in un'unica scena, che suscita nel poeta rabbia e pietà, elegiaca reminiscenza e angosciosa invettiva. Le ultime raccolte sono caratterizzate da un linguaggio meno incisivo. Alcuni esempi: "Teàter" del 1978, l'"Aria" e l'"Angel" del 1981, l'"Amur del Temp" del 1999.
La poetica di Loi, ricca di arcaismi (in particolare dantismi) e neologismi, è spesso fondata su costruzioni sintattiche anormali, essa è finalizzata a una libertà espressiva assoluta, ma nasce anche in base a una precisa scelta di campo ideologico-politica per dare voce a un proletariato oppresso e sfruttato. Lo stile violentemente espressionistico, scaturisce da una costante mescolanza di registri, dal grottesco al sarcastico al satirico.
"Un milanese parlato a Milano negli anni cinquanta, quando per le immigrazioni, per i precisi cambiamenti di ordine sociale, la lingua non aveva più un suo tessuto fermo, chiuso, ma era completamente aperta, il milanese, in quel momento era una vera e propria lingua, culturalmente aperta a tutte le esperienze": così Franco Loi definisce il suo dialetto.
Richard Erskine Frere Leakey (Nairobi, 19 dicembre 1944 – 2 gennaio 2022) è stato un paleontologo e politico keniota. Era il secondo figlio dei famosi archeologi Louis Leakey e Mary Leakey.
Passò la giovinezza a Nairobi dove i suoi genitori dirigevano il museo e gli scavi nella gola di Olduvai.[1] Non era particolarmente interessato agli studi, che lasciò presto per una vita indipendente, che lo portò a sapere identificare i reperti fossili e a diventare una guida turistica, non volendo inizialmente seguire le orme paterne.[2]
La sua carriera di paleontologo non cominciò con eventi memorabili. Assieme ad alcuni amici Keniani formò il Kenya Museum Associates (ora Kenya Museum Society) con lo scopo di organizzare e migliorare in senso keniano il National Museums of Kenya. Si trovò ben presto in conflitto con le idee paterne.
Uno dei suoi primi incarichi fu una spedizione sul fiume Omo dove Kamoya Kimeu trovò un fossile di ominide che Leakey considerò un Homo erectus, ma che invece il padre Louis identificò come Homo sapiens. Il reperto, datato a 160.000 anni fa, era a quell'epoca il più vecchio fino ad allora ritrovato per questa specie.[1]
Durante un volo di ritorno dalla spedizione sul fiume Omo insieme a Clark Howell, per evitare una tempesta fu costretto a passare sopra il lago Rudolph, oggi Lago Turkana; Richard intuì che poteva essere una zona fossilifera interessante e poco dopo ottenne i fondi per installare il campo di Koobi Fora.
Furono qui ritrovati una serie di reperti fossili:
un cranio di Paranthropus boisei, 1969
KNM ER 1470,[3] cranio di Homo rudolfensis, 1972
KNM ER 3733, cranio di Homo ergaster, 1975
KNM ER 3883, cranio intatto di Homo erectus, 1978
Leakey e Donald Johanson divennero in quel periodo i più famosi paleoantropologi, ma le loro visioni sull'evoluzione umana erano alquanto contrastanti e questo sfociò in un'accesa rivalità emersa anche durante un dibattito televisivo.[4]
Poco dopo le scoperte sul lago Turkana, Richard Leakey lasciò alla moglie Meave Leakey e alla figlia Louise Leakey il compito di continuare le attività di ricerca e preferì dedicarsi alla vita politica.
Si interessò dapprima di conservazionismo, descrivendo poi questa esperienza nel libro Wildlife Wars: My Battle to Save Kenya's Elephants pubblicato nel 2001, ma lanciando anche nel 1995 il nuovo partito chiamato Safina Party, che in lingua Swahili significa "Arca di Noè".
Nel 2004 fondò anche il WildlifeDirect, un'organizzazione assistenziale per la conservazione delle specie in pericolo. Nel 2007 è stato nominato responsabile della filiale keniana di Transparency International.[6]
Biografia
Giovanni Celati, detto Gianni, nasce a Sondrio, ove si trova la famiglia a causa del lavoro del padre, usciere di banca spostato spesso di sede in sede a causa dei litigi con i suoi superiori. Il padre Antonio era originario di Bondeno, vicino a Ferrara, mentre la madre, Exenia Dolores Martelli, era nata a Sandolo, vicino al delta del Po. Gianni Celati passa l'infanzia e l'adolescenza in provincia di Ferrara. Finito il liceo, durante un campeggio estivo a Marina di Ravenna, conosce una ragazza tedesca che vuole a tutti i costi rivedere, così gli amici fanno una colletta per mandarlo ad Amburgo, dove rimane nove mesi grazie al denaro che gli invia suo fratello Gabriele (1928-2003), avvocato. Laureatosi in letteratura inglese presso l'Università di Bologna con una tesi su James Joyce, scrive articoli per Marcatré, Lingua e stile, Il Verri, Il Caffè, Quindici, Sigma, ecc. oltre a pubblicare le prime traduzioni, tra cui Futilità di William Gerhardie e Colloqui con il professor Y di Louis-Ferdinand Céline. Nel 1971 pubblica il suo primo romanzo, Comiche, per Einaudi (nella collana sperimentale La ricerca letteraria, con una nota di Italo Calvino[1]) mentre collabora a «Periodo Ipotetico» e a diverse altre riviste.
«Quando Calvino veniva in Italia da Parigi, per andare a lavorare da Einaudi, una settimana al mese, mi telefonava tutti i giorni e ci scambiavamo idee. Io avevo la borsa di studio a Londra e viaggiavo con una macchina scassata: un camion mi aveva tamponato e la portiera mi arrivava fino alla spalla. Ma con quella macchina andavo avanti e indietro una volta ogni tre o quattro mesi e, passando da Parigi, mi fermavo a dormire da Calvino»
(Gianni Celati, Testimonianza raccolta in N. Palmieri, in Documentari imprevedibili come i sogni, Fandango, Roma 2011)
Sono questi peraltro gli anni in cui si dedica alla traduzione di classici inglesi quali Favola della botte di Jonathan Swift o Bartleby lo scrivano di Herman Melville e a progettare una rivista con Italo Calvino, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri e Guido Neri[2]. Sempre da Einaudi escono i successivi Le avventure di Guizzardi (1972), La banda dei sospiri (1976) e Lunario del paradiso (1978), contraddistinti da uno stile di insistita devianza dalla norma scolastica e dallo sforzo della lingua di rappresentare una realtà più autentica, al di fuori del canone borghese. I tre romanzi saranno raccolti (qui e là con piccole correzioni, soprattutto nel terzo) nel 1989 (presso Feltrinelli) in Parlamenti buffi, con un Congedo dell'autore al suo libro. Durante un periodo di insegnamento alla Cornell University di Ithaca (New York) escono ancora saggi (poi raccolti in Finzioni occidentali)[3] e racconti sparsi (tra cui spiccano i volumetti Il chiodo in testa del 1974 e La bottega dei mimi del 1977).
Ritrasferitosi in Italia assume la cattedra di letteratura angloamericana del DAMS di Bologna (tra i suoi allievi Pier Vittorio Tondelli, Claudio Piersanti, Enrico Palandri, Giacomo Campiotti, Gian Ruggero Manzoni, Andrea Pazienza, Freak Antoni, ecc.), e riprende anche l'attività critica e di studioso della letteratura europea, traducendo James Joyce, Mark Twain, Joseph Conrad, Roland Barthes e ancora Céline (Guignol's band e Il ponte di Londra) oltre a scrivere articoli per «Alfabeta», «Nuovi argomenti», «Nuova Corrente», «Il manifesto», ecc.
Celati torna alla narrativa nel 1985 con i trenta racconti di Narratori delle pianure che segnano anche il passaggio alla casa editrice Feltrinelli, e che mostrano un forte cambiamento di stile: i picchi d'intemperanza stralunata e comica degli anni settanta si volgono in una lingua volutamente e arrendevolmente semplice che riesce a disegnare le cose con minore numero di parole e in maniera più chiara, quasi come fotografie (inizia in questo periodo la sua amicizia con Luigi Ghirri, Gabriele Basilico e altri fotografi), mentre al contempo svolgono una maniera di racconto legata al «sentito dire» e alla novella tradizionale italiana.
In seguito vengono le Quattro novelle sulle apparenze (1987), dove alla precisione stilistica si accompagna una tematica della fiducia e del disincanto della società contemporanea, e Verso la foce (1989), un itinerario verso le foci del Po (territorio dell'infanzia e dell'adolescenza dello scrittore). Tra le traduzioni: Stendhal, Jack London, Johann Peter Hebel, Georges Perec, Henri Michaux, Friedrich Hölderlin, nuovamente Jonathan Swift, ecc. mentre da ottobre 1988 per un anno raccoglie un'antologia di brani di scrittori prima su «Il manifesto» e poi in volume (Narratori delle riserve, Feltrinelli 1992). Con Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia, Daniele Benati e altri ha anche diretto - dal 1995 al 1997 per sei numeri - la rivista «Il semplice» (con il contributo della Fondazione San Carlo di Modena e della casa editrice Feltrinelli).
Ha anche insegnato all'Université de Caen e alla Brown University di Providence e per il resto della sua vita ha risieduto a Brighton, in Inghilterra. Fra le ultime opere si ricordano la trascrizione in prosa del poema di Matteo Maria Boiardo, L'Orlando innamorato raccontato in prosa (Einaudi, 1994), la trasfigurazione autobiografica Recita dell'attore Attilio Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto (1996, a cui hanno fatto seguito i Sonetti del Badalucco nell'Italia odierna, 2010), il resoconto di viaggio Avventure in Africa (1998), e nove nuovi racconti raccolti in Cinema naturale (2001), dove alle meditazioni sul presente si alternano i ricordi. Tra gli interventi critici è interessante la Presentazione ai Racconti impensati di ragazzini raccolti (Feltrinelli, 1999) da Enrico De Vivo, curatore del sito Zibaldoni e altri racconti. Nel 2003 Gianni Celati è protagonista del film documentario Mondonuovo del regista Davide Ferrario, girato attraverso i luoghi d'infanzia dello scrittore, in un percorso che costeggia il fiume Po, dalla provincia di Reggio Emilia alla foce.
In collaborazione stabile con la casa di produzione cinematografica bolognese Pierrot e la Rosa realizza in qualità di regista i documentari Strada provinciale delle anime (1991, 58 minuti), Il mondo di Luigi Ghirri (1999, 52 minuti), Case sparse. Visioni di case che crollano (2003, 61 minuti), pubblicati come DVD presso Fandango Libri nel 2011[4], e Diol Kadd. Vita, diari e riprese di un viaggio in Senegal (2010, 90 minuti), pubblicato come DVD insieme ai diari del viaggio da Feltrinelli nel 2011, centrato sul villaggio natale di Mandiaye N'Diaye, attore del Teatro delle Albe.
Dopo l'uscita del suo Fata Morgana (2005), descrizioni etnografiche di un popolo immaginario, a Celati è stato dedicato il n. 28 di «Riga», rivista a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, che contiene anche inediti.
Con Vite di pascolanti (ed. nottetempo) ha vinto il Premio Viareggio nel 2006. I racconti di questo volume sono stati successivamente inseriti nelle più ampie raccolte di Costumi degli italiani 1: Un eroe moderno e Costumi degli italiani 2: Il benessere arriva in casa Pucci, entrambi pubblicati nel 2008 da Quodlibet. Nello stesso anno sceglie e introduce un'antologia di racconti di Antonio Delfini per Einaudi (Autore ignoto presenta, 2008).
Nel marzo 2013 Einaudi pubblica l'Ulisse di James Joyce in una nuova versione tradotta da Celati, frutto del lavoro di oltre sette anni e attesa già da diverso tempo[5].
Nel 2014 si piazza terzo al Premio Chiara con la raccolta di racconti Selve d'amore.
Nel 2016 esce presso la collana I Meridiani di Mondadori un'ampia raccolta di opere narrative dal titolo Romanzi, cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri.
Il 3 gennaio 2022 muore nella sua casa di Brighton, in Inghilterra, una settimana prima di compiere 85 anni.[6]
Comiche, Torino: Einaudi, 1971; n.ed. a cura di Nunzia Palmieri, Macerata: Quodlibet, 2012
Le avventure di Guizzardi, Torino: Einaudi, 1972; Milano: Feltrinelli, 1989 e 1994
La banda dei sospiri, Torino: Einaudi, 1976; Milano: Feltrinelli, 1989 e 1998; Macerata: Quodlibet, 2015
Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino: Einaudi 1975, 1986 e 2001
Lunario del paradiso, Torino: Einaudi, 1978; Milano: Feltrinelli, 1989 e 1996
Alice disambientata, Milano: L'erba voglio, 1978; Firenze: Le lettere, 2007
Narratori delle pianure, Milano: Feltrinelli, 1985 e 1988. Finalista al Premio Bergamo[7]
Quattro novelle sulle apparenze, Milano: Feltrinelli, 1987 e 1996
La farsa dei tre clandestini. Un adattamento dai Marx Brothers, Bologna: Baskerville, 1987
Verso la foce, Milano: Feltrinelli, 1988 e 1992
Parlamenti buffi, Milano: Feltrinelli, 1989
L'Orlando innamorato raccontato in prosa, Torino: Einaudi, 1994
Recita dell'attore Attilio Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, Milano: Feltrinelli, 1996
Avventure in Africa, Milano: Feltrinelli, 1998 e 2000
Cinema naturale, Milano: Feltrinelli, 2001 Premio Chiara[8]
Fata Morgana, Milano: Feltrinelli, 2005, Premio Selezione Campiello[9], Premio Napoli[10]
Vite di pascolanti, Roma: Nottetempo, 2006 Premio Viareggio[11]
Costumi degli italiani 1: Un eroe moderno, Macerata: Quodlibet, 2008
Costumi degli italiani 2: Il benessere arriva in casa Pucci, Macerata: Quodlibet, 2008
Ma come dicono di vivere così, Viadana: FUOCOfuochino, 2009
Sonetti del Badalucco nell'Italia odierna, Milano: Feltrinelli, 2010
Bambini pendolari che si sono perduti, Milano: Feltrinelli, 2010
Cinema all'aperto, Roma: Fandango Libri, 2011 (con i DVD di Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri e Case sparse)
Conversazioni del vento volatore, Macerata: Quodlibet, 2011
Passar la vita a Diol Kadd. Diari 2003-2006, Milano: Feltrinelli, 2011 (con il DVD del film Diol Kadd); 2012 (nuova ed. rivista dall'autore, senza DVD)
Selve d'amore, Macerata: Quodlibet, 2013
Romanzi, cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Milano: I Meridiani Mondadori, 2016 ISBN 978-88-046-5876-4
Animazioni e incantamenti, con Carlo Gajani, a cura di Nunzia Palmieri, Roma: L'orma editore, 2017 ISBN 978-88-997-9316-6
Narrative in fuga, a cura di Jean Talon, Macerata: Quodlibet, 2019 ISBN 978-88-229-0309-9
Jonathan Swift, Favola della botte, Bologna: Sampietro, 1966; Torino: Einaudi, 1990
William Gerhardie, Futilità, Torino: Einaudi, 1969; Milano: Adelphi, 2003
Louis-Ferdinand Céline, Il ponte di Londra, Torino: Einaudi, 1971; Guignol's band II, Torino: Einaudi-Gallimard, 1996
Edward T. Hall, Il linguaggio silenzioso, Milano: Garzanti, 1972
Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, Milano: Rizzoli, 1979
Louis-Ferdinand Céline, Colloqui con il professor Y, Torino: Einaudi, 1980 (con Lino Gabellone)
Barthes di Roland Barthes, Torino: Einaudi, 1980
Louis-Ferdinand Céline, Guignol's band, Torino: Einaudi, 1982; Guignol's band I, Torino: Einaudi-Gallimard, 1996
Jack London, Il richiamo della foresta, Torino: Einaudi, 1986
Herman Melville, Bartleby lo scrivano, Milano: Feltrinelli 1991; Milano: SE, 2013
Friedrich Hölderlin, Poesie della torre, Milano: Feltrinelli, 1993
Stendhal, La Certosa di Parma, Milano: Feltrinelli, 1993
Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Milano: Feltrinelli, 1997
Joseph Conrad, La linea d'ombra, Milano: Mondadori, 1999
Henri Michaux, Altrove, Macerata: Quodlibet, 2005 (con Jean Talon)
Storie di solitari americani, Milano: BUR, 2006 (con Daniele Benati)
Henri Michaux, Viaggio in Gran Garabagna, Macerata: Quodlibet, 2010 (con Jean Talon)
James Joyce, Ulisse, Torino: Einaudi, 2013
Joseph Conrad, All'estremo limite, Macerata: Quodlibet, 2017
^ In un colloquio con Ferdinando Camon, Calvino definirà Celati un "vulcano di idee, l'amico con cui ho lo scambio d'idee più nutrito", cfr. Saggi, Mondadori, Milano 1995, tomo II, p. 2785.
^ Le carte del progetto sono state poi raccolte in «Alì Baba». Progetto di una rivista 1968-72, a cura di Mario Barenghi e Marco Belpoliti («Riga» n. 14, 1998).
^ prima ed. 1975, n. ed. 1986, terza ed. 2001, tutte presso Einaudi.
^ Nel cofanetto, oltre ai tre film un libretto di suoi interventi sul cinema, con interviste e saggi di altri, tra cui una preziosa biografia della curatrice, Nunzia Palmieri, pp. 86-124, utile qui come fonte.
^ «Ulisse», Celati traduce Joyce, su einaudi.it. URL consultato il 6 marzo 2013 (archiviato dall'url originale l'8 marzo 2016).
^ Franco Marcoaldi, È morto Gianni Celati, nomade della letteratura, su repubblica.it, 3 gennaio 2022.
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Il poeta cileno Pablo Neruda, figura di spicco della letteratura novecentesca, ha dedicato una poesia al primo giorno dell'anno che appare come un elogio alla speranza.
Pablo Neruda (1904-1973) non è stato solo il poeta delle poesie d’amore, oltre ad essere un punto di riferimento della letteratura latino-americana è stato politico e diplomatico e si è battuto per il Cile, suo paese d’origine.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1971, Pablo Neruda è stato un poeta filosofo che ha riservato tutta la sua intensità umana, patriottica e civile nei suoi scritti che lo hanno reso uno dei più celebri poeti del Novecento. Nel 1945 ottenne il Premio nazionale di Letteratura del Cile che oltre all’indiscusso talento letterario ne omaggiava anche l’impegno politico.
Nello stesso anno fu eletto senatore, anche se presto rimase deluso dalla gestione politica e optò per un esilio volontario dapprima in Argentina, dopodiché in Messico, in Unione Sovietica, in Cina, e infine in Europa.
Morirà il 23 settembre 1973, a soli dodici giorni dal colpo di Stato del generale Pinochet
La poesia di Neruda parlava un lessico semplice e quotidiano, per narrarci ogni giorno lo stupore di chi scopre per la prima volta la bellezza delle piccole cose. Non fu solo poesia d’amore, poesia erotica, ma anche lirica patriottica, politica, civile, parlò un linguaggio accessibile a tutta l’umanità.
Nel 1957 il poeta cileno compose la lirica Oda al primer día del año, Ode al primo giorno dell’anno, contenuta nel Terzo libro delle odi.
Con questa poesia Neruda salutava l’anno nuovo e, dunque, l’inizio di una nuova era. Perché è opinione comune che il primo giorno dell’anno segni un nuovo ciclo, l’inizio di un percorso ancora ignoto da affrontare con uno spirito speranzoso ed energie rinnovate.
Il testo originale della poesia Ode all’anno nuovo di Pablo Neruda festeggiava il primo giorno dell’anno con parole che in lingua spagnola conservano ancora tutta la freschezza di una sonorità poetica, che purtroppo nella traduzione si perde:
Día del año nuevo, día eléctrico, fresco, todas las hojas salen verdes del tronco de tu tiempo.
Lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo la fronte con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte lo andiamo a ricevere
come se fosse un esploratore
che scende da una stella.
Come il pane assomiglia al pane di ieri.
Come un anello a tutti gli anelli: i giorni
sbattono le palpebre
chiari, tintinnanti, fuggiaschi,
e si appoggiano nella notte oscura
Vedo l’ultimo giorno
di questo anno
in una ferrovia, verso le piogge
del distante arcipelago violetto,
e l’uomo
della macchina,
complicata come un orologio del cielo,
che china gli occhi
all’infinito
ripetersi delle rotaie,
alle brillanti manovelle,
ai veloci vincoli del fuoco.
Oh conduttore di treni
fuggiasco
verso stazioni
nere della notte.
Questa fine dell’anno
senza donna e senza figli,
non è uguale a quella di ieri, a quella di domani?
Dalle vie
e dai sentieri
il primo giorno, la prima aurora
di un anno che comincia,
ha lo stesso ossidato
colore di treno di ferro:
e salutano gli esseri della strada,
le vacche, i villaggi,
nel vapore dell’alba,
senza sapere che si tratta
della porta dell’anno,
di un giorno scosso da campane,
fiorito con piume e garofani.
La terra accoglierà questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline,
lo bagnerà con frecce di trasparente pioggia
e poi, lo avvolgerà nell’ombra.
Così è:
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire, a sperare.
Ti metteremo
come una torta
nella nostra vita,
ti infiammeremo
come un candelabro,
ti berremo come
un liquido topazio.
Giorno
dell’anno nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte
le foglie escono verdi
dal tronco
del tuo tempo.
Incoronaci con acqua,
con gelsomini
aperti,
con tutti gli aromi
spiegati,
sì,
benché
tu sia solo un giorno,
un povero giorno umano,
la tua aureola palpita
su tanti cuori stanchi
e sei,
oh giorno nuovo,
oh nuvola da venire,
pane mai visto,
torre permanente!
Il poeta triestino Umberto Saba ha ritratto in due suoi componimenti i sentimenti di speranza e pace che pervadono la notte di Natale.
Umberto Saba (1883-1957), nato in una Trieste di confine ancora appartenente all’impero austro-ungarico, è oggi considerato uno dei più celebri poeti italiani del Novecento.
Nel celebre testo teorico scritto nel 1912 Quello che resta da fare ai poeti Saba dichiarò di aver cercato tramite la propria opera poetica la verità, quella più profonda e nascosta, che solo l’esperienza del dolore è capace di rivelare. “”
Quella verità profonda da lui così meravigliosamente cantata nell’ultima strofa della poesia Amai:
Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica.
La poetica di Umberto Saba è improntata sul nesso tra poesia e verità, nell’inesausto tentativo di dire qualcosa di valido per “l’uomo di sempre”.
Il poeta infatti prende le distanze dalla concezione estetizzante di letteratura che dominava in quel periodo. Rifiuta la “bella poesia” in nome della “poesia onesta” animata dalla sincera volontà di fare chiarezza all’interno di sé e nei rapporti con gli altri.
Nel suo Canzoniere Umberto Saba affronta i temi della quotidianità, nel tentativo tuttavia di indagare l’interiorità più profonda dell’uomo e le motivazioni del suo agire.
La parola del poeta diventa strumento per la ricerca della verità attraverso versi chiari e trasparenti che rischiarano il mondo interiore.
Nei componimenti del poeta dedicati al Natale questa ricerca di chiarezza appare ancora più forte, dettata da un’esigenza dello spirito.
La notte è scesa
e brilla la cometa
che ha segnato il cammino.
Sono davanti a Te, Santo Bambino!
Tu, Re dell’universo,
ci hai insegnato
che tutte le creature sono uguali,
che le distingue solo la bontà,
tesoro immenso,
dato al povero e al ricco.
Gesù, fa’ ch’io sia buono,
che in cuore non abbia che dolcezza.
Fa’ che il tuo dono
s’accresca in me ogni giorno
e intorno lo diffonda,
nel Tuo nome.
A Gesù Bambino è una poesia dall’alto contenuto morale, che nella sua semplicità intende trasmettere il messaggio della venuta di Cristo sulla terra.
Saba sembra osservare la scena della natività dall’esterno per poi focalizzarsi, come di consueto, sui valori interiori che hanno caratterizzato tutta la sua poetica. Lo sguardo passa quindi dalla bellezza estetica della stella cometa, portatrice di speranza, al cuore dell’uomo.
In Gesù Bambino sono quindi incarnati i veri valori del Natale cristiano, quali la bontà “tesoro immenso” e l’uguaglianza tra esseri umani “che tutte le creature sono uguali”.
I veri doni auspicati dal poeta sono dunque astratti: la bontà e la dolcezza del cuore, vero insegnamento divino. L’appello del poeta è quindi a un Natale più ricco di spirito e pervaso di una luce interiore capace di guidarci in ogni giorno della vita.
La poesia di Saba può essere letta come una preghiera a Gesù Bambino nel quale il poeta prega il signore di non rendergli alcun favore terreno, ma di farlo essere d’animo buono.
Io scrivo nella mia dolce stanzetta,
d’una candela al tenue chiarore,
ed una forza indomita d’amore
muove la stanca mano che si affretta.
Come debole e dolce il suon dell’ore!
Forse il bene invocato oggi m’aspetta.
Una serenità quasi perfetta
calma i battiti ardenti del mio cuore.
Notte fredda e stellata di Natale,
sai tu dirmi la fonte onde zampilla
Improvvisa la mia speranza buona?
È forse il sogno di Gesù che brilla
nell’anima dolente ed immortale
del giovane che ama, che perdona?
Nella notte di Natale non è una delle poesie più celebri di Umberto Saba. Fu scritta presumibilmente nel 1901, quindi datata tra i componimenti giovanili del Canzoniere.
Nei versi iniziali il poeta contrappone a un iniziale sentimento di tristezza e solitudine “un’indomita forza d’amore” che gli dà ispirazione aiutandolo a scrivere. Da qui subentra una “felicità quasi perfetta” evocata dalla notte di Natale che conduce il poeta in uno stato di ebbrezza.
Inizia quindi un breve dialogo con la notte di Natale personificata nel quale Saba chiede da dove provenga questa nuova serenità del cuore da lui percepita.
La risposta è forse nella nascita di Gesù, che ora brilla nella mangiatoia di Betlemme, consolando con il suo pianto le anime afflitte di tutto il mondo.
Colui che ci ha insegnato, conclude Saba, i sentimenti di amore e di perdono.
E proprio questo soffuso sentimento d’amore sembra inondare di magia la notte di Natale portando un’inedita pace al cuore dell’uomo.
Il 21 dicembre 1940 a soli 44 anni si spegneva Francis Scott Fitzgerald. Il padre del “Grande Gatsby” fu lo scrittore bello e dannato del Novecento americano. La sua vita ricorda la parabola tragica del suo eroe più famoso e controverso.
America anni ’20, nei ruggenti roaring twenties dell’età del jazz e dell’avanguardia poetica del nuovo sperimentalismo emerge anche una nuova letteratura caratterizzata da un marcato individualismo.
L’interprete più famoso di questa corrente letteraria nascente è Francis Scott Fitzgerald, il primo vero narratore del sogno americano, l’American Dream, di cui cantò anche il malessere al di là dello scintillio dorato delle illusioni.
Fitzgerald e il suo capolavoro, Il grande Gatsby, furono il simbolo della generazione perduta, la cosiddetta Lost Generation definita da Hemingway.
Nel libro Il grande Gatsby lo scrittore riuscì a comporre un elogio del sogno americano e della sua mistificazione, narrando tuttavia anche la disillusione che spesso lo accompagna.
La parabola narrativa del romanzo si potrebbe applicare anche alla vita di Francis Scott Key Fitzgerald stesso che si spegneva a Los Angeles il 21 dicembre 1940, a soli quarantaquattro anni, stroncato da un infarto miocardico acuto. Il suo tramonto, però, era iniziato tempo prima.
Francis Scott Key Fitzgerald nacque a Saint-Paul, nel Minnesota, il 24 settembre 1896. Figlio di un aristocratico del Sud e di una ricca ereditiera irlandese, il giovane Fitzgerald assistette alla rovina economica del padre a causa di alcuni investimenti sbagliati e fu allevato dalla nonna materna che provvide al suo mantenimento e ai suoi studi.
Fitzgerald pubblicò il suo primo racconto, Il mistero di Raymond Marge, nel 1909 durante gli studi superiori presso la Newman School in New Jersey rivelando un talento precoce per la scrittura. In seguito si iscrisse alla prestigiosa università di Princeton che ebbe un ruolo fondamentale nella sua crescita intellettuale e gli permise di entrare in contatto con un circolo di letterati.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale Francis decise d’impeto di arruolarsi come volontario e abbandonare gli studi, senza conseguire l’ambita laurea. Il periodo nell’esercito si rivelerà deludente - caratterizzato da pochi atti d’eroismo e da lunghi periodi di stasi forzata - tuttavia permise a Francis Scott Fitzgerald di conoscere una persona fondamentale per la sua vita, la bella e dannata Zelda Sayre, che sarà croce e delizia della sua esistenza.
Il successo arrivò prorompente e inatteso con la pubblicazione del primo romanzo Di qua dal paradiso nel 1920 che segnò la consacrazione letteraria di Francis Scott Fitzgerald.
Fitzgerald divenne un autore best-seller, lui e la moglie Zelda furono acclamati al livello di celebrità. Vivevano a New York nel lusso più sfrenato, organizzando svariati party e feste danzanti che erano molto rinomati nella società dell’epoca.
Parallelamente l’attività letteraria di Francis Scott era sempre più frenetica, nel 1922 pubblicò Belli e dannati un ritratto della Belle Èpoque americana su cui aleggiava il timore oscuro che quell’età spensierata e dissoluta potesse finire all’improvviso.
Proprio come i protagonisti dei suoi libri lo scrittore era attratto dalla decadenza delle città europee e nel 1924 decise di trasferirsi nel Vecchio Continente con la moglie e la figlia piccola Frances, detta “Scottie”.
I Fitzgerald trascorsero un lungo periodo in Francia, a Parigi, dove entrarono in contatto con molti intellettuali espatriati dell’epoca, tra cui Ernest Hemingway che fornirà un esaustivo ritratto della coppia nel romanzo autobiografico Festa mobile.
Il 10 aprile 1925 fu dato alle stampe Il Grande Gatsby che venne definito dal poeta definito da T.S. Eliot come:
Il primo passo in avanti fatto dalla narrativa americana dopo Henry James.
Dopo il grande capolavoro arrivarono per Francis Scott Fitzgerald gli anni dell’inevitabile declino. Le infedeltà coniugali della moglie e i frequenti litigi esasperavano lo scrittore che iniziò a rifugiarsi nell’alcol per trovare conforto dalla sua vita privata in caduta libera.
Fitzgerald iniziava a perdere il controllo. Un episodio in particolare esprime il delirio che l’autore americano viveva all’epoca: nel 1926 mentre era in viaggio a Roma prese a pugni un tassista in seguito a una sbronza. In quegli anni era lo scrittore più pagato al mondo, ma forse anche il più infelice.
Se letta in bilico tra storia e letteratura la vita di Francis Scott Fitzgerald ricorda straordinariamente il ritratto che lo scrittore fece del suo più celebre personaggio, Jay Gatsby:
La sua vita era stata confusa e disordinata… Ma se poteva ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto da capo, sarebbe riuscito a scoprire qual era la cosa che cercava.
Dai ruggenti anni ’20 del Sogno americano alla Grande depressione. L’esistenza di Francis Scott Fitzgerald parve seguire la stessa parabola storica che portò l’America alla guerra.
L’autore pubblicò il romanzo Tenera è la notte (1934), considerato il suo canto del cigno, e decise di far ritorno in America. Alla moglie Zelda fu diagnosticato un disturbo schizofrenico e venne internata in una casa di cura in Svizzera; sarà l’inizio di una grave parabola discendente.
L’ultimo romanzo di Fitzgerald tuttavia non ottenne il successo sperato dall’autore, che malgrado ogni sforzo creativo non riusciva più a replicare la popolarità dei primi libri.
A causa delle difficoltà economiche e familiari lo scrittore iniziò a cadere nell’abuso di alcol. Mentre l’America scivolava nella Grande depressione economica, sulla vita di Fitzgerald calava un’ombra: lo scrittore viveva nella miseria e nel decadimento fisico e psicologico. Si ammalò di tubercolosi, poi di depressione. Le case editrici gli rifiutavano i contratti a causa delle sue disastrose condizioni psicofisiche.
Un lieve cenno di ripresa nel 1937, quando Fitzgerald fu chiamato a Hollywood dove gli venne offerto un contratto come sceneggiatore. Ma il ritrovato equilibrio ebbe breve durata. A Hollywood l scrittore si innamorò di una cronista mondana e ritrovò l’ispirazione letteraria iniziando a scrivere un nuovo romanzo The last Tycoon, che resterà incompiuto.
Il 21 dicembre 1940 Francis Scott Fitzgerald, lo scrittore della generazione perduta, morirà in seguito a un attacco di cuore.
La moglie Zelda Sayre Fitzgerald gli farà seguito alcuni anni dopo, il 10 marzo 1948, vittima di un incendio nella clinica psichiatrica di Asheville, in cui alloggiava da diversi anni. Si racconta che quando scoppiò l’incendio nelle cucine della clinica Zelda fosse in attesa di una terapia elettroconvulsivante.
Zelda e Francis Scott Fizgerald furono sepolti insieme nel cimitero di Rockville, nel Maryland.
Sulla loro tomba è stato posto un ultimo doveroso omaggio all’attività letteraria, con un’iscrizione funebre che richiama l’ultima frase de Il grande Gatsby:
Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.
Figura di spicco della narrativa pre-romantica inglese, Jane Austen fu la scrittrice più celebre del Settecento. La sua penna ha dato vita a storie d'amore immortali, ma nella realtà Jane Austen dedicò la propria esistenza alla scrittura rifiutando il matrimonio.
Jane Austen, scrittrice iconica della letteratura mondiale, nasceva il 16 dicembre 1775, oltre duecento anni fa. Morirà a soli quarantun anni, nel 1817, a causa di un morbo allora sconosciuto.
Il ritratto forse più compiuto della vita della scrittrice inglese ce l’ha fornito il nipote Edward Austen-Leigh che dedicò alla zia la biografia Memorie (1870).
Nelle parole di Edward, Jane Austen appare come una signorina esemplare, dedita alle incombenze della vita domestica e alla scrittura, da lei considerata come un passatempo intellettuale e raffinato.
La sua vita fu singolarmente povera di eventi. Il suo quieto corso non fu interrotto che da pochi cambiamenti e da nessuna grande crisi. Dispongo perciò di scarsissimo materiale per un resoconto dettagliato della vita di mia zia; ma ho un ricordo chiaro della sua persona e del suo carattere.
scrive Edward Austen-Leigh
Forse in molti potranno essere interessati a una descrizione di quella fertile immaginazione da cui sono nati i Dashwood e i Bennet, i Bertram e i Woodhouse, i Thorpe e i Musgrove, che sono stati invitati come cari amici presso il focolare di numerose famiglie, e sono da loro conosciuti intimamente, come se fossero davvero dei vicini di casa.
Come osserva sagacemente Edward Austen, ciò che oggi più incuriosisce della biografia della scrittrice inglese è proprio la sua immaginazione. Da dove trasse Jane Austen le trame delle sue storie? Quali incontri, segreti, passioni diedero origine ai suoi indimenticabili personaggi?
L’autrice ha regalato ai suoi lettori un mondo vivido, fatto di feste danzanti e tè sorseggiati nei salotti, di sentimenti che sfidano la ragione. Poco importa che le notizie sulla sua vita siano frammentate e lacunose, se un lettore vuole approfondire Jane Austen può conoscerla attraverso i suoi romanzi, che certo ci dicono molto più rispetto ai dati biografici.
Del resto, Austen dedicò tutta la propria esistenza alla scrittura, come se la sua vita vera - la sola che meritasse di essere vissuta - fosse racchiusa nelle pagine dei suoi romanzi.
Jane Austen nacque a Steventon, nella contea di Hampshire, il 16 dicembre 1775. Era l’ultima figlia di George Austen, un pastore anglicano. Visse per venticinque anni nella cittadina di Steventon assieme ai sei fratelli e alla sorella Cassandra.
La giovinezza della scrittrice trascorse nella casa paterna, dove fu istruita da un precettore privato.
Come molte giovani del tempo Jane Austen venne educata in casa, imparò il francese e studiò la letteratura inglese direttamente dai testi integrali di Walter Scott, Henry Fielding e George Crabbe.
La sua passione letteraria fu incoraggiata, fin dalla giovane età, dal padre. Jane ebbe la possibilità di apprendere le tecniche di scrittura studiando i prinicipali autori del tempo: in particolare Henry Fielding, scrittore da lei molto amato, mentre apprese la peculiare introspezione psicologica dei personaggi dall’innovativo romanzo epistolare Pamela di Richardson che all’epoca suscitò grande scandalo.
Quando Jane compì venticinque anni l’intera famiglia si trasferì a Bath per necessità lavorative di George Austen.
La cittadina di Bath, sulla costa meridionale inglese, fu il principale teatro delle storie della Austen che ne ritrasse in particolar modo la frivolezza, le consuetudini mondane e i riti ipocriti dettati dalla società del tempo. A Bath, Jane cominciò a scrivere i primi capitoli di un romanzo I Watson, che però lasciò incompleto.
In seguito alla morte improvvisa del capofamiglia, Jane, la sorella Cassandra e la madre si trasferirono a Southampton nella dimora del fratello Frank.
Né Jane né Cassandra si sposarono mai e vissero contando sul sostegno economico dei fratelli, poiché all’epoca non vi erano altre alternative per una donna non maritata.
Sul finire del 1700 le sorelle Austen si trasferirono nel cottage di Chawton, donato loro dal fratello Edward. Fu proprio nel cottage di Chawton, immerso nel verde, che Jane Austen scrisse la maggior parte dei suoi romanzi.
A differenza di quanto auspicato da Virginia Woolf, la Austen non poté mai contare sul privilegio di una “stanza tutta per sé”, ma scrisse sempre nelle aree comuni interrotta dal chiasso dei nipoti e dall’affaccendarsi delle domestiche.
Jane Austen scrisse tutte le proprie opere letterarie china su un minuscolo tavolo situato al piano terra, nella cosiddetta drawing room. Il tavolo si trovava vicino alla finestra ed era esposto ai costanti passaggi dei familiari, degli ospiti e del personale domestico. Fu proprio quel misero tavolo l’officina rudimentale dell’ attività letteraria della grande scrittrice.
Oggi il tavolo di scrittura di Jane Austen è un oggetto di culto, è possibile visitarlo nel Jane Austen’s House Museum istituito nel cottage di Chawton, ogni giorno meta di un costante flusso di visitatori.
Una volta giunta a Chawton Jane riprese in mano per diletto i manoscritti composti attorno ai vent’anni. Nel 1797, basandosi su quelle prime storie abbozzate in gioventù, l’autrice scrisse il suo capolavoro Orgoglio e pregiudizio, che tuttavia le procurò solo un discreto successo in vita. Oggi è uno dei libri più letti nel mondo, uno dei capisaldi della letteratura inglese.
L’anno successivo, nel 1798, terminò il suo secondo romanzo Ragione e sentimento, che fu pubblicato soltanto nel 1811.
Scrisse poi interamente Mansfield Park ed Emma, che tuttavia non suscitarono molto entusiasmo da parte del pubblico, come confessò Austen stessa in una lettera. In seguito la scrittrice si dedicò a L’abbazia di Northanger e Persuasione, che furono pubblicati postumi.
Tutti i libri di Jane Austen furono inizialmente dati alle stampe in forma anonima, il nome fu rivelato solo dopo la morte della scrittrice.
I romanzi della scrittrice inglese parlano un linguaggio straordinariamente moderno per l’epoca, ragione per cui sono amati anche dai lettori contemporanei. Se è vero che tutte le storie si concludono con il matrimonio, è altrettanto vero che le sue eroine sono giovani indipendenti che aspirano alla libertà e sono caratterizzate da una profonda introspezione psicologica. Il genere rosa è solo la connotazione più superficiale della letteratura di Jane Austen, che in realtà parlano di un mondo socialmente molto più complesso e controverso di quanto l’odiosa etichetta di “letteratura femminile” voglia far credere.
Jane Austen era una donna del suo tempo, non certo una rivoluzionaria, tuttavia attraverso la scrittura riuscì a rappresentare una voce unica, individuale, indipendente, che si poneva in forte contrasto con il ruolo riservato alla donna in epoca vittoriana. Fu una delle prime donne-scrittrici della storia a mettere su carta i propri sentimenti, senza alcuna reticenza.
L’ultimo manoscritto della scrittrice Sanditon, rimase incompiuto, perché nel 1816 Jane Austen iniziò ad accusare i sintomi di una strana malattia.
Nel cottage di Chawton Jane Austen trascorse gli ultimi anni della sua vita, qui infatti Jane Austen si ammalò di un male sconosciuto.
Nel maggio del 1817 la sorella Cassandra accompagnò Jane nella vicina città Winchester per farla visitare da un medico specialista; ma nessuna cura poté salvarla, poiché la malattia era già in uno stadio troppo avanzato.
Le ipotesi più accreditate suggeriscono si fosse trattato del morbo di Addison. Jane Austen morì pochi mesi dopo a soli 41 anni, il 18 luglio 1817.
La sua salma ora riposa all’interno della magnifica Cattedrale di Winchester, una delle più antiche del Regno Unito, capolavoro dello stile gotico-romanico.
La celebre autrice di “Piccole donne” nutriva una vera e propria passione per il periodo natalizio, cui dedicò molti suoi scritti. Fu proprio Louisa May Alcott la prima scrittrice a nominare in letteratura gli elfi di Babbo Natale.
La passione della scrittrice Louisa May Alcott per le festività natalizie era davvero inesauribile. Il Natale fu infatti di ispirazione alla Alcott per la creazione di numerose storie, fiabe e racconti.
Durante l’estate del 1855 l’autrice terminò una raccolta di racconti natalizi intitolata Christmas Elves, Gli Elfi di Natale, ma il suo editore non accettò di pubblicarla.
Il manoscritto è andato perduto, ma pare che se ne siano salvati alcuni estratti in altre opere della scrittrice, come nel poema The Wonders of Santa Claus pubblicato sulla rivista Harper’s Weekly.
Grazie all’epistolario di Louisa May Alcott sappiamo che l’autrice scrisse un libro di racconti intitolato Folletti di Natale, che fu illustrato dalla sorella minore May.
Finito il libro di fate a Settembre. Ottobre. May ha fatto le illustrazioni del mio libro di racconti intitolato Folletti di Natale. È migliore di Flowers Fable. Ora devo cercare di venderlo.
Ma il libro non vide mai la luce. Alcuni mesi dopo May si ammalò gravemente e morì. Alcott reagì al dolore per la perdita della sorella occupandosi della nipote, Louisa May Nieriker, detta Lulù cui dedicò nuovi libri di favole natalizie.
Pare sia stata proprio Louisa May Alcott la prima scrittrice a menzionare in chiave letteraria i famosi elfi di Babbo Natale, i Santa Little Helpers, come dimostra il poema The Wonders of Santa Claus.
La figura dell’elfo di Natale apparve per la prima volta in letteratura nel 1850 proprio grazie alla penna di Louisa May Alcott.
La rivista politica americana Harper’s Weekly (1857-1916) presentò in esclusiva nella sua edizione natalizia del 1857 una poesia inedita dell’autrice intitolata The wonders of Santa Claus in cui veniva narrata la fervente attività degli elfi aiutanti affaccendati nel laboratorio di Babbo Natale.
L’immagine degli elfi fu in seguito resa popolare dal Godey’s Lady’s Book, una rivista femminile americana pubblicata dal 1830 al 1878. L’illustrazione di copertina del numero natalizio del 1873 mostrava Babbo Natale circondato da giocattoli ed elfi
La rivista Godey’s Lady’s Book giocò un ruolo importante nell’influenzare le tradizioni natalizie che si stavano sviluppando negli Stati Uniti: per esempio, la copertina del numero di Natale 1850 presentava la prima immagine ampiamente diffusa del moderno albero di Natale.
Alla scrittrice Louisa May Alcott e alla sua fervida fantasia spetta quindi il primato di aver esportato le mitiche figure degli elfi dall’immaginario scandinavo della tradizione svedese e danese a quello americano.
Ecco il testo della poesia di Louisa May Alcott dedicata proprio agli elfi di Babbo Natale, intitolata Buon Natale (1857) :
Nella fretta del primo mattino,
quando il rosso brucia attraverso il grigio,
e il mondo invernale sta aspettando
la gloria del giorno,
sentiamo un frusciare adattato
Solo senza sulla scala,
vediamo due piccoli fantasmi bianchi arrivare,
Cattura il barlume di capelli solari.
Sono fate di Natale che rubano
file di calzini da riempire?
Sono angeli che fluttuano qui?
Con il loro messaggio di buona volontà?
Quale dolce incantesimo stanno tessendo questi elfi
Che come le allodole cinguettano e cantano?
Beh, li conosciamo, mai stanchi
di questa innocente sorpresa;
Aspettando, guardando, ascoltando sempre
con il cuore pieno e gli occhi teneri,
mentre i nostri piccoli angeli domestici,
bianchi e dorati al sole,
Ci salutano con il dolce vecchio benvenuto,
“Buon Natale a tutti!”
La poesia si conclude proprio con questo benevolo messaggio augurale, direttamente dalla penna di Louisa May Alcott, l’autrice che amò il Natale a tal punto da reinventarne i miti e le storie in un immaginario personalissimo e pieno di fantasia, che ancora oggi continua a parlarci.
Fu la prima donna a ricevere il premio Nobel per la Letteratura nel 1909. La scrittrice svedese Selma Lagerlöf ha legato i suoi racconti e le sue fiabe alla tradizione orale della sua terra, facendo riscoprire al mondo intero la mitologia del Natale.
Nel 1909 Selma Lagerlöf, una modesta maestra elementare svedese che scriveva per diletto, ricevette il premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione:
Per l’elevato idealismo, la vivida immaginazione e la percezione spirituale che caratterizzano le sue opere.
Era la prima donna della storia a essere insignita dell’illustre premio dell’Accademia Svedese.
All’epoca Lagerlöf aveva 51 anni ed era già una personalità conosciuta in Svezia per i suoi racconti di saghe e leggende che si intrecciavano strettamente alla narrazione orale della sua terra.
Nei suoi libri la scrittrice narrava usi e costumi svedesi tipici, tradizioni derivate dal folklore popolare e, soprattutto, la festività del Natale.
Il nome di Selma Lagerlöf si lega strettamente al Natale, i suoi libri dedicati alla ricorrenza natalizia sono ormai diventati di culto. Storie che scaldano il cuore, da narrare davanti a un camino acceso nelle buie sere d’inverno, per trarne una morale profonda di solidarietà e fratellanza.
I suoi libri oggi sono pubblicati in Italia dalla casa editrice Iperborea, specializzata nella letteratura nord-europea.
Selma Lagerlöf nacque a Mårbacka, nel Vӓrmland, una regione della Svezia situata al confine con la Norvegia, il 20 novembre 1858.
Trascorse l’infanzia nella grande proprietà della nonna paterna Elisabet Maria Wennervik, una grande tenuta smarrita nelle lande svedesi. Qui la piccola Lagerlöf poteva far volare liberamente la propria immaginazione, arricchendola con le storie popolari della tradizione nordica raccontatale dalla nonna.
Iniziò a comporre i primi racconti da bambina. Fu a lungo affetta da una forma di zoppia che le impediva di camminare correttamente, e la sedentarietà forzata le diede modo di dare libero sfogo alla fantasia scoprendo così il proprio talento.
Ammaliata dai racconti della giovane, la scrittrice Anna Frysell decise di prenderla sotto la sua ala protettiva, aiutando così Selma a prendere un prestito per finanziare la sua educazione scolastica.
Grazie all’aiuto di Frysell, Selma Lagerlöf proseguì gli studi e, al termine delle scuole superiori, entrò nel Women’s Higher Teacher Training College di Stoccolma. Si laureò tre anni dopo, nel 1885.
Ottenuta la licenza come maestra elementare, Selma Lagerlöf iniziò a insegnare nel 1885 nelle scuole di Landskrona. Nel tempo libero si dedicava al proprio passatempo prediletto, la scrittura, componendo un lungo romanzo epico-narrativo dal titolo Gösta Berlings Saga.
Incoraggiata dall’amica Sophie Adler Sparre, Selma Lagerlöf pubblicò alcuni capitoli della saga che le permisero di vincere un cospicuo premio in denaro. Fu il suo primo vero successo come scrittrice. Grazie al denaro ricavato Lagerlöf poté abbandonare l’insegnamento e intraprendere una serie di viaggi per il mondo visitando l’Italia, la Palestina, l’Egitto. Selma concluse la saga di Gösta Berling che venne pubblicata l’anno successivo, riscuotendo un grande successo di pubblico soprattutto in Danimarca.
Dopo la pubblicazione del suo secondo romanzo, Selma Lagerlöf incontrò Sophie Elkan, anche lei scrittrice, che divenne sua amica e compagna.
Il parere di Elkan ebbe una forte influenza sulla scrittura di Lagerlöf, arrivando a determinare persino in maniera significativa lo sviluppo delle storie. Si racconta che Elkan divenne gelosa del successo crescente di Selma, che a inizio Novecento si trovava all’apice della carriera.
Lagerlöf iniziò a scrivere di temi soprannaturali, medievali e religiosi. Durante il viaggio in Italia compose Kristerlegender (Christ Legends) una rivisitazione di leggende e miti in chiave biblica, cui fece seguito alcuni anni dopo Jerusalem , la storia di una piccola comunità danese trasferitasi in Terrasanta.
La gelosia di Sophie Elkan fu spesso un impedimento nella vita di Selma, il rapporto tra le due era turbolento. La compagna era infatti infastidita dalla stretta relazione tra Lagerlöf e la sua assistente-collaboratrice, Valborg Olander.
Fu tuttavia grazie alla preziosa influenza di Olander che Selma Lagerlöf iniziò a interessarsi al suffragio femminile in Svezia offrendo il proprio contributo alla causa.
Nel 1904, fu pubblicata la prima raccolta di racconti La notte di Natale. Si componeva di undici storie a sfondo religioso contenenti messaggi di fratellanza, altruismo, solidarietà, in cui la nascita di Gesù fa in realtà solo da sfondo alle profonde vicende umane narrate.
Ne La notte di Natale, troviamo collegamenti ai Vangeli apocrifi, rivisitazioni di leggende orientali e italiane, personaggi bizzarri che vivono epifanie inattese. La morale ultima delle storie è costituita dall’amore per il prossimo.
In seguito la scrittrice svedese riprese lo stesso filone di racconti scrivendo La leggenda della rosa di Natale (1908), una raccolta più malinconica, imperniata sul tema di un amore perduto che può tornare a noi inaspettatamente.
Con la pubblicazione de Il libro di Natale l’autrice ci regala una raccolta di storie senza tempo, da raccontare nelle lunghe notti di inverno di fronte a un camino acceso.
Tradizioni popolari, antiche fiabe della tradizione nordica, che rivivono nel tiepido bagliore di una candela che illumina la notte. Nella sua ultima raccolta dedicata al tema del Natale Selma Lagerlöf fa dell’incanto fiabesco una narrazione che annulla la linea di confine tra l’infanzia e l’età adulta.
Nel 1906 la scrittrice svedese pubblicò la sua opera più innovativa Quel viaggio meraviglioso di Nils Holgersson, un libro didattico che vuole essere al contempo un manuale scolastico e un romanzo d’avventura.
Il libro narrava le avventure di un ragazzino birichino di nome Nils che viaggiava sul dorso di un’oca spiegando la storia e la geografia di tutti i paesi da lui visitati. L’opera di Selma suscitò l’ammirazione del filosofo e pedagogista austriaco, Karl Popper. Il testo venne adottato in molte scuole svedesi come manuale di didattica.
Nel 1909 la Reale Accademia di Svezia le conferisce il premio Nobel per la Letteratura. Nel 1911 le fu conferito in aggiunta un dottorato onorario.
Selma Lagerlöf sarà anche la prima donna a entrare nel collegio dei diciotto membri ufficiali dell’Accademia di Svezia nel 1914.
La scrittrice svedese in seguito dedicò la propria vita all’impegno nelle cause pacifiste e femministe. Nel 1911 tenne un discorso all’Alleanza Nazionale per il suffragio femminile.
Negli anni successivi Selma Lagerlöf decise di devolvere i proventi delle sue pubblicazioni per sostenere i rifugiati ebrei in fuga dalla Germania di Hitler.
La scrittrice sostenne attivamente la resistenza contro i nazisti, giunse persino a vendere la medaglia d’oro conferitale dall’Accademia di Svezia per la causa della libertà. Un gesto nobile che fa onore alla prima donna della storia insignita del premio Nobel per la Letteratura.
L’impegno pacifista di Lagerlöf permise a molte persone di salvarsi dal furore della minaccia nazista. Grazie a lei la poetessa Nelly Sachs riuscì a ottenere un visto per la Svezia, salvandosi così dai campi di concentramento.
Negli ultimi anni Selma Lagerlöf si dedicò a ristrutturare la tenuta di famiglia di Marbacka. Sophie Elkan morì prima che la ristrutturazione fosse completata, lasciando un grande vuoto nella vita di Selma. In seguito al lutto la scrittrice svedese decise di ritirarsi nella tenuta di famiglia conducendo una vita solitaria.
Selma Lagerlöf si spense nella cittadina natia di Marbacka, in seguito a un’emorragia cerebrale, il 16 marzo 1940, all’età di ottantadue anni.
Oggi è la scrittrice svedese più letta e amata nel mondo.
Il 13 dicembre di ogni anno si festeggia Santa Lucia: chi era e qual è la storia legata a questo giorno? Cominciamo raccontando la storia di Lucia, una giovane di Siracusa nata verso la fine del III secolo a. C. e morta il 13 dicembre del 304 sgozzata con una spada. Le sue spoglie si trovano a Venezia e il 13 dicembre, giorno della sua nascita, è stato scelto per ricordarla e renderle omaggio.
Una tradizione popolare identifica questa giornata come la più corta dell’anno in maniera erronea; la verità è che il giorno più corto dell’anno cade quest’anno il 21 dicembre, in occasione del solstizio d’inverno. La ragione per cui è il solstizio d’inverno il giorno più corto dell’anno risiede nel fatto che la Terra è alla massima distanza al di sotto dell’equatore celeste e l’arco apparente descritto da sudest a sudovest è minimo. L’errata credenza deriva dal fatto che prima del 1582 Santa Lucia, il 13 dicembre, era veramente il giorno più corto dell’anno per via della sfasatura tra calendario civile e calendario solare. All’epoca il solstizio d’inverno cadeva effettivamente tra 12 e 13 dicembre.
Le più belle frasi legate al giorno di Santa Lucia.
Ecco le frasi e i detti più celebri, le poesie e le filastrocche legati alla celebrazione del giorno di Santa Lucia:
Santa Lucia diffondeva la luce dei suoi occhi sulla lunga notte del solstizio.
(Martirologio Romano)
Avevo dimenticato quanta luce c’è nel mondo, fino a quando non me l’hai donata.
(Ursula K. Le Guin)
Da Santa Lucia il freddo si mette in via.
(Proverbio)
Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia.
(Proverbio)
La vita è una grande avventura verso la luce.
(Paul Claudel)
Zitti, zitti fate piano
vien la Santa da lontano,
porta a tutti dolci e doni
soprattutto ai bimbi buoni.
Ma se un bimbo è cattivello,
oltre tutto un po’ monello,
nulla trova nel tinello.
Quindi bimbi birichini
diventate un po’ bravini,
e i cuoricini tutti spenti
con la Santa si fan contenti.
Grazie, grazie Santa Lucia,
il tuo incanto mi porti via.
(Filastrocca di Santa Lucia)
Santa Lucia, per tutti quelli che hanno occhi
e gli occhi e un cuore che non basta agli occhi
e per la tranquillità di chi va per mare
e per ogni lacrima sul tuo vestito,
per chi non ha capito.
Santa Lucia per chi beve di notte
e di notte muore e di notte legge
e cade sul suo ultimo metro,
per gli amici che vanno e ritornano indietro
e hanno perduto l’anima e le ali.
Per chi vive all’incrocio dei venti
ed è bruciato vivo,
per le persone facili che non hanno dubbi mai,
per la nostra corona di stelle e di spine,
per la nostra paura del buio e della fantasia.
(Francesco De Gregori)
Anche allora era il giorno tredici dicembre e sul calendario era scritto: festa di Santa Lucia. La nonna raccontava che la notte sarebbe passata questa giovane ragazza con il suo asino a portare i regali a chi li aveva meritati durante l’anno. Non c’era ancora nei paesi del Trentino l’allegro e grasso Babbo Natale, passava su un modesto asinello davanti alle finestre Santa Lucia a lasciare dolci e piccoli regali.
(Maria Romana De Gasperi)
Lucia scendeva nelle catacombe a curare gli infermi recando una luce sulla testa per poter camminare nel buio. Forse per questo lei nasce al Cielo nel giorno più corto dell’anno, per essere una luce nella notte del mondo.
(Gloria Riva)
Santa Lucia bella,
dei bimbi sei la stella,
per il mondo vai e vai
e non ti stanchi mai.
Porti regali e doni
a tutti i bimbi buoni,
col tuo cestin dorato
e l’asinello alato.
Viva Santa Lucia,
viva Santa Lucia,
viva Santa Lucia
con il suo asinel
pereppeppè!!!
Santa Lucia bella
dei bimbi sei la stella,
tu vieni a tarda sera
quando l’aria si fa nera.
Tu vieni con l’asinello
al suon del campanello,
e le stelline d’oro
che cantano tutte in coro:
«Bimbi, ora la Santa è qui
ditele così:
cara Santa Lucia
non smarrir la via
trova la mia porticina
quella è la mia casina!»
E giù tanti doni.
(Filastrocca di Santa Lucia)
Da Santa Lucia a Natale, il dì allunga un passo di cane.
(Proverbio)
Sulla porta lessi questo cartello: locanda Santa Lucia.
Santa Lucia era una bella ragazza di Siracusa.
La pitturano con due bellissimi occhi di bue su un vassoio.
Sopportò il supplizio sotto il consolato di Pascasiano che aveva i baffi di argento e ululava come un cane da guardia
Come tutti i santi, propose e risolse teoremi deliziosi, di fronte ai quali gli apparecchi di fisica spaccano i loro vetri.
Dimostrò sulla pubblica piazza, di fronte alla sorpresa del popolo, che 1000 uomini e 50 paia di buoi non vincono la colombella sfavillante dello Spirito Santo.
(Federico Garcia Lorca)
Santa Lucia con il suo carretto
lascia a tutti un gioco e un dolcetto.
porta ai bambini tanti regali
tutti belli, tutti speciali.
(Filastrocca di Santa Lucia)
3 agosto 1924, Bishopsbourne, Regno Unito
Il 3 dicembre 1857 nasceva Joseph Conrad, uno degli autori forse più conosciuti al mondo per via del suo capolavoro Cuore di tenebra. Conrad è considerato uno dei più importanti scrittori moderni in lingua inglese. Nato Józef Teodor Konrad Korzeniowski a Berdyčiv (Polonia) il 3 dicembre 1857 e morto a Bishopsbourne (Regno Unito) il 3 agosto 1924, è stato uno scrittore e navigatore polacco naturalizzato britannico. Cresce in una famiglia culturalmente vivace e il padre, traduttore, scrittore e attivista politico, lo incoraggia allo studio fin dalla più tenera età.
All’età di undici anni resta orfano di entrambi i genitori e viene affidato alle cure dello zio materno, Tadeusz Bobrowski, che si occupa della sua istruzione.
Sebbene sia oggi considerato uno dei maggiori scrittori moderni in lingua inglese, Conrad non apprese questa lingua che molto tardi, quando ventenne iniziò a viaggiare. Madrelingua polacco ed esperto conoscitore del francese, per lui l’inglese era la terza lingua. Ma la imparò rapidamente e la padroneggiò magistralmente, tanto da scrivere alcuni capolavori della letteratura inglese proprio in questa lingua.
Sin da ragazzo ebbe una vita avventurosa caratterizzata da numerosi viaggi e permanenze in terre lontane, fu coinvolto nel commercio di armi e in cospirazioni politiche e soffrì duramente per amore.
Gran parte della sua vita trascorse in mare, in lunghi viaggi per la marina britannica. Chiaramente possiamo rintracciare molto del suo vissuto nelle opere che ci ha lasciato (impossibile non collegare la navigazione nell’arcipelago sud asiatico con i romanzi Il negro del “Narciso”, Lord Jim e Un reietto delle isole). Nel 1878, dopo aver perso al gioco la sua rendita annua, tentò il suicidio.
Anche se il riferimento letterario che proprio non possiamo non cogliere è in Cuore di tenebra. Il legame di Conrad con l’Africa si trasformò da desiderio a realtà nel 1889 quando, capitano di un vascello a vapore, pianificò di raggiungere il Congo. La sua esperienza in quei luoghi, la profonda crisi, le atrocità delle quali fu testimone e il disorientamento davanti alla complessità della vita e dei diversi mondi umani sono l’anima del romanzo.
Quando lasciò la vita di mare nel 1894 Conrad si stabilì in Inghilterra e si dedicò alla sua carriera di romanziere. Nel 1896 sposò la giovane inglese Jessie Emmeline George con la quale ebbe due figli. Nel 1924 rifiutò l’offerta di entrare nell’ordine dei cavalieri inglesi da parte del primo ministro laburista Ramsay MacDonald. Morì nel 1924 e oggi è sepolto con la moglie nel cimitero di Canterbury.
I romanzi di Joseph Conrad sono per lo più storie di mare e di avventura. Di viaggi e uomini che si perdono: non tanto nel senso di perdere la rotta e smarrirsi nel mondo, quanto che si perdono nei meandri della vita e della natura umana, negli abissi del cuore dell’uomo. Protagoniste indiscusse sono anche le navi, imbarcazioni di ogni tipo, mezzi di trasporto che permettono ai personaggi delle sue storie di raggiungere luoghi esotici e lontani. Solitudine, paura, violenza e strazio non mancano mai nelle esplorazioni che racconta. Conrad sembra in grado di sondare gli abissi dei mari e quelli dell’animo umano.
Nelle sue opere questo autore racconta anche la crisi dell’Occidente riguardo l’imperialismo britannico, fondato e legittimato sulla propria superiorità morale e culturale rispetto ad altri popoli.
Tra le sue opere più celebri ricordiamo Lord Jim, La linea d’ombra, Il salvataggio e Sotto gli occhi dell’occidente. Ma il suo capolavoro assoluto resta il controverso Cuore di tenebra, un romanzo cupo e disturbante, di una bellezza dolorosa e straziante.
In riferimento a quest’opera è collegato il contributo più innovativo di Conrad per il romanzo moderno. Si tratta dell’invenzione del narratore Marlow, che da pura voce narrante diventa personaggio dotato di un nome e di una storia propria, interna alla trama del racconto.
Il film cult Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, che racconta il periodo della guerra del Vietnam, trae ispirazione proprio da questo romanzo e ne racconta una rilettura in chiave moderna.
Il 30 novembre 1935 si spegnava a Lisbona Fernando Pessoa. Moriva a soli 47 anni una delle menti più poliedriche ed enigmatiche del '900.
Il critico letterario Harold Bloom lo definì il poeta più rappresentativo del XX secolo. Fernando Pessoa, il cui vero nome era Fernando António Nogueira Pessoa, morirà il 30 novembre 1935 nella sua città natale, Lisbona, sconfitto dalla cirrosi epatica che appena una settimana prima lo aveva costretto a un ricovero d’urgenza all’ospedale Luís dos Franceses.
Leggenda narra che una delle sue ultime frasi, scritta a margine di un quadernetto fosse: “I know not what tomorrow will bring”/ “Non so dove ci porterà il domani.”
Fernando Pessoa nacque a Lisbona il 30 giugno 1888. Trascorse la giovinezza a Durban, in Africa del Sud, a causa della professione del patrigno che era console del Portogallo.
Studiò in Africa, seguendo un’educazione di stampo britannico, fino all’esame di ammissione all’Università di Città del Capo. Nella prova di esame non ottenne un buon punteggio, ma ricevette il voto più alto fra 899 candidati nel saggio stilistico di inglese. Per questo venne omaggiato con il Queen Victoria Memorial Prize.
Grazie ai suoi studi raggiunse una conoscenza perfetta dell’inglese che gli consentirà di scrivere in lingua tutte le sue poesie.
Nel 1905 fece ritorno da solo a Lisbona dove resterà fino alla sua morte. Si immatricolò all’università portoghese, al corso di letteratura, ma abbandonerà presto gli studi dopo neppure un anno. Fu una sua ferma decisione dettata dal desiderio di mantenersi economicamente e, nel tempo libero, dedicarsi all’attività letteraria e filologica che tanto amava. Pessoa iniziò quindi a dedicarsi alla traduzione di corrispondenza commerciale, in qualità di "corrispondente estero", che sarà la sua professione per la maggior parte della vita.
A partire dal 1925 il poeta lavorò anche nel settore della pubblicità, commercializzando alcuni prodotti in voga. Si narra che avesse inventato il fortunato slogan per pubblicizzare in Portogallo la prima Coca Cola. La pubblicità inventata da Pessoa consisteva in una vera e propria paranomasia, recitava così: Primeiro estranha-se. Depois entranha-se/ (Prima sorprende. Poi si manda giù, Ndr)
L’esistenza privata di Pessoa potrebbe essere vista come “la storia di un impiegato”, ma la sua creatività lo portò ben oltre lasciando il segno nella letteratura d’avanguardia portoghese. Salvo qualche pubblicazione sulle principali riviste dell’epoca, Fernando Pessoa dedicò tutta la propria vita alla composizione di una vasta opera che non giunse mai a pubblicare in volume.
La fama venne dopo la sua morte, quando nel 1942 i suoi scritti iniziarono a circolare e a essere pubblicati suscitando universale ammirazione.
Il suo capolavoro, Il libro dell’inquietudine fu pubblicato nel 1982 (esattamente quarantasette anni la morte dell’autore) a cura di Jacinto do Prado Coelho. Il libro fu in breve tempo tradotto in molte lingue e divenne un best-seller internazionale.
Il libro dell’inquietudine è considerato la maggiore opera in prosa di Pessoa, venne definito dalla critica "Il più bel diario del nostro secolo".
Il Libro dell’inquietudine (titolo originale: Livro do Desassosego) fu pubblicato per la prima volta in Portogallo nel 1982 sotto la responsabilità organizzativa di Jacinto do Prado Coelho, raccolto e trascritto da Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. L’edizione di Coelho fu un grande avvenimento di rilievo critico ed editoriale. Il curatore era riuscito in un’impresa quasi impossibile, condotta con l’ausilio di rigorosi criteri filologici. Come criterio di ordinamento Coelho optò per la suddivisione in aree tematiche: tedio, autobiografia, sogno, inerzia/azione, viaggio, eteronimia, morte.
I manoscritti originali sono attualmente conservati nel Fondo Pessoa della Biblioteca Nazionale di Lisbona.
Un totale di 27.543 scritti che comprendono un vasto repertorio di quaderni, fogli sciolti, appunti, dattiloscritti e testi a stampa. I fogli del Livro do Desassosego sono contenuti in alcune buste numerate da 1 a 9.
Pare che la scrittura del Libro dell’inquietudine impegnò Fernando Pessoa dal 1913 fino all’anno della sua morte.
I critici letterari oggi lo definiscono "un libro ipotetico" perché i fogli sparsi lasciati da Pessoa non sottostavano a nessun criterio organizzativo e non contenevano alcun riferimento o esplicito rimando alla loro pubblicazione.
Molti scritti del poeta erano stati scarabocchiati sul retro di buste commerciali o foglietti d’occasione, senza alcun riferimento al progetto di un’opera completa. È impossibile quindi stabilire quale criterio di ordinamento il poeta avesse scelto se avesse deciso di pubblicare il proprio diario.
Per questo motivo i critici consigliano di leggere Il libro dell’inquietudine come un mazzo di carte capace di essere letto in infinite combinazioni.
Il libro dell’inquietudine è una lettura labirintica, tutta deputata alla lettura interiore. Tanto che il volume può essere letto soltanto facendo affidamento alla sensibilità e alla profondità spirituale di ciascuno di noi.
La bellezza delle pagine di Pessoa è data proprio da quell’essere frammenti di vita, colti nel loro passaggio transitorio. È una lettura che ci insegna a osservare il lento migrare delle nuvole nel cielo e a riflettere in quel viaggio evanescente la nostra esistenza.
La grande creazione poetica di Pessoa è tuttavia considerata l’invenzione degli eteronimi, che attraversa tutta la sua vita. Si tratta della creazione di personalità poetiche complete che, tramite l’ispirazione artistica, prendono vita propria e autonoma, distaccandosi completamente da quella dell’autore. Quattro in particolare sono gli eteronimi del poeta maggiormente conosciuti: Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos e Bernardo Soares.
Si narra che Pessoa creò il suo primo eteronimo all’età di sei anni nella persona di Chevalier de Pas, con il quale compose un poemetto per la madre e in seguito scrisse lettere indirizzate a se stesso.
Fernando Pessoa non firmò mai nessuna poesia con il proprio nome.
Il poeta è un fingitore
Finge così completamente
Che arriva a fingere che è dolore
Il dolore che davvero sente
Il poeta dell’inquietudine riconduceva l’origine degli eteronimi a un tratto di isteria profonda che esisteva in lui, come afferma lui stesso in una lettera. L’esistenza degli eteronimi è uno dei tratti più enigmatici del carattere di Fernando Pessoa, un’evidenza della sua personalità plurima e sfaccettata. I critici giunsero addirittura a definire il poeta come "l’uomo mai esistito", perché pare che Pessoa nutrisse un tale rifiuto per la propria vita da arrivare a crearsi una serie di biografie parallele: lui è tutti i suoi eteronimi e al contempo nessuno.
Il premio Nobel José Saramago dedicò al poeta portoghese il celebre libro L’anno della morte di Ricardo Reis, facendo riferimento a un famoso eteronimo usato da Pessoa: l’unica di tutte le personalità del poeta a non possedere l’effettiva data di morte. Nel romanzo Saramago riflette sulle relazioni che intercorrono tra verità, esistenza e identità, facendosi portavoce dell’enigmatica esistenza del poeta in bilico tra realtà e finzione letteraria.
Nel suo celebre romanzo L’anno della morte di Ricardo Reis Saramago salutava così Fernando Pessoa, rendendo omaggio a un grande poeta:
Un creatore di versi che ha lasciato la sua parte di pazzia nel mondo, è questa la grande differenza che c’è tra i poeti e i matti, il destino della pazzia che li ha colti.
Si narra che l’ultima frase pronunciata da Pessoa fosse: De-me os meus óculos!/ (Datemi i miei occhiali, Ndr). Un ultimo struggente tentativo di continuare a vedere, oltre la miopia che l’aveva accompagnato per tutta l’esistenza, la necessità di ghermire ancora un lembo di quella vita sfuggente che lui aveva vissuto in profondità osservandola, in realtà, tutta attraverso la mente oltre lo sguardo velato delle sue pupille offuscate.
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
Fernando Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – Lisbona, 30 novembre 1935)
Lo scrittore Carlo Levi non nacque in Lucania, ma della terra lucana si fece ambasciatore nel mondo tramite i suoi scritti. L’omaggio che Levi ha dedicato alle desolate terre del Sud contadino continua a parlarci di un meridione in cui la vita scorre lenta e meditativa sulla base di regole antiche, intessendo una profonda riflessione sull’idea di progresso.
Con la terra lucana Carlo Levi strinse un legame d’amore assoluto e indissolubile, tanto da chiedere di esservi sepolto alla fine dei suoi giorni. Voleva riposare in quel paesaggio aspro, sventurato e oscuro che gli aveva insegnato a guardare l’Umanità negli occhi e a cogliere, nei momenti di maggiore smarrimento e dolore, la salvezza offerta da un gesto di fratellanza.
A quella terra rurale, primitiva e amara l’intellettuale torinese sarà per sempre devoto. Sarà in debito con la Lucania per averlo accolto durante l’esilio, offrendogli le briciole di un pane spartito tra affamati.
Carlo Levi nacque a Torino il 29 novembre 1902 da un’agiata famiglia borghese di origine ebraica. Nel capoluogo piemontese trascorse l’infanzia e la giovinezza. Terminati gli studi liceali si iscrisse all’università di Medicina e Chirurgia di Torino. In ambito universitario conobbe di Piero Gobetti e fu tra i più ferventi sostenitori della rivista Rivoluzione Liberale fondata dall’amico.
Negli anni giovanili Levi affiancò alla passione per la scrittura, una vocazione ancor più spiccata per la pittura. Tra i suoi maestri dell’epoca figura Felice Casorati che era una delle figure più rilevanti della pittura d’avanguardia torinese.
Il talento pittorico di Levi è notevole, tanto che il giovane Carlo giunge
a esporre un proprio quadro, L’Arcadia, alla XIV Biennale di Venezia.
Nel 1924 si laureò in medicina, ma alla professione medica preferì l’attività politica e pittorica. Nel 1928 fondò il gruppo pittorico Sei di Torino in cui si poneva in aperto contrasto con la concezione artistica promossa dal regime fascista optando per un’ottica anticonformista e riformista. Levi e il suo entourage ribadiscono il valore della pittura come espressione di libertà, tuttavia si pongono in conflitto con il modernismo ipocrita rappresentato dal movimento futurista.
Oltre alla passione per la pittura, Carlo Levi continuava a coltivare le proprie idee politiche clandestine. Nel 1931 entrò a far parte del movimento anti-fascista Giustizia e Libertà guidato da Carlo Rosselli.
Quattro anni dopo, alla vigilia della guerra contro l’Etiopia, Carlo Levi fu arrestato in seguito a una retata fascista nelle file di Giustizia e Libertà.
Insieme a lui furono arrestati anche altri intellettuali illustri del tempo, tra cui Cesare Pavese e Franco Antonicelli.
Il 15 luglio la Commissione di Roma decise di condannare Carlo Levi al confino di polizia per tre anni giudicandolo pericoloso per l’ordine nazionale.
Nel 1935 Levi fu quindi condannato all’esilio in Lucania, nel paese di Aliano, una località quasi inaccessibile all’epoca poiché sprovvista di qualsiasi strada o via di comunicazione.
L’esperienza del confino lucano sarà raccontata da Carlo Levi nel suo capolavoro Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato nel settembre 1945 dall’editore Einaudi. Il confino dello scrittore terminò il 20 maggio del 1936, quando il ministero degli interni dispose la liberazione dei confinati politici in occasione della proclamazione dell’Impero di Mussolini.
Ma dell’esperienza in terra Lucana Levi conserverà un ricordo indelebile, tanto da dedicarle un romanzo autobiografico in bilico tra testimonianza storica e manifesto sociale.
Un trattato sulle condizioni di vita disumane in cui versava la popolazione del meridione d’Italia. Un libro denuncia, un libro che fonde abilmente realtà storica e descrizione pittorica, un meraviglioso connubio di capacità narrativa e potenza visiva.
In soli otto mesi di lavoro, in una Firenze assediata dal gioco nazifascista, Levi scrisse l’opera che l’avrebbe portato alla fama internazionale. Nei momenti più drammatici della guerra lo scrittore ricordava i momenti vissuti nelle terre lucane, dove aveva conosciuto la sofferenza più nera, ma anche sperimentato la solidarietà che unisce e salva.
Cristo si è fermato a Eboli ebbe un successo planetario e divenne il traino del rinnovamento sociale italiano.
Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia.
L’incipit folgorante del romanzo racchiude già la perfetta sintesi del contenuto dell’opera. Lo scrittore mostra le condizioni di degrado spirituale e materiale in cui versano le terre del Sud. In quelle terre segnate dalla miseria non sembra essere giunta neppure la parola di Cristo; in quei territori non è arrivato il progresso, né la ragione né la speranza.
Il Cristo di Levi rappresenta l’inizio della Storia, che nel contesto raccontato significa al contempo la fine di essa. L’autore descrive la Lucania come una terra sospesa in un bolla, ferma in un tempo antico che non è stato neppure sfiorato dal progresso, come simboleggia la ferrovia costruita all’estrema propaggine della terra, al confine con la Campania.
La morale di Levi è chiara. Solo il Sud contadino, quel mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare "il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, sconosciuto alla barbarie del presente.
Levi fu affascinato e commosso da quel Sud povero e arretrato, nel quale però si annida l’essenza più profonda dell’umanità.
A quel Sud lo scrittore Carlo Levi dedicherà le sue pagine più belle, dando finalmente voce alla cosiddetta "questione meridionale" e risvegliando così le coscienze degli intellettuali italiani.
Con Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi diede voce e rappresentazione al Meridione contadino degli anni ’30 del Novecento segnando, di fatto, il riscatto del sottoproletariato meridionale. Uno scritto che è analisi sociologica e storiografica e, al contempo, un manifesto di denuncia.
Oggi la Lucania è ancora debitrice a Carlo Levi per le pagine meravigliose e reazionarie che lo scrittore le ha dedicato. Con Cristo si è fermato a Eboli Levi ha scritto per Matera l’inizio di una nuova storia, che ha decretato la rinascita della fisica e culturale città che oggi è nota in tutto il mondo per la sua suggestiva bellezza.
Carlo Levi morì a Roma il 4 gennaio del 1974, dopo alcuni giorni di coma. Gli ultimi anni della sua vita furono caratterizzati da una cecità quasi totale, Levi li trascorse a dipingere come a farsi beffe della sua malattia. Realizzò meravigliosi dipinti grazie all’ausilio di uno speciale telaio e scrisse le ultime pagine del suo diario Quaderno a cancelli, pubblicato postumo nel 1979.
È sepolto ad Aliano, lo sperduto paesino della Basilicata che fu portato all’attenzione mondiale dal suo capolavoro, nel quale lo scrittore aveva riversato tutto il suo struggente amore per la terra lucana.
25 novembre - Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Una ricorrenza voluta dalle Nazioni Unite che l’ha istituzionalizzata il 17 dicembre 1999 con una risoluzione, la 54/134, dove si definisce questa violenza «una delle violazioni dei diritti umani più diffuse, persistenti e devastanti che, ad oggi, non viene denunciata, a causa dell’impunità, del silenzio, della stigmatizzazione e della vergogna che la caratterizzano».
Secondo l’Articolo 1 della Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, emanata dall’Assemblea Generale nel 1993, la violenza contro le donne è «Qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata». E nella stessa dichiarazione si riconosce la matrice storica, sociale e culturale della violenza di genere: «Il femminicidio è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione della donna».
Perché proprio il 25 novembre? La storia delle sorelle Mirabal
Questa data è stata scelta in memoria delle sorelle Mirabal , attiviste politiche massacrate per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo, un crimine diventato tristemente “simbolico” per modalità e contesto in cui è stato compiuto. Il 25 novembre del 1960 nella Repubblica dominicana mentre Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal stavano andando a far visita ai loro mariti in prigione (detenuti politici perché, come loro, erano oppositori del regime), furono bloccate e rapite sulla strada da agenti del Servizio di informazione. Portate in un luogo nascosto nelle vicinanze furono stuprate, torturate, massacrate a colpi di bastone e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente. Nel 1981, durante il primo incontro femminista latinoamericano e caraibico a Bogotà, in Colombia, fu deciso di celebrare il 25 novembre come la Giornata internazionale della violenza contro le donne. Dieci anni dopo, nel 1991, il Center for Global Leadership of Women (CWGL) avviò la Campagna dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, proponendo attività dal 25 novembre al 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani. Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne ufficializzando la data scelta dalle attiviste latinoamericane.
Violenza sulle donne o violenza di genere?
Si parla esplicitamente di violenza contro le donne perché sono la stragrande maggioranza delle vittime delle violenze di genere, ovvero tutti gli abusi, che siano psicologici, fisici o sessuali che riguardano tutte le persone discriminate in base al genere. Rientrano, quindi, in questa forma di violenza anche i reati persecutori come lo stalking, le molestie, le aggressioni, lo stupro e il femminicidio. Come precisa la convenzione di Istambul, l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Esistono forme di violenza che solo le donne subiscono (aborto forzato, mutilazione genitale femminile), o che le donne sperimentano molto più spesso degli uomini (violenza sessuale e stupro, stalking, molestie sessuali, violenza domestica, matrimonio forzato, sterilizzazione forzata).
Non esiste ancora in Italia una legge che inasprisca le pene per chi commette atti discriminatori o violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, o sull’identità di genere, i cosìddetti crimini di odio contro persone per il solo fatto di appartenere a un determinato gruppo sociale come richiederebbe la convenzione di Istanbul ratificata anche dall’Italia. L’iter di approvazione del disegno di legge Zan, infatti, è stato bloccata al Senato nell’ottobre scorso.
Perché le scarpe rosse?
Le Scarpe rosse in tutto il mondo le scarpe rosse sono diventate un simbolo per denunciare le vittime di femminicidio amplificando la forte intuizione di un’artista messicana, Elina Chauvet, che nel 2009 realizzò l’installazione “Zapatos rojos”, ossia “Scarpette rosse”: scarpe da donna di colore rosso o dipinte di rosso, sistemate per le strade, nelle piazze, vicino ai monumenti delle città per dire stop alla violenza di genere. Scarpe raccolte attraverso un tam tam di associazioni o portate da semplici cittadine. Chauvet voleva denunciare i femminicidi compiuti a Ciudad Juàrez, cittadina nel nord del Messico al confine con gli Usa, dove stupri e omicidi si sono moltiplicati nei ultimi decenni nell’indifferenza dei media. Da allora l’installazione ha fatto il giro del mondo e in Italia è stata esposta a Milano, Genova e Lecce.
Perché la panchina rossa?
Quella della panchina rossa è invece una simbologia nata in Italia. Il progetto “La Panchina rossa” è stato lanciato dagli Stati Generali delle Donne ed è partito per la prima volta il 18 settembre 2016 per iniziativa del Comune di Lomello. In poco tempo è diventato un passaparola per tutti ed è rivolto ai Comuni, alle associazioni, alle scuole e alle imprese di tutta Italia. Ormai sono decine e decine i Comuni interessati che in occasione del 25 novembre collocheranno una panchina rossa in luoghi significativi per la cittadinanza. Sulla panchina è di solito posta una targa che ne spiega la finalità, un riferimento al numero antiviolenza, il 1522, e in alcune zone sono stati anche aggiunti i nomi delle donne uccise in quel territorio, come quella di Portoferraio, all’Isola d’Elba dove qualcuno ha aggiunto la frase «Anche Silvia avrebbe potuto sedersi qui», riferendosi alla vicenda di Silvia del Signore, massacrata di botte dal marito il primo maggio 2021.
Convenzione di Istambul: perché è così importante
Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, per i 47 paesi che lo hanno ratificato dieci anni fa, sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. La convenzione di Istambul è «Un trattato rivoluzionario» lo definì Amnesty International quando fu reso noto nel 2011, e «Un buon inizio per salvare la vita di milioni di donne e di ragazze». Gli Stati che aderiscono al trattato sono obbligati a creare servizi di protezione e supporto per contrastare la violenza contro le donne, come ad esempio, un adeguato numero di rifugi, centri antiviolenza, linee telefoniche gratuite 24 ore su 24, consulenza psicologica e assistenza medica per vittime di violenza. Il trattato invita inoltre le autorità a garantire l’educazione all’uguaglianza di genere, alla sessualità e alle relazioni sane. Un elemento chiave della Convenzione di Istanbul è l’obbligo per gli Stati di attuare le sue disposizioni senza alcuna discriminazione. Le donne lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali che affrontano pregiudizi e ostilità radicati profondamente in tutta Europa hanno, quindi, diritto alla protezione e al risarcimento ai sensi di questo trattato, così come chiunque sia sottoposto a violenza domestica».
Nel marzo scorso, vera beffa, la Turchia, il primo Paese che ha firmato la Convenzione, decide di uscirne nonostante le numerose manifestazioni di piazza che si svolgono nel Paese: così il presidente Erdogan accontenta la parte più conservatrice del suo governo. Ma le conseguenze per milioni di donne e di ragazze e per le organizzazioni che aiutano le vittime sono disastrose. È la prima volta che uno Stato membro del Consiglio d’Europa lascia una convenzione internazionale sui diritti umani. Altri paesi, come la Bulgaria, la Slovacchia e la Polonia hanno rigettato, o stanno per farlo, la Convenzione perché la giudicano incostituzionale.
I numeri della violenza in Italia e in Europa
Dall’inizio del 2021 le vittime di femminicidio in Italia sono state 93, praticamente due a settimana: 63 di queste sono state vittime del partner o ex partner. Le donne uccise in ambito familiare/affettivo sono state 111 nel 2018, 94 nel 2019 e 99 nel 2020. Quasi una vittima ogni 3 giorni e mezzo. Guardando i dati il presidente della Camera Roberto Fico ha commentato «Siamo di fronte a un fenomeno di carattere strutturale e non emergenziale». Secondo il rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne presieduta dalla senatrice Valeria Valente che ha preso in esame 237 fascicoli processuali degli omicidi di donne avvenuti nel 2017 e 2018 soltanto il 15% delle donne uccise (circa 1 su 7) aveva denunciato l’uomo che poi le avrebbe ammazzate, il rimanente 85% o aveva subito in silenzio o ne aveva accennato a persone a loro vicine.
In tutta Europa, nel 2019 (dati Eurostat), sono state uccise 1.421 donne, una ogni quattro giorni, una ogni sei ore: 285 in Francia, 276 in Germania, 126 in Spagna e 111 nel nostro Paese.
Violenza domestica
Una delle manifestazioni più diffuse della violenza di genere è la violenza domestica. La Convenzione di Istambul precisa che con sotto questa definizione vanno «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». L’Organizzazione mondiale della sanità definisce quattro forme di violenza domestica: atti di violenza fisica, violenza sessuale, violenza psicologica e comportamenti controllanti. La maggioranza dei crimini contro le donne appartengono a questa categoria. In Italia, secondo un report Istat il 77,6% delle donne vittime di femminicidio nel 2020 è stata uccisa da un partner o da un parente. Una percentuale che, guardando ai mesi di marzo e aprile 2020 ha raggiunto rispettivamente il 90,9% e l’85,7% a dimostrazione che la pandemia e il lockdown hanno avuto effetti devastanti per le donne che già vivevano in situazioni di abusi e sottomissione psicologica.
Violenza sessuale e stalking: cosa dice la legge in Italia
La legge sulla violenza sessuale in Italia in cui si riconosce lo stupro un reato contro la persona e non più contro la morale è datata 1996 (Legge n°66). Vengono abrogati i reati di “violenza carnale” e di “atti di libidine violenti” (la differenza stava nel fatto che il primo prevedeva il coito e il secondo no e quindi il primo era punito più severamente) per parlare solo di “violenza sessuale”, che viene definita, nell’articolo 609-bis, il reato di chi «con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali» e di chi «induca un altro soggetto a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona».
Nel 2009, per decreto legge, entra nel Codice penale anche il reato di stalking, ovvero gli atti persecutori.
Definizione di femminicidio
Quando un omicidio può essere definito femminicidio? Nella risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 si definisce così la «morte violenta dipesa da motivi di genere». In Italia, la Commissione parlamentare sul femminicidio ha aggiunto tutti i casi «in cui l’uomo ha ucciso le figlie della donna con l’unica finalità di punire lei».
Dietro questi crimini c’è una cultura di violenza e sopraffazione, l’eredità più deleteria di una mentalità patriarcale che difficile da estirpare. Come ha detto la presidente del Senato Elisabetta Casellati: «I femminicidi non sono omicidi qualsiasi: sono donne uccise in quanto donne, vittime di una violenza che si nutre di ignoranza, pregiudizi e omertà». Non «Non sono quasi mai delitti d’impeto - ha detto la presidente del Senato - , ma l’apice di un’escalation di violenze, prevaricazioni e soprusi che troppo spesso vengono ignorati, sottovalutati o - peggio - non denunciati. Ed è questa la principale debolezza del sistema».
Del resto, fino al 1975 è stato in vigore l’alrticolo 144 del Codice Civile, quello della cosidetta potestà maritale che prevedeva: «Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza».
Codice Rosso: anche il revenge porn è violenza
Un passo importante per punire la violenza di genere in Italia è stata l’introduzione della legge 69, chiamata Codice rosso e approvata il 25 luglio 2019: 21 articoli in cui si modificano e rinnovano quelle parti del codice penale e del codice di procedura penale in cui si parla di violenza domestica e di genere e delle loro sanzioni. In primis si interviene sul fattore «tempo», cruciale nei casi di violenza, e viene velocizzato l’avvio del procedimento penale per i reati di maltrattamento, stalking e violenza sessuale. La novità più importante è l’introduzione di quattro nuovi reati: l delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (il cosìdetto revenge porn), il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (come le deturpazioni con l’acido), il reato di costrizione o induzione al matrimonio e infine violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Inoltre il codice rosso prevede l’inasprimento di alcune sanzioni per i reati di violenza sessuale e di violenza domestica e stalking.
Verso il femminicidio come eurocrimine
Un prossimo atteso passo internazionale nella prevenzione e lotta ai crimini di genere potrebbe essere quello, all’interno della Ue, di riconoscere il crimine della violenza di genere (contro donne e ragazze, ma anche contro le persone LGBTIQ+) al pari di altri che, per una legge comunitaria (articolo 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), sono combattuti su base comune , ovvero il traffico di esseri umani, di droga e di armi, il crimine informatico e il terrorismo. Insomma, un eurocrimine. Inoltre, i deputati denunciano il femminicidio come «forma più estrema di violenza di genere contro le donne e le ragazze e sottolineano che anche negare l’assistenza all’aborto sicuro e legale è una forma di violenza di genere» I deputati del Parlamento europeo hanno approvato un testo a maggioranza assoluta, ma l’iter sarà lungo, dovrà votare il Consiglio dell’Unione europea perché si arrivi a modificare un articolo del Trattato. E il testo è giudicato troppo progressista in quanto esplicita e inchioda le responsabilità del patriarcato nella genesi della violenza domestica e parte del Ppe potrebbe astenersi.
22 novembre 1916, Glen Ellen, California, Stati Uniti
Il 22 novembre 1916 Jack London, autore di intramontabili classici d'avventura, moriva nel suo ranch in California. Aveva solo quarant'anni. Il suo ultimo giorno di vita cela dei retroscena controversi e rocamboleschi.
La vita dello scrittore John Griffith Chaney, in arte Jack London, fu degna dei suoi romanzi.
Persino sulla sua fine si stende ancora l’ombra oscura del mistero: l’ipotesi più accreditata è che lo scrittore si sia suicidato il 22 novembre 1916 nel ranch di Glen Ellen in California, ma nulla è come sembra.
La storia della morte del celebre autore è una narrazione a sé, iperbolica e contraddittoria, che si potrebbe trasfigurare in un romanzo giallo dal titolo "L’ultimo giorno di vita di Jack London".
Tuttavia meglio procedere con ordine e raccontare la storia dello scrittore partendo dalla nascita, come ogni biografia che si rispetti. Del resto, i colpi di scena non mancano.
Jack London nacque il 12 gennaio 1876 a San Francisco, registrato all’anagrafe con il nome di John Griffith Chaney. Era figlio illegittimo. La madre, Flora Wellman, si risposò con un contadino di nome John London solo otto mesi dopo la sua nascita. Jack fu quindi cresciuto a tutti gli effetti dal padre adottivo, da cui in seguito avrebbe preso il cognome.
L’infanzia del piccolo London fu segnata dalla povertà. Si racconta che a dieci anni vendesse giornali per strada per aiutare economicamente la famiglia. La fine dell’Ottocento negli Stati Uniti fu un momento di grande transizione, nella quale la depressione economica ebbe un ruolo preponderante.
Il piccolo Jack dovette imparare in fretta a stare al mondo: le difficoltà economiche e familiari non gli consentivano di vivere appieno l’infanzia. Nella sua più tenera età London viveva sul molo del porto di Oakland, frequentando compagnie non esattamente raccomandabili per un bambino.
Fu per strada che Jack London conobbe tutti coloro che, un giorno, sarebbero diventati protagonisti o comparse dei suoi romanzi: marinai, contrabbandieri, ladri e commercianti.
Lui stesso visse seguendo quei modelli, all’insegna della discontinuità. Nella sua breve esistenza fece i lavori più disparati: cacciatore di ostriche, operaio di fabbrica, marinaio e raccoglitore di iuta. Provò ad iscriversi all’università, alla Berkley University, ma l’impossibilità di pagare la salata retta lo costrinse presto ad abbandonare gli studi.
Una vita la sua sempre all’insegna dell’avventura, tra le varie esperienze da lui intentate non mancò neppure una mirabolante caccia all’oro.
Il giovane London infatti fu coinvolto in una spedizione in Canada alla ricerca del mitico oro del Klondike. La ricerca dell’oro non andò a buon fine: London fece ritorno a San Francisco dopo aver contratto lo scorbuto, parecchio acciaccato e persino più povero di quando era partito.
Dopo quell’insuccesso decise di concentrarsi esclusivamente sulle sue “avventure letterarie”, e quelle sì che lo ricompensarono di tutti i fallimenti precedenti.
Il successo come scrittore
Fin dalla più tenera età Jack London coltivava la sua segreta passione per la letteratura, divorando libri di ogni genere. Un efficace “ritratto dello scrittore da giovane” ce lo offre uno dei suoi più celebri protagonisti, Martin Eden. Proprio come Martin, anche Jack è un marinaio-operaio-tuttofare sensibile e colto: la sua intelligenza lo eleva al di sopra della sua classe sociale d’appartenenza, ma non i suoi mezzi. Il tema dello scontro con la borghesia sarà un leitmotiv di tutta la vita di London che, neppure una volta raggiunto il successo letterario, riuscirà mai a conformarsi al mondo benestante, da lui sempre percepito come irraggiungibile e quasi nemico.
L’esperienza della caccia all’oro nel Klondike ispirò a Jack London uno dei suoi migliori racconti Preparare un fuoco (1902): la storia di un cercatore d’oro che morirà assiderato nel tentativo di portare a termine la leggendaria impresa.
Da quella prima opera iniziò, per lo scrittore, la difficile scalata del mondo letterario. Il racconto viene acquistato da una rivista per cinque dollari, con la promessa di rendergliene quaranta per un secondo racconto. Da quel momento London - proprio come Martin Eden - si convinse di poter guadagnare attraverso la scrittura.
Dal 1900 al 1916 Jack London scrisse impetuosamente: dal duro lavoro di quegli anni nacquero quasi cinquanta opere. Scriveva per quasi quattordici ore al giorno, a un ritmo forsennato, che iniziò a minarlo nel fisico e nella salute.
I romanzi dello scrittore vagabondo riscossero un enorme successo di pubblico, titoli divenuti ormai grandi classici della letteratura mondiale: Il richiamo della foresta (1903), Zanna Bianca (1906), Martin Eden (1909), Il vagabondo delle stelle (1915), accompagnati da altri scritti più brevi di carattere saggistico e autobiografico, come La strada (1906) in cui narra i suoi giorni nomadi e avventurieri.
In quegli stessi anni iniziò a lavorare come reporter di guerra: celebre la spedizione in Corea, durata sei mesi, che lo vide come corrispondente dal fronte russo-giapponese.
In breve tempo Jack London divenne uno degli scrittori americani più amati e apprezzati in tutto il mondo, ma il successo e la gloria non riescono a cancellare in lui il ricordo della povertà patita, la certezza di essere “diverso”, di appartenere al ceto basso-popolare della società. Raccontava di:
"Essere nato proletario ed essere venuto su dagli abissi".
Insieme al successo venne la dipendenza dall’alcol, che iniziò a condizionare pesantemente la sua vita. Nonostante tutto Jack London continuava a definirsi un “autodidatta” e in fondo al cuore credeva di non meritare la gloria e la fama di scrittore, di non essere all’altezza. Fu questo a distruggerlo.
Nel 1910 si rifugiò con la moglie Charmian nel ranch di Glen Ellen, in California, sperando così di sfuggire alla vita di città e alle trappole che scorgeva nella mondanità di Oakland.
L’intento di Jack London, dopo una vita all’insegna dell’avventura, era di vivere in modo semplice guadagnandosi da vivere tramite i frutti della terra e il lavoro da agricoltore. Ma quel sogno sfumerà presto.
La casa che London fece costruire, con grande dispendio di denaro, fu distrutta in un incendio devastante, lasciandolo quasi sul lastrico.
Da quel momento i problemi economici tornarono ad attanagliarlo, nonostante la fama e il successo. In lui iniziò a farsi strada una forte depressione e il “vizio” dell’alcol divenne presto ingovernabile.
Il 22 novembre 1916 fu l’ultimo giorno di vita di Jack London. Lo scrittore avrebbe lasciato questo mondo a soli quarant’anni, dopo una vita rocambolesca e avventurosa che avrebbe potuto valerne cento.
La mattina di quel fatidico giorno London fu trovato nel suo letto privo di sensi dalla moglie Charmian Kitteridge.
Le cure della moglie e della sorella permisero allo scrittore di riprendersi, grazie a una tazza di caffè nero forte e parecchie sollecitazioni. Tuttavia quando il medico lo visitò poche ore dopo affermò che non c’erano speranze: i reni dello scrittore apparivano gravemente compromessi, tanto da pregiudicare il resto del corpo.
Nulla, in realtà, lasciava presagire un tentativo di suicidio. Quel mattino Jack London aveva lavorato di buona lena al suo nuovo romanzo Cherry, ambientato alle Hawaii, e scritto una lettera alla sua prima figlia Joan per invitarla al prossimo pranzo domenicale.
I medici, in seguito al decesso dello scrittore, concordarono che il decesso era avvenuto per"uremia", ossia per una disfunzione renale. Tuttavia la morte di Jack London fu sempre accompagnata dallo spettro dell’ipotesi del suicidio. Un’ipotesi avvalorata anche dalla moglie Charmian, che gli fu vicina fino all’ultimo istante ma non partecipò al funerale, come se morendo lui in qualche modo l’avesse tradita, gli avesse recato un torto.
Pare infatti che Jack London avesse preso il vizio di iniettarsi di morfina, senza essere pienamente coscienti dei rischi e delle controindicazioni di quello che considerava un farmaco lenitivo. Di certo è molto probabile che l’insufficienza renale fosse stata causata e, in parte, accelerata dall’abuso di alcol che lo scrittore fece negli ultimi anni di vita.
Il pomeriggio del 22 novembre 1916 Jack London spirò a soli quarantun anni. Se ne andava così uno dei più grandi autori di romanzi d’avventura del Novecento.
Il giorno successivo il New York Times annunciava la sua morte in prima pagina con queste parole:
JACK LONDON DIES SUDDENLY ON RANCH. Novelist is found unconscious from uremia and expires after eleven hours.
L’articolo del Times si soffermava sul calvario patito da London, rendendo così un ultimo omaggio alla sua esistenza avventurosa.
Le sue ceneri furono sparse nel ranch di Glen Ellen, il 26 novembre, sulla sommità di quella da lui chiamata la Valle della Luna.
La moglie Charmain in seguito fece costruire una piccola struttura esterna al ranch, denominata Happy Wall, nella quale fece custodire tutti gli oggetti dello scrittore.
Dopo la morte di Charmain Kitteridge quella struttura è diventata ilParco storico statale Jack London, alla quale i visitatori oggi possono accedere e osservare i manoscritti, i libri, i gingilli e i cimeli di guerra che hanno caratterizzato l’esistenza del grande scrittore.
È trascorso oltre un secolo dalla morte di Jack London, ma la sua fine è ancora permeata da un alone fitto di mistero. C’è chi afferma che London si sia tolto la vita di sua volontà, proprio come il protagonista letterario che più rispecchiava la sua indole, Martin Eden.
"Come può un’anima come la tua, morire?" scrisse l’amico poeta George Sterling alla morte dello scrittore.
La risposta a questa domanda soffia ancora nel vento del ranch di Glen Ellen, dove resiste l’eco della voce di Jack London, che ulula impetuoso dalla Valle della Luna, come Zanna Bianca.
Proprio in quello che è, forse, il suo romanzo più famoso, Jack London scrisse una frase singolare. Se letta oggi appare come un testamento:
La vita viveva della vita. Vi erano quelli che divoravano e quelli che erano divorati.
10 luglio 1871, Neuilly-Auteuil-Passy
18 novembre 1922, Parigi
Il 18 novembre 1922 moriva a soli cinquantun anni, nella sua casa di Parigi, il grande scrittore francese Marcel Proust. Si racconta che non avesse ancora ultimato di revisionare la sua opera monumentale “À la recherche du temps perdu”, il romanzo più lungo della letteratura mondiale.
Il grande autore francese morì a causa di una bronchite malcurata, Pare infatti che Proust avesse rifiutato qualsiasi assistenza medica perché era troppo impegnato nella minuziosa e attenta revisione del suo capolavoro. Poco prima di morire stava rivedendo il sesto libro della Recherche, La fuggitiva, tradotto nella versione italiana con il titolo Albertine scomparsa.
Nonostante fosse colto da frequenti attacchi d’asma lo scrittore rifiutò qualsiasi aiuto o cura, sfidando le insistenze del fratello Robert e della fidata domestica Celeste Albaret.
La leggenda narra che Marcel Proust morì scrivendo, ancora impegnato nella stesura della sua colossale opera letteraria, che non abbandonò mai, sino all’ultimo respiro.
Alla morte dello scrittore erano uscite soltanto quattro delle sette parti in cui, per ovvie ragioni editoriali, venne divisa l’immensa opera Alla ricerca del tempo perduto. La stesura del titanico progetto letterario scandì l’intera esistenza di Marcel Proust: l’autore viveva per scrivere, segregato nella sua stanza parigina, conducendo una vita schiva e solitaria.
La stesura della Recherche iniziò nel 1909. Proust scrisse l’intera opera all’interno della propria camera da letto, una stanza dalle pareti foderate interamente di sughero al fine di isolarla dall’umidità e tutelare così la salute del cagionevole proprietario affetto da un’asma incurabile.
L’abitazione parigina di Marcel Proust, situata nel Boulevard Haussmann, oggi è stata interamente ricostruita all’interno dello storico Museo Carnavalet di Parigi. In una delle sale espositive del museo è possibile entrare nella celebre stanza-studio dove lo scrittore concepì pagina dopo pagina l’intera À la recherche du temps perdu, scrivendo soprattutto nelle ore notturne.
Con le sue 3724 pagine la Recherche è entrata ufficialmente nel Guinness dei primati con l’attributo di “romanzo più lungo del mondo”. Tuttavia considerare Alla ricerca del tempo perduto come il libro dei record sarebbe riduttivo e, soprattutto, svilente per il suo autore.
I critici hanno definito la Recherche come "l’oeuvre cathédrale", proprio a causa della sua struttura complessa e stratificata che caratterizza la materia narrativa.
La metafora della cattedrale gotica ritorna infatti varie volte nei sette libri che compongono À la recherche du temps perdu, è uno dei leitmotiv più ricorrenti. La costruzione di una cattedrale narrativa capace di elevarsi al cielo, e quindi al divino, è la grande ambizione artistica di Proust. Lo scrittore voleva creare un’opera dal valore universale, nel quale ogni lettore potesse così riconoscere se stesso e la propria vita.
Proust, grande estimatore del teorico e critico d’arte britannico John Ruskin, riscoprì nello stile architettonico delle chiese gotiche un modello letterario: nelle cattedrali ogni dettaglio viene inserito nella struttura generale e concorre a darne il significato complessivo. Proust concepiva la scrittura nell’identico modo: ogni dettaglio, ogni parola, doveva celare un significato più grande e, al contempo, rientrare nell’astratto disegno d’insieme concepito dalla mente dell’autore.EDI SU AMAZON
"La Recherche è come attraversata dalla tensione verso un modello imprescindibile"
sottolinea Eleonora Sparvoli, docente del corso di letteratura francese avanzata all’Università Statale di Milano e grande esperta di Marcel Proust. Nel libro, frutto di anni di studi, Proust costruttore malinconico. L’irrealizzabile progetto della Recherche la professoressa Sparvoli analizza la qualità architettonica de À la recherche du temps perdu e l’ideale salvifico che ispirò la sua composizione.
L’attualità dell’opera di Marcel Proust, ciò che la rende immortale, è proprio la varietà di tematiche contenute al suo interno. Molti la descrivono come un romanzo sulla memoria, ma non si può ridurre a questo: certo la famosa madeleine è a tutti gli effetti il motore simbolico della Recherche, ma non ne sottende il tema principale. Il viaggio indietro nel tempo compiuto dal protagonista di À la recherche du temps perdu è in realtà allegoria di un travagliato percorso all’interno dell’inconscio, nel tentativo di ricostruire la propria identità. La Recherche si compone per frammenti e, al suo interno, narra una moltitudine di racconti: l’amore (concepito nella sua forma più tormentata e passionale); l’arte; la mondanità (e l’ipocrisia sociale che sottende); l’incertezza provvisoria del presente e la consolazione offerta dal passato, e l’oscuro inconoscibile baratro che attende ciascuno di noi alla fine dell’esistenza.
Attraverso la scrittura Marcel Proust affronta la transitorietà della vita e sfida l’abisso della morte servendosi come tramite dell’immortalità dell’arte. Marcel Proust e la morte di Bergotte
C’è un passaggio in Alla ricerca del tempo perduto in cui Marcel Proust prefigura la sua stessa morte con una lucidità e una consapevolezza sconvolgenti.
Nel quinto volume della Recherche, La Prisonnière (1923), Proust racconta la morte di Bergotte, personaggio fittizio che impersonifica uno scrittore che svolge la funzione di iniziare il protagonista al mondo letterario.
Il passo dedicato alla morte di Bergotte è uno dei più celebri dell’intera opera, dopo il famoso brano della madeleine.
In queste pagine Marcel Proust nasconde la sua più forte dichiarazione di poetica.
Seppi che quel giorno era avvenuta una morte che mi procurò molto dolore, quella di Bergotte. (...) Da anni Bergotte non usciva più di casa. D’altronde, non aveva mai amato la mondanità, o l’aveva amata un giorno solo, per disprezzarla poi come tutto il resto e nella maniera che gli era propria.
Nel romanzo ritroviamo il personaggio di Bergotte che, nonostante la malattia che lo affligge (e qui già percepiamo un chiaro rimando alle condizioni precarie dell’autore), si reca ad ammirare una mostra di pittura olandese.
L’obiettivo di Bergotte è rivedere il quadro da lui più amato, La veduta di Delf di Jan Vermeer. Vuole osservare da vicino “quella piccola ala di muro giallo” che di recente un critico d’arte ha menzionato in un suo intervento.
Bergotte osserva quindi da vicino il quadro, provato nel fisico dalla malattia, e ne ha una visione quasi allucinata. Quella "piccola ala di muro giallo" all’improvviso gli ispira una riflessione sul significato della sua arte e dell’ intera esistenza.
Egli fissava lo sguardo, come un bambino su una farfalla gialla che vuole catturare, sulla preziosa piccola ala di muro. È così che avrei dovuto scrivere, diceva. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo.
Dopo aver avuto questa intuizione esistenziale, folgorante e tremenda, Bergotte è colto da un malore, si accascia su un divanetto e muore. Ma la sua morte è anticipata da vari indizi nel corso della narrazione, dallo stato d’animo febbrile e dai frequenti mancamenti di cui soffre mentre visita l’esposizione museale.
Proprio come Marcel Proust, Bergotte esala il suo ultimo respiro contemplando l’arte. Questa circostanza è significativa per l’autore che, nella morte di Bergotte, coglie un presagio di immortalità:
Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione.
I libri, le opere da lui scritte, testimoniano la resurrezione di Bergotte, proprio come l’opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto segna quella di Marcel Proust.
Marcel Proust morì a Parigi il 18 novembre 1922, esattamente 99 anni fa, ma nelle sue parole non è morto mai. Proprio attraverso la scrittura ci ha insegnato che “la morte per dissolvimento non è mai totale né completa”. Perché esiste qualcosa di irriducibile, qualcosa di assoluto ma inconoscibile all’intelligenza umana, qualcosa che esiste al di fuori del tempo, liberato per sempre dall’ordine del tempo, notava l’autore.
“Era morto, morto per sempre, chi può dirlo?” scrive Proust a proposito di Bergotte. Forse non esiste morte finché c’è letteratura.
Scrittore, giornalista, drammaturgo, poeta, critico letterario e traduttore portoghese, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1998.
16 novembre 1922, Azinhaga, Portogallo
18 giugno 2010, Tías, Spagna
José Saramago nacque a Ribatejo nel comune di Azinhaga, in Portogallo, il 16 novembre 1922.
La sua prima gioventù fu piuttosto avventurosa: si trasferì con la famiglia nella capitale, Lisbona, dove frequentò le scuole in modo discontinuo e interruppe gli studi universitari a causa di problemi economici.
Per mantenersi Saramago fece i lavori più disparati, dal fabbro al disegnatore, e proprio questa sua poliedricità si riflette in qualche modo nella sua scrittura divenendone la caratteristica distintiva. José Saramago è stato uno dei pensatori più illuminati del XX secolo, ma la sua non fu propriamente l’esistenza di un intellettuale.
Lo scrittore portoghese trasse in primo luogo il suo sapere dalla gente, dal lavoro manuale e dall’esperienza diretta della vita. L’affermarsi della sua carriera in campo editoriale fu un percorso lungo e accidentato.
Saramago iniziò infatti a lavorare come correttore di bozze e traduttore, per poi diventare direttore letterario e di produzione di una casa editrice. Pubblicò il suo primo romanzo, La terra del peccato, nel 1947 ma non riscosse molto successo. Nel frattempo lo scrittore divenne sempre più attivo nella vita politica portoghese, iscrivendosi al Partito Comunista. La partecipazione politica fu per Saramago sempre inscindibile dall’ispirazione letteraria: la parola scritta per lui aveva una forte connotazione militante.
Negli anni Sessanta lo scrittore era considerato uno dei critici più seguiti del Portogallo: ai tempi i suoi articoli, pubblicati sul settimanale Seara Nova, facevano furore. Furono gli anni di maggior fermento per l’attività letteraria di Saramago: lavorava a tempo pieno come direttore editoriale di una casa editrice e scriveva per gli inserti di cultura dei più celebri quotidiani nazionali. Nel frattempo, a tempo perso, l’autore si dedicava alla sua grande passione: la letteratura, scrivendo raccolte di poesie e testi teatrali.
Il successo arrivò nel 1982 con la pubblicazione del romanzo Memoriale del convento.
Gli anni Novanta furono il periodo più prolifico per lo scrittore portoghese. Saramago venne consacrato sulla scena editoriale internazionale da romanzi che ottennero un grande riscontro di pubblico, come Storia dell’assedio di Lisbona (1989) e Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991). Ma è la scrittura di Cecità , opera considerata all’unanimità il suo capolavoro, che lo consacra nell’Olimpo della letteratura mondiale nel 1995.
Tre anni dopo José Saramago fu insignito del premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione:
“Grazie a parabole sostenute dall’immaginazione, la compassione e l’ironia, Saramago ricostruisce e rende tangibile una realtà difficile da afferrare”.
Fu il primo autore di madrelingua portoghese della storia a ricevere l’ambito premio.
Ensaio sobre a cegueira, letteralmente “Saggio sulla cecità”, questo il titolo originale del romanzo-capolavoro di José Saramago. Un’opera visionaria che è tornata di stretta attualità in tempi pandemici.
Lo scrittore portoghese narrava infatti un’epidemia di cecità che colpiva la popolazione mondiale, riecheggiando La peste di Camus.
Nel libro Saramago si serviva della metafora della cecità per condannare la ristrettezza di vedute dell’uomo contemporaneo.
Penso che non siamo diventati ciechi. Penso che siamo ciechi. Ciechi che vedendo non vedono.
La conclusione del romanzo fu una delle frasi più citate durante il lockdown causato dalla pandemia di Covid-19. I lettori di tutto il mondo in quei momenti di drammatica incertezza ritrovarono nel romanzo di Saramago un monito, un avvertimento, ma anche una lettura imprescindibile del tempo presente. Tutto quanto accadeva nel mondo a causa della pandemia di Coronavirus sembrava essere in qualche modo previsto dallo scrittore portoghese: il paziente zero, l’assalto ai supermercati, la quarantena, la psicosi collettiva.
José Saramago venne considerato una sorta di veggente. Cecità andava a ruba nelle librerie, al pari della farina e del lievito nei supermercati.
Trattando il tema del contagio, un argomento caro alla letteratura, lo scrittore portoghese era riuscito a cogliere appieno la spersonalizzazione dell’essere umano che avviene in tempi di pandemia.
Non è un caso che nessuno dei personaggi di Cecità abbia un nome. L’autore si serve di uno stile personalissimo e originale che ricalca il disagio di “non vedere” persino nella semantica. Non c’è alcuna forma di punteggiature nel romanzo, se non i punti fermi messi in chiusura delle frasi. I personaggi, inoltre, sono indicati tramite delle perifrasi che rimandano quasi agli epiteti dell’Iliade e dell’Odissea: abbiamo quindi “La ragazza dagli occhiali scuri”; “La moglie del medico”; “Il vecchio con la benda”.
L’epidemia spersonalizza, tramuta l’essere umano in un’entità astratta nel numero del contagio, come hanno dimostrato i bollettini Covid che venivano annunciati ogni giorno dai nostri telegiornali. In Cecità Saramago dà voce alla guerra per la sopravvivenza che conduce l’uomo contro l’uomo (Homo homini lupus, diceva un celebre filosofo), presto l’umanità denigra in uno stadio quasi animalesco.
José Saramago parla della legge della sopraffazione, del male che spesso è insensato e cieco e spesso non conosce ragioni.
La metafora della cecità infine appare come un’allegoria esistenziale. Non una menomazione fisica, ma una condizione umana “degli occhi abbiamo fatto una sorta di specchi rivolti all’interno”. Scrive Saramago:
“È di questa pasta che siamo fatti: metà di indifferenza e metà di cattiveria.”
Non c’è lieto fine, non esiste assoluzione. Cecità narra una storia cruda e spiazzante, dove per i “buoni” non esiste salvezza.
Il capolavoro di José Saramago sarebbe rimasto un meraviglioso capolavoro confinato al genere della letteratura distopica, se la pandemia di Covid-19 non l’avesse riportato in auge con spiazzante attualità. Ora a Saramago, più ancora che successivamente alla vittoria del premio Nobel, si attribuisce la capacità folgorante di saper leggere i presente.
Ma questa in verità è una caratteristica peculiare di cui sono dotati tutti i grandi scrittori; perché la Letteratura, quella vera, è sempre visionaria e conosce limiti di spazio o di tempo. Riesce a riferire verità immortali che riguardano l’Umanità nella sua accezione più universale.
Ed è questo il debito più grande che abbiamo nei confronti di José Saramago, che oggi compirebbe 99 anni, di aver saputo leggere le sue parole come un monito quando ormai era troppo tardi. Di non aver saputo cogliere la verità insita nella finzione letteraria, di averla relegata a un gioco di pura invenzione, a un esercizio di stile, quando in realtà voleva parlare al profondo delle nostre coscienze e spingere i nostri occhi “a vedere”.
Wilbur Addison Smith (Broken Hill, 9 gennaio 1933 – Città del Capo, 13 novembre 2021) è stato uno scrittore zambiano naturalizzato sudafricano[1], di origini britanniche.
Ha raggiunto il successo nel 1964 con Il destino del leone. Considerato l'incontrastato «maestro dell'avventura» e uno dei massimi autori di bestseller, ha venduto oltre 140 milioni di copie dei suoi libri nel mondo, di cui circa 25 milioni solo in Italia.[2] Il Times lo ha definito «un autore di culto, uno di quei punti di riferimento cui gli altri scrittori vengono continuamente paragonati».[3] La maggior parte dei suoi romanzi è legata all'Africa, sua terra natale.
Molti dei suoi romanzi sono ambientati nel periodo che va dalla seconda parte del XVII secolo alla prima parte del XX secolo e raccontano gli insediamenti nelle zone meridionali dell'Africa, contribuendo a spiegare l'ascesa e l'influenza storica dei coloni inglesi e olandesi in quei territori. Tra i suoi maggiori successi vanno citati Il destino del leone, La spiaggia infuocata, Il dio del fiume, Il settimo papiro, Come il mare.
Nato a Broken Hill il 9 gennaio 1933 nell'allora Rhodesia del Nord da Herbert James Smith e da Elfreda Lawrence, ha studiato alla Natal and Rhodes University, conseguendo la laurea in scienze commerciali nel 1954. Dopo la laurea si è associato alla Goodyear Tyre and Rubber Co. di Port Elizabeth, dove ha lavorato come contabile dal 1954 al 1958. Successivamente ha lavorato dal 1958 al 1963 alla H.J. Smith and Son Ltd di Salisbury, ex Rhodesia, oggi Zimbabwe.
Le prime esperienze letterarie di Smith non hanno avuto successo: tutti gli editori sudafricani ed europei, circa una ventina, rifiutarono di pubblicare i suoi scritti, fino a quando un editore di Londra decise di contattarlo. Incoraggiato da questo stimolo, Smith iniziò a scrivere libri incentrati su tutto ciò che meglio conosceva e amava: la foresta, gli animali selvaggi, le montagne impervie, le dolci colline del Natal, l'oceano, la vita degli indigeni, la storia della scoperta dell'Africa meridionale, la lunga e travagliata strada verso l'abbandono dell'apartheid e il ritorno nella comunità internazionale. Il suo primo libro è stato Il destino del leone, iniziatore della fortunata serie che prende il nome di Ciclo dei Courtney.
A questo hanno fatto seguito altri 34 libri. Ha sposato quattro donne diverse: Juliette Sabert nel 1964, poi Anne (da cui ha avuto due figli, Shaun e Christian), nel 1971 si sposa per la terza volta con Danielle Antoniette Thomas ("Dee Dee"), anch'essa scrittrice, che è stata la maggiore ispiratrice di molti romanzi dell'autore ed è morta di tumore al cervello nel 1999. Ha contratto il quarto matrimonio con Mokhiniso Rakhimova, che è stata per lui una sorta di manager[4]. Wilbur Smith, che ha più volte dichiarato di mantenere un profondo legame con l'Africa, ha vissuto per un lungo periodo a Londra.
È morto improvvisamente, all'età di 88 anni, il 13 novembre 2021 nella sua casa di Città del Capo.[5]
I Courtney Atto I (XVII - XVIII secolo)
1997 - Uccelli da preda (Birds of Prey), Longanesi, 1997 ISBN 978-88-304-1409-3; Tea, 1999.
2015 - Il leone d'oro (Golden Lion), scritto con Giles Kristian, Longanesi, 2015.
1999 - Monsone (Monsoon), Longanesi, 1999; Tea, 2001.
2017 - Il giorno della tigre (The Tiger's Prey), scritto con Tom Harper, Longanesi, 2017.
2003 - Orizzonte (Blue Horizon), Longanesi, 2003; Tea, 2005.
2019 - Il fuoco della vendetta (Ghost Fire), scritto con Tom Harper, HarperCollins, 2020.
I Courtney Atto II (XIX - XX secolo)
1964 - Il destino del leone (When the Lion Feeds), Longanesi, 1964; Mondadori, 1981; Tea, 1992.
1966 - La voce del tuono (The Sound of Thunder), Longanesi, 1983; Tea, 1990.
1977 - Gli eredi dell'Eden (A Sparrow Falls), Longanesi, 1977; Mondadori, 1981, Tea, 1994.
I Courtney Atto III (XX secolo)
1985 - La spiaggia infuocata (The Burning Shore), Longanesi, 1985; Mondadori, 1988; Tea, 1993.
1986 - Il potere della spada (Power of the Sword), Longanesi, 1987; Mondadori, 1989; Tea, 1994.
1987 - I fuochi dell'ira (Rage), Longanesi, 1987; Tea, 1990.
1989 - L'ultima preda (A Time to Die), Longanesi, 1989; Tea, 1992.
1990 - La volpe dorata (Golden Fox), Longanesi, 1990; Tea, 1993.
I Courtney incontrano i Ballantyne
2005 - Il trionfo del sole (The Triumph Of The Sun), Longanesi, 2005; Tea, 2006.
2019 - Re dei re (King of kings), scritto con Imogen Robertson, HarperCollins, 2019.
2009 - Il destino del cacciatore (Assegai), Longanesi, 2009.
2017 - Grido di guerra (War Cry), scritto con David Churchill, Longanesi, 2018.
2018 - La guerra dei Courtney (Courtney's War), scritto con David Churchill, HarperCollins, 2019.
2021 - Legacy of War, scritto con David Churchill
2020 - Il richiamo del corvo (Call of the Raven), scritto con Corban Addison, HarperCollins, 2020.
1980 - Quando vola il falco (A Falcon Flies o Flight of the Falcon), Longanesi, 1980; Mondadori, 1989; Tea, 1995.
1981 - Stirpe di uomini (Men of Men), Longanesi, 1981; Mondadori, 1989; Tea, 1996.
1982 - Gli angeli piangono (The Angels Weep), Longanesi, 1982; Mondadori, 1989; Tea, 1994.
1984 - La notte del leopardo (The Leopard Hunts in Darkness), Longanesi, 1985; Tea, 1988.
1993 - Il dio del fiume (River God), traduzione di Roberta Rambelli, Longanesi, 1993; Tea, 2003.
1995 - Il settimo papiro (The Seventh Scroll), traduzione di Roberta Rambelli, Longanesi, 1995; Tea, 1999.
2001 - Figli del Nilo (Warlock), traduzione di Lidia Perria, Longanesi, 2001; Tea, 2004.
2007 - Alle fonti del Nilo (The Quest), traduzione di Giampiero Hirzer, Longanesi, 2007; Tea, 2008.
2014 - Il dio del deserto (Desert God), traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2014; Tea 2016.
2016 - L'ultimo faraone (Pharaoh), traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2017; Tea, 2019.
2021 - Il nuovo regno (The New Kingdom), scritto con Mark Chadbourn, HarperCollins, 2021 isbn 978-8869059629.
2011 - La legge del deserto (Those in Peril), Longanesi, 2011.
2013 - Vendetta di sangue (Vicious Circle), Longanesi, 2013.
2016 - La notte del predatore (Predator), scritto con Tom Cain, Longanesi, 2016.
1965 - L'ombra del sole (The Dark of the Sun), Longanesi, 1965; Tea, 1991.
1968 - Ci rivedremo all'inferno (Shout at the Devil), Garzanti, 1968; Longanesi, 1998; Tea, 2000.
1970 - Una vena d'odio (Gold Mine oppure Gold), Mondadori, 1970; Longanesi, 1991; Tea, 1997.
1971 - Cacciatori di diamanti (The Diamond Hunters), Longanesi, 1971; Tea, 1997 ISBN 88-7819-753-X.
1972 - L'uccello del sole (The Sunbird), Longanesi, 1990; Tea, 1992.
1974 - Un'aquila nel cielo (Eagle in the Sky), Longanesi, 1974; Mondadori, 1988; Tea, 1993.
1975 - Sulla rotta degli squali (The Eye of the Tiger), Mondadori, 1979; Longanesi, 1992; Tea, 1997.
1976 - Dove finisce l'arcobaleno (Cry Wolf), Longanesi, 1984; Tea, 1991.
1978 - Come il mare (Hungry As the Sea), Longanesi, 1978; Mondadori, 1982; Tea, 1995.
1979 - L'orma del Califfo (Wild Justice), Longanesi, 1982; Mondadori, 1984; Tea, 1990.
1991 - Il canto dell'elefante (Elephant Song), Longanesi, 1991; Tea, 1994.
2018 - Leopard Rock. L’avventura della mia vita (On Leopard Rock: A Life of Adventures), HarperCollins, 2018.
2020 - Tempesta (Cloudburst), scritto con Chris Wakling, HarperCollins, 2021
2021 - Fulmine (Thunderbolt), scritto con Chris Wakling, HarperCollins, 2021
1968 - Buio oltre il sole (The Mercenaries o Dark of the Sun)
1972 - The last lion
1974 - Gold - Il segno del potere (Gold)
1975 - The Kingfisher Caper
1976 - Ci rivedremo all'inferno (Shout at the devil)
1991 - La montagna dei diamanti (Mountain of Diamonds) - Film TV
1994 - L'orma del Califfo (Wild Justice) - Film TV
1999 - Il settimo papiro (The Seventh Scroll) - miniserie TV
2001 - The Diamond Hunters - miniserie TV
^ Sito in italiano sullo scrittore, su wilbursmith.it (archiviato dall'url originale il 26 aprile 2015).
^ La stampa su Wilbur Smith, su wilbursmith.it (archiviato dall'url originale il 2 maggio 2014).
^ L’ideatore di libri, su ilpost.it. URL consultato il 14 novembre 2021.
^ E' morto Wilbur Smith, il signore dell'avventura - Cultura & Spettacoli, su Agenzia ANSA, 13 novembre 2021. URL consultato il 14 novembre 2021.
Wikiquote contiene citazioni di o su Wilbur Smith
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Wilbur Smith
(EN) Sito ufficiale, su wilbursmithbooks.com.
(EN) Opere di Wilbur Smith, su Open Library, Internet Archive.
(EN) Bibliografia di Wilbur Smith, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.
(EN) Wilbur Smith, su Goodreads.
(EN) Wilbur Smith, su Internet Movie Database, IMDb.com.
(EN) Scheda del Fantastic Fiction, su fantasticfiction.co.uk.
wilbursmith.it, http://www.wilbursmith.it/.
Pagina Facebook ufficiale italiana dello scrittore, su facebook.com.
Incontro con i lettori alla Fiera del Libro di Torino, su lnx.whipart.it
11 novembre 1821 - 9 febbraio 1881 scrittore e filosofo russo
Fëdor Michajlovič Dostoevskij (in russo: Фёдор Михайлович Достоевский, AFI: [ˈfʲɵdər mʲɪˈxajləvʲɪtɕ dəstɐˈjɛfskʲɪj][1]; Mosca, 11 novembre 1821[2] – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881[3]) è stato uno scrittore e filosofo russo.
È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi[4] di tutti i tempi[5]. A lui è intitolato il cratere Dostoevskij sulla superficie di Mercurio.
Fëdor, secondo di otto figli, nasce a Mosca nel 1821 da Michail Andreevič Dostoevskij, un medico militare russo, figlio di un arciprete ortodosso discendente da una nobile famiglia, dal carattere stravagante e dispotico che alleva il ragazzo in un clima autoritario. La madre, Marija Fëdorovna Nečaeva, proveniva da una famiglia di ricchi e prosperi commercianti russi; dal carattere allegro e semplice, amava la musica ed era molto religiosa. Sarà lei a insegnare a leggere al figlio facendogli conoscere Aleksandr Sergeevič Puškin, Vasilij Andreevič Žukovskij e la Bibbia. A Fëdor succederanno altri sei figli: le quattro sorelle Varvara, Ljubov', Vera e Aleksandra Dostoevskaja e i due fratelli Andrej e Nikolaj.
Nel 1828 il padre Michail Andreevič è iscritto con i figli nell'albo d'oro della nobiltà moscovita. Nel 1831 Fëdor si trasferisce con la famiglia a Darovoe nel governatorato di Tula dove il padre ha comprato un vasto terreno. Nel 1834, insieme al fratello Michail, entra nel convitto privato di L.I. Čermak, a Mosca. Nel febbraio del 1837 la madre, da tempo ammalata di tisi, muore e il giovane viene trasferito col fratello a San Pietroburgo entrando nel convitto preparatorio del capitano K. F. Kostomarov per sostenere gli esami d'ammissione all'istituto d'ingegneria. Il 16 gennaio 1838 entra alla Scuola Superiore del genio militare di San Pietroburgo, dove studia ingegneria militare, frequentandola però controvoglia essendo i suoi interessi già orientati verso la letteratura.
L'8 giugno 1839 il padre, che si era dato al bere e maltrattava i propri contadini, viene ucciso probabilmente dagli stessi. Alla notizia della morte del padre, Fëdor, all'età di 17 anni, ebbe il suo primo attacco di epilessia. Le crisi epilettiche lo perseguiteranno per tutta la vita. Nell'agosto 1841 viene ammesso al corso per ufficiali e l'anno seguente viene promosso sottotenente. L'estate successiva entra in servizio effettivo presso il comando del Genio di San Pietroburgo. Sono anni d'indigenza. Per sbarcare il lunario, di notte traduce l'Eugenie Grandet di Balzac ed il Don Carlos di Schiller. Ma per opposte tendenze, elemosina e dissolutezza, il denaro non gli basta mai.
Il 12 agosto 1843 Fëdor si diploma, ma nell'agosto 1844 dà le dimissioni, lascia il servizio militare e rinuncia alla carriera che il titolo gli offre. Lottando contro la povertà e la salute cagionevole, comincia a scrivere il suo primo libro, Povera gente (Bednye Ljudi), che vede la luce nel 1846 e ha gli elogi di critici come Belinskij e Nekrasov. In questo primo lavoro, lo scrittore rivela uno dei temi maggiori della produzione successiva: la sofferenza per l'uomo socialmente degradato e incompreso.
Nell'estate Dostoevskij inizia a scrivere il suo secondo romanzo, Il sosia (Dvojnik), storia di uno sdoppiamento psichico che non ha però il consenso del primo romanzo, e a novembre, in una sola notte, scrive Romanzo in nove lettere (Roman v devjati pisem). Vedono successivamente la luce alcuni racconti su varie riviste, tra i quali i romanzi brevi Le notti bianche (Belye noči) e Netočka Nezvanova.
Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo. In realtà ha sì partecipato a tali riunioni, ma come incuriosito uditore, non come attivista. Il 16 novembre dello stesso anno, insieme ad altri venti imputati viene condannato alla pena capitale tramite fucilazione, ma incredibilmente il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. La revoca della pena capitale, già decisa da giorni, viene comunicata allo scrittore solo quando è già sul patibolo. L'avvenimento lo segnerà molto, come ci testimoniano le riflessioni sulla pena di morte (alla quale Dostoevskij si dichiarerà fermamente contrario) in Delitto e castigo e ne L'idiota, scritto a Firenze.
Il trauma della mancata fucilazione si assocerà alle prime ricorrenti crisi di epilessia (una forma ereditaria di epilessia del lobo temporale[6] che già lo aveva colpito nel 1839) che segneranno la sua esistenza, e di questo dramma si troverà traccia in alcuni romanzi, quali L'idiota nella figura del principe Myškin.
«A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme. In quel momento nulla è più penoso del pensiero incessante: "se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!".»
(L'idiota[7])
Sempre nello stesso romanzo:
«Ma il dolore principale, il più forte, non è già quello delle ferite; è invece la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. (...) Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi, in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. (...) Un solo uomo potrebbe chiarire il punto; un uomo cui abbiamo letto la sentenza di morte, e poi detto: “Va', ti è fatta la grazia!”. Di un tale strazio anche Cristo ha parlato… No, no, è inumana la pena, è selvaggia e non può né deve esser lecito applicarla all’uomo.»
In modo simile Dostoevskij scrive anche in Delitto e castigo, sempre sulla pena di morte:
«Dove mai ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi – avendo intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l'uomo!... Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.»
(Delitto e castigo[8])
Ne L'idiota (dove afferma "che importa se è una malattia?") e nelle lettere egli descrive anche gli attacchi di epilessia che lo colpirono la prima volta durante la prigionia, con le relative sensazioni (aura, allucinazioni) come un'esperienza mistica che gli cambiò la vita:
«È venuto da me, Dio esiste. Ho pianto e non ricordo niente altro. Voi non potete immaginare la felicità che noi epilettici proviamo il secondo prima di avere una crisi. Non so quanto possa durare nella realtà ma tra tutte le gioie che potrei avere nella vita, non farei mai scambio con questa.[9]»
Graziato della vita, il 24 dicembre viene deportato in Siberia, giungendo l'11 gennaio 1850 a Tobol'sk per poi essere rinchiuso il 17 gennaio nella fortezza di Omsk. Dalla drammatica esperienza della reclusione matura una delle opere più crude e sconvolgenti di Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti, in cui varie umanità degradate vengono descritte come personificazioni delle più turpi abiezioni morali, pur senza che manchi nell'autore una vena di speranza. Anche i due capitoli dell'epilogo di Delitto e castigo si svolgono in una fortezza sul fiume Irtyš, identificabile con Omsk. Per quattro anni il suo ristretto universo sarà delimitato da un recinto di millecinquecento pali di quercia, lavorando alabastro, trasportando tegole e spalando neve, attorniato dalla peggior risma d'individui. Gli è concesso un solo libro, la Bibbia ed i soli amici sono un'aquila ferita ed un cane tignoso.
Nel febbraio del 1854 Dostoevskij è liberato dalla galera per buona condotta, ma la sua salute resterà irrimediabilmente compromessa. Dovrà scontare il resto della pena, un paio d'anni, servendo nell'esercito come soldato semplice nel 7º battaglione siberiano, di stanza nella città di Semipalatinsk vicino al confine cinese. In questo periodo gli è vietata ogni pubblicazione e gli sono di grande supporto morale i libri inviatigli clandestinamente dal fratello Michail, tra cui i romanzi di Dumas e la Critica della ragion pura di Kant. Nel 1857 sposa Marija Isaeva, una donna dal carattere vivace, sognatore e impressionabile, vedova trentatreenne di un alcolista e madre di un bambino di nome Pavel.[10]
Il 18 marzo 1859, congedato dall'esercito, lo scrittore ottiene il permesso di rientrare nella Russia europea stabilendosi a Tver', il capoluogo più vicino a San Pietroburgo poiché l'ingresso nella capitale non gli è ancora concesso. Prepara alacremente insieme al fratello Michail una riedizione delle sue opere precedenti (escluso Il sosia, che medita di riscrivere) e lavora alle sue memorie sul bagno penale: queste verranno terminate fra il 1860 e il 1861 e pubblicate fra il 1861 e il 1862 con il titolo Memorie dalla casa dei morti.
Nel 1861 scrive Umiliati e offesi e ripristina i suoi rapporti con l'intelligentia pietroburghese facendo amicizia con due critici già affermati, Apollon Aleksandrovič Grigor'ev e Nikolaj Strachov. Insieme al fratello fonda la rivista Vremja (Il tempo) che si annuncia come espressione dell'"idea russa", ovvero della necessità di riavvicinare l'intellighenzia alle sue radici nazional-popolari (al suo "humus" come usa dire lo scrittore) e si contrappone apertamente alle correnti occidentaliste e radicali, sostenute, tra gli altri, da Turgenev. Su questa rivista Dostoevskij pubblica Memorie dalla casa dei morti e Umiliati e offesi nel 1861, Un brutto aneddoto nel 1862 e Note invernali su impressioni estive nel 1863.
Il 21 marzo 1864, diretta dai due fratelli, esce la rivista Epocha, su cui Fëdor pubblicherà le Memorie dal sottosuolo. Nello stesso anno, il 15 aprile gli muore la prima moglie e, poco dopo, il 10 luglio il fratello Michail, che gli lascia enormi debiti da pagare. L'anno successivo compie un viaggio in Europa, dove, cercando di risolvere le proprie difficoltà economiche, gioca disperatamente alla roulette, col risultato di peggiorare ulteriormente la sua condizione finanziaria. Cerca di sposare la sua intima amica Apollinarija Suslova, che però lo rifiuta.
Nel 1866 inizia la pubblicazione, a puntate, del romanzo Delitto e castigo. Conosce una giovane e bravissima stenografa, Anna Grigor'evna Snitkina, grazie alla quale riesce a dare alle stampe, nello stesso anno, Il giocatore, opera in cui Dostoevskij racconta le disavventure di alcuni personaggi presi dal vizio della roulette. Nel 1867 sposa Anna a San Pietroburgo e parte con lei per un nuovo viaggio in Europa, a Firenze, dove comincia a scrivere L'idiota.
Nel 1868 nasce la figlia Sonja, che vive solo tre mesi. Il dramma della morte dei bambini è, non a caso, uno dei temi trattati nel romanzo L'idiota, portato a termine lo stesso anno. Nel 1869 nasce la seconda figlia, Ljubov' (in russo, "amore", da adulta nota anche come Aimée[11]) e pubblica il romanzo breve L'eterno marito.
Nel 1870 lavora intensamente al romanzo I demoni, con cui l'autore sembra rinnegare definitivamente il proprio passato di libero pensatore nichilista. L'anno successivo nasce il terzo figlio, Fëdor, e Dostoevskij rinuncia una volta per tutte al vizio del gioco e, grazie agli introiti derivatigli dalla pubblicazione dei Demoni, può tornare a San Pietroburgo e affrontare i suoi creditori. Stringe amicizia con Konstantin Pobedonoscev - uno degli intellettuali più influenti e più conservatori di Russia - che di lì a qualche anno diventerà procuratore del Santo Sinodo e scomunicherà Lev Tolstoj.
Dostoevskij ritratto da Vasilij Peróv (1872), Galleria Tret'jakov di Mosca.
«Tret'jakóv, il proprietario della celebre galleria a Mosca, propose a mio marito di farsi fare un ritratto per la Pinacoteca dal famoso ritrattista Peróv. Prima di iniziare il suo lavoro, Peróv venne ogni giorno a casa nostra, per una settimana intera. Trovava mio marito in diversi stati d'animo, si intratteneva con lui in lunghe conversazioni, proponeva discussioni, e così aveva modo di osservare l'espressione caratteristica di mio marito quando pensava alle sue opere. Si può dire che Peróv sia davvero riuscito a ritrarre Dostoevskij nel «momento della creazione». Tale espressione io l'avevo notata spesso sul viso di Fëdor Michájlovič entrando nel suo studio: sembrava che guardasse dentro di sé. In quei momenti io uscivo dallo studio senza pronunciare parola. Lui era talmente assorto nei propri pensieri, che non mi aveva né visto né sentito, né poi voleva credere che fossi entrata nella sua stanza.»
Nello stesso anno Dostoevskij assume la direzione della rivista conservatrice Graždanin ("Il cittadino"), dove inizia a pubblicare dal 1873 il Diario di uno scrittore, una serie di articoli d'attualità nei quali emergerà anche un certo antigiudaismo dell'autore. Dostoevskij, come dichiarerà nel suo articolo Il problema ebraico (marzo 1877), in risposta a un attacco da parte di un corrispondente ebreo, affermerà però di non essere un antisemita razziale, e che egli "non odiava l'ebreo come popolo ma gli ebrei d'alto rango, i Re delle borse, i padroni delle banche, che influenzavano la politica internazionale; e gli ebrei usurai, gli sfruttatori delle popolazioni autoctone, citando gli esempi dei negri d'America e della popolazione lituana".
In questi anni stringe amicizia col filosofo Vladimir Solov'ëv e inizia la stesura del romanzo L'adolescente, che si rivelerà però un insuccesso. Nel 1875 nasce il figlio Aleksej, che morirà prematuramente il 16 maggio 1878 in seguito a un attacco di epilessia, la stessa malattia di cui soffriva il padre. Sempre nel 1878 è eletto membro dell'Accademia delle Scienze di Russia nella sezione lingua e letteratura.
Nel 1879 viene invitato a partecipare al Congresso letterario internazionale a Londra e in sua assenza, su proposta di Victor Hugo, eletto membro del Comitato d'onore. Vive, ormai in condizioni agiate, fra Staraja Russa e San Pietroburgo. Nello stesso anno gli viene diagnosticato un enfisema polmonare.
Lo stesso argomento in dettaglio: I fratelli Karamazov.
«Ciascuno di fronte a tutti è per tutti e di tutto colpevole. E non solo a causa della colpa comune, ma ciascuno, individualmente.»
(I fratelli Karamazov)
Nel gennaio del 1879 inizia sulla rivista «Russkij vestnik» la pubblicazione de I fratelli Karamazov, il suo canto del cigno, il suo romanzo più voluminoso e forse più ricco di drammaticità e di profonda moralità. Immediatamente il romanzo fu accolto con enorme favore. La stesura continuò tuttavia con lunghe pause. A causa del peggiorare delle sue condizioni di salute nell'estate dello stesso anno si reca a Ems per curarsi.
Durante le celebrazioni in onore di Puškin nel giugno del 1880, legge un discorso composto per l'occasione, che viene accolto entusiasticamente dal pubblico e, nei giorni successivi, dalla stampa. Il numero speciale del Diario di uno scrittore contenente il discorso vende quindicimila copie.
In autunno termina I fratelli Karamazov, e a dicembre esce in 3000 copie l'edizione in volume. In pochi giorni metà della tiratura è venduta. Nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto far seguito un altro romanzo in cui il minore dei fratelli Karamazov, Alëša, sarebbe cresciuto d'età. Ma per Dostoevskij diventa sempre più difficoltoso dedicarsi al lavoro intellettuale.
Muore improvvisamente, in seguito a un repentino aggravarsi del suo enfisema, il 28 gennaio 1881 a San Pietroburgo, nello stesso appartamento dove ora si trova il museo di San Pietroburgo a lui dedicato. Prima di morire, Dostoevskij vuole salutare i suoi figli e chiede che la parabola del figliol prodigo venga letta ai bambini nel loro futuro percorso educativo[13]. Il significato profondo di quest'ultima richiesta è così spiegato da Joseph Frank:
«Fu questa parabola di trasgressione, pentimento e perdono che [Dostoevskij] volle trasmettere come ultimo lascito ai suoi figli, e ciò può significare una presa di coscienza finale sul significato ultimo della sua vita e della sua opera.[13]»
La moglie Anna testimonia di aver consegnato a Fëdor (che ne aveva fatto richiesta), nello stesso mattino del decesso, il Vangelo di Tobol'sk che aveva sempre tenuto con sé; Fëdor lo apre a caso e fa leggere la moglie:
« Ma Giovanni lo trattenne e disse: io devo essere battezzato da te e non tu da me. Ma Gesù gli rispose: non trattenermi... » ( Mt 3,14-15, su laparola.net.)
A queste parole Fëdor commenta:
«Senti Anja, 'non trattenermi' vuol dire che debbo morire»
(A. G. Dostoevskaja, Dostoevskij marito[14])
Il 12 febbraio gli vengono tributate esequie solenni e viene sepolto nel Cimitero Tichvin del Monastero di Aleksandr Nevskij.
Nel 1884 esce la prima edizione postuma delle sue opere complete in quattordici volumi.
«Questo Essere c'è, e può perdonare tutto e tutti e per conto di tutti perché Lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto.»
(Alëša a Ivàn in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov[15])
Note al V capitolo dei I fratelli Karamazov
Le opere che lo hanno reso maggiormente famoso sono Memorie dal sottosuolo, Delitto e castigo, L'idiota, I demoni e I fratelli Karamazov, e viene considerato un esponente dell'esistenzialismo e dello psicologismo. Egli fu un uomo e un intellettuale spesso contraddittorio. Identificato dapprima come voce della corrente nichilista-populista, Dostoevskij capeggiò poi le file degli intellettuali russi più conservatori di fine Ottocento. Nelle Memorie dalla casa dei morti (1859-1862) fanno capolino i grandi valori della tolleranza religiosa, della libertà dalle prigionie materiali e morali, della indulgenza verso i malfattori, cioè verso coloro che, pur essendosi macchiati di crimini contro la legge, sono in definitiva solamente persone più sfortunate e più infelici, e quindi più amate da Dio, che vuole la salvezza del peccatore e non la sua condanna. Tutto è dunque proiettato verso "la libertà, una nuova vita, la resurrezione dai morti...".[16]
«Il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni.»
(Memorie dalla casa dei morti''[17][18])
A distanza di vent'anni dalle Memorie, alcuni di questi aspetti caratterizzanti del pensiero del giovane e progressista Dostoevskij si rovesceranno completamente nelle riflessioni severe e conservatrici del Diario di uno scrittore (1873-1881), ossia gli articoli scritti sul Cittadino di intonazione nazionalista e slavofila, e nelle sue pagine di riflessione, dove attacca gli usurai ebrei, difende la Chiesa ortodossa russa come unico vero cristianesimo specie in polemica con la dottrina e la gerarchia della Chiesa cattolica (ne L'idiota definisce il cattolicesimo come "peggiore dell'ateismo" stesso), critica Cavour per il modo in cui ha unito l'Italia (pur riconoscendogli doti diplomatiche) e prende posizione contro il lassismo giudiziario, polemizzando contro i progressisti che, dando la colpa di ogni violenza individuale all'ambiente sociale, chiedevano pene meno severe per gli assassini. Attacca il darwinismo sociale, il materialismo storico e il nascente superomismo (Thomas Carlyle, che ispirerà Nietzsche) già attaccato in Delitto e castigo nella figura del protagonista Raskol'nikov, omicida per un presunto bene superiore, oltre che per l'appunto le sentenze lievi o assolutorie nei confronti delle violenze famigliari sui bambini.[19] L'autore esorta a non assolvere il peccato assieme al peccatore, mantenendo pene severe per i reati gravi, pur dichiarandosi sempre contrario alla pena di morte e pietoso verso le condizioni carcerarie:
«Giungeremo a poco a poco alla conclusione che i delitti non esistono affatto, e di tutto ha colpa l'ambiente. Giungeremo, seguendo il filo del ragionamento, a considerare il delitto persino come un dovere, come una nobile protesta contro l'ambiente… insomma …la dottrina dell'ambiente porta l'uomo a una piena spersonalizzazione, al suo pieno affrancamento da ogni dovere morale personale, da ogni indipendenza, lo porta alla più schifosa schiavitù immaginabile.»
(Diario di uno scrittore[20])
«Ci sono nella vita degli uomini dei momenti storici, in cui una scelleratezza evidente, sfacciata, volgarissima può venir considerata nient'altro che grandezza d'animo, nient'altro che nobile coraggio dell'umanità che si libera dalle catene.»
(Diario di uno scrittore[21])
«Pietà quanta se ne vuole, ma non lodate le cattive azioni: date loro il nome di male.»
(Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881)
Lo scrittore si caratterizza per la sua abilità nel delineare i caratteri morali dei personaggi che appaiono nei suoi romanzi, tra i quali spesso figurano i cosiddetti ribelli, che contrastano con i conservatori dei saldi principi della fede e della tradizione russa. I suoi romanzi sono definibili "policentrici", proprio perché spesso non è dato identificare un vero e proprio protagonista, ma si tratta di identità morali incarnate in figure che si scontrano su una sorta di palcoscenico dell'anima: l'isolamento e l'aberrazione sociale contro le ipocrisie delle convenzioni imposte dalla vita comunitaria (Memorie dal sottosuolo), la supposta sanità mentale contro la malattia (L'idiota), il socialismo contro lo zarismo (I demoni), la fede contro l'ateismo (I fratelli Karamazov).
Fotografia di Dostoevskij.
Nelle opere di Dostoevskij, come nella sua esistenza, la brama di vivere si scontra con una realtà di sofferenza e si coniuga con una incessante ricerca della verità; egli scrisse: «Nonostante tutte le perdite e le privazioni che ho subito, io amo ardentemente la vita, amo la vita per la vita e, davvero, è come se tuttora io mi accingessi in ogni istante a dar inizio alla mia vita [...] e non riesco tuttora assolutamente a discernere se io mi stia avvicinando a terminare la mia vita o se sia appena sul punto di cominciarla: ecco il tratto fondamentale del mio carattere; ed anche, forse, della realtà.»[22].
L'autore, nei suoi romanzi a differenza che negli articoli e nei saggi, cerca di non lasciar mai trasparire un proprio giudizio definitivo sui personaggi, non giudicarli direttamente, ed è questa una sua peculiarità, che ne pose il pensiero in vivace antagonismo con quello dell'altrettanto contraddittorio Lev Tolstoj. Inoltre, anche Dostoevskij – proprio come Tolstoj, pur se per vie diverse – visse un confronto continuo ed al tempo stesso un rapporto tormentoso e quasi personale con la figura di Cristo, a cui si sentiva tanto legato da affermare:
«Sono un figlio del secolo del dubbio e della miscredenza e so che fin nella tomba continuerò ad arrovellarmi se Dio sia. Eppure se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità.[23]»
In Dostoevskij il "sottosuolo" dell'anima è qualcosa di spaventoso che coincide con l'assolutezza del male. Scrive Giuseppe Gallo: "Sul piano dei contenuti, Dostoevskij traccia la prima implacabile anamnesi della crisi dell'uomo contemporaneo, lacerato da pulsioni contraddittorie e insanabili, privo di certezze e punti di riferimento solidi cui uniformare il proprio comportamento morale. A derivarne è una presa di distanza radicale dal razionalismo illuminista e positivista, alla cui pretesa di ricondurre le leggi della natura all'ordine della ragione lo scrittore contrappone la forza della volontà che non ammette limitazioni"[24].
Dalla lettura di romanzi come quelli libertini del marchese de Sade[25] egli rileva la propensione al sadismo (Sigmund Freud descriverà il grande scrittore come un masochista con tendenze minori sadiche, spesso rivolte però contro sé stesso) e alla sopraffazione del forte sul debole presente nell'umanità (raffigurata poi in diversi personaggi, come il Principe di Umiliati e Offesi, Svidrigajlov di Delitto e castigo e Stavrogin de I demoni, immorali e corrotti, ma destinati poi alla crisi personale e al suicidio), e si convince che solo la fede cristiana possa attenuarla: «una volta ripudiato Cristo, l'intelletto umano può giungere a risultati stupefacenti» poiché «vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L'uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l'uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo. Siamo tutti idolatri, non atei». Ne I fratelli Karamazov uno dei personaggi, il tormentato Ivàn Karamazov, pronuncia - in un dialogo col fratello Alëša che ha intrapreso la carriera religiosa - la celebre frase:
«Se Dio non esiste, tutto è permesso.»
(I fratelli Karamazov, libro V "Pro e contro")
Dostoevskij è definito "artista del caos" perché i suoi personaggi hanno sempre il carattere dell'eccezionalità e permettono di avanzare in concreto quei problemi (conflitto tra purezza e peccato, tra abbrutimento e bellezza, tra caos – appunto – e senso della vita) che la filosofia discute attraverso termini di puro concetto; sono concetti che Dostoevskij incarna nei personaggi dei propri romanzi: quindi si comprende perché il grande scrittore russo sia reputato a tutti gli effetti non solo un autore di letteratura, ma anche un autore di filosofia contemporanea. In merito ai suoi personaggi, lo stesso Dostoevskij scrive nel Diario di uno scrittore: «Non sapete che moltissime persone sono malate appunto della loro salute, cioè di una smisurata sicurezza della propria normalità, e perciò stesso contagiate da una terribile presunzione, da una incosciente autoammirazione che talvolta arriva addirittura all’infallibilità? […] Questi uomini pieni di salute non sono così sani come credono, ma, al contrario, sono molto malati e debbono curarsi.» dando così risposta a chi lo accusava d'essere interessato a soggetti con manifestazioni morbose della volontà.
Dostoevskij scrisse quattordici romanzi e venti racconti. Sono qui indicati i titoli italiani più comuni. Per una bibliografia approfondita delle traduzioni e della critica si veda la voce Bibliografia su Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
Tra parentesi il titolo originale e la traslitterazione.
Povera gente (Бедные люди, Bednye ljudi), 1844.
Il sosia (Двойник, Dvojnik), 1845.
Netočka Nezvanova (Неточка Незванова, Netočka Nezvanova), incompiuto, 1849.
Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti (Село Степанчиково и его обитатели, Selo Stepančikovo i ego obitateli), 1858.
Memorie dalla casa dei morti (Записки из мёртвого дома, Zapiski iz mërtvogo doma), 1861.
Umiliati e offesi (Униженные и оскорблённые, Unižennye i oskorblënnye), 1861.
Memorie dal sottosuolo (Записки из подполья, Zapiski iz podpol´ja), 1864.
Il giocatore (Игрок, Igrok), 1866.
Delitto e castigo (Преступление и наказание, Prestuplenie i nakazanie), 1866.
L'idiota (Идиот, Idiot), 1869.
L'eterno marito (Вечный муж, Večnyj muž), 1870.
I demoni (Бесы, Besy), 1871.
L'adolescente (Подросток, Podrostok), 1875.
I fratelli Karamazov (Братья Карамазовы, Brat´ja Karamazovy), 1878-1880.
Romanzo in nove lettere (Роман в девяти письмах, Roman v devjati pis'mach), 1845.
Il signor Procharčin (Господи Прохарчин, Gospodin Procharčin), 1846.
La padrona (Хозяйка, Chozjajka), 1847.
Polzunkov (Ползунков, Polzunkov), 1848.
Un cuore debole (Слабое сердце, Slaboe serdce), 1848.
La moglie altrui e il marito sotto il letto (Чужая жена и муж под кроватью, Čužaja žena i muž pod krovat'ju), 1848.
Il ladro onesto (Честный вор, Čestnyj vor), 1848.
L'albero di Natale e il matrimonio (Ёлка и свадьба, Ёlka i svad'ba), 1848.
Le notti bianche (Белые ночи, Belye Noči), 1848.
Un piccolo eroe (Маленький герой, Malen'kij geroj), 1849.
Il sogno dello zio (Дядюшкин сон, Djadjuškin son), 1859.
Una brutta storia (Скверный анекдот, Skvernyj anekdot), 1862.
Il coccodrillo (Крокодил, Krokodil), 1865.
Bobok (Бобок, Bobok), 1873.
Il bambino "con la manina". Il bambino sull'albero di Natale da Gesù (Мальчик у Христа на ёлке, Mal'čik u Christa na ëlke), 1876.
Il contadino Marej (Мужик Марей, Mužik Marej), 1876.
La mite (Кроткая, Krotkaja), 1876.
Il sogno di un uomo ridicolo (Сон смешного человека, Son smešnogo čeloveka), 1877.
Vlas (Влас, Vlas), 1877.
Piccoli quadretti (Mаленькие картины, Malen'kie kartiny), 1877.
Note invernali su impressioni estive (Зимние заметки о летних впечатлениях, Zimnie zametki o letnich vpečatlenijach), 1863.
Diario di uno scrittore (Дневник писателя, Dnevnik pisatelja), 1873
I romanzi di Dostoevskij, e la sua stessa vita, sono stati rappresentati diverse volte in opere cinematografiche o televisive. Di notevole interesse è L'idiota di Akira Kurosawa, e sebbene la critica lo definisca "uno dei più grandi film mancati nella storia del cinema",[26] altrettanto unanimemente lo considera il miglior film dostoevskiano mai realizzato. Di particolare interesse sono anche Quattro notti di un sognatore di Robert Bresson, ispirato a Le notti bianche, e 40.000 dollari per non morire di Karel Reisz, liberamente ispirato a Il giocatore. Anche il cinema indiano di Bollywood ne ha tratto ispirazione con Saawariya - La voce del destino.
Quella che segue è una filmografia parziale dei film ispirati all'opera di Dostoevskij.
1920 - Il principe idiota, di Eugenio Perego - da L'idiota
1931 - Il delitto Karamazov (Der Mörder Dimitri Karamasoff), di Erich Engels e Fyodor Otsep
1934 - Le notti bianche di San Pietroburgo, o La tragedia di Egor, di Grigorij L'vovič Rošal' e Vera Stroeva - da Le notti bianche
1935 - Delitto e castigo (Crime et châtiment), di Pierre Chenal
1935 - Ho ucciso! (Crime and Punishment), di Josef von Sternberg - da Delitto e castigo
1946 - L'idiota (L'idiot), di Georges Lampin
1946 - Nathalie (L'homme au chapeau rond), di Pierre Billon - da L'eterno marito
1947 - I fratelli Karamazoff, di Giacomo Gentilomo
1951 - L'idiota (Hakuchi), di Akira Kurosawa
1951 - Delitto e castigo (Crimen y castigo), di Fernando de Fuentes
1956 - La febbre del delitto, o I peccatori guardano il cielo (Crime et châtiment), di Georges Lampin - da Delitto e castigo
1957 - Le notti bianche, di Luchino Visconti
1958 - Karamazov (The Brothers Karamazov), di Richard Brooks
1958 - Il giocatore (Le joueur), di Claude Autant-Lara
1959 - L'idiota, miniserie di Giacomo Vaccari
1963 - Delitto e castigo [miniserie], di Anton Giulio Majano
1965 - Il giocatore [miniserie], di Edmo Fenoglio
1968 - Il sosia (Partner), di Bernardo Bertolucci
1969 - I fratelli Karamazov (sceneggiato televisivo), di Sandro Bolchi
1969 - I fratelli Karamazov (Bratja Karamazovy), di Kirill Lavrov e Ivan Pyrev
1969 - Così bella così dolce (Une femme douce), di Robert Bresson - Da La mite
1971 - I demoni (miniserie), di Sandro Bolchi
1971 - Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d'un rêveur), di Robert Bresson - da Le notti bianche
1974 - 40.000 dollari per non morire (The Gambler), di Karel Reisz - da Il giocatore.
1983 - Delitto e castigo (Rikos ja rangaistus), di Aki Kaurismäki
1984 - Il contemporaneo (Aikalainen), di Timo Linnasalo - da Memorie dal sottosuolo
1985 - Amore balordo (L'amour braque), di Andrzej Żuławski - da "L'Idiota"
1988 - Dostoevskij - I demoni (Les possédés), di Andrzej Wajda
1990 - La vendetta di una donna (La vengeance d'une femme), di Jacques Doillon - da La mite
1991 - Umiliati e offesi (Unižennye i oskorblënnye), di Andrei Eshpaj
1999 - Il ritorno dell'idiota (Návrat idiota), di Sasa Gedeon
2007 - Saawariya - La voce del destino, di Sanjay Leela Bhansali - da Le notti bianche
2013 - The Double, di Richard Aoyade
1949 - Il grande peccatore (The Great Sinner), di Robert Siodmak, con Gregory Peck nel ruolo di Dostoevskij
2008 - I Demoni di San Pietroburgo (I Demoni di San Pietroburgo), di Giuliano Montaldo
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1960 - Alcuni personaggi del film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti sono modellati su quelli de L'idiota.[senza fonte]
1969 - La caduta degli dei, di Luchino Visconti. Il personaggio di Martin Von Essenbeck ripercorre le vicende di Nikolas Stavrogin de I demoni.
1975 - Amore e guerra (Love and Death), di Woody Allen. Varie citazioni dai romanzi di Dostoevskij.
1991 - La Divina Commedia (A Divina Comédia), di Manoel de Oliveira. Le vicende di alcuni personaggi si rifanno a Delitto e castigo ed a I fratelli Karamazov.
2005 - Match point di Woody Allen. Viene citato il romanzo Delitto e Castigo non solo come libro ma anche come contenuto della trama del film.
2010 - Il Cigno Nero di Darren Aronofsky. In una intervista, il regista del film ha dichiarato di aver letto e di aver preso spunto dal libro Il sosia: anche la protagonista del film Nina Seyers, interpretata dalla vincitrice del premio Oscar Natalie Portman, impazzisce perdendo il senso della distinzione tra realtà e allucinazione, a causa di una personificazione del proprio lato oscuro, incarnato da una immagine mentale di se stessa.
Dostoevskij è citato (erroneamente, come Michele Dostojewskij) nel testo della canzone Il siero di Strokomogoloff, scritto da Leo Chiosso su musica di Fred Buscaglione, portata al successo in Italia dallo stesso Buscaglione alla fine degli anni cinquanta.
Giocando sull'assonanza con Strokomogoloff, Chiosso usò come testimonial del siero diversi personaggi russi sufficientemente noti al pubblico italiano dell'epoca: oltre a Dostoevskij, Michele Strogoff, Nikolaj Rimskij-Korsakov, Serge Voronoff. Il brano elenca scherzosamente le molteplici proprietà di una pozione portentosa in grado di risolvere non solo i problemi di salute e i difetti estetici, ma anche i guai d'amore e la mancanza d'ispirazione degli artisti: sarebbe stata una massiccia assunzione di siero ad aver stimolato il romanziere a scrivere I fratelli Karamazov. Dostoevskij è anche il titolo di una canzone del cantautore Massimo Bubola.
Forse la più importante traduzione musicale è Da una casa di morti di Leoš Janáček (1854-1928), dalle Memorie da una casa di morti di Fëdor Dostoevskij del 1928.
Seguirono Heinrich Sutermeister, compositore svizzero, con Raskolnikov, tratto da Delitto e Castigo nel 1948, e Luciano Chailly, compositore ferrarese, con L'idiota, opera in tre atti su libretto di Gilberto Loverso, eseguita nel 1970 al Teatro dell'Opera di Roma.
Il 9 novembre 1989 è passato alla storia come il giorno della caduta del Muro di Berlino. A trentadue anni da questo avvenimento scopriamo oggi quali libri leggere per capire meglio la storia e approfondire un capitolo del passato della Germania e uno dei suoi simboli più tristemente noti.
Il Muro di Berlino, Berliner Mauer, era la Barriera di protezione antifascista (Antifaschistischer Schutzwall) fatta costruire dal governo della Germania Est e cioè dalla Repubblica Democratica Tedesca il 13 agosto del 1961. Lo scopo era quello di impedire la libera circolazione delle persone tra il territorio della Germania Est e Berlino Ovest, governata invece dalla Repubblica Federale di Germania. Si trattava di un sistema di fortificazioni, un vero e proprio muro che tagliava in due la città, creando un confine interno che la spaccava letteralmente a metà. Famiglie intere vennero divise e tantissime persone si ritrovarono fisicamente lontane dai loro cari.
Durante la Guerra Fredda il Muro di Berlino era considerato la linea di confine europea tra le zone controllate da Francia, Regno Unito e U.S.A. e quella sovietica. Non bisogna immaginare però un singolo muro: la frontiera era fortificata militarmente da due muri di cemento armato paralleli tra loro. Tra i due muri si trovava la “striscia della morte”, un vuoto di circa una decina di metri tra un muro e l’altro. Cercare di oltrepassare la frontiera era praticamente impossibile.
Il 9 novembre 1989 il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la repubblica federale. Ecco quali libri leggere per approfondire l’argomento.
Il muro di Berlino. 13 agosto 1961-9 novembre 1989 di Frederick Taylor, edito da Mondadori, è un saggio che intreccia dati ufficiali, fonti d’archivio e testimonianze personali, per rendere il ritratto di una città spaccata in due.
Non si può dividere il cielo. Storie dal muro di Berlino di Gianluca Falanga, edito da Carocci, racconta le storie paradossali, drammatiche e verissime di uomini e donne che da un giorno all’altro si ritrovarono da una parte o dall’altra di una barriera fisica, che li divideva dai loro cari. Qualcuno di loro ha anche provato a sfidare la barriera.
Muro di Berlino. Due o tre cose che so di lui è invece un testo edito da L’Orma e curato da E. Trabucchi, che racconta la barriera che ha spaccato in due la città tramite cifre, mappe, immagini, storie, poesie e canzoni.
Anime prigioniere. Cronache dal muro di Berlino è un testo di Ezio Mauro edito da Feltrinelli. Tra queste pagine troviamo una cronaca appassionante dell’evento che ha segnato l’inizio del mondo di oggi: la Caduta del Muro di Berlino.
L’anno che cambiò il mondo. La storia non detta della caduta del Muro di Berlino di Michael Meyer è edito da Il Saggiatore. Questo testo ricostruisce il 1989, anno di sconvolgimenti grandiosi e insondabili. L’autore affronta il tema storico e politico da diversi punti di vista...
Il cielo diviso di Christa Wolf, edito da edizioni E/O (2012). Una storia d’amore sbocciata e naufragata all’ombra del Muro di Berlino, narrata dalla penna magistrale di una grande autrice. Il libro fu pubblicato in Germania nel 1962 ed ebbe un grande successo internazionale: era il primo romanzo di Christa Wolf, oggi considerata una delle maggiori scrittrici tedesche. Trent’anni dopo il Muro di Berlino sarebbe stato abbattuto, ma la storia d’amore spezzata di Rita e Manfred avrebbe continuato a vivere nell’ intramontabile ricordo di quel cielo diviso tra Est e Ovest.
Il 5 novembre in Inghilterra si celebra la “notte dei falò” nota anche con il nome di “Guy Fawkes Night”. Scopriamo di più sulla ricorrenza che ha ispirato la celebre graphic novel di Alan Moore “V per Vendetta”.
"Remember, remember the fifth of november". Questa frase è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo grazie allo straordinario successo della pellicola cinematografica V per vendetta e, ancora prima, per merito della graphic novel scritta da Alan Moore e illustrata da David Lloyd negli anni ’80.
“Ricorda per sempre il 5 novembre, il giorno della congiura delle polveri contro il parlamento. Non vedo perché di questo complotto nel tempo il ricordo andrebbe interrotto."
Puntualmente ogni 5 novembre questa espressione ritorna come un ritornello e preannuncia un cambiamento, è come il campanello di allarme di una rivoluzione. Il misterioso protagonista mascherato di V per Vendetta la pronuncia, infatti, dinnanzi all’eccezionale esplosione che dà avvio alla storia. Ma la frase non è un’invenzione del genio dell’autore, Alan Moore; in realtà ha origini ben lontane, radicate nella storia inglese.
Il protagonista mascherato di V per Vendetta nel suo discorso si riferisce a un evento ben preciso: la congiura del 5 novembre 1605. In quell’occasione un gruppo di cospiratori cattolici tentò di appiccare il fuoco al Palazzo di Westminster per attentare alla vita di Re Giacomo I, che aveva attuato una vera e propria persecuzione nei confronti di chi professava la fede cattolica.
La congiura, passata alla storia con il nome di "Congiura delle Polveri", venne sventata per tempo e i cospiratori furono impiccati. A guidare il complotto contro il Governo era un uomo di nome Guy Fawkes, che oggi viene ricordato tramite la celebre maschera bianca dai tratti stilizzati: il sorriso beffardo, i baffi neri all’insù e le guance rosse.
Si tratta dello stesso travestimento utilizzato da V, il protagonista della graphic novel di Moore, che proprio come Guy Fawkes si batte contro ogni forma di assolutismo e l’abuso di potere.
Nel corso degli anni la maschera bianca di Fawkes è diventata un emblema rivoluzionario, ancora oggi è infatti utilizzata nel corso di manifestazioni ed eventi. A partire dal 2008 la maschera è divenuta il simbolo del movimento Anonymous.
Alan Moore nel creare l’universo utopistico di V per Vendetta, che sotto molti aspetti ricorda 1984 di George Orwell, si ispirò alla storia della Congiura delle Polveri. Nel mondo futuristico di V per Vendetta il protagonista si appresta a concludere l’impresa tentata da Guy Fawkes secoli prima.
“Ieri sera io ho distrutto il vecchio Bailey, per ricordare a questo paese quello che ha dimenticato. Più di quattrocento anni fa, un grande cittadino ha voluto imprimere per sempre nella nostra memoria il 5 novembre. La sua speranza, quella di ricordare al mondo che l’equità, la giustizia, la libertà sono più che parole: sono prospettive. Quindi, se non avete visto niente, se i crimini di questo governo vi rimangono ignoti, vi consiglio di lasciar passare inosservato il 5 novembre. Ma se vedete ciò che vedo io, se la pensate come la penso io, e se siete alla ricerca come lo sono io, vi chiedo di mettervi al mio fianco, a un anno da questa notte, fuori dai cancelli del Parlamento, e insieme offriremo loro un 5 novembre che non verrà mai più dimenticato.”
V, l’eroe mascherato creato da Alan Moore, è il simbolo della lotta contro l’oppressione di un governo autoritario che sta devastando il Paese. Sarà proprio lui a completare l’opera lasciata in sospeso da Fawkes, nel tentativo di riportare la giustizia e l’equità in una società che ha ormai dimenticato i principi del libero pensiero.
Nella straordinaria esplosione che conclude V per Vendetta, l’avvio della rivoluzione simboleggia il lieto fine auspicato, ma nella realtà le cose stanno diversamente. In Inghilterra ogni anno il 5 novembre si celebra la Guy Fawkes Night per festeggiare il fallimento dell’attentato al Parlamento di Londra.
Per l’occasione vengono allestiti in tutto il Paese dei falò in cui viene dato fuoco all’effige di Guy Fawkes, commemorando così ciò che accadde nel lontano 1605. Mentre V per Vendetta celebra la rivoluzione, l’Inghilterra festeggia lo scampato pericolo e la sconfitta dei cospiratori.
Il 5 novembre si può ammirare lo spettacolo trionfale dei fuochi d’artificio nei cieli di Londra. Un’esplosione molto diversa dalla Gunpowder Night, la Congiura delle Polveri.
Tuttavia la letteratura e la costruzione simbolica cui ha dato vita la graphic novel di Moore hanno contribuito a espandere l’immaginario dei lettori.
Per tutti coloro che hanno letto le pagine di V per Vendetta o amato la trasposizione cinematografica, il 5 novembre avrà tutt’altro significato. Il trionfo della giustizia, l’inizio di una rivoluzione a favore di un mondo più equo e democratico in cui siano finalmente rispettati i diritti di tutti. Finché queste condizioni non saranno attuate in tutto il mondo l’ideale rivoluzionario di V, l’eroe mascherato di Alan Moore, non cesserà di far udire la propria voce in favore della libertà.
E quelle parole “Remember remember the fifth of november” non avranno perso il loro forte potenziale evocativo. Continueranno a rimbombare come un’eco nelle orecchie di chi crede ancora nei valori della giustizia e dell’uguaglianza.
Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) è stato un militare e scrittore italiano.
Il suo romanzo più noto è Il sergente nella neve (1953), un'autobiografia della ritirata di Russia. Legatissimo alla sua terra[1], l'altopiano di Asiago, era il discendente dell'ultimo cancelliere della federazione dei Sette Comuni[2]. Primo Levi lo definì "uno dei più grandi scrittori italiani"[3].
Nato ad Asiago, sull'altopiano dei Sette Comuni, il 1º novembre 1921 da Giovanni Battista Rigoni e Annetta Vescovi, terzo di sette fratelli, e una sorella, trascorse l'infanzia tra i pastori e la gente di montagna dell'altopiano. La famiglia Rigoni, soprannominata "Stern", commerciava con la pianura in prodotti delle malghe alpine, pezze di lino, lana e manufatti in legno della comunità dell'Altipiano. Studiò fino alla terza avviamento professionale per poi lavorare presso la bottega di famiglia.
Nel 1938 si arruolò volontario alla scuola centrale militare di alpinismo (ora centro addestramento alpino) di Aosta dove ebbe come istruttori il maestro di sci Gigi Panei, la guida alpina Renato Chabod e l'alpinista Giacomo Chiara.[4] In seguito combatté come alpino nella divisione Tridentina, nel battaglione "Vestone", al confine con la Francia al tempo dell'entrata in guerra dell'Italia nel 1940 al fianco della Germania, poi nell'ottobre dello stesso anno sul fronte greco-albanese, infine in Russia, una prima volta nel gennaio del 1942, una seconda nel luglio dello stesso anno, salutando ancora nel maggio l'aggressione militare con le parole: “Non vi è stata una guerra più giusta di questa contro la Russia sovietica: sì, questa guerra che facciamo è come una crociata santa e sono contento di parteciparvi, anzi fortunato”.[5]
Gli indottrinamenti del regime fascista e le illusioni giovanili di Rigoni cadranno durante la disfatta e la ritirata degli alpini dalla Russia. Gli alpini erano rimasti abbandonati nella "sacca" sul fiume Don, privi di copertura aerea, di istruzioni e di comandanti, soggetti ai ripetuti attacchi dell'esercito sovietico. Rigoni, da sergente, si sentì responsabile per i suoi uomini e si impegnò al massimo per riuscire a ripiegare con ordine e ricondurli in patria. Al rientro in Italia scoprì con rammarico che nessun giornale aveva parlato né dell'accaduto, né degli scontri e dei morti, anzi i reduci vennero quasi nascosti, per evitare che si sapesse della disastrosa campagna.
Fatto prigioniero dai tedeschi dopo la firma dell'armistizio di Cassibile (3 settembre 1943), rifiutò di aderire alla Repubblica sociale di Mussolini e fu deportato come IMI in un campo di concentramento a Hohenstein (oggi Olsztynek), in Prussia orientale. Durante la prigionia tiene un diario dove annota le sue esperienze in guerra. Dopo la liberazione del campo durante l'avanzata dell'Armata Rossa verso il cuore della Germania, rientrò a casa a piedi attraversando le Alpi, dopo due anni di prigionia, il 5 maggio 1945.
Campagna di Russia
La sua particolare sensibilità lo ha contraddistinto anche durante la campagna di Russia, iniziata con inconsapevolezza e baldanza e conclusa con una totale disillusione sulla politica dei regimi nazi-fascisti e sulla guerra.
A proposito di questa guerra dirà in seguito (cambiando drasticamente opinione rispetto al periodo in cui si arruolò volontario):
«I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d'altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non combattemmo né per Mussolini, né per il Re, ma per salvare le nostre vite.»
(da Ritratti: Mario Rigoni Stern di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini)
E ancora:
«Il momento culminante della mia vita non è stato quando ho vinto premi letterari, o ho scritto libri, ma quando la notte dal 15 al 16 sono partito da qui sul Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa, e sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, e riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita...»
(da Ritratti: Mario Rigoni Stern di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini)
Mario Rigoni Stern nel 1958
Finita la guerra Rigoni Stern ritorna ad Asiago, da dove non si trasferirà più e dove ha vissuto fino alla morte nella casa da lui stesso costruita. Nel 1946 si sposa con Anna dalla quale avrà tre figli. Viene assunto presso l'ufficio imposte del catasto del suo stesso comune; manterrà questo impiego fino al 1970 quando lo lascerà per ragioni di salute, soffrendo di problemi cardiaci. Da quel momento si dedicherà appieno all'attività di scrittore.
Esordisce come scrittore nel 1953, con il libro autobiografico Il sergente nella neve, pubblicato da Einaudi, in cui racconta la sua esperienza di sergente degli alpini nella disastrosa ritirata di Russia durante la seconda guerra mondiale. Con quest'opera egli si colloca all'interno della corrente narrativa neorealista. Il libro viene pubblicato su indicazione di Elio Vittorini, conosciuto da Rigoni Stern nel 1951, che suggerì alcune piccole modifiche stilistiche. Il testo è ricco di ricordi, immagini, storie che presentano analogie di situazioni, temi e umanità con i libri scritti da Primo Levi e Nuto Revelli, aventi come soggetto gli anni di guerra e le storie degli uomini che vissero quel periodo.
Sul finire degli anni Sessanta collabora alla sceneggiatura de I recuperanti, film per la televisione del 1970 girato da Ermanno Olmi sulle vicende delle genti dell'altipiano all'indomani della seconda guerra mondiale. Successivamente pubblica altri romanzi nella sua terra natale e ispirati a grande rispetto, amore per la natura e alla sua passione venatoria. Sono inoltre ben sottolineati nelle sue storie quei valori umani e ambientali che egli riteneva molto importanti. Sono questi i temi dei libri Il bosco degli urogalli (1962) e Uomini, boschi e api (1980).
Per le sue opere gli sono stati attribuiti numerosi premi letterari nazionali, tra i quali i premi Bagutta, Campiello, Grinzane Cavour, Feltrinelli, Chiara e Flaiano.
Rigoni Stern fu un appassionato cacciatore, come dimostrano le sue opere dedicate al mondo venatorio. In particolare ricordiamo i celebri Racconti di caccia.
Per la sua sensibilità verso il mondo della natura e della montagna l'11 maggio 1998 l'Università di Padova gli ha conferito la laurea honoris causa in scienze forestali e ambientali.
Nel 1999 gira con Marco Paolini un film-dialogo diretto da Carlo Mazzacurati, Ritratti: Mario Rigoni Stern. Nel film Rigoni Stern racconta la sua esperienza di vita, la guerra, il lager e il difficile ritorno a casa, ma anche il rapporto con la montagna e la natura. Il racconto come veicolo della memoria: per il Sergente è doloroso ma fondamentale per portare agli altri la propria esperienza.
In un'intervista di Giulio Milani nel 2002 Rigoni Stern afferma:
«Difatti io dico sempre: spero di non morire sotto Berlusconi. Non per la mia età, perché potrei andarmene anche domani, ma per il fatto di avere un po' di speranza sulla vita e sull'umanità. Direi che Berlusconi non è un uomo che dà speranza. Eppure, c'è una poesia di García Lorca che di New York dice: 'Voglio che un bimbo negro annunci ai bianchi dell'oro l'avvento del regno della spiga.' Perché a volte, vede, guardandosi intorno, si dice questo mondo economico dove tutto è virtuale, anche l'economia è virtuale... E allora a un certo punto diciamo: ci vorrebbe una grande crisi per ridimensionare questa cosa. Però, purtroppo, la grande crisi prende sempre di mezzo la povera gente... Ma piuttosto che una guerra, è meglio una grande crisi per stravolgere un po' questo mondo, per metterlo sulla strada giusta, per far capire che non è più la borsa che deve governare...»
(da Non è la Borsa che deve governare[6])
Associazioni ambientaliste e della montagna nel 2003 lo candidano senatore a vita, ma lo scrittore vicentino dalla sua residenza di Asiago fa sapere:
«Non abbandonerò mai il mio paese, le mie montagne per uno scranno in Parlamento. Non è il mio posto[7].»
Nel 2005 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di Montebelluna[8]. Il 14 marzo 2007 l'Università degli studi di Genova gli ha conferito la laurea honoris causa in scienze politiche. Nel 2007 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di Firenze[9].
Oltre a vari premi per i suoi romanzi, nel 1997 ha vinto il premio Feltrinelli[10] e nel 2003 il premio Chiara alla carriera.[11] Nel novembre 2007 riceve la commenda di accademico di Francia per la cultura e l'arte.
Nel novembre del 2007 gli viene diagnosticato un tumore al cervello; prima di morire si fa accompagnare dai figli sui luoghi a lui più cari dell'Altopiano: a Vezzena e a Marcesina in particolare. Durante la malattia chiede di non essere ricoverato in ospedale ed è assecondato.
Mario Rigoni Stern muore il 16 giugno 2008. Per sua stessa volontà la notizia della morte verrà data solo a funerali celebrati
Opere
Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, Torino, Einaudi, 1953, Premio Viareggio Opera Prima[12]. Premio Bancarellino 1963.
Il bosco degli urogalli, Torino, Einaudi, 1962.
Quota Albania, Torino, Einaudi, 1971.
Ritorno sul Don, Torino, Einaudi, 1973.
Storia di Tönle, Torino, Einaudi, 1978. Premio Campiello[13] e Premio Bagutta
Uomini, boschi e api, Torino, Einaudi, 1980.
L'anno della vittoria, Torino, Einaudi, 1985. ISBN 88-06-58990-3.
Amore di confine, Torino, Einaudi, 1986. ISBN 88-06-59366-8.
Il magico kolobok e altri scritti, Torino, La Stampa, 1989. ISBN 88-7783-034-4.
Il libro degli animali, Milano-Torino, Emme-Einaudi, 1990. ISBN 88-06-11754-8.
Arboreto salvatico, Torino, Einaudi, 1991. ISBN 88-06-12743-8.
Compagno orsetto, Trieste, Elle, 1992. ISBN 88-7068-436-9.
Il poeta segreto, Valverde (Catania), Il Girasole Edizioni, 1992; Le Farfalle, 2018, ISBN 978-88-980-3945-6.
Le voci del Trentino, Trento, La corda pazza, 1993.
Aspettando l'alba, Genova, il melangolo, 1994.
Le stagioni di Giacomo, Torino, Einaudi, 1995. ISBN 88-06-13886-3. Premio Grinzane Cavour, Premio Comisso 1996[14]
Sentieri sotto la neve, Torino, Einaudi, 1998. ISBN 88-06-14900-8.
Inverni lontani, Torino, Einaudi, 1999. ISBN 88-06-15340-4.
Tra due guerre e altre storie, Torino, Einaudi, 2000. ISBN 88-06-15711-6.
L'ultima partita a carte, Torino, Einaudi, 2002. ISBN 88-06-15630-6.
Aspettando l'alba e altri racconti, Torino, Einaudi, 2004. ISBN 88-06-16817-7.
Stagioni, Torino, Einaudi, 2006. ISBN 88-06-18400-8.
Quel Natale nella steppa, Novara, Interlinea, 2006. ISBN 88-8212-582-3.
Dentro la memoria. Scritti dall'Altipiano, A cura di Giuseppe Mendicino, Rozzano (MI), Editoriale Domus, 2007.
Ermanno Olmi-Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. La sceneggiatura, a cura di Gian Piero Brunetta, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2008, ISBN 978-88-061-9475-8.
Il coraggio di dire no. Conversazioni e interviste 1963-2007, A cura di Giuseppe Mendicino, Torino, Einaudi, 2013, ISBN 978-88-06-21793-8.
Can de toso, mi fai morire. Ritratto della madre, A cura di Giuseppe Mendicino, Collana Quaderni di prosa e di invenzione, Milano, Henry Beyle, 2013, ISBN 978-88-976-0824-0.
Il cardo di Tolstoj e altre prose letterarie, A cura di Giuseppe Mendicino, Collana Piccola biblioteca oggetti letterari, Milano, Henry Beyle, 2014, ISBN 978-88-976-0866-0.
Lettere editoriali (1951-1980), a cura di Eraldo Affinati, Torino, Einaudi, 2018. [Edizione a tiratura limitata a 1000 copie]
Storie dall'Altipiano, a cura e con un saggio introduttivo di Eraldo Affinati, Collana I Meridiani, Milano, Mondadori, 2003, ISBN 978-88-045-1346-9.
I racconti di guerra, a cura dell'Autore, Introduzione di Folco Portinari, Torino, Einaudi, 2006, ISBN 88-06-18115-7.
Le vite dell'Altipiano. Racconti di uomini, boschi e animali, Introduzione di Giorgio Bertone, Torino, Einaudi, 2008, 2015, ISBN 978-88-062-2561-2.
Trilogia dell'Altipiano. Storia di Tönle. L'anno della vittoria. Le stagioni di Giacomo, Introduzione di Eraldo Affinati, Torino, Einaudi, 2010, ISBN 978-88-062-0414-3.
Racconti di caccia, Torino, Einaudi, 2011, ISBN 978-88-06-20783-0.
La guerra della naia alpina, Milano, Ferro Edizioni, 1967.
1915-1918. La guerra sugli altipiani. Testimonianze di soldati al fronte, Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2001, ISBN 978-88-730-5763-5.
Luigi Cornaro, Trattato de la vita sobria. 1558, Edizioni Il Polifilo, 2004.
Ritratti: Mario Rigoni Stern di Carlo Mazzacurati (1999). Film-intervista con Marco Paolini.
Alpini di Jean François Neplaz (2010). Film-documentario coproduzione Route 1 - Shellac Sud.
Passano i soldati di Luca Gasparini (2001). Film-documentario che contiene testimonianze e letture dello scrittore di brani tratti da Il sergente nella neve e Ritorno sul Don.[15]
La Grande Guerra sull'Altopiano di Asiago raccontata da Mario Rigoni Stern (2011). Documentario di Mirco Melanco e Federico Massa
Le Stagioni di Mario Rigoni Stern (2012) Documentario con testimonianze di Margherita Detomas
Il sergente, di Marco Paolini, tratto da Il sergente nella neve, trasmesso su LA7 il 30 ottobre 2007.
Allo scrittore nel 1998 è stato dedicato il nome dell'asteroide numero 12811 (1996 CL7) scoperto nel 1996 dall'osservatorio astrofisico di Asiago nella stazione osservativa di Asiago Cima Ekar dall'astronomo Ulisse Munari[16].
Nel 2005 la Città di Montebelluna ha conferito la cittadinanza onoraria a Mario Rigoni Stern del quale cura la memoria, il legame con il territorio e la diffusione dei testi, con Incontri, Letture, Mostre e Spettacoli.
Nel 2009 il comune di Montecchio Precalcino ha intitolato a suo onore una scuola primaria. Sempre nel 2009 il Club Alpino Italiano ha indetto un concorso fotografico in omaggio a Rigoni Stern dal titolo I grandi animali selvatici delle montagne italiane. L'anno seguente il concorso viene riproposto col tema Arboreto Salvatico: alberi e boschi naturali delle montagne italiane.
Lo scrittore di Asiago viene ricordato anche dal Trento Filmfestival con il “Cardo d'oro”, che sarà a lui intitolato dall'edizione 2009.
Nel 2010 è nato il premio Mario Rigoni Stern per la letteratura multilingue delle Alpi. Due sono le sezioni del premio, una riguardante la narrativa e una la saggistica. La sede del premio si alterna annualmente tra le città di Riva del Garda (dove si svolge il concorso per la narrativa) e di Asiago (per il premio per i saggi).
Nel 2011 la città di Este (PD) ha intitolato un parco alla sua memoria.
Nel 2015, l'istituto superiore di Asiago (ex Istituto Pertile) è stato intitolato allo scrittore.[17]
Nel 2015 viene pubblicato Lettere dal fronte. La corrispondenza di Mario Rigoni Stern e di altri ragazzi dell'altipiano, di Pierantonio Gios, a cura di Giuseppe Mendicino, Asiago, Tipografia Moderna, 2015.
Nel 2016 viene pubblicato il libro Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri, di Giuseppe Mendicino, Priuli & Verlucca, 2016, la biografia ufficiale dello scrittore, autorizzata e incoraggiata dalla sua famiglia.
Nel 2021 viene pubblicato Mario Rigoni Stern. Un ritratto, di Giuseppe Mendicino, edito da Laterza.
Medaglia d'argento al valor militare
«Rigoni Mario da Asiago (VI) – Classe 1921 – Sergente 6º Alpini Btg. “VESTONE” – Sottufficiale di alti sentimenti, volontario, ardito, sprezzante del pericolo, durante l'attacco di una forte posizione avversaria, avuti inutilizzati i mortai d'assalto della sua squadra, assumeva il comando di un plotone di fucilieri, che era rimasto senza ufficiale, portandolo arditamente sulla quota assegnata, infondendo in tutti ardimento, calma e serenità. Ferito leggermente fin dall'inizio dell'azione, rifiutava di lasciare il reparto resistendo con mirabile tenacia ai reiterati contrattacchi dell'avversario. Durante la fluttuazione della lotta, con grande rischio della propria vita si lanciava a riprendere un'arma automatica che aveva dovuto essere abbandonata riportandola in salvo. Fulgido esempio di eroico ardimento, capacità e di sprezzo del pericolo.»
— Quota 236,7 di Kotowkij (Fronte Russo), 1º settembre 1942. B.U. 1949 disp. 11^ pag. 1690[18].
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
«Di iniziativa del Presidente della Repubblica»
— 16 gennaio 2003[19]
Medaglia commemorativa della guerra 1940-1943 (4 anni di campagna)
Medaglia commemorativa della guerra di Liberazione 1943-1945
Distintivo d'onore per i patrioti "Volontari della libertà"
Distintivo ricordo della campagna di Russia (Reduce di Russia)
Socio Onorario del Coro Brigata Cadore (3-11-2007)
Il suo stile razionale e ironico, il suo interesse per i meccanismi che dominano il mondo (e la narrazione) e la sua scrittura cristallina sono riusciti a trasmettere unità alla molteplice offerta delle sue opere, che varia al succedersi delle poetiche e degli indirizzi culturali accolti.
Per ricordare lo scrittore in occasione dell’anniversario della sua nascita, SoloLibri.net ha scelto di condividere un elenco delle sue più belle frasi e citazioni.
La lettura è un rapporto con noi stessi e non solo col libro, col nostro mondo interiore attraverso il mondo che il libro ci apre.
Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo.
L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno.
La vita, pensò il nudo, era un inferno, con rari richiami d’antichi felici paradisi.
Il genere umano è una zona del vivente che va definita circoscrivendone i confini.
Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori!
Non possiamo conoscere nulla d’esterno a noi scavalcando noi stessi – egli pensa ora – l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi.
C’è un modo colpevole di abitare la città: accettare le condizioni della bestia feroce dandogli in pasto i nostri figli. C’è un modo colpevole di abitare la solitudine: credersi tranquillo perché la bestia feroce è resa inoffensiva da una spina nella zampa. L’eroe della storia è colui che nella città punta la lancia nella gola del drago, e nella solitudine tiene con sé il leone nel pieno delle sue forze, accettandolo come custode e genio domestico, ma senza nascondersi la sua natura di belva.
Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.
Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere.
In gioventù ogni libro nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima.
Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere.
D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Di fatto, ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge: il silenzio dell’isola si staccava da quello del calmo mare circostante perché era percorso da fruscii vegetali, da versi d’uccelli o da un improvviso frullo d’ali.
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.
Insomma, gli era presa quella smania di chi racconta storie e non sa mai se sono più belle quelle che gli sono veramente accadute e che a rievocarle riportano con sé tutto un mare d’ore passate, di sentimenti minuti, tedii, felicità, incertezze, vanaglorie, nausee di sé, oppure quelle che ci s’inventa, in cui si taglia giù di grosso, e tutto appare facile, ma poi più si svaria più ci s’accorge che si torna a parlare delle cose che s’è avuto o capito in realtà vivendo.
La forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista.
Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.
Arrivare e non aver paura, questa è la meta ultima dell’uomo.
Il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero.
Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso e possibilmente anche gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra.
Il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio.
Un libro (io credo) è qualcosa con un principio e una fine (anche se non è un romanzo in senso stretto), è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare un’uscita, o magari parecchie uscite, la possibilità di aprirsi una strada per venirne fuori.
Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare.
Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e vedere se sono proprio come ci s’immagina.
Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
E lei: – Tu non credi che l’amore sia dedizione assoluta, rinuncia di sé...
Era lì sul prato, bella come mai, e la freddezza che induriva appena i suoi lineamenti e l’altero portamento della persona sarebbe bastato un niente a scioglierli, e riaverla tra le braccia... Poteva dire qualcosa, Cosimo, una qualsiasi cosa per venirle incontro, poteva dirle: – Dimmi che cosa vuoi che faccia, sono pronto... – e sarebbe stata di nuovo la felicità per lui, la felicità insieme senza ombre. Invece disse: – Non ci può essere amore se non si è se stessi con tutte le proprie forze.
Non c’è difesa né offesa, non c’è senso di nulla. La guerra durerà fino alla fine dei secoli e nessuno vincerà o perderà, resteremo fermi gli uni di fronte agli altri per sempre. E senza gli uni gli altri non sarebbero nulla e ormai sia noi che loro abbiamo dimenticato perché combattiamo...
Le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini.
Forse ci s’aspettava che, tornato intero il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.
Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati: messaggi che mi sarebbe difficile comunicare ad altri, definire, tradurre in parole, ma che appunto perciò mi si presentano come decisivi. Sono annunci o presagi che riguardano me e il mondo insieme: e di me non gli avvenimenti esteriori dell’esistenza ma ciò che accade dentro, nel fondo; e del mondo non qualche fatto particolare ma il modo d’essere generale di tutto. Comprenderete dunque la mia difficoltà a parlarne, se non per accenni.
12 ottobre 2021: ricorre oggi il 125° anniversario di nascita di Eugenio Montale. Google celebra lo scrittore con un doodle a lui dedicato.
Eugenio Montale è uno dei più grandi autori contemporanei, poeta, scrittore, filosofo, critico letterario, considerato tra i fondatori del movimento poetico modernista dell’ermetismo. Oggi infatti si celebra il 125° anniversario di nascita del poeta che ha scritto Ossi di seppia.
Nel doodle di oggi, se apriamo una pagina Google, troviamo un’immagine particolare: un uomo molto elegante con i capelli bianchi, intento a scrivere a penna e con alle spalle un panorama di colline scoscese soleggiate e un mare blu. Probabilmente, date le origini liguri del poeta nato a Genova nel 1896, quella è appunto la Liguria. In particolare lo scenario raffigurato potrebbe essere quello delle Cinque Terre, un panorama caro all’autore perché legato a ricordi d’infanzia. Inoltre l’ispirazione principale di Ossi di seppia è tratta proprio dal territorio ligure: la costa rocciosa italiana come simbolo di fuga dall’orrore del dopoguerra. La poesia simbolista di Montale lo ha reso uno degli autori più importanti della letteratura italiana e mondiale.CHE
I suoi versi sono tra i più noti e citati della letteratura italiana; la sua vita, poetica e pensiero vengono studiati a scuola fin dai primi anni di istruzione. Tra le sue opere maggiori ricordiamo La bufera e altro, Satura e poesie come Spesso il male di vivere ho incontrato. Ma ecco qualche curiosità su questo scrittore che celebriamo oggi: prima di dedicarsi alla poesia intraprese la carriera di cantante d’opera baritono. Durante la seconda guerra mondiale si dichiarò antifascista e sottoscrisse nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce.
Il suo destino era nel mondo della letteratura però, tanto che nel 1975 gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura. Nella sua vita si innamorò della scrittrice Drusilla Tanzi, con la quale convisse per decenni. I due si sposarono nel 1962, e purtroppo lei morirà solo un anno dopo.
Montale invece morì a Milano il 12 settembre 1981. Negli ultimi anni di vita in quella città è stato redattore del Corriere della Sera.
Oggi è sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema nei pressi di Firenze, accanto alla moglie Drusilla.
Francesco d'Assisi, nato Giovanni di Pietro di Bernardone (Assisi, 1181/1182[1][2][3] – Assisi, 3 ottobre 1226[N 1][4]), è stato un religioso e poeta italiano. Diacono[5] e fondatore dell'ordine che da lui poi prese il nome (Ordine Francescano), è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Comunione anglicana; proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono principale d'Italia il 18 giugno 1939 da papa Pio XII, il 4 ottobre ne viene celebrata la memoria liturgica in tutta la Chiesa cattolica (festa in Italia; solennità per la Famiglia francescana).
Profondamente ascetico, era conosciuto anche come "il poverello d'Assisi" per via della sua scelta di spogliarsi di ogni bene materiale e condurre una vita minimale, in totale armonia di spirito.
Oltre all'opera spirituale, Francesco, grazie al Cantico delle creature, è riconosciuto come uno degli iniziatori della tradizione letteraria italiana.[N 2] Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto Papa nel conclave del 2013, ha assunto, primo nella storia della Chiesa, il nome pontificale Francesco proprio in onore del santo di Assisi.[6][7]
La città di Assisi, a motivo del suo illustre cittadino, è assurta a simbolo di pace, soprattutto dopo aver ospitato i quattro grandi incontri tra gli esponenti delle maggiori religioni del mondo, promossi da papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 2002, da papa Benedetto XVI nel 2011 e da papa Francesco nel 2016.
13 settembre 2021
https://www.roalddahl.com/roald-dahl-story-day/partypack2021
Roald Dahl nel 1982
La tomba di Roald Dahl presso il cimitero della chiesa di St. Peter and Paul a Great Missenden, Buckinghamshire, in Inghilterra
Roald Dahl nacque nel 1916 nel Galles da genitori norvegesi. Il padre emigrò in Gran Bretagna da Sarpsborg e si stabilì a Cardiff verso il 1880. Sposatisi nel 1911 i genitori diedero al figlio il nome Roald in onore dell'esploratore norvegese Roald Amundsen, considerato in Norvegia un eroe nazionale. L'infanzia, segnata dalla severità e dall'educazione impartitagli nei collegi frequentati ma anche dalla gioia della famiglia, è raccontata dall'autore stesso nel libro Boy.
Terminati gli studi, Roald decise di non iscriversi all'università e trovò impiego presso la Shell Petroleum Company, compagnia scelta perché permetteva di viaggiare e vivere nello sconfinato impero britannico. In particolare trascorse 4 anni lavorando nell'Africa Orientale Britannica, soprattutto nelle colonie britanniche del Kenya e della Tanzania. Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Dahl si arruolò nella Royal Air Force, dove ottenne rapidamente il grado di tenente pilota, compiendo missioni dal Kenya alla Libia, alla Grecia, oltre che contro l'aeronautica del governo di Vichy in Siria e Libano.
Durante la sua prima missione presso il confine libico, subì tuttavia un grave incidente dovuto ad un atterraggio di fortuna nel deserto per esaurimento del carburante. Rimasto senza vista per alcuni mesi e con numerose fratture anche al cranio, riuscì a ristabilirsi e, malgrado avesse da tempo ricominciato a volare e combattere, fu scartato ad una visita di controllo perché si erano verificati numerosi casi di cecità temporanea mentre eseguiva picchiate ad alta velocità.
Prima confinato a terra, poi rispedito in Inghilterra (da cui mancava da sette anni), dopo un breve periodo di convalescenza fu inviato all'ambasciata britannica a Washington, dove (con il grado di Wing Commander) avrebbe dovuto coadiuvare l'attaché aeronautica; in realtà il suo lavoro consisteva in propaganda e spionaggio, ruolo in cui si trovavano impegnati in quel momento numerosi intellettuali e futuri scrittori britannici.
Solo nel 1942 ebbe inizio la sua carriera di scrittore, con un racconto per bambini che aveva cominciato a scrivere durante il suo trasferimento a Washington, dove aveva conosciuto Cecil Scott Forester. Scrisse infatti, grazie a questo incontro, una storia ispirata alle sue avventure durante la guerra: Shot Down Over Libya. Il suo primo libro per bambini a riscuotere un grande successo fu James e la pesca gigante, pubblicato nel 1961 e trasposto in un film d'animazione nel 1996.
Nel 1953 sposò la nota attrice Patricia Neal, dalla quale ebbe cinque figli: Olivia, Tessa, Theo, Ophelia e Lucy. La sua vita familiare fu però turbata da una serie di gravi dispiaceri: dapprima il figlio neonato subì una gravissima frattura cranica, che gli provocò l'idrocefalia; Olivia morì a soli sette anni per complicazioni dovute al morbillo, infine la moglie Patricia fu costretta ad un lungo periodo di riabilitazione per le conseguenze di un ictus. Nel 1990 la figliastra Lorina, malata di tumore al cervello, morì pochi mesi prima di lui.
Tornato in Gran Bretagna, Dahl acquistò una vasta popolarità come scrittore per bambini come Gli Sporcelli, La fabbrica di cioccolato e Il grande ascensore di cristallo, che ne rappresenta il seguito. Negli anni ottanta, grazie anche all'incoraggiamento della seconda moglie Felicity Ann d'Abreu Crosland, sposata nel 1983, scrisse tra le sue opere migliori: Il GGG, Le streghe, Matilde.
Dahl fu anche sceneggiatore di film tratti dai suoi racconti, come ad esempio Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato del 1971, per la regia di Mel Stuart, con Gene Wilder, Jack Albertson, Ursula Reit, Peter Ostrum e Roy Kinnear. La storia narra del proprietario (Willy Wonka) di una fabbrica di cioccolato che bandisce un concorso: i cinque bambini vincitori potranno entrare nella misteriosa fabbrica e scoprirne i segreti. Suo è anche il soggetto del film Gremlins, che aveva scritto per la casa di produzione di Walt Disney ma che fu poi prodotto da Steven Spielberg nel 1985.
Ritiratosi a Gipsy House, la sua casa di Great Missenden, insieme alla seconda moglie Liccy, ai figli e ai nipoti, morì il 23 novembre 1990 di leucemia a 74 anni. Fu sepolto nel cimitero di Great Missenden.
Nel dicembre 2020, sul sito ufficiale, la famiglia di Dahl si è scusata per il suo antisemitismo[1][2], un pregiudizio di cui lo stesso Autore parlò apertamente nel 1990, 8 mesi prima di morire, dichiarando in un'intervista al giornale britannico The Independent che il tutto era iniziato nel 1982 con l'invasione del Libano da parte di Israele: «Hanno ucciso 22.000 civili quando hanno bombardato Beirut. La cosa è stata messa a tacere sui giornali perché la maggior parte è di proprietà ebraica. Sono senz'altro contro Israele e sono diventato antisemita nel momento in cui un ebreo che vive in un altro paese - come l'Inghilterra - sostiene fortemente il sionismo. Penso debba vedere entrambe le facce della medaglia»[3].
Nel corso di un'intervista al settimanale britannico New Statesman dichiarò: «C'è un tratto della personalità degli ebrei che provoca animosità. Forse una certa qual mancanza di generosità verso i non ebrei. Voglio dire che c'è sempre un motivo se un sentimento contro qualcosa spunta ovunque. Anche una carogna come Hitler non se l'è presa con loro senza alcun motivo»[4].
In alcune opere sono presenti stereotipi antisemiti ben prima del 1982: ad esempio Madame Rosette, il personaggio del racconto omonimo[5] scritto nel 1945, è descritta da Stuffy, uno dei protagonisti, come «una schifosa vecchia ebrea siriana»[6]. È ovviamente oggetto di dibattito se un autore che inserisce nella propria narrazione personaggi e stereotipi antisemiti condivida il punto di vista di tali personaggi o se non stia piuttosto restituendo al lettore un aspetto della realtà; nel caso specifico: Dahl la pensa come Stuffy o usa Stuffy per descrivere l'antisemitismo comunemente accettato dai suoi personaggi e che permea il mondo in cui questi agiscono?
Parallelamente è innegabile che Dahl ha avuto amici ebrei come il filosofo Isaiah Berlin[7] e che ha scelto collaboratori ebrei come Amelia Foster, direttrice del Roald Dahl Museum and Story Centre a Great Missenden.
Foster nel 2008 ha dichiarato durante un'intervista con la radio pubblica tedesca: «Dahl era un tipo particolare. Avrebbe odiato tutto ciò che oggi è "politicamente corretto" [...]. È stato stupido da parte sua [attaccare Israele durante l'intervista all'Indipendent]. [...] È un altro esempio di come Dahl rifiutasse di prendere qualsiasi cosa sul serio, incluso se stesso. Era molto arrabbiato nei confronti degli israeliani. Ebbe una reazione infantile a quanto stava accadendo in Israele. Dahl voleva provocare, proprio come era solito provocare a cena a casa sua. Il suo editore era un ebreo, il suo agente era un ebreo, ma queste persone gli piacevano, le rispettava ed ha sempre e solo espresso giudizi positivi su di loro. Mi ha personalmente chiesto di essere il suo direttore operativo, e io sono ebrea. Se sei antisemita non chiedi agli ebrei di lavorare con te»[8].
Nel 1960, Il figlio di Dahl, Theo, sviluppò l'idrocefalia come conseguenza di un incidente automobilistico. Gli fu impiantata una valvola standard Holter per drenare l'eccesso di liquido cerebrale; tuttavia essa non era abbastanza efficiente ed era soggetta a blocchi, i quali non solo causavano dolore, cecità e rischio di danni cerebrali permanenti, ma rendevano necessario ogni volta un intervento chirurgico d'urgenza. Il dottor Till, un neurochirurgo dell'ospedale pediatrico London's Great Ormond Street, comprese che i detriti del liquido cerebrale, specialmente in pazienti in cui era presente sanguinamento e danno cerebrale, come nel caso di Theo, erano la causa dei malfunzionamenti della valvola Holter.
Dahl conobbe Wade, ingegnere specializzato in idraulica di precisione, in quanto entrambi condividevano la passione per l'aeromodellismo dinamico. Dahl comprese il potenziale dei suoi due conoscenti e li coordinò (contribuendo anche attivamente con le sue esperienze linguistiche, aviatorie e umane) per sviluppare un nuovo meccanismo basato su due dischi metallici e un corto tubo di silicone.
Mentre il nuovo meccanismo veniva perfezionato, Theo si riprese abbastanza per non dover più ricorrere ad esso, tuttavia migliaia di bambini in tutto il mondo beneficiarono della valvola WDT prima che la tecnologia medica riuscisse a produrre una soluzione migliore. I co-inventori decisero, di comune accordo, di non pretendere alcun guadagno per la loro invenzione.
Per ciò che riguarda la produzione di libri per ragazzi, Dahl è stato spesso paragonato a Enid Blyton, altra autrice del periodo. Tuttavia questa associazione per certi versi penalizza l'autore poiché si tratta di personalità e stili molto diversi. La Blyton è prolifica, Dahl scrisse una ventina di libri in tutto; il linguaggio della scrittrice inglese è semplice, quello di Dahl è creativo e originale. Creatività e originalità si ritrovano anche nei personaggi e nelle trame, mentre Blyton ripresenta più volte le stesse formule e stereotipi. Inoltre Dahl è stato definito ribelle e irriverente nonché irrispettoso nei riguardi delle figure adulte di cui scrive, mentre Blyton si conformava alla morale del periodo. Anche la loro visione del fantasy è diversa: nei romanzi di Dahl la magia si manifesta all'interno del mondo urbano della piccola borghesia o della classe operaia, mentre Enid Blyton crea da zero mondi fantastici.
Dahl presenta anche situazioni dagli echi dickensiani: nelle sue storie il bambino protagonista è spesso oppresso da povertà, figure adulte, o da entrambi. Tuttavia l'autore viene in aiuto ai piccoli protagonisti utilizzando mezzi fantastici, come la pesca gigante che schiaccia le zie del protagonista in James e la pesca gigante. Quando non sono malvagi o oppressivi gli adulti di Dahl sono generalmente incapaci di provvedere ai bambini, come i poverissimi genitori di Charlie in La fabbrica di cioccolato, che non lo aiutano come invece l'imprevedibile e surreale Willy Wonka. Come nella tradizione ottocentesca, Dahl punisce i suoi personaggi, che siano genitori malvagi e incapaci di educare, o il frutto di questa incapacità, bambini viziati con il ruolo di antagonisti. Tema cardine delle storie di Dahl è quello dell'orfano: il protagonista si separa volontariamente o involontariamente dalle figure adulte negative con l'aiuto di un personaggio positivo, non necessariamente magico, a volte semplice e "umano": ad esempio la modesta maestra Miss Honey, alla quale Matilde si lega per sfuggire alla famiglia nell'omonima storia Matilde.
Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Roald Dahl.
Romanzi[modifica | modifica wikitesto]
I Gremlins (The Gremlins, 1943)
James e la pesca gigante (James and the Giant Peach, 1961)
La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, 1964)
Il dito magico (The Magic Finger, 1966)
Furbo, il signor Volpe (Fantastic Mr Fox, 1970)
Il grande ascensore di cristallo, (Charlie and the great glass elevator, 1972)
Danny il campione del mondo (Danny, The Champion Of The World, 1975)
Il coccodrillo enorme (The Enormous Crocodile, 1978)
Gli Sporcelli (The Twits, 1980)
La magica medicina (George's Marvellous Medicine, 1981)
Il GGG (The BFG, 1982)
Le streghe (The Witches, 1983)
Il libro delle storie di fantasmi (Roald Dahl's Book of Ghost Stories, 1983) - introduzione di Roald Dahl
Io, la giraffa e il pellicano (The Giraffe and the Pelly and Me, 1985)
In solitario. Diario di volo (Going Solo, 1986)
Matilde (Matilda, 1988)
Agura Trat (Esio trot, 1990)
Il vicario, cari voi (The Vicar of Nibbleswicke, 1991)
I Minipin (The Minipins, 1991)
Raccolte di poesie[modifica | modifica wikitesto]
Versi perversi (Revolting Rhymes, 1982)
Sporche bestie (Dirty Beasts, 1984)
Rhyme Stew, 1989
Romanzi[modifica | modifica wikitesto]
Raccolte di racconti[modifica | modifica wikitesto]
Someone like You, 1953
Kiss Kiss, 1960
Switch Bitch, 1974
Un gioco da ragazzi e altre storie (The Wonderful Story of Henry Sugar and Six More, 1977)
Il meglio di Roald Dahl (The Best of Roald Dahl, 1978)
Storie impreviste (Tales of the Unexpected, 1979)
Storie ancora più impreviste (More Tales of the Unexpected, 1980)
The Roald Dahl Omnibus, 1986
Due fiabe (Two Fables, 1986)
Ah, Sweet Mystery of Life: The Country Stories of Roald Dahl, 1989
The Roald Dahl Treasury, 1997
Skin and Other Stories, 2000
Roald Dahl, tutti i racconti (Roald Dahl: Collected Stories, 2006)
Vari[modifica | modifica wikitesto]
The Mildenhall Treasure (1946, 1977, 1999)
Boy (Boy – Tales of Childhood, 1984)
Measles, a Dangerous Illness, 1986
Roald Dahl's Guide to Railway Safety, 1991
My Year, 1993
Roald Dahl's Revolting Recipes, di Felicity Dahl, et al., 1994. Raccolta di ricette ispirate al cibo dei libri di Dahl, scritto da Roald & Felicity Dahl e Josie Fison
Roald Dahl's Even More Revolting Recipes, di Felicity Dahl, et al., 2001.
Lo stesso argomento in dettaglio: Lista dei racconti brevi di Roald Dahl.
The Honeys, 1955
I Gremlins (1943). Film mai realizzato; dal soggetto è stato ispirato il film Gremlins del 1984.
36 Hours, regia di George Seaton (1965)
Agente 007 - Si vive solo due volte (You Only Live Twice), regia di Lewis Gilbert (1967)
Citty Citty Bang Bang (Chitty Chitty Bang Bang), regia di Ken Hughes (1968). Commedia musicale.
The Night Digger, regia di Alastair Reid (1971)
Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka & the Chocolate Factory), regia di Mel Stuart (1971)
Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka & the Chocolate Factory), regia di Mel Stuart (1971). Con Gene Wilder; dall'omonimo romanzo del 1964.
Il brivido dell'imprevisto (Tales of the Unexpected), serie TV (1979). Nelle prime stagioni gli episodi riprendono i racconti tratti dalle antologie Storie impreviste, Kiss Kiss e Someone like You.
Il mio amico gigante (The BFG - The Big Friendly Giant), regia di Brian Cosgrove e Mark Hall (1989). Film d'animazione, dal romanzo Il GGG del 1982.
Chi ha paura delle streghe?, regia di Nicolas Roeg (1990). Con Jasen Fisher, Anjelica Huston, Mai Zetterling; dal romanzo Le streghe del 1983.
Matilda 6 mitica, regia di Danny DeVito (1996). Con Mara Wilson, Danny DeVito, Rhea Perlman, Embeth Davidtz; dal romanzo Matilda del 1988.
James e la pesca gigante, regia di Henry Selick (1996). Prodotto, tra gli altri; da Tim Burton, dall'omonimo romanzo del 1961.
La fabbrica di cioccolato, regia di Tim Burton (2005). Con Johnny Depp, Freddie Highmore e David Kelly; dall'omonimo romanzo del 1964.
Fantastic Mr. Fox, regia di Wes Anderson (2009); film d'animazione in stop motion; dal romanzo Furbo, il signor Volpe del 1970.
Il GGG - Il grande gigante gentile (The BFG), regia di Steven Spielberg (2016); dal romanzo Il GGG del 1982.
Le streghe (The Witches), regia di Robert Zemeckis (2020)
11 luglio 1949, Roma
2 settembre 2021
Sabato 4 settembre 2021 avrebbe ricevuto il premio Campiello per la carriera a Venezia
La ricerca delle parole giuste, la scrittura precisa e raffinata nel restituire la complessità con leggerezza. Daniele Del Giudice, uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, morto nella notte del 2 settembre 2021 a 72 anni, aveva mostrato il suo sguardo originale sul mondo e sulla letteratura e creato nuovi territori narrativi fin dal suo straordinario esordio con 'Lo stadio di Wimbledon' nel 1983 che aveva conquistato Italo Calvino, suo scopritore e autore della quarta di copertina della prima edizione.
"E' stato uno dei più grandi scrittori del 900 italiano. È veramente una perdita enorme", come ha detto il ministro della Cultura Dario Franceschini a margine della visita del presidente Mattarella alla Biennale di architettura di Venezia. Ne 'Lo stadio di Wimbledon' che torna in libreria per Einaudi a novembre 2021, Del Giudice raccontava la storia di un incontro impossibile: quello tra un giovane scrittore senza nome e l'intellettuale triestino Bobi Bazlen, morto da anni, che non ha lasciato nulla di scritto. Una figura inafferrabile, misteriosa, alla quale anche Roberto Calasso, morto il 29 luglio 2021, ha dedicato 'Bobi'. Ma in fondo come suggeriva Calvino chi sia quest'uomo e da cosa fosse mosso non è poi tanto importante. A contare davvero sono le domande e le inquietudini che attraversano il libro, e la dialettica tra letteratura e vita che va in scena appena sotto la superficie delle frasi. E' meglio raccontare o esistere? Su questo territorio si è spinto Daniele Del Giudice, che ha indagato con lucidità il mistero e l'irraggiungibile. Colpito dall'Alzheimer troppo presto, con il quale ha fatto i conti per tanti anni, Del Giudice, al quale nel 2014 era stato concesso un assegno straordinario del vitalizio Legge Bacchelli, ci ha lasciato a pochi giorni dalla consegna del Premio Campiello alla Carriera 2021, sabato 4 settembre a Venezia. "Del Giudice ha saputo frequentare la leggerezza - intesa nel senso che proprio Calvino attribuiva a questo temine - facendola incontrare con la profondità di un viaggio permanente, mosso dal dubbio e dalla curiosità" come ha sottolineato nell'annunciarlo, lo scorso 27 luglio, Walter Veltroni, presidente della Giuria dei Letterati del Campiello. E il Premio, spiega Veltroni "di fronte alla devastante notizia della sua scomparsa, resta tale. Non è e non sarà un premio alla memoria ma un riconoscimento attuale per le storie e le parole che nei suoi testi ha scelto, per la loro qualità e per le emozioni che ha offerto ai suoi lettori. Daniele da tempo era stato inghiottito dal buio di una malattia cattiva ma il suo lavoro parla ogni giorno e ogni giorno regala agli altri pensieri, dubbi, bellezza. Per questo Venezia, la città che lo ha adottato, lo onora come merita. Per questo il Campiello lo ricorda con grande affetto e riconoscenza".
Per due volte, nel 1994 e nel 1997, Del Giudice è stato selezionato per il Premio Campiello. Nato a Roma l'11 luglio 1949, Del Giudice si era spostato a Milano e poi definitivamente a Venezia, città che amava e dove è stato il promotore del laboratorio permanente e progetto culturale 'Fondamenta' del cui comitato scientifico hanno fatto parte José Saramago, Claudio Magris e Predrag Matvejević . Giornalista e critico, pilota dilettante, appassionato di volo e di viaggi, nel 1990 aveva fatto una lunga escursione in Antartide da cui è nato un Taccuino australe, agli esordi ha lavorato a 'Paese Sera' come giornalista e critico. La sua infanzia non è stata felice, il padre svizzero è morto quando era bambino ma fece in tempo a regalargli una macchina per scrivere. Del Giudice ha passato molti anni in collegio e non ha terminato gli studi universitari. Dopo il folgorante esordio narrativo, nel suo secondo libro, 'Atlante occidentale', uscito nel 1985, ha raccontato l'amicizia tra il fisico Pietro Brahe e l'anziano scrittore Ira Epstein, accomunati dalla passione per il volo e dal sentire entrambi in maniera acuta il problema dell'impossibilita' di vivere realmente una realtà come quella che andiamo ad affrontare in questi anni. Sono dedicati al volo anche i racconti di 'Staccando l'ombra da terra' con cui vinse il Premio Bagutta. Da uno dei racconti "Unreported inbound Palermo" sono stati tratti l'omonimo spettacolo teatrale di Marco Paolini, con musiche di Giovanna Marini, e il dramma musicale di Alessandro Melchiorre. Tra gli altri suoi libri e raccolte di racconti, tutti pubblicati da Einaudi, 'Nel museo di Reims' , 'Mania', 'Orizzonte mobile' e 'I-Tigi. Canto per Ustica', testo di uno spettacolo teatrale scritto con Marco Paolini, andato in scena nel 2000, nel ventennale della strage. Nel 2002 gli è stato assegnato il premio Feltrinelli - Accademia dei Lincei per il complesso della sua opera narrativa. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti anche il Premio Viareggio Opera Prima nel 1983, il Premio Giovanni Comisso nel 1985, il Premio Bergamo nel 1986. Raffinato saggista, oltre che narratore, Del Giudice è anche autore, fra l'altro, dell'introduzione alle Opere complete di Primo Levi (1997 e 2016). I suoi scritti sono stati raccolti nei due volumi 'In questa luce' , di saggi e scritti autobiografici, e ne 'I racconti' del 2016.
Una parola di Dante al giorno, per tutto il 2021. In occasione della ricorrenza dei settecento anni dalla morte del poeta, l'Accademia della Crusca pubblicherà 365 schede dedicate alla sua opera: affacci essenziali sul lessico e sullo stile del poeta, con brevi note di accompagnamento.
La parola di Dante fresca di giornata è un'occasione per ricordare, rileggere, ma anche scoprire e approfondire la grande eredità linguistica lasciata da Dante.
accademiadellacrusca.it/it/dante
vedi nella sezione dedicata a Dante
Dal 29/06 al 4/07 Caffeina Festival: torna a Viterbo l’evento che da oltre 13 anni anima Viterbo con tantissimi eventi culturali. L’edizione 2021, “Oro Festival”, si terrà dal 29 giugno al 4 luglio a Palazzo Farnese di Caprarola e tra gli ospiti annunciati ci saranno Aldo Cazzullo, Stefano Massini, Francesco De Gregori, Enrico Mentana e Mario Tozzi. Sarà presente Flaminia Marinaro, che modererà le presentazioni di libri di Catena Fiorello, Saverio Simonelli, Costantino D’Orazio e intervisterà Lucia Pozzi e Ortensia Visconti.
Dal 1/07 al 20/07 Festival dantesco alla Basilica di Massenzio – Dante Assoluto: per celebrare i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta Dante Alighieri, presso il Parco archeologico del Colosseo a Roma, saranno proposte sette serate durante le quali autrici e autori italiani omaggeranno Dante con testi inediti ispirati a un canto, un verso, un personaggio della Divina Commedia. L’evento è gratuito con prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti.
Nuovi appuntamenti a luglio a Roma con @scrittorinsalotto, le presentazioni di libri organizzate da Flaminia Marinaro, la scrittrice Giulia Alberico e l’attrice Carolina Zaccarini, che ci hanno tenuto compagnia via Zoom durante i periodi di lockdown e blocco degli incontri letterari dal vivo. Le presentazioni hanno ripreso presso il Satyrus (Temporary Cocktail Bar, viale delle Belle Arti 131), di fronte alla Galleria d’arte Moderna, in collaborazione con Libreria Koob e sotto il patrocinio del II Municipio di Roma Capitale. Due gli appuntamenti di luglio, che vedranno coinvolta nuovamente anche la nostra collaboratrice Elisabetta Bolondi:
Martedì 6 luglio alle 18:00 - Presentazione del libro di Sulle tracce di Livingstone. Storia di Zambia e Malawi e degli italiani che vi hanno viaggiato dello scrittore Filippo Scammacca del Murgo
Mercoledì 7 luglio alle 18:00 - Presentazione di Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama
8/07 Assegnazione del Premio Strega 2021: a Roma, presso il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, storico appuntamento con l’assegnazione del premio letterario più atteso. Sarà possibile accedere alla serata unicamente con l’invito, ma sarà possibile vederla in diretta su RAI 3. In attesa di conoscere il vincitore, sul profilo Instagram di Sololibri dedicheremo post ai 5 libri finalisti, che trovate già recensiti sul sito.
Dal 9/07 Festival delle emozioni: a Terracina, un evento culturale dedicato alla crescita personale e all’importanza che le emozioni hanno nelle nostre vite. Tra i vari incontri che avranno come protagonisti personalità del mondo culturale, segnaliamo quello del 9 luglio, presso il Tempio di Giove, con la scrittrice Dacia Maraini. Per accedere alle presentazioni è prevista una quota di 5 euro, oltre all’obbligo di prenotazione online.
Dal 15/07 al 18/07 Festival Armonia. Narrazioni in Terra d’Otranto : la settima edizione di questo Festival si terrà presso l’incantevole borgo di Presicce-Acquarica, in provincia di Lecce. Oltre agli eventi speciali dedicati a autori storici come Daniel Pennac e Italo Calvino, saranno presentati i dodici libri semifinalisti del Premio Strega.
Dal 1/07 al 31/07 ScrittuRa Festival: l’ottava edizione del Festival romagnolo dedicato alla scrittura avrà luogo a Ravenna con tantissimi ospiti che incontreranno il pubblico in luoghi davvero suggestivi. Daria Bignardi, Nicola Lagioia, Terasa Ciabatti, Massimo Carlotto, Antonella Lattanzi, Laura Imai Messina, Camilla Boniardi, Stefania Auci e Elio Germano sono solo alcuni dei personaggi protagonisti di questo importante appuntamento estivo.
Dal 15/07 al 18/07 Riminicomix: l’evento letterario dell’estate dedicato a tutti gli appassionati di fumetti. Come suggerisce il nome stesso l’appuntamento si terrà a Rimini; tanti stand e incontri che il pubblico potrà visitare a titolo completamente gratuito.
18/07 Assegnazione Premio Bancarella: evento che si terrà a Pontremoli in provincia di Massa Carrara e durante cui verrà assegnata al vincitore di questo storico premio letterario la scultura del San Giovanni di Dio dell’artista Umberto Piombino, che ritrae il protettore dei librai.
20/07 e 21/07 Elba Book Festival: la settima edizione del Festival dell’editoria indipendente che si terrà a Rio nell’Elba e che avrà come tema principale la Fatica, molto attuale in questo periodo di pandemia.
Dal 7/07 al 10/07 e dal 22/07 al 30/07 Festival del Libro Possibile: nella suggestiva location di Polignano a Mare si terrà la ventesima edizione del Festival letterario pugliese, quest’anno dedicata a Rino Gaetano come suggerisce il tema scelto, Il cielo è sempre più blu. Il Festival ospiterà inoltre la prima partecipazione pubblica del vincitore del Premio Strega 2021, nonché circa 200 incontri con grandi autori di bestseller e altri ospiti di rilievo. Spazio anche alle celebrazioni dei 700 anni della morte di Dante e alla letteratura balcanica, con un focus sulla produzione albanese. Ulteriori aggiornamenti sul sito della manifestazione.
Dal 27/07 al 4/08 Capalbio Libri: patrocinato dalla regione Toscana torna l’evento che colora Capalbio con tanti appuntamenti a cui partecipano scrittori, autori, giornalisti e attori.
Inequilibrio2021- 24esima edizione: torna il festival della nuova scena tra teatro, danza, musica e digital performance. Da Castello Pasquini, Castiglioncello esplorando nuovi spazi fino al borgo medievale di Rosignano Marittimo (LI) con 30 compagnie, 12 prime nazionali, anteprime, teatro, danza, concerti e incontri.
www.annamonteverdi.it/digital/il-programma-di-castiglioncello-festival-armunia-2021/
Edgar Morin
compie 100 anni: vita, Parigi e ricordi racchiusi nel suo libro
Non basterebbero cento fogli per raccontare la vita e la personalità di Edgar Morin. Il suo libro La mia Parigi, i miei ricordi fornisce un viaggio nei ricordi personali di un grande pensatore, ex combattente della resistenza, sociologo, filosofo, in parallelo all’evoluzione del cuore di Parigi, la sua città tanto amata.
Compie 100 anni Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, nato a Parigi l’8 luglio 1921.
Per conoscerlo meglio consigliamo la lettura di La mia Parigi, i miei ricordi, autobiografia in cui narra di sé, dei suoi tanti amori, della guerra, della sua fede marxista, delle sue sconfitte, e dei tetti di Parigi, delle case nelle quali ha vissuto dall’infanzia ad oggi.
Edgar Nahoum (Edgar Morin è uno pseudonimo) nacque nel 1921 in una piccola via di Montmartre, ebreo, in una famiglia sefardita proveniente da Livorno. Il padre aveva un negozio di calze e calzini, e sotto l’occupazione nazista venne espropriato per consegnarlo a un ariano. La madre morì quando lui aveva appena dieci anni. La morte della madre, ricorda l’autore nel libro, lo rese a tutti gli effetti un parigino.VEDI SU AMAZON
La Parigi di quei tempi era attraversata dai tram e lungo le vie c’erano i cantanti di strada come Edith Piaf, i mangiafuoco e i forzuti che sollevavano pesi. Il giovane Edgar si soffermava a vedere le vetrine delle librerie, a Pigalle dove con pochi soldi poteva guardare in due aperture di una scatola un piccolo film spinto, andava all’Opera, frequentava i cinema d’essai, e ritornava più volte al Louvre, estasiato dalla pittura italiana del Rinascimento. I palazzi avevano i portinai, l’inquinamento non si conosceva e nei caffè si incontravano gli scrittori e ci si intratteneva giocando a dama.
“Durante quel periodo non smettevo di nutrirmi di letteratura, scoprendo le mie prime verità in Montaigne e Anatole France da una parte, in Tolstoj e Dostoevskij dall’altra.”
Tutto sembrava scorrere nella normalità fin quando l’ascesa di Hitler non condusse tutti sonnambulicamente alla guerra.
Morin frequentava il corso di Filosofia all’università quando venne invasa la Polonia. Scampato agli arresti della Gestapo, membro della Resistenza, in una Parigi sinistra e vuota conoscerà la moglie Violette che gli darà due figlie, Irene e Veronique. Gli anni della liberazione saranno difficili, gli ex partigiani lasceranno il posto ai professionisti della politica. Tra articoli, libri, avrà un posto emerito all’Università. Arriveranno gli anni nei quali la vita culturale di Parigi si rianimerà, Morin conoscerà e frequenterà locali dove Boris Vian suonava la tromba, Juliette Greco si esibiva, e i caffè dove si incontravano editori e scrittori quali Queneau, Bataille, Camus, Roland Barthes e la esile Margherite Duras. I locali in Saint Germain non erano stati ancora rimpiazzati da fast food, Mc Donald’s e Emporio Armani:
i vestiti non avevano ancora sostituito i libri.
Ossessionato dagli enormi inganni delle ideologie, il suo ideale di comunismo entra in crisi e nel 1951 viene escluso dal Partito. Protagonisti della sua vita saranno ancora i tetti di Parigi e i suoi traslochi, innamorato come è stato di donne piene di fascino e intelletto. I suoi occhi assisteranno a insurrezioni, liberazioni, repressioni. Dalla guerra di Algeria al movimento Solidarnosc in Polonia, dalla caduta del muro di Berlino alla guerra in Jugoslavia, dall’attacco alle Torri gemelle alla notte di Bastill con l’elezione di Hollande. Dalle penne a inchiostro, all’Olivetti, al Mac, da una Parigi vuota dopo la Liberazione ad una città sovrappopolata. Vedrà il declino della cultura operaia che coinciderà con il declino del partito comunista. Aumentando la popolazione si estendevano le periferie:
le periferie rosse dei lavoratori diverranno periferie dei senza lavoro e degli immigrati.
Il capitalismo immobiliare, con i palazzi dei quartieri belli e residenziali avvierà la segregazione per le classi medie e di immigrati nei quartieri Barbes, Bellville e tanti altri.
“La Parigi della mia infanzia è stata assorbita, riassorbita, direi anche cancellata nella Parigi di oggi. Ma rimane nella mia anima la Parigi delle mie passeggiate, la Parigi del mio cuore che ha battuto sulle Buttes – Chaumont e in tante camere dell’amore mansardato…”
Il libro La mia Parigi, i miei ricordi di Morin è un viaggio nei ricordi personali di un grande pensatore, ex combattente della resistenza, sociologo, filosofo, in parallelo all’evoluzione del cuore di Parigi, la sua città tanto amata.
Il 2 Luglio 1877 nasce, a Calw nello Shwarwald (Württemberg, Germania), Hermann Hesse, uno degli scrittori più letti del secolo. Il padre, Johannes, ex missionario e direttore editoriale è un cittadino tedesco nato in Estonia mentre la madre, Maria Gundert, è nata in India da padre tedesco e madre svizzero-francese. Da questo singolare impasto di culture si può forse far rinvenire la successiva attrazione che Hesse svilupperà per la visione del mondo orientale, la quale avrà la sua massima espressione nel celeberrimo "Siddartha", un vero e proprio "cult" per generazioni di adolescenti e no.
Non si può ad ogni modo tralasciare l'annotazione che, a conti fatti, la famiglia degli Hesse impartì una severa educazione pietistica al figlio, tale da provocare non poche reazioni negative nel sensibile ragazzo. Alcuni esempi di questa insofferenza si possono rinvenire direttamente per mezzo dell'autore, attraverso gli schizzi autobiografici che ci ha lasciato e in cui descrive le reazioni negative ai doveri imposti e a qualsiasi "comando familiare", prescindendone dalla giustezza come dalla nobiltà delle intenzioni.
Hesse era un bambino oltremodo sensibile e testardo, che creava ai genitori e agli educatori notevoli difficoltà. Già nel 1881 la madre intuì che il figlio sarebbe andato incontro a un futuro non ordinario. Nello stile di pensiero che le era consono informò il marito del proprio timore: "Prega insieme a me per il piccolo Hermann [...] Il bambino ha una vitalità e una forza di volontà così decisa e [...] un'intelligenza che sono sorprendenti per i suoi quattro anni. Che ne sarà di lui? [...] Dio deve impiegare questo senso orgoglioso, allora ne conseguirà qualcosa di nobile e proficuo, ma rabbrividisco solo al pensiero per ciò che una falsa e debole educazione potrebbe fare del piccolo Hermann" (A.G., p. 208).
Un'altra figura di notevole rilievo nella crescita del piccolo Hermann è quella del nonno materno Hermann Guntert, anche lui missionario in India fino al 1859, ed erudito poliglotta conoscitore di vari dialetti indiani. Fra l'altro, aveva scritto una grammatica, un dizionario, e tradotto il Nuovo Testamento nella lingua malajala. L'accesso alla ricca biblioteca del nonno, insomma, sarà essenziale per la formazione extrascolastica di Hesse, soprattutto nel periodo delle crisi giovanile, anch'esse ben documentate dagli scritti pervenuti, nonché leggibili in controluce nelle gesta e nei moti dell'animo che costituiscono i personaggi dei suoi romanzi.
Malgrado le migliori intenzioni, dunque, i metodi pedagogici dei genitori non ottennero di "addomesticare" il bambino così poco docile, pur tentando, conformemente ai principi del pietismo, di frenare già nei primi anni quell'ostinazione ribelle che gli era propria. Così Johannes Hesse decise, trovandosi con la famiglia a Basilea e non avendo altra soluzione, di lasciar educare il bambino irrequieto al di fuori della famiglia. Nel 1888 entra nel ginnasio di Calw, che frequenta controvoglia pur risultando fra i primi della classe. Nel frattempo prende lezioni private di violino, ripetizioni di latino e greco dal padre e si sottopone, da febbraio fino a luglio del 1890, sotto la guida del rettore Bauer (uno fra i pochi insegnanti che Hesse stimava) a un programma di studio finalizzato al superamento dell'esame regionale. Il suo futuro appariva predeterminato. Avrebbe percorso una strada comune a molti figli di pastori in Svevia: attraverso l'esame regionale in seminario, quindi alla facoltà teologica-evangelica di Tubinga. Le cose tuttavia dovevano andare altrimenti. Supera senza difficoltà l'esame a Stoccarda e accede nel settembre del 1891 al seminario di Maulbronn.
Era un istituto di formazione in cui convivevano cultura medievale cistercense, cultura classica e pietismo. Tuttavia, sei mesi più tardi, senza apparente ragione, il ragazzo fugge dall'istituto. Viene ritrovato il giorno successivo e riportato al seminario. I suoi insegnanti lo trattano con comprensione ma lo sottopongono a otto ore di carcere "per aver lasciato senza autorizzazione l'istituto". Hesse, però, comincia a soffrire di gravi stati depressivi, tali da indurre gli insegnanti a caldeggiare un suo ritorno a casa. I genitori non trovano di meglio che inviarlo per una "cura", al pastore Christoph Blumhardt. La conseguenza è un tentativo di suicidio, che sarebbe riuscito se il revolver non si fosse inceppato. Hermann viene quindi ricoverato nella clinica per malati di nervi, un luogo di fatto simile ad un manicomio, a Stetten.
Questo intrecciarsi di motivi esistenziali diversi getta notevole luce sulla sua attività narrativa. La vita e l'opera di Hermann Hesse, infatti, sono percorse interamente dal contrasto fra tradizione familiare, personalità e coscienza individuale e realtà esterna. Il fatto che lo scrittore sia riuscito, nonostante i ripetuti conflitti interiori e in contrasto con le decisioni familiari, ad assecondare la propria volontà, non può essere spiegato soltanto con la caparbietà e la forte consapevolezza della propria missione.
Fortunatamente i genitori gli concedono, dopo le sue insistenti preghiere, di ritornare a Calw, dove frequenterà dal novembre 1892 sino all'ottobre 1893 il ginnasio Canstatter. Non porterà a termine comunque l'intero ciclo di studi ginnasiali. All'esperienza scolastica seguirà un brevissimo apprendistato come libraio a Esslingen: dopo appena quattro giorni Hermann abbandona la libreria; viene ritrovato dal padre in giro per le strade di Stoccarda, quindi spedito in cura dal dottor Zeller a Winnenthal. Qui trascorre alcuni mesi dedicandosi al giardinaggio, finché ottiene il permesso di tornare in famiglia.
Hermann è costretto a seguire un apprendistato presso l'officina di orologi da campanile di Heinrich Perrot a Calw. In questo periodo progetta di fuggire in Brasile. Un anno dopo abbandona l'officina e incomincia nell'ottobre 1895 un apprendistato come libraio presso Heckenhauer a Tubinga, che durerà tre anni. Non mancheranno tuttavia in futuro crisi interiori ed esteriori, di natura esistenziale o provocate dal lavoro, così come falliranno anche i suoi tentativi di adeguarsi a un'esistenza dall'aspetto "borghese" o di condurre semplicemente un'esistenza normale. Gli eventi di quel periodo, che già appartiene alla storia, riportano Hesse da Tubinga per alcuni anni a Basilea (sempre come libraio si occuperà anche di libri d'antiquariato), quindi appena sposato (già libero scrittore) sulle rive del lago di Costanza a Gaienhofen, fino a che, al ritorno da un viaggio in India, si trasferirà definitivamente in Svizzera, prima a Berna, poi nel Canton Ticino.
Nel 1924 ottiene nuovamente la cittadinanza svizzera che aveva perduto per sostenere l'esame regionale nel Württemberg. Divorzia sia dalla prima che dalla seconda moglie, entrambe svizzere. Dal primo matrimonio con Maria Bernoulli (1869-1963) nasceranno tre figli: Bruno (1905), Heiner (1909) e Martin (1911). Il secondo matrimonio con Ruth Wenger (1897), di lui più giovane di vent'anni, dura solo alcuni anni. Soltanto la sua terza moglie, Ninon Ausländer (1895-1965), divorziata Dolbin, una storica dell'arte, austriaca e di origine ebraica, rimase vicina al poeta sino alla fine.
Dopo i primi successi letterari Hesse trovò una schiera di lettori sempre crescente, innanzitutto nei paesi di lingua tedesca, poi, prima della Grande guerra, negli altri paesi europei e in Giappone, e dopo l'assegnazione del Nobel per la letteratura (1946) in tutto il mondo. Il 9 agosto del 1962 a Montagnola moriva in seguito a una emorragia cerebrale.
L'opera di Hesse, in qualche modo complementare a quella del suo grande coetaneo Thomas Mann, esprime, in una prosa classicamente composta, ma ricca di accensioni liriche, una vasta, articolata dialettica tra sensualità e spiritualità, ragione e sentimento. Il suo interesse per le componenti irrazionalistiche del pensiero e per certe forme del misticismo orientale anticipa, sotto vari aspetti, gli atteggiamenti delle ultime avanguardie statunitensi ed europee e spiega la nuova fortuna che i suoi libri hanno trovato presso le giovani generazioni successive.
- Il viandante
- Poesie
- Sull'amore
- Dall'India
- Peter Camenzind
- Demian
- Knulp
- Il giuoco delle perle di vetro
- Siddharta
- False vocazioni
- L'ultima estate di Klingsor
Festa della musica, Fiesta de la musica o Fête de la Musique: in più di 120 Nazioni di tutto il Mondo, il 21 giugno viene celebrata la Giornata mondiale della musica, un evento che coincide, per di più e volutamente, con la data del solstizio d’estate. La nascita di una nuova stagione, fatta di calore e sole che rappresenta una nuova vita di suoni, armonia, note, chitarre e pianoforti.
www.festadellamusica.beniculturali.it/
Per la Festa della Musica 2021, 1300 bambine e bambini di tutta Italia cantano "Una furtiva lagrima" da L'elisir d'amore di G.Donizetti. Il video realizzato da EuropaInCanto in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione
Se dovessimo dare una definizione tecnica del termine musica, troveremmo che è “il prodotto dell’arte di creare e produrre, con strumento o voce, una successione organizzata di suoni”; se, invece, dovessimo lasciar parlare emozioni e sensazioni diremmo che “senza musica la vita sarebbe un errore”, che “ciò che non si può dire e tacere, la musica lo esprime” o che “la musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori”. Oggi, 21 giugno, si festeggia la giornata di chi fa musica e chi l’ascolta; di chi vive di quello e chi vive per quello; di chi è cresciuto con “pane e De Gregori” e chi, invece, prova ancora a memorizzare un ‘pezzettino’ del suo brano preferito. È la festa dei grandi che hanno fatto la storia della musica – i big – e dei più ‘piccoli’ che, in questo mondo, ci stanno entrando in punta di piedi, lasciando, però, già il segno.
Un pò di storia
Francia, 1981. Christian Dupavillon, architetto ed intimo amico del Ministro della cultura dell’epoca; Jack Fleuret, nuovo capo della Rue de Valois e Maurice Fleuret, critico musicale, insieme per il progetto “Festa della Musica”. Una nuova politica musicale in cui si doveva tener conto di un dato importante: i francesi possedevano più di quattro milioni di strumenti musicali. Quella gente lì amava la musica, così come tutto il resto del Mondo; perciò bisognava creare un evento in cui tutti loro avrebbero potuto festeggiarla: un omaggio nazionale, popolare e gratuito. Un fenomeno culturare che tutt’ora prende vita ogni volta che un cantante sale sul palco, si esibisce, coinvolge il pubblico, suona uno strumento.
La “Fête de la Musique”, 21 giugno 1982. Una festa aperta a tutti: a chi desidera produrre, a chi cantare. A tutti i generi musicali. Un evento che, fin da subito, riscuote un successo pazzesco. Da quel giorno e per i successivi 30 anni, fino ad oggi, è stato un avvenimento mondiale, simbolo dell’unione culturale tra i Paesi ed i popoli.
Solo in Francia, ogni anno, si organizzano più di 18.000 manifestazioni sonore, con 5 milioni di musicisti e più di 10 milioni di spettatori.
Festa della Musica, Italia
In Italia, questa festa vede la luce nei primi anni novanta: prima Roma e Napoli, poi Senigallia, Arco, Lanuvio, Brescia, etc. Una nuova idea di unione culturale e fisica tra città, musica e gente. Un momento di aggregazione, nel tessuto sociale italiano, che rafforza i valori di cittadinanza e migliora il rapporto cittadino – amministrazione; difatti si è notato come sia aumentata l’adesione, all’evento, di molti centri più piccoli. Il 21 giugno è festa anche nelle piazze, nei cortili, lungo le strade, negli ospedali e carceri: si ascolta ogni genere musicale, classico o moderno, rock. A tutti viene garantito un palcoscenico.
Dal 2016, il Ministero della Cultura promuove la “Festa della musica” su tutto il territorio nazionale italiano attraverso l’AIPFM – Associazione Italiana per la Promozione della Festa della musica. Pronti ad accoglierla, quel giorno, anche i luoghi d’arte e storici.
Bloomsday: cos'è, cosa significa e perché si festeggia proprio il 16 giugno.
Oggi a Dublino e in molte parti del mondo si festeggia il Bloomsday, una ricorrenza interamente letteraria. Ma sapete che cos’è il Bloomsday e perché si festeggi proprio il 16 giugno?
I più preparati avranno già capito che la festa è strettamente collegata con James Joyce, scrittore, poeta e drammaturgo irlandese tra i più importanti del Novecento che con le sue opere è stato determinante per lo sviluppo della letteratura del XX secolo, in particolare della corrente modernista.
La ricorrenza del Bloomsday è legata proprio ad una delle opere più famose di Joyce: stiamo parlando dell’Ulisse (Ulysses).
L’Ulisse viene pubblicato da James Joyce il 2 febbraio 1922, dopo sette anni di lavoro e inizialmente doveva essere uno dei racconti di Gente di Dublino.
Joyce, alla fine, decide di farne un romanzo di 18 capitoli, ognuno dei quali ha caratteristiche stilistiche molto particolari e la storia raccontata nel libro è parallela a quella dell’Odissea di Omero, come pure i personaggi che sono delle parodie.
La storia si svolge tutta in una sola giornata, il 16 giugno appunto, e racconta la storia di Leopold Bloom, un agente pubblicitario irlandese che gira per le strade di Dublino.
Nel suo libro Joyce utilizza la tecnica del flusso di coscienza e Leopold Bloom ha un ruolo parallelo a quello che aveva Ulisse nell’Odissea.
Il Bloomsday, dunque, è una ricorrenza in onore proprio di una delle opere letterarie più importanti del Novecento: il nome deriva dal cognome del protagonista dell’Ulisse e la data è stata stabilita proprio perché è la stessa in cui si svolgono i fatti del romanzo. Ma perché Joyce scelse proprio questa data?
La motivazione è molto romantica: il 16 giugno 1904 lo scrittore uscì per la prima volta con Nora Barnacle, la donna che poi avrebbe sposato e con cui trascorse tutta la sua vita.
Sembra, inoltre, che James Joyce scrisse nel suo diario questa frase
Today 16 of June 1924 twenty years after. Will anybody remember this date?
che tradotto in italiano sarebbe “Oggi 16 giugno 1924 venti anni dopo. Qualcuno ricorderà questa data?”.
Oggi, in molti ricordano questa data, con diverse iniziative a Dublino e nel mondo, volte a celebrare lo scrittore e il suo romanzo.
E il volere dello scrittore è stato rispettato, in una bella fiaba d’amore in cui milioni di persone ancora festeggiano il primo appuntamento di Joyce e di sua moglie. Bello, no?
L’origine del Bloomsday risale al 1954, quando un gruppo di scrittori irlandesi ammiratori di Joyce uscirono per le strade di Dublino il 16 giugno con lo scopo di ripercorrere i passi del protagonista nel libro e di visitare nuovamente i posti descritti nel romanzo, rileggendo anche i brani tratti dal libro.
Questa tradizione si è protratta nel corso degli anni ed è nata l’abitudine di festeggiare la ricorrenza del Bloomsday, organizzando diversi eventi tra cui letture in costume dell’Ulisse, ma anche passeggiate per Dublino, ripercorrendo i luoghi del romanzo, a partire dal Davy Byrne’s pub.
Inoltre, in tutta la città sono organizzati diversi eventi culturali e molti celebrano la giornata anche con colazioni e pranzi a tema.
Dopo il suo arresto nel febbraio 2020, Patrick Zaki è detenuto in un carcere egiziano. Per lo studente, attivista e ricercatore egiziano è stata richiesta la cittadinanza italiana, un aspetto che indubbiamente favorirebbe un'ulteriore mobilitazione a sua difesa. Scopriamo di più su Patrick Zaki, approfondendo i momenti salienti della sua vita.
Patrick Zaki: adolescenza e attivismo
Patrick George Zaki, questo il nome completo del futuro attivista, nasce il 16 giugno 1991. Il luogo di nascita è la cittadina di Mansoura, nella zona nord orientale dell'Egitto.
Della sua infanzia si conoscono pochi dettagli: è nel momento in cui scoppia la rivoluzione egiziana che il giovane ventenne, di per sé molto determinato e ambizioso, inizia a dare sfogo concreto alla propria passione per l'impegno sociale, interessandosi sempre più al tema della difesa dei diritti umani.
Dopo aver assistito a massacri e violenze in prima persona nella propria terra natale, sceglie di perseguire una carriera nel settore dell'attivismo.
Nel momento in cui la rivoluzione finalmente termina, non si placano però le forti tensioni nella società. Il clima politico in Egitto risulta molto complesso. Le persone sono impaurite e preferiscono mantenere un basso profilo. Non è certo il caso del giovane Patrick Zaki, che nel frattempo decide di interrompere gli studi e iniziare a lavorare nel 2017 per conto dell'Egyptian Initiatives for Personal Rights.
Presso questa organizzazione, che è una delle più importanti in Egitto per la difesa dei diritti umani e civili, il giovane rimane all'incirca due anni.
Il Master presso l'Università di Bologna
Nel 2019 Patrick decide di ricominciare a studiare. Si trasferisce a Bologna, grazie alla partecipazione al programma universitario Erasmus Mundus. Nel capoluogo emiliano, che ospita anche la più antica università al mondo, si iscrive al Master in studi di genere e sulle donne. In ambito accademico si fa apprezzare dai propri docenti. Tuttavia, il suo sogno di fare la differenza nel mondo dell'attivismo e riuscire a dare un contributo per il cambiamento in meglio del suo paese, viene interrotto il 7 febbraio 2020.
L'arresto di Patrick Zaki
E' in questa data che il giovane ricercatore viene arrestato. Sbarcato all'Aeroporto Internazionale del Cairo, dove era appena arrivato per tornare a trovare la famiglia, viene fermato dalle forze dell'ordine, che l'attendevano.
L'organizzazione statale deputata alla sicurezza nazionale preleva il giovane e lo porta in una località segreta, dove viene detenuto con l'accusa di diffondere notizie false sui social network, allo scopo di minare l'ordine sociale e la quiete pubblica.
Secondo quanto sostenuto dai suoi accusatori, che lo trattano alla pari di un terrorista, Patrick Zaki si sarebbe reso colpevole di istigazione alla violenza tramite parole e incitamento alla protesta, nel tentativo di rovesciare lo Stato.
Il caso Zaki e la mobilitazione internazionale
Nonostante la volontà del Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, ex giornalista e appartenente al Partito Democratico, di andare a fondo della faccenda e cercare di aiutare il giovane ricercatore da Strasburgo, le relazioni diplomatiche tra l'Egitto, l'Italia e in seconda istanza l'Unione Europea, sono estremamente complesse.
A complicare lo scenario c'è anche la vicenda della morte di Giulio Regeni, che presenta non pochi punti in comune con quella di Zaki.
Nel mese di ottobre del 2020, ventisei membri del Parlamento Europeo inviano una lettera all'Ambasciatore italiano in Egitto, Giampaolo Cantini, chiedendo che si attivi in maniera più forte per cercare di accelerare il rilascio di Patrick.
La sua detenzione nel frattempo viene continuamente prolungata, ogni quarantacinque giorni.
Nel dicembre del 2020 il Parlamento Europeo approva una risoluzione che certifica le continue minacce ai diritti umani in Egitto, citando il caso di Patrick Zaki come uno di quelli più gravi.
La detenzione dello studente egiziano, il cui stato mentale inizia gradualmente a essere sempre più provato, attira l'attenzione anche di star di Hollywood. Scarlett Johansson nel dicembre del 2020 interviene per chiedere la liberazione di Patrick Zaki e di altri tre attivisti, che si battono per il rispetto dei diritti umani.
Il 14 aprile 2021 il Senato italiano vota a maggioranza per chiedere al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la concessione della cittadinanza italiana a Zaki, che nel frattempo diventa oggetto anche di propaganda negativa diffusa dallo Stato egiziano.
È considerata «una delle più autorevoli interpreti della sua epoca, dotata, oltre che di possibilità tecniche fuori del comune, di grandi qualità evocative e di ricerca timbrica, e capace al tempo stesso di segnare le proprie interpretazioni con viva spontaneità».
Martha Argerich iniziò gli studi con la madre, insegnante di pianoforte, e dai cinque ai quindici anni si formò con il pianista crotonese di scuola napoletana Vincenzo Scaramuzza, valente didatta che le insegnò col suo personale metodo, il quale prevedeva di affrontare i problemi tecnici incontrati nella musica suonata, senza esercizi di tecnica. Ha debuttato in concerto all'età di otto anni. Trasferitasi in Europa con la famiglia nel 1955, studiò in Austria con Friedrich Gulda. Frequentò inoltre i corsi di perfezionamento di Arturo Benedetti Michelangeli ad Arezzo e Moncalieri, nel 1960; col Maestro in realtà fece solo quattro lezioni. Benedetti Michelangeli, al quale, in occasione del debutto a New York della pianista, fu fatto notare come il tempo dedicatole fosse esiguo, rispose d’averle insegnato «la musica del silenzio».[2][3]
Nel 1957, a soli 16 anni e nel giro di poche settimane, vinse due importanti premi - il concorso Ferruccio Busoni di Bolzano e il concorso pianistico di Ginevra - dai quali la sua carriera di pianista ha ricevuto una spinta importante.
Nel 1965 vinse il Concorso Chopin di Varsavia.
Fin dai primi anni della sua carriera ha anche accompagnato altri strumentisti, in sonate o musica da camera.
Ha partecipato a molte giurie in occasione di importanti concorsi, creandosi la reputazione di giudice dal carattere ostinato. Ha rassegnato le dimissioni dal ruolo di giudice durante il concorso internazionale Frédéric Chopin del 1980 per protesta contro l'eliminazione al secondo turno del pianista croato Ivo Pogorelić.
È stata sposata due volte. Col compositore e direttore d'orchestra Robert Chen (Cinese: 陈 亮声; pinyin: Chén Liàngshēng) fino al 1964, con il quale ha avuto una figlia, Lyda Chen-Argerich, violinista. Tra il 1969 e il 1973 col direttore svizzero Charles Dutoit, padre della seconda figlia, Annie Dutoit, con il quale ha continuato a collaborare sia dal vivo in pubblico sia in registrazioni discografiche. Ha avuto anche una relazione col pianista Stephen Kovacevich, dalla quale è nata la figlia Stephanie Argerich.
Nel 1990 le venne diagnosticato un melanoma maligno, ma, grazie al trattamento, il cancro andò in remissione. Una recidiva nel 1995, con metastasi ai polmoni e linfonodi, richiese un secondo trattamento aggressivo al John Wayne Cancer Institute, con la rimozione di parte di un polmone e l’impiego di un vaccino sperimentale. Il tumore andò nuovamente in remissione e, per gratitudine, la Argerich tenne alla Carnegie Hall un concerto il cui ricavato fu devoluto all'istituto medico.
Venne presentata nel 2013 una pellicola intima sulla sua vita, diretta dalla figlia Stephanie: Bloody Daughter.[4]
La Argerich è stata instancabile nel promuovere la formazione di giovani pianisti (si ricordino, tra gli altri, Alessandro Mazzamuto, Gabriele Baldocci, Mauricio Vallina, Sergio Tiempo, Polina Leschenko), per mezzo dei suoi festival annuali a Lugano (Progetto Martha Argerich): «Una settimana di ininterrotto bagno di musica per esecutori e pubblico, lasciando carta bianca a una concertista fra le più grandi del nostro tempo. Con un modo di suonare molto particolare, pieno di intuizioni e soluzioni ogni volta originali, che fanno parlare del suo pianismo come di qualcosa di adolescenziale.»[5], Beppu (Giappone) e Buenos Aires, e di compositori emergenti (Giovanni Sollima, George Benjamin).
In virtù dei suoi grandi meriti culturali, il 23 di giugno del 2010 il Municipio di Lugano conferì a Martha Argerich la cittadinanza onoraria
Luigi Capuana è stato scrittore, critico letterario e giornalista, ma soprattutto uno dei teorici tra i più importanti del Verismo.
Nasce il 28 maggio del 1839 a Mineo, nel Catanese, da una famiglia di proprietari terrieri benestanti. Dopo avere frequentato le scuole comunali, si iscrive al Reale Collegio di Bronte nel 1851, ma è costretto a lasciarlo per motivi di salute dopo due anni; decide, comunque, di continuare gli studi come autodidatta.
Così nel 1857, dopo avere ottenuto la licenza, si iscrive all'Università di Catania alla Facoltà di Giurisprudenza. Anche in questo caso, però, abbandona prima di conseguire la laurea per svolgere il ruolo di segretario del comitato clandestino insurrezionale del suo paese nell'ambito dell'impresa garibaldina, e più tardi per assumere la carica di cancelliere del consiglio civico appena nato.
Le prime pubblicazioni
Nel 1861 pubblica con l'editore catanese Galatola "Garibaldi", leggenda drammatica in tre canti sulla vita dell'Eroe dei Due Mondi.
Pochi anni dopo si trasferisce a Firenze, intenzionato a perseguire l'avventura letteraria: qui Luigi Capuana frequenta alcuni degli scrittori più famosi del tempo, tra cui Carlo Levi, Capponi e Aleardo Aleardi, e pubblica nel 1865 i suoi primi saggi su "Rivista italica".
L'anno successivo inizia a collaborare con il quotidiano "La Nazionale" come critico teatrale, e sempre sul giornale toscano pubblica, nel 1867, "Il dottor Cymbalus", la sua prima novella liberamente ispirata a "La boite d'argent" di Dumas figlio.
In questo periodo si dedica in maniera particolare proprio alle novelle, la maggior parte delle quali è ispirata alla vita siciliana e a quella delle sue terre.
Nel 1868 Luigi torna in Sicilia, intenzionato a restarvi per pochissimo tempo, ma la sua permanenza sull'isola si prolunga a causa della morte del padre e dei problemi economici che ne derivano. Capuana è costretto, quindi, a trovare un lavoro al di là dell'attività letteraria: dopo essere stato nominato ispettore scolastico, viene eletto consigliere comunale e poi sindaco di Mineo.
Nel frattempo si appassiona alla filosofia idealistica di Hegel e ha l'opportunità di leggere un saggio intitolato "Dopo la laurea", scritto da Angelo Camillo De Meis, positivista e hegeliano, che teorizza l'evoluzione e la scomparsa dei generi letterari.
Nel 1875 lo scrittore comincia una relazione amorosa con Giuseppina Sansone, una ragazza analfabeta che aveva lavorato come domestica per la sua famiglia: Giuseppina negli anni successivi darà alla luce diversi figli, che verranno però affidati all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone, per evitare che Luigi Capuana - uomo di estrazione borghese - sia costretto a riconoscere figli nati da una relazione con una donna di bassa classe sociale.
Lasciata la Sicilia, si reca momentaneamente a Roma, prima di raggiungere Milano - su suggerimento del suo amico Giovanni Verga: all'ombra della Madonnina comincia a collaborare come critico teatrale e letterario con il "Corriere della Sera".
Due anni più tardi pubblica con Brigola la sua prima raccolta di novelle, intitolata "Profili di donne", mentre al 1879 risale "Giacinta", romanzo influenzato da Emile Zola e ritenuto ancora oggi il manifesto del Verismo italiano.
Nel 1880 Capuana raccoglie nei due volumi di "Studi sulla letteratura contemporanea" i suoi articoli su Verga, i Goncourt, Zola e altri scrittori del tempo, per poi fare ritorno a Mineo e iniziare a scrivere "Il Marchese di Santaverdina" (che sarà poi pubblicato con il titolo di "Il Marchese di Roccaverdina").
Nel 1882, ristabilitosi a Roma, inizia a dirigere il "Fanfulla della domenica" e pubblica "C'era una volta", raccolta di fiabe folkloristiche; negli anni seguenti, trascorsi tra la Sicilia e Roma, vengono invece date alle stampe "Homo", "Le appassionate" e "Le paesane", raccolte di novelle.
Tra l'estate e l'inverno del 1890 Luigi Capuana pubblica su "Nuova Antologia" il romanzo "Profumo", mentre al 1898 risale "Gli ismi contemporanei", edito da Giannotta.
Nel 1900 egli diventa docente di letteratura italiana all'Istituto Femminile di Magistero di Roma; mentre dà alle stampe "Il Marchese di Roccaverdina" e lavora al romanzo "Rassegnazione", conosce Luigi Pirandello - suo collega al Magistero - e diventa amico di Gabriele D'Annunzio.
Nel 1902 egli torna a Catania, dove insegna stilistica e lessicografia presso l'ateneo locale. Nel 1909 pubblica per Biondo "Sillabario semplicissimo per la I elementare maschile e femminile", mentre l'anno successivo scrive per Bemporad le novelle di "Nel paese della zagara". Nel 1912 dà alle stampe "Prima fioritura ad uso delle classi V e VI" e "Si conta e si racconta... fiabe minime".
Luigi Capuana muore a Catania il 29 novembre del 1915, poco dopo l'entrata dell'Italia in guerra.
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 20 maggio 1939, studia prima presso l’Accademia navale di Livorno e poi si iscrive a Giurisprudenza. A seguito della laurea inizia la sua carriera come pretore prima a Lentini e poi a Trapani.
A Palermo durante il processo Spatola inizia a collaborare con il suo amico e collega Paolo Borsellino, con il quale intraprende una vera e propria guerra alla mafia. In particolare Falcone e Borsellino lavorano per smascherare il boss Totò Riina. Tanti i nomi delle vittime degli attentati mafiosi, come quello del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, e il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici.
Giovanni Falcone fa parte del pool antimafia che vede raggiungere grandi progressi a cavallo degli anni 1984 e 1985 insieme al magistrato Antonio Caponnetto, Giuseppe Di Lello Finuoli, Leonardo Guarnotta e Paolo Borsellino. La collaborazione dei pentiti è preziosa e tutto si dirige verso un maxiprocesso volto a inchiodare i maggiori responsabili degli attentati mafiosi: 475 imputati, 360 condanne.
Per questioni di sicurezza sia Falcone che Borsellino vengono trasferiti insieme alle loro famiglie all’Asinara. Il maxiprocesso inizia nel febbraio del 1986 e termina nel dicembre del 1987, con 360 condanne e 114 assoluzioni. Ma il pool antimafia viene messo in difficoltà, a partire dall’interno: Falcone viene privato della titolarità delle inchieste antimafia, e Antonino Meli, nominato capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, coinvolge magistrati esterni al pool nelle inchieste.
Iniziano mesi duri per Falcone, sempre più isolato, finché accetta la proposta del nuovo ministro della Giustizia Claudio Martelli: la direzione degli Affari penali a Roma.
Il 23 maggio 1992, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, un’esplosione architettata a dovere, (vennero utilizzati ben 500 kg di tritolo) uccide Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta, sconvolgendo l’Italia.
Il nome di Giovanni Falcone si trova inciso sui gradoni di Piazza della Memoria a Palermo. Questa piazza, monumento in memoria dei caduti nella guerra alla mafia, è un progetto dell’architetto Sebastiano Monaco, ed esiste dal 2002. Tra gli altri commemorati anche Paolo Borsellino, Pietro Scaglione, Francesca Morvillo, Rocco Chinnici.
La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine.
Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole.
Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.
L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.
Gli uomini passano, le idee restano.
Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così, solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è, allora, che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare.
Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?
Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.
La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo.
Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale.
Dalle sue parole possiamo imparare ancora tanto. E se volessimo approfondire l’argomento allora ecco qui un altro articolo perfetto: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: quattro libri da leggere per ricordarli.
Maria Falcone e Monica Mondo, “Giovanni Falcone. Le idee restano”, San Paolo Edizioni;
Alessandra Turrisi, “Paolo Borsellino. L’uomo giusto”, San Paolo Edizioni;
Aaron Pettinari, “Quel terribile 1992”, Imprimatur;
Giovanni Bianconi, “L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone”, Einaudi.
Oggi 18 maggio si celebra la Giornata internazionale dei musei 2021. Non è detto che l’innovazione sia mettere da parte il passato, talvolta le cose coincidono, è solo una diversa prospettiva che, soprattutto in campo museale, trova il suo miglior alleato nel futuro.
Ne sono convinti i promotori dell’International Museum Day 2021, che porta il tema “Il futuro dei musei: rigenerarsi e reinventarsi”, dove l’invito rivolto ai musei di tutto il mondo, ai professionisti del settore e le loro comunità di specialisti che gravitano nella sfera culturale, è a elaborare e sviluppare nel modo migliore una apertura all’innovazione in campo tecnologico.
Che sia di supporto al sapere, per affrontare le sfide sociali, economiche e ambientali, con spalle larghe dove la digitalizzazione e la creazione di nuove forme di esperienze e di divulgazione culturale, sono e saranno alla base del futuro intellettuale da diffondere, e far fruire, anche da remoto se necessario
GIORNATA INTERNAZIONALE DEI MUSEI 2021, IN COSA CONSISTE
Naturalmente, sono e saranno i musei i luoghi di aggregazione, ma alla luce degli ultimi avvenimenti, meglio prepararsi ad ogni evenienza, nel rispetto della sostenibilità come hanno fatto molte realtà italiane ed estere in questi ultimi mesi di chiusura forzata, per riaprire con nuove convinzioni che si sposano perfettamente con la filosofia della Giornata Internazionale dei Musei. Non a caso in Italia sono tante e variegate le realtà che domani hanno un programma dedicato all’evento, dalla Lombardia alla Sicilia, dal Veneto alla Calabria, eccetera, basta consultare la mappa interattiva del sito ICOM International Council of Museums Italia, dove documentarsi e scegliere il museo da visitare, che più attira ogni singola attenzione. Ma con la consapevolezza che i Musei sono un importante mezzo di scambio culturale, arricchimento delle culture e sviluppo di comprensione reciproca, cooperazione e pace fra i popoli.
Celebrati e riconosciuti come tali dal 1977 da ICOM che organizza a livello mondiale la Giornata, che è anche un modo per concretizzare su un piano alto come quello culturale, l’unione tra stati e istituzioni, incoraggiando tutti ad assumere responsabilità e fare la differenza, e chi meglio dei musei può essere attore del cambiamento, in un momento in cui bisogna ripensare alla relazione con le comunità, per sperimentare modelli di esperienza culturale e riaffermare con forza il valore essenziale dei musei nella costruzione di un futuro equo e sostenibile. Con l’obiettivo condiviso di difendere il potenziale creativo della cultura come motore per il rilancio e l’innovazione.
Direttore d’orchestra, compositore, contrabbassista e pianista http://www.eziobosso.com/it/biografia.html
Il cinque maggio è un'ode scritta da Alessandro Manzoni nel 1821 in occasione della morte di Napoleone Bonaparte esule a Sant'Elena (possedimenti della corona britannica nell'oceano Atlantico).
Nell'opera, scritta di getto in tre giorni dopo aver appreso dalla Gazzetta di Milano del 16 luglio 1821 le circostanze della morte di Napoleone, Manzoni mette in risalto le battaglie e le imprese dell'ex imperatore, nonché la fragilità umana e la misericordia di Dio.
Fu il 17 luglio 1821, leggendo il numero della Gazzetta di Milano del 16 nel giardino della sua villa di Brusuglio, che Alessandro Manzoni seppe della morte di Napoleone Bonaparte, avvenuta il 5 maggio dello stesso anno nel suo esilio all'isola di Sant'Elena. Manzoni aveva già incontrato il generalissimo all'età di quindici anni, al teatro alla Scala, dove rimase colpito dal suo sguardo penetrante (evocato al v. 75 con l'espressione «i rai fulminei») e dal magnetismo emanato dalla sua persona, in cui riconosceva l'artefice del trapasso da un’epoca storica a un'altra;[1] ciò malgrado, egli non manifestò né plauso né critica nei confronti di questa figura di condottiero, a differenza di altri poeti suoi contemporanei (quali Ugo Foscolo e Vincenzo Monti).[2]
Dopo aver appreso l'inaspettata e tragica notizia, il poeta, colto da improvviso turbamento, si immerse in una profonda meditazione di carattere storico ed etico, conclusasi quando - sempre leggendo la Gazzetta di Milano - seppe della conversione di Napoleone, avvenuta prima del suo trapasso. Egli fu profondamente commosso dalla morte cristiana dell'imperatore e, preso quasi da un impeto napoleonico, compose di getto il primo abbozzo di quello che sarà Il cinque maggio, in soli tre giorni (la gestazione dell'opera, iniziata il 18 luglio, fu conclusa il 20),[3] con una rapidità decisamente estranea al suo temperamento riflessivo.[4]Dopo aver finalmente composto l'ode, Manzoni la presentò alla censura austriaca, che tuttavia non ne consentì la pubblicazione: come disse Angelo De Gubernatis, infatti, «l'Austria aveva tosto riconosciuto nel Cinque Maggio del Manzoni un omaggio troppo splendido al suo temuto nemico, che pareva come evocato dal suo sepolcro, in quelle strofe potenti». Il Manzoni, tuttavia, ebbe la prudenza di preparare non uno, bensì due esemplari: di questi, uno fu trattenuto dal censore, mentre l'altro fu fatto circolare in forma manoscritta, anche al di fuori del Regno Lombardo-Veneto. Così Alberto Chiari:[6]
«È risaputo che il censore Bellisomi in persona, con gesto di gran riguardo si recò dal Manzoni a restituirgli una delle due copie inviate per l'approvazione, pregandolo che ritirasse la sua richiesta, ma che nel frattempo la seconda copia rimasta in ufficio, era uscita ben presto di là, e copiata e ricopiata s'era diffusa tanto largamente che esemplari manoscritti ne pervennero al Soletti in Oderzo, al Vieusseux in Firenze, al Lamartine in Francia, al Goethe a Weimar per ricordare solo i casi più illustri»
Come appena accennato, infatti, Il cinque maggio ebbe vastissima eco; tra gli ammiratori principali vi fu lo scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe, che tradusse l'ode nel 1822 per poi pubblicarla nel 1823 sulla rivista «Ueber Kunst und Alterthum», IV/1, pp. 182-188: Der fünfte May. Ode von Alexander Manzoni
IL TESTO COMPLETO DEL "5 MAGGIO" DI MANZONI
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
5 così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
10 orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
15 quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
20 e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
25 Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
30 dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
35 del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
40 serve pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
45 la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
50 l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
55 E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
60 e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
65 scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
70 narrar sé stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
75 chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
80 tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir.
85 Ahi! Forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo
e in più spirabil aere
90 pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
95 dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
scrivi ancor questo, allegrati;
100 ché più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
105 il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
Il filosofo danese, considerato il padre dell'esistenzialismo, Søren Aabye Kierkegaard nasce a Copenaghen il giorno 5 maggio 1813. Il padre Michael Pedersen è un ricco commerciante che non aveva avuto figli dalla prima moglie; la seconda moglie, Ane Lund, concepisce invece sette figli, dei quali Soren è l'ultimo. Il giovane viene indirizzato verso l'esperienza della comunità religiosa pietista (forma di religiosità protestante sorta in polemica con il luteranesimo istituzionale per opera di Philipp Jacob Spene): l'educazione è severa, improntata al pessimismo ed al sentimento del peccato, e caratterizzata da una valutazione negativa della cristianità protestantica ufficiale della Danimarca del tempo.
Cinque dei suoi fratelli muoino quando il futuro filosofo è solo ventenne. La tragedia dei fratelli e l'educazione ricevuta faranno di Kierkegaard un uomo triste e votato all'introspezione, nonché ai facili e penosi sensi di colpa. Sarà inoltre sempre cagionevole di salute.
Kierkegaard inizia nel 1830 gli studi universitari di teologia, laureandosi dopo undici anni. La prospettiva, poi non realizzata, era quella di diventare pastore protestante. Durante il periodo universitario partecipa a un movimento religioso e riformistico, professando idee social-cristiane: nel giovane Kierkegaard vi è più la preoccupazione di una riforma ecclesiale pietistica che abbia un riflesso anche nei rapporti sociali della società civile, che non la preoccupazione di sviluppare una ricerca teologica autonoma. In questi anni ha modo di ricoprire il ruolo di presidente della lega degli studenti, attaccando soprattutto le idee liberal-borghesi di rinnovamento democratico. La sua posizione non era molto dissimile da quella dell'ultimo Schelling, che si illudeva di poter superare l'hegelismo accentuando l'importanza della religione.
Nella sua tesi di laurea del 1841, "Sul concetto dell'ironia in costante riferimento a Socrate" (poi pubblicata), Kierkegaard prende posizione contro il romanticismo estetico, evasivo, estraniato, dei fratelli Schlegel, di Tieck e Solger, mettendosi dalla parte di Hegel. L'ironia romantica è per Kierkegaard fonte di isolamento. Contro i romantici tedeschi e danesi, egli oppone Goethe e Shakespeare, dove l'ironia è solo un "momento", non una condizione di vita.
Nel 1840, dopo aver sostenuto un esame di teologia che lo abilitava alla carriera ecclesiastica, aveva compiuto un viaggio nello Jutland per rimettersi da una grave forma di esaurimento nervoso; decide improvvisamente di fidanzarsi con la diciottenne Regina Olsen, ma dopo poco circa un anno rompe il fidanzamento. Regina era pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fa il possibile per apparire disgustoso, in modo che cada su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che gli procurerà poi un grosso rimpianto per il resto della vita.
Subito dopo aver rotto con Regina compie un viaggio a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling, ma ne rimane profondamente deluso. Nel marzo del 1842 torna a Copenaghen e dà inizio a quella che sarà una vasta produzione letteraria.
Kierkegaard possiede un temperamento scontroso, poco socievole, e conduce un'esistenza appartata. Gli unici fatti rilevanti della sua vita sono gli attacchi mossi dal giornale satirico "Il corsaro" (Kierkegaard appare più volte ritratto in caricature maligne), e la polemica contro l'opportunismo e il conformismo religioso che Kierkegaard avrebbe condotto nell'ultimo anno della sua vita, in una serie di articoli pubblicati nel periodico "Il momento": Kierkegaard accusava la Chiesa danese di essere mondana e di aver tradito gli insegnamenti originari di Cristo.
Nel 1843 Kierkegaard pubblica "Enten-Eller", la sua opera più significativa che fu anche quella che gli darà maggior successo. Enten-Eller è diviso in due parti e contiene la sintesi del pensiero estetico, religioso e fenomenologico del giovane Kierkegaard. Vi sono inclusi il "Diario del seduttore" (scritto per respingere Regina), i "Diapsalmata" (una serie di aforismi autobiografici), "Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno", in cui Kierkegaard contesta il valore dell'associazionismo della sua epoca, anteponendogli quello dell'individualità isolata, tormentata, che si sacrifica per il bene dell'ideale.
Vi è anche "Don Giovanni", seduttore leggendario (gaudente esteta, cavaliere spagnolo prototipo del libertino, immortalato nell'omonima opera di Mozart), e il testo che in lingua italiana è stato tradotto con "Aut-Aut", ma che in realtà è la lunghissima Lettera dell'assessore Gugliemo, il testo più importante di Enten-Eller. Questa Lettera, pur apparendo nella seconda parte del volume, è stata scritta per prima, ed essa, nel suo rifiuto della vita estetico-romantica, è quella che meglio si ricollega alla tesi di laurea. Nonostante il successo editoriale dell'opera, risultano del tutto vani i tentativi di coinvolgerlo in una collaborazione culturale, filosofica (in riferimento soprattutto all'estetica), da parte dei vari circoli, club e riviste di Copenaghen. Di fatto con la pubblicazione di quest'opera Kierkegaard esce dal mondo della cultura e dell'impegno sociale rifiutando per sempre anche la carriera ecclesiastica.
Pubblica poi "Timore e tremore", un saggio sulla figura di Abramo con cui antepone al dubbio della filosofia moderna (cartesiana) la fede angosciata nell'Assoluto di un uomo (biblico) che non può mettersi in comunicazione con nessuno, sapendo di non poter essere capito. Kierkegaard si serve di Abramo per giustificare la sua nuova posizione sociale: l'individualismo religioso. Come Abramo, che esteriormente appariva un assassino, mentre interiormente era un uomo di fede, così Kierkegaard sa di apparire alla cittadinanza come una persona stravagante, anomala, inaffidabile.
Nel 1844 esce "Il concetto dell'angoscia": Kierkegaard ne aveva già parlato trattando le figure di Antigone, Agamennone, Jefte e soprattutto Abramo. L'opera serve a Kierkegaard per dimostrare che l'angoscia conseguente alla rottura con il mondo sociale è uno stato d'animo inevitabile, come fu in un certo senso inevitabile il peccato originale per Adamo.
Nello stesso anno pubblica "Briciole di filosofia" in cui traduce sul piano filosofico le riflessioni maturate sui piani psicologico e religioso. Kierkegaard rifiuta il concetto di "divenire storico" in quanto la storia ha tradito Cristo. Con questo saggio prosegue la critica, iniziata con "Timore e tremore", dell'ufficialità protestantica della Chiesa danese, anche se questa polemica per il momento passa attraverso la critica dell'hegelismo. Kierkegaard non accetta di definirsi "filosofo": anche quando scrive di filosofia preferisce definirsi come "scrittore religioso" o "edificante".
Alle Briciole seguirà nel 1846 la monumentale "Postilla conclusiva non scientifica". A partire da questo volume (che secondo Kierkegaard doveva essere un'antitesi alla Logica di Hegel), Kierkegaard si lamenta di non avere più un interlocutore. Riuscirà a vendere solo 50 copie della Postilla, ma l'intenzione di Kierkegaard era proprio quella di concludere la sua attività di scrittore. Viende indotto a terminare l'attività anche dalla polemica con la rivista "Il corsaro", che lo avrebbe prese in giro per diversi mesi, facendo colpo sul pubblico. Il giornale sarà poi chiuso dal governo e il direttore espulso dal paese per "indegnità morale". Ad ogni modo nella Postilla il disprezzo per la socialità raggiunge forme di particolare conservatorismo filo-monarchico, dalla quali appare chiaro quanto Kierkegaard tema le idee liberali, democratiche e socialiste.
In estrema sintesi il pensiero del filosofo danese identifica tre fondamentali stadi nel cammino della vita: lo stadio estetico, quello etico e quello religioso.
Dopo un'intera vita passata quasi esclusivamente nella sua città, Soren Kierkegaard muore il giorno 11 novembre 1855, colto da una paralisi.
Bibliografia essenziale:
- Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate (1841)
- Enten-Eller (1843)
- Timore e tremore (1843)
- La ripresa (1843)
- Briciole di filosofia (1844)
- II concetto dell'angoscia (1844)
- Postilla conclusiva non scientifica (1846)
- La malattia mortale (1849)
- Scuola di Cristianesimo (1850)
- L'istante (1855)
Giornata Internazionale dei Musei 2021
1 maggio: 5 libri da leggere per ricordare la festa dei lavoratori
La festa dei lavoratori viene celebrata il 1 Maggio e ricorda le battaglie operaie volte alla conquista di precisi diritti: la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere e la corresponsione di un salario adeguato alle necessità della vita dei lavoratori e delle loro famiglie.
Questa festa ebbe origine negli Stati Uniti d’America negli anni 1882 – 1884, a seguito di una risoluzione approvata dalle organizzazioni dei lavoratori.
I lavoratori, sin dalla metà del 1800, non avevano diritti e lavoravano per almeno 16 ore al giorno ininterrottamente, in pessime condizioni, percependo una scarsa retribuzione e spesso anche morendo nei luoghi di lavoro.
In Italia, la storia del Primo Maggio si intreccia con le lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore, la regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, il miglioramento salariale, i contratti di lavoro, la legalizzazione dello sciopero.
Nell’agosto del 1891 il II congresso dell’Internazionale, riunito a Bruxelles, decise di rendere permanente la ricorrenza. Il fascismo in Italia, però, soppresse il primo maggio. Durante in Ventennio, infatti, si fece coincidere con la celebrazione del 21 aprile, il cosiddetto Natale di Roma. Il 1 maggio tornò a celebrarsi nel 1945, sei giorni dopo la liberazione dell’Italia.
La festa dei lavoratori è riconosciuta a livello mondiale, anche se in alcuni Stati non è totalmente ufficiale, ma vengono fatte ugualmente delle celebrazioni in occasione del Primo maggio. In ricordo di tutti coloro che hanno perso la vita rivendicando i propri diritti sul lavoro.
Negli Stati Uniti l'economia postindustriale, basata sul sapere e sull'innovazione, sta cambiando profondamente il mercato del lavoro, sia per la tipologia dei beni prodotti sia per le modalità e, soprattutto, le località in cui vengono realizzati, creando enormi disparità geografiche in termini di istruzione scolastica, aspettativa di vita e stabilità famigliare.
Per alcune regioni e città, infatti, la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie vogliono dire aumenti nella domanda di lavoro, più produttività, più occupazione e redditi più alti.
Per altre, chiusura di fabbriche, disoccupazione e salari sempre più bassi.
E poiché questa radicale ridistribuzione di impieghi, popolazione e ricchezza è un processo destinato a diffondersi nei prossimi decenni in ogni angolo del Vecchio continente, Italia compresa, le dinamiche in atto oltreoceano offrono importanti lezioni anche per i paesi europei.
Di questa "nuova geografia del lavoro" Enrico Moretti traccia una mappa dettagliata: visita città in ascesa, che vedono fiorire un virtuoso intreccio di buoni impieghi, talento e investimenti, e città in declino; passeggia per le vie di Pioneer Square, quartiere trendy di Seattle, e per quelle di Berlino, la capitale più attraente d'Europa, ma anche una metropoli sorprendentemente povera; e scopre che ogni posto di lavoro creato in centri di eccellenza dell'innovazione ne genera almeno cinque in altri settori produttivi, e tutti retribuiti meglio che altrove.
Enrico Moretti è docente di economia all'Università della California a Berkeley.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui, nel 2006, lo Young Labor Economist Award dall'istituto di ricerca tedesco Iza e, nel 2008, la medaglia Carlo Alberto, premio assegnato ogni anno a un economista italiano under 40 per i risultati ottenuti nell'attività di ricerca.
I suoi interventi sono spesso ospitati sulle pagine di importanti giornali americani, come il "New York Times" e il "Wall Street Journal". Mondadori nel 2013 ha pubblicato il saggio "La nuova geografia del lavoro".
2. "Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia" di Angelo Ferracuti
Porto di Ravenna, cantieri navali Mecnavi, 13 marzo del 1987. Mentre alcuni operai stanno ripulendo le stive della Elisabetta Montanari, nave adibita al trasporto di gpl, e altri colleghi tagliano e saldano lamiere con la canna ossidrica, una scintilla provoca un incendio.
Le fiamme si propagano con una rapidità inarrestabile. È la tragedia. Tredici uomini muoiono asfissiati a causa delle esalazioni di acido cianidrico.
I tredici uomini erano tutti picchettini, e si chiamavano Filippo Argnani, che all'epoca aveva quarant'anni, Marcello Cacciatori, che di anni ne aveva ventitre, Alessandro Centioni, ventuno, Gianni Cortini, diciannove, Massimo Foschi, ventisei, Marco Gaudenzi, diciotto, Domenico Lapolla, venticinque, Mohamed Mosad, trentasei, Vincenzo Padua, sessant'anni, che stava per andare in pensione e si trovava lì per puro caso chiamato all'ultimo momento per una sostituzione. Vincenzo era l'unico operaio veramente in regola assunto dalla Mecnavi.
E ancora: Onofrio Piegari, ventinove anni, Massimo Romeo, ventiquattro, Antonio Sansovini, ventinove, e infine Paolo Seconi, ventiquattro. Tredici lavoratori morti come topi, come tredici era il giorno di quel mese, tutti asfissiati nel ventre della balena metallica.
"Non credevo che esistessero ancora simili condizioni di lavoro, a Ravenna, alle soglie del Duemila", disse il procuratore capo della Repubblica Aldo Ricciuti che svolse le indagini. La tragedia poteva essere evitata? La giustizia ha poi "ripagato" le vittime e i famigliari?
Angelo Ferracuti è reporter e scrittore. Ha collaborato con «Diario» e oggi con «il manifesto». Ha pubblicato, fra l'altro: Viaggi da Fermo (Laterza 2009), Il mondo in una regione (Ediesse 2009), Il costo della vita (Einaudi 2013), Andare, camminare, lavorare (Feltrinelli 2015), Addio (Chiarelettere 2016), Giovani leoni (Minimum fax 2017), La metà del cielo (Mondadori 2019).
Da Lucio Mastronardi a Giovanni Giudici, da Ottiero Ottieri a Leonardo Sinisgalli, da Franco Fortini a Paolo Volponi e Nanni Balestrini, da Elio Vittorini a Luciano Bianciardi, da Carlo Emilio Gadda a Italo Calvino, Primo Levi e molti altri.
E la letteratura industriale italiana del Novecento quella raccolta per la prima volta unitariamente in questa antologia, da quando il fenomeno acquista compattezza (anni Trenta) fino agli ultimi decenni, quando si sono registrati la fine del lavoro industriale e il modificarsi del concetto di fabbrica.
Rispetto alla produzione narrativa e poetica dedicata all'industria, sono state selezionate opere e autori seguendo un percorso suddiviso in capitoli tematici organizzati temporalmente e incentrati sulle diverse figure coinvolte, dagli impiegati agli imprenditori, dagli operai agli intellettuali.
Curata da Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, studiosi di storia e di letteratura industriale, e introdotta da un saggio di Antonio Calabro, Fabbrica di carta testimonia quanto "l'identità italiana sia anche industriale.
E il suo racconto, riscoperto, riletto, affidato a parole nuove, dice di noi, della nostra storia, della nostra complicata e contorta eppure buona umanità. Merita spazio. E sguardo lungo all'orizzonte". Prefazione di Alberto Meomartini.
4. "Le colpe dei padri" di Alessandro Perissinotto
Guido Marchisio, torinese, 46 anni, è un uomo arrivato. Dirigente di una multinazionale, appoggiato dai vertici, compagno di una donna molto più giovane e bellissima: la sua è una vita in continua ascesa.
Fino al 26 ottobre 2011, una data che crea una frattura tra ciò che Guido è stato e quello che non potrà mai più essere.
Quella mattina, infatti, un incontro non previsto insinua in lui il dubbio: possibile che esista da qualche parte un suo sosia, un gemello dimenticato, un suo doppio misterioso e sfuggente?
Giorno dopo giorno, il dubbio diventa ossessione e l'esistenza dell'ingegner Marchisio inizia, prima piano poi sempre più velocemente, a percorrere la stessa rovinosa china della sua azienda e della sua città.
Di tutte le sicurezze costruite col tempo, non rimane più nulla: il suo ruolo di freddo tagliatore di teste, di manager di successo, la sua figura di uomo affascinante, tutto, per colpa di quel sospetto, sembra scivolare via da lui, come se accompagnasse l'emorragia che lentamente svuota l'industria italiana. Andare a fondo significherà per Guido affacciarsi all'orlo di un baratro e accettare l'inaccettabile.
Alessandro Perissinotto nasce a Torino nel 1964. Pratica vari mestieri e, intanto, si laurea in Lettere nel 1992 con un tesi in semiotica. Inizia quindi un’intensa attività di ricerca, occupandosi di semiologia della fiaba, di multimedialità e di didattica della letteratura. È docente nell'Università di Torino.
Collabora inoltre con il quotidiano "La Stampa", per il quale scrive articoli e racconti che appaiono sul supplemento "TorinoSette", e con "Il Mattino" di Napoli. Approda alla narrativa nel 1997 con il romanzo poliziesco L’anno che uccisero Rosetta (Sellerio), al quale fanno seguito La canzone di Colombano e Treno 8017 (Sellerio, 2000 e 2003).
Nel 2004 pubblica per Rizzoli il noir epistolare Al mio giudice (Premio Grinzane Cavour 2005 per la Narrativa Italiana), seguito nel 2006 da Una piccola storia ignobile (Rizzoli), un’indagine della psicologa Anna Pavesi, che torna anche in L’ultima notte bianca e L’orchestra del Titanic.
Nel 2008 la riflessione sul poliziesco si sviluppa anche in forma saggistica con La società dell’indagine (Bompiani), mentre la sua produzione narrativa evolve verso il romanzo politico con Per vendetta (2009). Le sue opere sono state tradotte in numerosi paesi europei e in Giappone.
Con Piemme ha pubblicato Semina il vento (2012), Le colpe dei padri (2013, secondo classificato al Premio Strega), Coordinate d'Oriente (2014) e Quello che l'acqua nasconde (2017). Con Mondadori ha pubblicato Il silenzio della collina (2019). Nel 2020 esce per Laterza Raccontare.
5. "Marzo 1943. Un seme della Repubblica fondata sul lavoro" di Roberto Finzi
Vista in una prospettiva più ampia di quanto la storiografia a essa dedicata abbia in genere fatto, spogliata da ogni elemento mitico o propagandistico, quella del marzo 1943 fu una lotta che per diversi aspetti segnò fortemente il cammino successivo della storia italiana e il volto della Repubblica che dalle rovine del fascismo scaturì.
Roberto Finzi ha insegnato storia economica, storia del pensiero economico, storia sociale negli atenei di Bologna, Ferrara e Trieste. Ha pubblicato con alcune tra le maggiori case editrici italiane e in numerose riviste italiane e straniere.
Suoi lavori sono stati editi, oltre che in Italia, in Argentina, Belgio, Brasile, Cina, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Spagna, Stati Uniti.
Tra le sue opere si segnalano la cura di "A.R.J. Turgot, Le ricchezze, il progresso e la storia universale" (Einaudi, 1978) e le monografie "L’antisemitismo. Dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio" (Giunti-Castermann, 1997), "L’università italiana e le leggi antiebraiche" (Editori Riuniti, 1997), "Ettore Majorana. Un’indagine storica" (Edizioni di storia e letteratura, 2002) e "La superiore prosperità delle società civilizzate. Adam Smith e la divisione del lavoro" (Clueb, 2008). Nel 2014 esce per Bompiani "L'onesto porco. Storia di una diffamazione".
Anniversario della liberazione d'Italia
Ricorrenza conosciuta anche come festa della Liberazione o semplicemente 25 aprile, è una festa nazionale della Repubblica Italiana che ricorre il 25 aprile di ogni anno e che celebra la liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista e dal regime fascista.
È un giorno fondamentale per la storia d'Italia e ha assunto un particolare significato politico e militare, in quanto simbolo della vittoriosa lotta di resistenza militare e politica attuata a partire dall'Armistizio di Cassibile del settembre 1943 dalla Resistenza partigiana, dalle forze armate Alleate (principalmente britanniche ed americane) e dall'Esercito Cobelligerante Italiano, nel corso della seconda guerra mondiale.
Il 25 aprile 1945 è il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) – il cui comando aveva sede a Milano ed era presieduto da Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani (presenti tra gli altri il presidente designato Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marazza) – proclamò l'insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, indicando a tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia facenti parte del Corpo Volontari della Libertà di attaccare i presidi fascisti e tedeschi imponendo la resa, giorni prima dell'arrivo delle truppe alleate; parallelamente il CLNAI emanò in prima persona dei decreti legislativi[2], assumendo il potere «in nome del popolo italiano e quale delegato del Governo Italiano», stabilendo tra le altre cose la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti[3], incluso Benito Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato tre giorni dopo.
«Arrendersi o perire!» fu la parola d'ordine intimata dai partigiani quel giorno e in quelli immediatamente successivi.
Entro il 1º maggio tutta l'Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 23 aprile) e Venezia (il 28 aprile). La Liberazione mise così fine a vent'anni di dittatura fascista e a cinque anni di guerra; la data del 25 aprile simbolicamente rappresenta il culmine della fase militare della Resistenza e l'avvio effettivo di una fase di governo da parte dei suoi rappresentanti che porterà prima al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, e poi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione.
Il termine effettivo della guerra sul territorio italiano, con la resa definitiva delle forze nazifasciste all'esercito alleato, si ebbe solo il 3 maggio, come stabilito formalmente dai rappresentanti delle forze in campo durante la cosiddetta resa di Caserta firmata il 29 aprile 1945: tali date segnano anche la fine del ventennio fascista.
Su proposta del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il Re Umberto II, allora principe e luogotenente del Regno d'Italia, il 22 aprile 1946 emanò un decreto legislativo luogotenenziale ("Disposizioni in materia di ricorrenze festive") che recitava:[4]
«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.»
La ricorrenza venne celebrata anche negli anni successivi, ma solo il 27 maggio 1949, con la legge 260 ("Disposizioni in materia di ricorrenze festive")[5], essa è stata istituzionalizzata stabilmente quale festa nazionale:
«Sono considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale, i giorni seguenti: [...] il 25 aprile, anniversario della liberazione;[...]»
Da allora, annualmente in tutte le città italiane – specialmente in quelle decorate al valor militare per la guerra di liberazione – vengono organizzate manifestazioni pubbliche in memoria dell'evento.
Tra gli eventi del programma della festa c'è il solenne omaggio, da parte del Presidente della Repubblica Italiana e delle massime cariche dello Stato, al sacello del Milite Ignoto con la deposizione di una corona d'alloro in ricordo ai caduti e ai dispersi italiani nelle guerre[6].
Le centinaia di volti di partigiane e partigiani che compongono le tessere del mosaico di questo Memoriale della Resistenza italiana, rappresentano un insieme di storie di vita raccontate in tarda età dai diretti interessati, allora giovanissimi.
Ciascuno di loro, nella grande varietà delle estrazioni sociali e degli orientamenti culturali, testimonia una scelta di libertà compiuta rivoltandosi contro il regime fascista e l’invasore tedesco.
La ricerca, avviata nel 2019 prima della pandemia Covid che ha falcidiato questa generazione, portatrice di un prezioso deposito di memorie e di insegnamenti, è ancora in divenire. L’ obiettivo è di raccogliere qui il massimo numero di testimonianze dei protagonisti della Resistenza, comprese le molte rilasciate in precedenza e disseminate in vari archivi.
Chiunque abbia dato il suo contributo, piccolo o grande, alla lotta di Liberazione nei venti terribili mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, merita di essere ricordato con riconoscenza da chi ha avuto la fortuna di nascere in un Paese che trova nella Costituzione repubblicana, per sua natura antifascista, le basi della convivenza democratica.
Come tale viene messo a disposizione di tutta la cittadinanza, dei ricercatori storici, ma in special modo dei giovani chiamati a confrontarsi con le scelte di chi, alla loro età, seppe fare la cosa giusta.
Laura Gnocchi
Gad Lerner
Il Giorno del Ricordo per il genocidio armeno (in armeno: Մեծ Եղեռնի զոհերի հիշատակի օր?, traslitterato: Mets Yegherrni zoheri hishataki or) è un giorno festivo in Armenia e nella Repubblica di Artsakh e presso gli Armeni della diaspora.[1] Si celebra ogni anno il 24 aprile per commemorare le vittime del genocidio armeno del 1915, una serie di massacri da parte degli ottomani che causarono un milione e mezzo di morti. A Erevan, la capitale dell'Armenia, centinaia di migliaia di persone camminano verso il Memoriale del genocidio, il Tsitsernakaberd per deporre fiori ai piedi della fiamma eterna.
La data del 24 aprile commemora la deportazione degli intellettuali armeni il 24 aprile 1915 da Costantinopoli: la prima commemorazione, organizzata da un gruppo di sopravvissuti al genocidio armeno, si tenne a Istanbul nel 1919 presso la locale Chiesa della Santa Trinità. Molte personalità di spicco della comunità armena vi parteciparono e dopo quella volta la data divenne il giorno annuale di commemorazione del genocidio armeno.[2]
Arresti e deportazioni furono compiuti in massima parte dai «Giovani Turchi». Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.200.000 persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento[25]. Queste marce furono organizzate con la supervisione di ufficiali dell'esercito tedesco in collegamento con l'esercito turco, secondo le alleanze tra Germania e Impero ottomano e si possono considerare come "prova generale" ante litteram delle più note marce della morte perpetrate dai nazisti ai danni dei deportati nei propri lager durante la Seconda guerra mondiale.[26][27][28] Altre centinaia di migliaia furono massacrate dalla milizia curda e dall'esercito turco. Le fotografie di Armin T. Wegner sono la testimonianza di quei fatti.[29]
Malgrado le controversie storico-politiche, un ampio ventaglio di analisti concorda nel qualificare questo accadimento come il primo genocidio moderno,[30][31][32] e soprattutto molte fonti occidentali enfatizzano la "scientifica" programmazione delle esecuzioni.[33]
Chi si oppone all'associazione del termine genocidio sostiene che non esistesse, da parte dello Stato turco, un progetto di sterminio nei confronti della popolazione armena; vi era piuttosto l'intento da parte degli Ottomani di impedire agli armeni di unirsi all'esercito russo, ricollocandoli in Siria, nel periodo in cui russi e battaglioni armeni stavano avanzando in Turchia. Viene anche fatto notare che gli Armeni commisero atrocità nei confronti delle popolazioni musulmane nei territori caduti sotto il loro controllo.
Dopo che gli Ottomani persero la guerra, l'Alta Commissione Britannica trasse in arresto 144 alti ufficiali turchi e li condusse a Malta per inquisirli riguardo al genocidio. Non vennero tuttavia trovate prove che vi fosse una volontà di sterminio da parte delle autorità o dell'esercito turco, e dunque tutti gli ufficiali vennero rilasciati.[8][9] Vi sono tuttavia molte prove che l'élite ottomana volesse eliminare la popolazione armena: ad esempio, l'ambasciatore Morgenthau ricordò nelle sue memorie che il Ministro dell'Interno, Tallat Pascià, gli disse in un'occasione: «Ci siamo liberati di tre quarti degli armeni… L’odio tra armeni e turchi è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi».[34]
Il genocidio armeno causò circa 1,5 milioni di morti. Le fonti turche tendono a minimizzare la cifra.
Secondo il Patriarcato armeno di Costantinopoli, nel 1914 gli Armeni anatolici andavano da un minimo di 1.845.000 ad un massimo di 2.100.000.
Lo storico Arnold J. Toynbee, che fu ufficiale dell'intelligence britannica in Anatolia nella prima guerra mondiale, stima in 1.800.000 il numero complessivo degli Armeni di quel paese. L'Enciclopedia Britannica indica come probabile il numero di 1.750.000.[35][36]
Toynbee ritiene che i morti furono 1.200.000. Gli storici stimano che la cifra vari fra i 1.200.000 e 2.000.000 di morti, ma il totale di 1.500.000 è quello più diffuso e comunemente accettato.
Giornata mondiale del libro: 23 aprile
Il 23 aprile si celebra la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore.
Si tratta di un evento patrocinato dall’UNESCO per promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la protezione della proprietà intellettuale attraverso il copyright. La Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore è stata istituita nel 1996 e da allora viene organizzata ogni anno il 23 aprile con numerose manifestazioni in tutto il mondo tutte volte alla sensibilizzazione e alla promozione della lettura, alla tutela della pubblicazione dei libri e del copyright.
Nel 1995 durante la 28a sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO, riunita a Parigi, 12 Paesi proposero di lanciare l’iniziativa. Fu così che la Conferenza Generale adottò la risoluzione 3.18 con la quale si proclamò il 23 aprile di ogni anno “Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore” .
Questa Giornata mondiale dedicata ai libri ha l’obiettivo di incoraggiare a scoprire il piacere della lettura e a valorizzare e promuovere il contributo che gli autori danno al progresso sociale e culturale dell’umanità.
La data ha anche un valore simbolico molto importante, in quanto coincide con la morte di tre autori che hanno fatto la storia della letteratura:
William Shakespeare (1564-1616), Miguel de Cervantes (1547-1616) e Inca Garcilaso de la Vega (1539-1616). Inoltre nello stesso giorno sono nati altri grandi autori come Vladimir Nabokov (1899-1977) e il premio nobel islandese Halldór Laxness (1902-1998).
Questa giornata speciale dedicata ai libri nasce da una tradizione catalana. In Catalogna infatti lo scrittore ed editore Valenciano Vincent Clavel Andrés (1888-1967) sostenne e promosse una giornata all’anno dedicata al libro. Il 6 febbraio 1926, il re Alfonso XIII promulgò un decreto reale che istituiva in tutta la Spagna la Giornata del libro spagnolo. Questa festa, che inizialmente cadeva il 7 ottobre, fu spostata al 23 aprile dal 1931.
Nella stessa data ricorre la festa di san Giorgio, patrono di Barcellona e della Catalogna. Una tradizione di origine medioevale vuole che in questo giorno gli uomini regalino una rosa alle loro donne. I librai della Catalogna, rifacendosi alla tradizione ma modificandola, usano regalare una rosa per ogni libro venduto il 23 aprile.
In Italia la giornata si celebra con una buona notizia: nei primi tre mesi del 2021 le vendite dei libri hanno registrato un incremento del 26,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. È l’effetto trainante degli acquisti online, che oggi rappresenta il 45 per cento delle vendite. A sostenerlo è l’Aie, l’Associazione Italiana Editori, che si rallegra anche per la forte capacità dell’editoria libraria di resistere alla crisi da Covid-19, confermando le aspettative positive già accennate nella seconda metà del 2020.
Anche i dati relativi al valore dell’editoria indipendente sono incoraggianti: nel primo trimestre del 2021 infatti è cresciuta del 34 per cento, con un incremento complessivo decisamente superiore alla media di mercato del circa il 30%.
L’Adei, Associazione degli Editori Indipendenti, e l’istituto di ricerca tedesco GfK ha condotto una ricerca sui dati relativi al mercato editoriale tra il 4 gennaio e il 28 marzo 2021 e i dati appena citati mostrano nel complesso una crescita importantea, con un totale di 22,8 milioni di copie vendute tra grande distribuzione (+10,8 per cento), librerie indipendenti (+20,3) ed e-commerce e catene librarie (+41,5).
In Italia si tratta del sesto anniversario della Giornata che sarà celebrato online, con una fitta serie di appuntamenti. Tra questi segnaliamo quello delle Biblioteche di Roma, che in collaborazione con Aie, organizza sul suo canale Youtube e sulla sua pagina Facebook, il festival Leggere sempre. Si tratta di una rassegna di incontri e approfondimenti, il 23 e il 24 aprile, per un viaggio attraverso i libri alla scoperta di alcuni dei più famosi autori internazionali. Il 23 aprile si svolgerà il Lettura Day, che proseguirà poi ogni giovedì fino a settembre 2021, con l’intenzione di avvicinare ai libri grandi e piccoli lettori, con letture pubbliche da varie località consultabili sul sito web www.letturaday.it.
A Treviso il sistema bibliotecario organizza letture collettive e incontri a cura del sistema Bibliotecario del Vittoriese, in streaming sul canale Youtube delle biblioteche a partire dalle ore 17 di venerdì. LaEffe, il canale televisivo Sky di Feltrinelli propone per l’intera giornata letture di grandi autori, documentari e serie tv tratte da alcuni grandi classici e best seller.
A Milano sarà possibile scaricare gratuitamente una ricca serie di titoli dal sito dell’Area Biblioteche del Comune e sui mezzi di trasporto della rete cittadina, inquadrando il QR Code presente sui manifesti dell’evento, scegliere il libro più affine ai propri gusti e scaricarlo in versione digitale, fino al 30 giugno e a cadenza settimanale.
Il Ministero della Cultura ripropone il Maggio dei libri, iniziativa del Centro per il libro e la lettura, che quest’anno celebra i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri; l’iniziativa coinvolgerà enti locali, scuole, biblioteche, librerie, festival e editori e sarà attiva dal 23 aprile al 31 maggio.
A Firenze il 23, per tutta la giornata, ogni persona che acquisterà un libro nelle librerie indipendenti della città riceverà un fiore in omaggio, un iris, simbolo del capoluogo toscano.
A Napoli la Farmacia Porzio ha deciso di donare un libro a chi è meno fortunato.
La Giornata mondiale del Libro da parte della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco a Roma organizza degli eventi presso l’Ateneo UNINT – Università degli studi internazionali di Roma e presso la Libera Università Maria SS. Assunta – LUMSA. Sulla pagina Facebook della Commissione è stato stilato un elenco di libri ambientati nelle venti regioni italiane, con l’intento di sottolineare il legame tra letteratura e territorio.
www.youtube.com/watch?v=VQE-ezBeAT8
www.palumboeditore.it/insiemeperlascuola/contenuti/ddi/giornata-terra/index.html
La Casa Editrice Palumbo, in occasione della Giornata Mondiale della Terra del 22 Aprile, che quest’anno si soffermerà soprattutto sulle questioni ecologiche e sulla necessità di ridurre gli effetti dell’inquinamento atmosferico, partecipa con una serie di materiali offerti alla libera fruizione in classe, per sensibilizzare, attivare la riflessione e suscitare un confronto che aiuti a trasformare le idee e l’indignazione in azione costruttiva e responsabile.
Il materiale digitale sarà direttamente fruibile dallo spazio di condivisone “Insieme per la scuola” pensato per la Didattica a Distanza.
Giornata Mondiale della Terra 2021, evento online gratuito ...
https://www.orizzontescuola.it › giornata-mondiale-dell...
In occasione della Giornata Mondiale della Terra, Luca Perri e Serena Giacomin guideranno docenti e studenti in un viaggio virtuale alla scoperta di alcuni luoghi del nostro pianeta significativi per comprendere lo stato di salute della Terra.
Giovedì 22 aprile, dalle 11:00 alle 12:30, rifletteremo insieme in maniera coinvolgente e interattiva sul tema dell’EarthDay 2021: “Ripristinare il nostro Pianeta”.
Iscriviti subito: http://bit.ly/EarthDay2021_DeA
Rita Levi Montalcini nasce il 22 aprile del 1909 a Torino. Entrata alla scuola medica di Levi all'età di vent'anni, si laurea nel 1936. Fermamente intenzionata a proseguire la sua carriera accademica come assistente e ricercatrice in neurobiologia e psichiatria, è costretta, a causa delle leggi razziali emanate dal regime fascista nel 1938, ad emigrare in Belgio insieme a Giuseppe Levi.
La passione per la sua materia comunque la sospinge e le dona la forza per andare avanti tanto che continua le sue ricerche in un laboratorio casalingo.
Sono anni assai travagliati per il mondo e per l'Europa. Infuria la seconda guerra mondiale ed è assai difficile trovare luoghi dove poter stare tranquilli, figuriamoci intraprendere delle ricerche.
Nel suo girovagare, nel 1943 approda a Firenze, dove vive in clandestinità per qualche anno, prestando fra l'altro la sua collaborazione come medico volontario fra gli Alleati.
Finalmente, nel 1945 la guerra finisce, lasciandosi alle spalle milioni di morti e devastazioni inimmaginabili in tutti i Paesi.
Dopo così lungo peregrinare senza un porto sicuro in cui rifugiarsi, Rita torna nella sua città natale (giusto poco prima dell'invasione tedesca del Belgio), riprendendo con più serenità le sue importanti ricerche insieme a Levi, sempre attraverso un laboratorio domestico. Poco dopo riceve un'offerta difficilmente rifiutabile dal Dipartimento di Zoologia della Washington University (St. Louis, Missouri). Accetta, dopo essersi però ben assicurata che potrà proseguire le stesse ricerche che aveva cominciato a Torino. La giovane Rita ancora non sa che l'America diventerà una sorta di sua seconda patria, vivendoci con incarichi prestigiosi per oltre trent'anni (diventerà professore di Neurobiologia), e precisamente fino al 1977.
Ma vediamo nel dettaglio quali sono state le tappe di questa straordinaria ricerca che ha portato a risultati altrettanto straordinari. I suoi primi studi (risaliamo agli anni 1938-1944) sono dedicati ai meccanismi di formazione del sistema nervoso dei vertebrati.
Nel 1951-1952 Rita Levi Montalcini scopre il fattore di crescita nervoso noto come NGF, che gioca un ruolo essenziale nella crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche.
Per circa un trentennio prosegue le ricerche su questa molecola proteica e sul suo meccanismo d'azione, per le quali nel 1986 le viene conferito il Premio Nobel per la Medicina (con Stanley Cohen).
Nella motivazione del Premio si legge:
"La scoperta del NGF all'inizio degli anni '50 è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell'organismo".
Dal 1961 al 1969 dirige il Centro di Ricerche di Neurobiologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Roma) in collaborazione con l'Istituto di Biologia della Washington University, e dal 1969 al 1979 il Laboratorio di Biologia cellulare.
Dopo essersi ritirata da questo incarico "per raggiunti limiti d'età" continua le sue ricerche come ricercatore e guest professor dal 1979 al 1989, e dal 1989 al 1995 lavora presso l'Istituto di Neurobiologia del CNR con la qualifica di Superesperto.
Le indagini di Rita Levi Montalcini si concentrano sullo spettro di azione del NGF, utilizzando tecniche sempre più sofisticate. Studi recenti (negli anni 2000) hanno infatti dimostrato che esso ha un'attività ben più ampia di quanto si pensasse: non si limita ai neuroni sensori e simpatici, ma si estende anche alle cellule del sistema nervoso centrale, del sistema immunitario ematopoietico e alle cellule coinvolte nelle funzioni neuroendocrine.
Dal 1993 al 1998 presiede l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. È membro delle più prestigiose accademie scientifiche internazionali, quali l'Accademia Nazionale dei Lincei, l'Accademia Pontificia, l'Accademia delle Scienze detta dei XL, la National Academy of Sciences statunitense e la Royal Society.
È inoltre per tutta la vita molto attiva in campagne di interesse sociale, per esempio contro le mine anti-uomo o per la responsabilità degli scienziati nei confronti della società.
Nel 1992 istituisce, assieme alla sorella gemella Paola, la Fondazione Levi Montalcini, in memoria del padre, rivolta alla formazione e all'educazione dei giovani, nonché al conferimento di borse di studio a giovani studentesse africane a livello universitario. L'obiettivo è quello di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale del loro paese.
In data 22 gennaio 2008 l'Università di Milano Bicocca le ha assegnato la laurea honoris causa in biotecnologie industriali.
Rita Levi Montalcini muore alla straordinaria età di 103 anni il 30 dicembre 2012 a Roma.
Origine ed Evoluzione del nucleo accessorio del Nervo abducente nell'embrione di pollo, Tip. Cuggiani, 1942.
Cantico di una vita, Raffaello Cortina Editore, 2000
La galassia mente, Baldini & Castoldi, 1999
L' asso nella manica a brandelli, Baldini & Castoldi, 1998
Senz'olio contro vento, Baldini & Castoldi, 1996
Per i settanta anni della Enciclopedia italiana, 1925-1995, Istituto della Enciclopedia italiana, 1995
Il tuo futuro, Garzanti, 1993
NGF : apertura di una nuova frontiera nella neurobiologia, Roma Napoli, 1989
Sclerosi multipla in Italia : aspetti e problemi, AISM, 1989
Elogio dell'imperfezione, Garzanti, 1987
Il messaggio nervoso, Rizzoli, 1975
Charlotte Brontë nasce il 21 aprile 1816 a Thornton nello Yorkshire (Inghilterra), terza figlia del Reverendo Patrick Brontë e di Maria Branwell. Il padre era di umili origini, figlio di fittavoli, era però riuscito, grazie alla forza di volontà, a studiare a Cambridge e a prendere gli ordini sacerdotali. Per questo durante la piccola ascesa sociale aveva cambiato alcune volte il suo cognome per nascondere la vera origine: da Brunty a Brontë, passando per Branty. Era un uomo di grandi capacità intellettuali, di animo integro e appassionato, purtroppo anche fortemente egoista. La madre, appartenente a una famiglia agiata metodista, era orfana di entrambi i genitori; aveva un carattere forte e risoluto che aveva mitigato per amore del marito. A pochi anni dalla nascita, la famiglia si trasferì a Haworth, un remoto villaggio nella stessa contea. L'abitazione si trovava presso la canonica della chiesa dove il padre prestava servizio: un edificio che si trovava nell'aperta brughiera distante dal paese e da qualsiasi altra casa, confinante con il cimitero e costantemente battuto dalle raffiche gelide del vento del Nord. Il fascino della natura aspra e selvaggia della vegetazione influenzò tutti i componenti giovani della famiglia, instaurando in loro un rapporto di amore-odio e di dipendenza talmente forte che, anche se Charlotte e i suoi fratelli avevano il desiderio di conoscere il mondo e le sue innumerevoli bellezze, non riuscirono mai a distaccarsi dal loro luogo di origine per più di qualche mese. La madre morì a pochi anni dal trasferimento, dopo un lungo periodo di sofferenza causata dal cancro. Poiché il padre non riuscì a convolare a nuove nozze, la cognata Elisabeth, che non si era mai sposata, si trasferì presso la famiglia della sorella per accudire i nipoti: il carattere della zia non era molto espansivo e non era in grado di dare ai piccoli l'affetto di cui avevano bisogno. La figura materna venne allora sostituita da Tabby, la governante, che si prese cura di loro come fossero suoi figli, non adulandoli mai, ma cercando in ogni modo di favorirli. Furono proprio i suoi racconti, favole e leggende i primi semi della feconda vena artistica dei piccoli Brontë. Charlotte era piccola di statura, con folti capelli che le incorniciavano il viso, il naso pronunciato e la bocca mal disegnata, in compenso i suoi occhi scuri erano talmente penetranti che catturavano l'attenzione. Il suo aspetto fisico fu sempre per lei un grave problema che non riuscì a superare mai completamente: le sembrava che tutti la guardassero e la giudicassero brutta per la non perfetta armonia del volto e questo le causava un forte disagio soprattutto quando doveva conoscere gente nuova. Le basi della sua educazione furono poste dal padre che faceva da maestro a tutti i suoi figli, assegnando loro lezioni e facendogliele ripetere, privilegiando l'unico figlio maschio Branwell. Nel tempo questo metodo si rivelò inadeguato; così nel 1824 il reverendo, pensando di fare il loro bene, affidò le figlie al collegio femminile del Reverendo Wilson. La disciplina era assai severa e rigorosa per inculcare nelle menti delle giovani una ferrea austerità interiore, il regime oltremodo frugale: le due sorelle più famose, Charlotte ed Emily, per opporsi alle restrizioni patite, svilupparono una personalità autonoma e ribelle. Le condizioni climatiche e igienico-sanitarie non erano delle migliori: si pativano molti stenti, Elisabeth e Maria si ammalarono gravemente e, di ritorno a casa, morirono nel giro di poco tempo. Charlotte ed Emily ritornarono comunque a scuola, la sorella maggiore capì, allora, l'importanza di quell'istruzione sia per il suo talento sia per la vita futura. Tornate a Haworth dopo l'ennesima epidemia che afflisse le alunne della scuola, la loro istruzione proseguì per un certo periodo a casa: furono istruite dalla zia per i lavori prettamente femminili e dal padre per l'aspetto culturale-politico: il reverendo discuteva con loro delle notizie che giungevano dai giornali locali, in maniera vigorosa e precisa esponeva le sue idee tanto da influenzare i primi componimenti dei figli. La biblioteca paterna era ricca di opere considerate classiche e contemporanee: Scott, Coleridge, Wordsworth e Byron. Crescendo i giovani sfruttarono anche la biblioteca circolante di Keighley, la biblioteca privata della famiglia Heaton, che conoscevano bene, e i libri della scuola serale per artieri del paese. Ben presto Charlotte si rese conto del grave carico che avrebbe dovuto portare sulle sue sole spalle: sorella maggiore di orfani di madre, doveva consigliare e confortare tutti i fratelli più piccoli. Successivamente Charlotte studiò presso la scuola di Miss Wooler a Roe Head dove ritornò più tardi in qualità d'insegnante grazie, probabilmente, all'intervento economico della signorina Firth, amica di famiglia che possedeva una certa agiatezza. Tale scuola era il luogo più adatto a lei, dato l'esiguo numero di studentesse che permetteva l'insegnamento individualizzato, per appropriarsi di quegli strumenti atti a renderla un'istitutrice. Iniziò poi una serie di problemi legati soprattutto alla instabilità economica, da cui i fratelli Brontë cercarono una valida fuga tuffandosi nella loro passione letteraria, dedicandosi a scrivere diari, poesie e racconti; trascendendo spazio e tempo, trovavano nell'isolamento un rifugio sicuro dove esercitare la loro immaginazione. Charlotte, anche se amava poco l'insegnamento poiché dava poche soddisfazioni, decise di lavorare presso varie famiglie in qualità di governante e istitutrice. Questi erano gli unici lavori ammessi e rispettabili per una donna che aveva bisogno di mantenersi. Ben presto Charlotte ed Emily, stanche della loro situazione, pensarono di mettersi in proprio: volevano aprire una scuola per fanciulle, con pensionato annesso, di modo che tutte e tre insieme, Charlotte, Emily e Anne, non entusiaste dei loro rispettivi lavori, potessero tornare a casa e restarci mantenendosi. Dopo aver saputo che Mary Tailor, amica di Charlotte, aveva frequentato una scuola di perfezionamento a Bruxelles con la sorella, rimanendo entusiasta sia dell'insegnamento sia delle esperienze vissute, per avere una opportunità in più, decisero di recarvisi anche Charlotte e Emily, alloggiando presso il pensionato Heger, meno costoso, per cercare di migliorare la loro educazione, cultura, soprattutto la conoscenza del francese e del tedesco, e Charlotte anche dell'italiano. Charlotte vi rimase anche un periodo come insegnante di inglese, ottenendo un diploma che certificava la sua idoneità a insegnare il francese e arricchendo notevolmente le sue capacità letterarie. Infatti, l'esperienza belga fu fondamentale per lo sviluppo artistico dell'autrice: l'esperienza di quegli anni la rese capace di scrivere i successivi romanzi, maturando "i germi letterari espressi fino ad allora in forme inadeguate e puerili". Il progetto sfumò per la mancanza di denaro, per i problemi di salute del padre che richiedeva continua assistenza e soprattutto per la mancanza di alunne. Infatti, Charlotte aveva deciso che prima di affrontare qualunque spesa sarebbe stato opportuno rendere noti i programmi della scuola e attendere delle risposte, che purtroppo non arrivarono mai. Nel 1844 Charlotte fu costretta a tornare a Haworth sia per la crescente cecità del padre, sia per il disagio del fratello maggiore che, non essendo riuscito a far carriera sprofondava sempre più nel tunnel dell'alcol e dell'oppio, diventando un incubo per tutta la famiglia. Tra il 1846 e il 1853 scrisse e pubblicò i suoi romanzi più famosi e alcune poesie. Negli stessi anni morirono in poco tempo Branwell, il fratello maggiore, Emily e Anne per consunzione. Per scappare dal dolore provocato dai numerosi lutti Charlotte si recò da allora spesso a Londra dove, grazie al suo carattere socievole, strinse numerose amicizie, tra cui quella con Thackeray, famosissimo scrittore noto per "Vanity Fair", ed Elisabeth Gaskell, scrittrice e sua futura biografa. Ormai autrice famosa, la sua vita cambiò, il mondo letterario londinese l'avrebbe accolta a braccia aperte, ma la sua entrata nei circoli letterari produsse solo sgomento: ci si aspettava una donna spregiudicata e mascolina non certo una timida, goffa provinciale intransigente. Infatti, il carattere riservato, causandole forti emicranie e nausee, non le permetteva di godere appieno di questi nuovi stimoli. Nonostante la scarsa avvenenza fisica e il costante senso di inadeguatezza, a Londra molti uomini di una certa cultura furono attratti da lei, tra cui anche James Taylor, socio della ditta Smith e Elder, editori di Charlotte, che venne però rifiutato per una certa volgarità di alcuni suoi atteggiamenti. Benché Londra potesse offrirle molto, Charlotte preferì di gran lunga la sua solitaria dimora da lei considerata il suo rifugio. Ora la sua esistenza correva come su due binari paralleli: la vita di Currer Bell, pseudonimo maschile usato dalla scrittrice, e quella di donna. Fosse stata un uomo avrebbe potuto dedicarsi esclusivamente all'attività letteraria ma in quanto donna non poteva fare ciò. Sebbene ormai sola, Charlotte rifiutò per l'ennesima volta un possibile matrimonio. Era il turno del Reverendo Arthur Bell Nicholl, coadiutore del padre da diversi anni; ella intrattenne con lui, in seguito, una fitta corrispondenza grazie a cui, finalmente, Nicholl riuscì a conquistare il suo affetto e la sua stima. Dopo aver nascosto la loro relazione e lottato più di un anno contro il padre, che aveva un'opinione amara e scoraggiante del matrimonio, nel 1854 si sposarono. Trascorsero la luna di miele in Irlanda, dove Charlotte conobbe i parenti del marito e di lui scoprì nuove qualità che la resero ancora più felice e sicura del passo che aveva fatto, anche perché Nicholl voleva che lei partecipasse a tutto ciò che era il suo lavoro in parrocchia. La grande scrittrice morì l'anno successivo, il 31 marzo 1855, a seguito di un'affezione polmonare dopo essere stata costretta a letto per disturbi legati alla gravidanza; venne sepolta accanto agli altri membri della sua famiglia sotto il pavimento della chiesa di Haworth. Terminava così il suo desiderio di vita normale appena intrapreso, legato alla famiglia e ai figli, senza più alcuna velleità artistica.
Opere di Charlotte Brontë:
- "Jane Eyre" (1847)
- "Shirley" (1849)
- "Villette" (1853)
- "The Professor" (scritto prima di "Jane Eyre" ma rifiutato da molti editori; pubblicato postumo nel 1857)
Artista e inventore italiano
DATA DI NASCITA
LUOGO DI NASCITA
DATA DI MORTE
Lunedì 2 maggio 1519 (a 67 anni)
LUOGO DI MORTE
Tra Empoli e Pistoia, sabato 15 aprile 1452, nel borgo di Vinci nasce Leonardo di Ser Piero d'Antonio. Il padre, notaio, l'ebbe da Caterina, una donna di Anchiano che sposerà poi un contadino. Nonostante fosse figlio illegittimo il piccolo Leonardo viene accolto nella casa paterna dove verrà allevato ed educato con affetto. A sedici anni il nonno Antonio muore e tutta la famiglia, dopo poco, si trasferisce a Firenze.
La precocità artistica e l'acuta intelligenza del giovane Leonardo spingono il padre a mandarlo nella bottega di Andrea Verrocchio: pittore e scultore orafo acclamato e ricercato maestro. L'attività esercitata da Leonardo presso il maestro Verrocchio è ancora da definire, di certo c'è solo che la personalità artistica di Leonardo comincia a svilupparsi qui.
Possiede una curiosità senza pari, tutte le disclipline artistiche lo attraggono, è un acuto osservatore dei fenomeni naturali e grandiosa è la capacità di integrarle con le sue cognizioni scientifiche.Nel 1480 fa parte dell'accademia del Giardino di S. Marco sotto il patrocinio di Lorenzo il Magnifico. E' il primo approccio di Leonardo con la scultura. Sempre un quell'anno riceve l'incarico di dipingere l'Adorazione dei Magi per la chiesa di S. Giovanni Scopeto appena fuori Firenze (oggi quest'opera si trova agli Uffizi). Tuttavia, l'ambiente fiorentino gli sta stretto.
Si presenta allora, con una lettera che rappresenta una specie di curriculum in cui descrive le sue attitudini di ingegnere civile e costruttore di macchine belliche, al Duca di Milano Lodovico Sforza, il quale ben lo accoglie. Ecco nascere i capolavori pittorici: la Vergine delle Rocce nelle due versioni di Parigi e di Londra, e l'esercitazione per il monumento equestre in bronzo a Francesco Sforza. Nel 1489-90 prepara le decorazioni del Castello Sforzesco di Milano per le nozze di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d'Aragona mentre, in veste di ingegnere idraulico si occupa della bonifica nella bassa lombarda. Nel 1495 inizia il famoso affresco del Cenacolo nella chiesa Santa Maria delle Grazie.
Questo lavoro diventa praticamente l'oggetto esclusivo dei suoi studi. Verrà terminata nel 1498. L'anno successivo Leonardo fugge da Milano perché invasa dalle truppe del re di Francia Luigi XII e ripara a Mantova e Venezia.
Nel 1503 è a Firenze per affrescare , insieme a Michelangelo, il Salone del Consiglio grande nel Palazzo della Signoria. A Leonardo viene affidata la rappresentazione della Battaglia di Anghiari che però non porterà a termine, a causa della sua ossessiva ricerca di tecniche artistiche da sperimentare o da innovare.
Ad ogni modo, allo stesso anno è da attribuire la celeberrima ed enigmatica Monna Lisa, detta anche Gioconda, attualmente conservata al museo del Louvre di Parigi.
Nel 1513 il re di Francia Francesco I lo invita ad Amboise. Leonardo si occuperà di progetti per i festeggiamenti e proseguirà con i suoi progetti idrologici per alcuni fiumi di Francia. Qualche anno dopo, precisamente nel 1519, redige il suo testamento, lasciando tutti i suoi beni a Francesco Melzi, un ragazzo conosciuto a 15 anni (da qui, i sospetti sulla presunta omosessualità di Leonardo).
Il 2 Maggio 1519 il grande genio del Rinascimento spira e viene sepolto nella chiesa di S. Fiorentino ad Amboise. Dei sui resti non vi è più traccia a causa delle profanazioni delle tombe avvenute nelle guerre di religione del XVI secolo.
Il battesimo di Cristo (1470)
Paesaggio d'Arno (disegno, 1473)
Madonna del Garofano (1475)
L'Annunciazione (1475)
Ritratto di Ginevra de' Benci (1474-1476)
L'adorazione dei Magi (1481)
Madonna Litta (1481)
Belle Ferronnière (1482-1500)
Vergine delle Rocce (1483-1486)
Dama con l'ermellino (1488-1490)
Ultima cena (Cenacolo) (1495-1498)
Madonna dei Fusi (1501)
San Giovanni Battista (1508-1513)
Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino (1508 circa)
La Gioconda (Monna Lisa) (1510-1515)
Bacco (1510-1515)
Inventore italiano del telefono
DATA DI NASCITA
LUOGO DI NASCITA
DATA DI MORTE
Venerdì 18 ottobre 1889 (a 81 anni)
LUOGO DI MORTE
Il grande scienziato italiano Antonio Meucci nasce a San Frediano, il quartiere popolare della città di Firenze, il 13 aprile 1808. La sua è una famiglia povera: non può completare gli studi presso l'Accademia di Belle Arti e inizia a lavorare molto giovane; svolge varie professioni, da quella di impiegato doganiere, a quella di meccanico di teatro. Nell'ambiente teatrale incontra Ester Mochi, sarta, che diventerà sua moglie.
Antonio Meucci si appassiona fin da giovane all'elettricità fisiologica e animale. Segue anche la politica: è coinvolto nei moti rivoluzionari del 1831 e, a causa delle sue convinzioni politiche per le sue idee liberali e repubblicane, sarà costretto a lasciare il granducato di Toscana. Dopo lunghe peregrinazioni nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie, Meucci emigra a Cuba, dove continua a lavorare come meccanico teatrale. Nel 1850 si trasferisce negli Stati Uniti, stabilendosi nella città di New York.
A New York Meucci apre una una fabbrica di candele. Qui incontra Giuseppe Garibaldi, il quale lavorerà per lui: tra i due nasce un'importante amicizia. La collaborazione dei due illustri italiani è testimoniata ancora oggi dal Museo newyorcheese "Garibaldi - Meucci".
Meucci porta avanti i suoi studi sull'apparecchio telefonico già da tempo, ma è nel 1856 che l'invenzione viene completata con la realizzazione di un primo modello: l'esigenza è quella di mettere in comunicazione il suo ufficio con la camera da letto della moglie, dove è costretta da una grave malattia. Un appunto del 1857 di Meucci descrive così il telefono: «consiste in un diaframma vibrante e in un magnete elettrizzato da un filo a spirale che lo avvolge. Vibrando, il diaframma altera la corrente del magnete. Queste alterazioni di corrente, trasmesse all'altro capo del filo, imprimono analoghe vibrazioni al diaframma ricevente e riproducono la parola».
Lo scienziato Meucci ha le idee chiare, tuttavia mancano i mezzi economici per sostenere la propria attività. La fabbrica di candele fallisce e Meucci cerca finanziamenti presso facoltose famiglie in Italia, ma non ottiene i risultati auspicati.
Ben presto arrivano a mancare i soldi anche per la propria sussistenza: Meucci può contare solo sull'aiuto e la solidarietà di altri emigrati italiani conosciuti.
Gli accade inoltre di rimanere vittima di un incidente su una nave: Meucci è costretto a letto per mesi. La moglie Ester sarà costretta a vendere tutte le attrezzature telefoniche a un rigattiere per soli 6 dollari.
Meucci non demorde e nel 1871 decide di richiedere il brevetto per la propria invenzione, che chiama "teletrofono". Il problema economico si ripresenta: con i 20 dollari che ha disposizione non può nemmeno permettersi di pagare l'assistenza dell'avvocato che ne esige 250. La strada alternativa è quella di ottenere una sorta di brevetto provvisorio, il cosiddetto caveat, che va rinnovato ogni anno al prezzo di 10 dollari. Meucci riuscirà a pagare la somma solo fino al 1873.
Nello stesso periodo, con un'ampia documentazione sulle sue ricerche, Meucci si rivolge alla potente American District Telegraph Company di New York, richiedendo la possibilità di utilizzare le linee per i propri esperimenti. La compagnia non coglie le potenzialità economiche dello strumento e procura allo scienziato italiano una nuova delusione.
Nel 1876 Alexander Graham Bell presentato domanda di brevetto per il suo apparecchio telefonico. Gli anni successivi della vita di Meucci saranno spesi in una lunga vertenza per rivendicare la paternità dell'invenzione.
Meucci trova una sponsorizzazione da parte della Globe Company, che intraprende una causa con la Bell Company per infrazione del brevetto.
La causa termina il 19 luglio 1887 con una sentenza che, pur riconoscendo alcuni meriti ad Antonio Meucci, dà ragione a Bell. "Nulla dimostra - recitava la sentenza - che Meucci abbia ottenuto qualche risultato pratico a parte quello di convogliare la parola meccanicamente mediante cavo. Impiegò senza dubbio un conduttore meccanico e suppose che elettrificando l'apparecchio avrebbe ottenuto risultati migliori". In sintesi la sentenza affermerebbe che Meucci avrebbe inventato il telefono, ma non quello elettrico.
Antonio Meucci muore all'età di 81 anni, il 18 ottobre 1889, poco prima che la società Globe presenti ricorso contro la sentenza. La Corte Suprema statunitense deciderà per l'archiviazione del caso.
Per oltre un secolo, ad eccezione dell'Italia, Bell è stato considerato l'inventore del telefono. Il giorno 11 giugno 2002 il congresso degli Stati Uniti ha ufficialmente riconosciuto Antonio Meucci come primo inventore del telefono.
Forse non tutti sanno che il telefono non è che solo una delle invenzioni cui Meucci si dedicò. Un documento venuto alla luce in anni recenti prova che Meucci scoprì il carico induttivo delle linee telefoniche trent'anni prima che esso fosse brevettato e adottato nelle reti Bell. Altre prove che dimostrano la condizione di precursore sono contenute nelle anticipazioni di Meucci in merito al dispositivo antilocale, alla segnalazione di chiamata, alla riduzione dell'effetto pellicolare nei conduttori di linea, e alla silenziosità dell'ambiente e riservatezza.
vedi pagina di Astronomia in Scienze
Poeta francese
DATA DI NASCITA Lunedì 9 aprile 1821
LUOGO DI NASCITA Parigi, Francia
DATA DI MORTE Sabato 31 agosto 1867 (a 46 anni)
LUOGO DI MORTE Parigi, Francia
Biografia • Fiori malsani
Charles Baudelaire nasce il 9 aprile del 1821 a Parigi, in una casa del Quartiere Lartino, dal secondo matrimonio dell'ormai sessantaduenne Joseph-Francois, funzionario al Senato, con la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays. La madre, in seguito alla morte prematura del marito, sposa un aitante tenente colonnello, il quale, a causa della proprio freddezza e rigidità (nonché del perbenismo borghese di cui era intriso), si guadagnerà l'odio del figliastro. Nel nodo doloroso dei rapporti con la famiglia e, in primo luogo, con la madre, si gioca gran parte dell'infelicità e del disagio esistenziale che accompagnerà Baudelaire per tutta la vita. Dopotutto, come fra l'altro testimonia l'intenso epistolario rimasto, egli chiederà sempre aiuto e amore alla madre, quell'amore che crederà mai ricambiati, perlomeno rispetto all'intensità della domanda.
Nel 1833 entra al Collège Royal per volontà del patrigno. Nel giro di poco tempo, però, la fama di dissoluto e scavezzacollo prende a circolare all'interno del collège fino ad arrivare, inevitabilmente, alle orecchie dell'odiato patrigno il quale, per ripicca, lo obbliga ad imbarcarsi sul Paquebot des Mers du Sud, una nave che faceva rotta nelle Indie.
Questo viaggio ha su Charles un effetto inaspettato: gli fa conoscere altri mondi e culture, lo pone a contatto con gente di tutte le razze, facendogli scoprire una dimensione lontana dalla pesante decadenza mondana e culturale che grava sull'Europa. Da questo, dunque, nasce il suo grande amore per l'esotismo, lo stesso che filtra dalle pagine della sua opera maggiore, i celeberrimi "Fiori del male".
Ad ogni modo, dopo appena dieci mesi interrompe il viaggio per fare ritorno a Parigi, dove, oramai maggiorenne, entra in possesso dell'eredità paterna, che gli permette di vivere per qualche tempo in grande libertà.
Nel 1842, dopo aver conosciuto un grande poeta come Gerard de Nerval, si avvicina soprattutto a Gautier, e gli si affeziona in maniera estrema. La simbiosi tra i due è totale e Charles vedrà nel più anziano collega una sorta di guida morale e artistica. Sul fronte degli amori femminili, invece, dopo aver conosciuto la mulatta Jeanne Duval, si scatena con lei un'intensa e appassionata relazione. Contrariamente a quanto spesso succede agli artisti di quegli anni, il rapporto è solido e dura a lungo. Charles trae linfa vitale da Jeanne: lei è tutrice e amante ma anche musa ispiratrice, non solo per ciò che riguarda l'aspetto "erotico" e amoroso della produzione baudeleriana, ma anche per quel timbro intensamente umano che traspare da molte sue poesie. In seguito, poi, sarà amorevole e presente nei momenti tormentosi della paralisi che colpirà il poeta.
Intanto, la vita che Baudelaire conduce a Parigi non è certo all'insegna della parsimonia. Quando la madre, infatti, scopre che ha già speso circa la metà del lascito paterno, consigliata dal secondo marito intraprende una procedura per poter ottenere un curatore a cui venga affidato il compito di amministrare con maggiore accuratezza il resto dell'eredità. Da ora in avanti, Baudelaire sarà costretto a chiedere al proprio tutore persino i soldi per comprarsi i vestiti.
Il 1845 segna il suo esordio come poeta, con la pubblicazione di "A una signora creola", mentre, per vivere, è costretto a collaborare a riviste e giornali con articoli e saggi che furono poi raccolti in due libri postumi, "L'Arte romantica" e "Curiosità estetiche".
Nel 1848 partecipa ai moti rivoluzionari di Parigi mentre, nel 1857, pubblica presso l'editore Poulet-Malassis i già citati "I fiori del male", raccolta che comprende un centinaio di poesie.
La rivelazione di questo capolavoro assoluto sconcerta il pubblico del tempo. Il libro viene indubbiamente notato e fa parlare di sè, ma più che di successo letterario vero e proprio, forse sarebbe più giusto parlare di scandalo e di curiosità morbosa. Sull'onda della chiacchera confusa e del pettegolezzo che circonda il testo, il libro viene addirittura processato per immoralità e l'editore si vede costretto a sopprimere sei poesie.
Baudelaire è depresso e la sua mente sconvolta. Nel 1861, tenta il suicidio. Nel 1864, dopo un fallito tentativo di farsi ammettere all'Acadèmie francaise, lascia Parigi e si reca a Bruxelles, ma il soggiorno nella città belga non modifica la sua difficoltà di rapporti con la società borghese.
Malato, cerca nell'hashish, nell'oppio e nell'alcol il sollievo alla malattia che nel 1867, dopo la lunga agonia della paralisi, lo ucciderà a soli 46 anni. A quelle esperienze, e alla volontà di sfuggire alla realtà, sono ispirati i "Paradisi artificiali" editi sempre nell'"annus horribilis" del 1861. È sepolto nel cimitero di Montparnasse, insieme alla madre e al detestato patrigno. Nel 1949 la Corte di Cassazione francese riabilita la sua memoria e la sua opera.
DATA DI NASCITA Giovedì 8 aprile 1909 a Denver, Stati Uniti
DATA DI MORTE Domenica 8 maggio 1983 (a 74 anni) a Los Angeles, Stati Uniti
John Fante nasce l'8 aprile del 1909 a Denver, in Colorado, figlio di Nicola Fante, di origini abruzzesi, e di Mary, di origini lucane. Frequenta diverse scuole cattoliche a Boulder, prima di iscriversi alla University of Colorado, che però lascia nel 1929 per trasferirsi in California e concentrarsi sulla scrittura. John Fante inizia a scrivere dei luoghi e delle persone in cui si imbatte, da Wilmington a Manhattan Beach, da Long Beach al distretto Bunker Hill di Los Angeles. Così vengono pubblicate le sue prime storie, mentre sua madre e i suoi fratelli si trasferiscono vicino a lui, a Roseville.
Dopo numerosi tentativi di scarso successo di pubblicare i suoi racconti su "The American Mercury", celebre rivista letteraria, Fante riesce a far accettare la sua storia "Altar Boy" dall'editor del magazine, H. L. Mencken, che gli invia una lettera che recita così:
"Caro sig. Fante, cos'ha contro lo scrivere a macchina? Se trascriverà il suo manoscritto a macchina sarò contento di acquistarlo".
Da quel momento John Fante intraprende a tutti gli effetti la carriera di scrittore.
Arrivando alla fama soprattutto grazie ad "Ask the Dust", "Chiedi alla polvere", romanzo semi-autobiografico che attualmente è ritenuto il terzo capitolo della cosiddetta "Saga di Arturo Bandini", presente come alter ego dell'autore in quattro romanzi: "Wait Until Spring, Bandini" ("Aspetta primavera, Bandini"), del 1938; "The Road to Los Angeles" (in realtà scritta prima di "Wait Until Spring, Bandini", anche se verrà pubblicato solo nel 1985, due anni dopo la morte di John Fante); il già citato "Ask the Dusk"; e infine "Dreams from Bunker Hill" ("Sogni di Bunker Hill"), che vedrà la luce negli anni Ottanta.
Fante usa Arturo Bandini come suo alter ego un po' come Charles Bukowski farà con il suo personaggio Henry Chinaski, e lo stesso Bukowski sarà fortemente influenzato dall'opera di Fante. Durante la Seconda Guerra Mondiale, però, John deve fare i conti con un momento di blocco creativo: un po' perché è impegnato in qualità di collaboratore per i servizi di informazione, e un po' perché la famiglia assorbe gran parte del suo tempo (nel 1937 sposa Joyce Smart, che gli darà ben quattro figli).
Gli anni '50 e '60
Negli anni Cinquanta, John Fante pubblica "Full of Life", da cui verrà tratto un film omonimo, con protagonisti Richard Conte e Judy Holliday, che contribuisce a scrivere e che gli vale una nomination ai WGA Awards del 1957 per la categoria Best Written American Comedy (commedia americana meglio scritta).
Nel 1962, invece, partecipa alla sceneggiatura di "Walk on the Wild Side", con Jane Fonda, film ispirato al romanzo di Nelson Algren. Nel corso della sua vita Fante lavora per il cinema diverse volte: se già nel 1935 aveva firmato il soggetto di "Dinky", film di Howard Bretherton e D. Ross Lederman, e nel 1940 quello di "The Golden Fleecing", per la regia di Leslie Fenton, nel 1956 era stata la volta di "Jeann Eagles" (titolo italiano, "Un solo grande amore"), di George Sidney, seguito quattro anni più tardi da "Il re di Poggioreale", di Duilio Coletti.
Nel 1962 John Fante scrive anche la sceneggiatura di "The Reclutant Saint" ("Cronache di un convento"), dello stesso regista di "Walk on the Wild Side"; quindi, tra il 1963 e il 1964 sceneggia "My Six Lovers" ("I miei sei amori") di Gower Champion e un episodio del telefilm "The Richard Boone Show" intitolato "Capitain Al Sanchez".
Nella seconda metà degli anni Sessanta, inoltre, partecipa alla sceneggiatura del film di John Berry "Maya" e del film di Don Taylor "Something for a Lonely Man".
Dopo essersi ammalato di diabete, nel 1977 l'autore americano pubblica un nuovo romanzo, intitolato "The Brotherhood of the Grape" ("La confraternita dell'uva").
Un anno più tardi ha l'occasione di conoscere Charles Bukowski, che dichiara di ritenerlo lo scrittore migliore che abbia mai letto, il suo dio e il narratore americano più maledetto. Lo stesso Bukowski gli domanda l'autorizzazione per scrivere una prefazione di una ristampa di "Chiedi alla polvere", per poi minacciare la Black Sparrow Books, la casa editrice da cui le opere di Fante avrebbero dovuto essere ristampate, di non consegnare loro il suo nuovo romanzo.
Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, quindi, Fante assiste a una nuova pubblicazione dei suoi scritti, e ritrova una speranza che la cecità causata dal diabete gli aveva tolto.
In effetti, le sue condizioni di salute peggiorano sempre di più. E' costretto a subire l'amputazione di tutte e due le gambe. Detta alla moglie "Sogni di Bunker Hill", conclusione della saga di Arturo Bandini.
John Fante muore l'8 maggio del 1983 in un sobborgo di Los Angeles, Woodland Hills, in una stanza della clinica Motion Picture and Television Country House, lasciando un gran numero di inediti che negli anni e nei decenni successivi saranno progressivamente riscoperti.
Nel 1987 a John Fante viene assegnato un premio postumo dal PEN americano, mentre due anni più tardi è distribuito al cinema il film "Aspetta primavera, Bandini". Del 2006 è il film "Chiedi alla polvere" (Ask the Dust), diretto da Robert Towne, con protagonisti Colin Farrell e Salma Hayek.
DATA DI NASCITA Sabato 7 aprile 1770 LUOGO DI NASCITA Cockermouth, Inghilterra
DATA DI MORTE Martedì 23 aprile 1850 (a 80 anni) LUOGO DI MORTE Rydal Mount, Inghilterra
Biografia • La poesia e la lingua della gente
William Wordsworth nasce il 7 aprile del 1770 a Cookermouth nella regione del Cumberland inglese. La sua infanzia, a differenza di quella di molti poeti romantici,è serena e felice grazie all'amore materno e alla disponibilità economica consentita dal padre che svolge l'attività di avvocato ed esattore delle tasse.
La felicità di cui il giovane William gode immerso nella natura, che impara ad amare visceralmente proprio in questi anni, viene interrotta prima dalla morte della madre e poi dalla morte del padre, a distanza l'uno dall'altro di cinque anni. Alla morte del padre ha solo tredici anni e con l'aiuto degli zii entra in una scuola locale per poi continuare i suoi studi all'Università di Cambridge.
Il debutto come poeta di William Wordsworth avviene nel 1787, quando pubblica il sonetto "The European magazine". Nello stesso anno si iscrive all'università, laureandosi nel 1791.
Nel 1790 compie un viaggio in Svizzera e in Francia, attraversate rigorosamente a piedi. E' però nel corso del suo secondo viaggio in Francia, che la vita di Wordsworth subisce un contraccolpo. In Francia imperversa la rivoluzione ed egli non rimane indifferente, influenzato dal capitano Michel Beaupuy, di cui è diventato amico, finisce per schierarsi dalla parte dei girondini fino quasi ad essere coinvolto fisicamente nella battaglia in quel di Orléans.
Non si lascia scuotere negativamente dalle stragi del Terrore, convinto che sia necessaria una totale rigenerazione politica. Nel momento in cui scopre però le mire imperialistiche francesi ne rimane profondamente sconvolto. La crisi personale che vive in questo periodo diventa protagonista del dramma "The Borderers" (1795). Ad acuire la sua confusione c'è anche la relazione con la giovane Annette Vallon, dalla quale ha una figlia, Caroline, che riconosce pur non sposando la sua amante.
Intanto i pochi soldi con cui vive finiscono, così è costretto a tornare in Inghilterra, ma il dolore del distacco e il senso di colpa per aver abbandonato la figlia rimarranno sempre vividi nel suo animo, dando vita a molti componimenti sul tema della donna abbandonata. Si ritira così a vivere in campagna assieme alla inseparabile sorella Dorothy.
Nel 1797 William Wordsworth incontra Samuel Taylor Coleridge e tra i due nasce una profonda amicizia che li porta anche a lavorare insieme. Il frutto delle loro fatiche poetiche viene pubblicato nel 1798 con il titolo "Lyrical Ballads". L'intento con cui Wordsworth scrive le sue poesie è quello di dipingere la vita ordinaria delle persone utilizzando la loro lingua, vale a dire la lingua del vivere quotidiano. Chiarisce la sua poetica nella importante prefazione alla seconda edizione delle "Lyrical Ballads" (1800).
Gli anni successivi sono caratterizzati da un impegno poetico sempre più totale, intervallato solo da una serie di viaggi in Italia, Belgio, Svizzera e Germania. Wordsworth vive nella regione dei laghi, a Grasmere, conducendo un'esistenza ritirata e povera, ma il successo seguito alla pubblicazione delle Lyrical Ballads gli consente di inviare dei soldi ad Annette e alla figlia.
Nel 1802 sposa Mary Hutchinson. La nuova moglie segna l'allontanamento definitivo dalla Francia e da Annette. Nell'anno 1810 si consuma anche la separazione da Samuel Taylor Coleridge, resa necessaria da divergenze poetiche e personali, tra cui la molesta dipendenza dall'alcol dell'amico.
Nell'ultimo periodo diviene di vedute sempre più conservatrici, avvicinandosi anche all'ortodossia cristiana come testimoniato dai suoi "Ecclesiastical Sonnets" (1822). Il suo cambiamento nasce dalla cocente delusione per le mire espansionistiche francesi. Egli si è convinto che la Francia potrebbe essere il faro del cambiamento democratico dell'Europa, ma le guerre napoleoniche, causa anche della tragica morte del fratello John, morto annegato, lo inducono a riconsiderare la monarchia inglese, abbracciandone gli intenti.
Wordsworth compone intanto in questo periodo, sottoponendolo ad infinite revisioni, il suo poema più celebre insieme a "Tintern Abbey": si tratta di "The prelude" (Il preludio), pubblicato postumo ad opera della moglie. Pubblica infine nel 1807 "Poems in two volumes".
Gli anni più felici da un punto di vista poetico sono per il poeta inglese quelli compresi tra il 1830 e il 1843, anno quest'ultimo in cui riceve il titolo di Poeta Laureato. Paradossalmente, questi sono però anche gli anni peggiori da un punto di vista personale: egli assiste impotente alla morte di due dei suoi cinque figli e alla paralisi dell'amata sorella Dorothy, nel 1829.
William Wordsworth muore all'età di 80 anni il 23 aprile del 1850 a Rydal Mount, luogo dove ha vissuto per ben trentotto anni.
Sabato 31 marzo 1685 LUOGO DI NASCITA Eisenach, Germania
DATA DI MORTE Martedì 28 luglio 1750 (a 65 anni) LUOGO DI MORTE Lipsia, Germania
CAUSA Collasso cardiocircolatorio
Johann Sebastian Bach nasce il 31 marzo 1685 a Eisenach, una cittadina tedesca che all'epoca contava circa seimila abitanti.
L'infanzia di Bach è poverissima di notizie, eccezion fatta per alcuni avvenimenti familiari. L'aneddotica tradizionale vuole Sebastian intento ad apprendere i primi rudimenti musicali dal padre Ambrosius, che gli avrebbe insegnato a suonare il violino e la viola, o occupato a voltare le pagine dei manoscritti mentre il secondo cugino Johann Christoph suonava l'organo nella Georgenkirche.
Dal 1693 al 1695 frequenta la scuola di latino di Eisenach e dopo la morte dei genitori, avvenuta proprio in quegli anni, viene accolto a Ohrdruf dal fratello Johann Christoph, che gli impartisce con l'occasione anche lezioni di organo e clavicembalo. Nel 1700 lascia la famiglia del fratello per recarsi a Luneburg, dove entra a far parte del coro della Michaeliskirche e ha modo di conoscere G. Bohm, un eminente organista, nonché compositore, del tempo.
Frequenta inoltre la biblioteca locale, che all'epoca disponeva di un nutrito archivio con le musiche dei secoli precedenti. Dopo essere stato per poco tempo violinista presso la corte di Sassonia-Weimar, nel 1703 diviene organista titolare di S. Bonifacio ad Arnstadt e, in breve tempo, acquisisce una vasta rinomanza come virtuoso. Nel 1705 intraprende un viaggio poi diventato leggendario: si reca infatti a Lubecca per ascoltare il famoso organista Dietrich Buxtehude, che Sebastian ammirava particolarmente per le sue composizioni e di cui aveva tanto sentito parlare, affrontando il lungo percorso (400 km) totalmente a piedi!
Uno degli obiettivi si Bach, fra l'altro, era anche quello di sostituire, un giorno, il grande e ammirato Maestro al seggio dello stesso organo. Purtroppo, tale desiderio non ebbe mai modo di concretizzarsi. Il giovane musicista trova così un'altra sistemazione come organista di S. Biagio a Muhlhausen, dove in seguito si sistema con la cugina Maria Barbara. Qui, nella solitudine e tranquillità della cittadina tedesca, compone un gran numero di pezzi per organo e le prime Cantate (ossia brani da eseguire durante la funzione sacra), che ci sono pervenute.
Contrariamente però a quello che ci ha tramandato la storiografia ufficiale, Bach non aveva affatto un carattere facile e conciliante. Alcuni dissidi con i superiori, dunque, lo inducono alle dimissioni e al trasferimento presso la corte di Sassonia-Weimar come organista e musico di camera (violinista e violista). A Weimar continua la composizione di musiche organistiche, particolarmente gradite al duca, e ha modo di studiare le contemporanee musiche italiane, trascrivendo in particolare concerti di Antonio Vivaldi (che Bach ammirava assai), A. e B. Marcello e altri; copia fra l'altro le opere di un altro grande italiano, quel Frescobaldi che con i "Fiori musicali" rappresentava uno dei vertici dell'arte clavicembalistica e tastieristica in genere.
Poco valutato come compositore, la fama di Bach dilaga invece come insuperabile organista, fama consacrata dai concerti che tiene nel 1713-17 a Dresda, Halle, Lipsia e in altri centri. I fortunati ascoltatori rimangono di volta in volta rapiti, commossi o sconvolti dalle capacità esibite dal genio, in grado di plasmare l'anima dell'uditorio a seconda che voglia essere patetico o semplicemente virtuosistico.
I motivi per cui Bach abbandona il posto a Weimar, nel 1717, non sono stati ancora definitivamente chiariti. Nello stesso anno assume la carica di maestro di cappella alla corte riformata del principe Leopoldo di Anhalt-Cothen a Kothen, con l'incarico di comporre Cantate d'occasione e musiche concertistiche. Il fatto che la musica sacra non fosse praticata a Kothen (la corte era di confessione calvinista e perciò ostile all'impiego della musica nel culto) gli consente di dedicarsi con maggiore applicazione alla musica strumentale. A quel periodo, infatti, risalgono appunto i sei concerti detti "brandeburghesi" (perchè scritti appunto alla corte del margravio di Brandeburgo), le suites e sonate per strumenti soli o accompagnati e soprattutto molta musica per clavicembalo, fra cui spicca il primo volume del "Clavicembalo ben temperato".
Nel 1721, dopo la morte di Maria Barbara, Bach sposa in seconde nozze la cantante Anna Magdalena Wulcken, figlia di un trombettista locale. Il periodo di Kothen si conclude quindi nel 1723, quando Bach accetta il posto di Kantor nella chiesa di S. Tommaso a Lipsia, lasciato vacante da J. Kuhnau.
Pur continuando a mantenere il titolo di Kappellmeister a Kothen, però, non abbandona più Lipsia, anche se i continui dissidi con i suoi superiori laici ed ecclesiastici gli procurarono non poche amarezze. Durante i primi anni di attività a Lipsia compone un gran numero di cantate sacre e le celeberrime grandi Passioni, ritornando alla musica strumentale solo verso il 1726.
Nel 1729 e fino al 1740 assume la direzione del Collegium Musicum universitario, per il quale compone numerose cantate profane e concerti per uno o più cembali, nonchè molta musica strumentale di vario genere. Il ventennio 1730-50 è occupato dalla composizione della Messa in si minore, alla rielaborazione di sue musiche precedenti, alla soluzione di problemi di contrappunto (esempi illuminanti in tal senso sono il secondo volume del "Clavicembalo ben temperato", i corali organistici della raccolta del 1739 e le "Variazioni Goldberg").
Nel 1747 il re Federico II di Prussia lo invita a Potsdam, riservandogli grandi onori e assistendo ammirato alle sue magistrali improvvisazioni. Tornato a Lipsia, un Bach riconoscente invia al sovrano la cosiddetta "Offerta musicale", rigorosa costruzione contrappuntistica di un tema scritto proprio dall'imperatore. Verso il 1749 la salute del compositore comincia a declinare; la vista si affievolisce sempre più e a nulla valgono le operazioni tentate da un oculista inglese di passaggio a Lipsia.
Ormai completamente cieco, Bach detta la sua ultima, immensa composizione (rimasta purtroppo incompiuta), l'"Arte della fuga" prima di esser colto da collasso cardiaco, sopraggiunto poche ore dopo un prodigioso recupero delle facoltà visive.
Muore il 28 luglio 1750, mentre la sua musica viene riscoperta definitivamente solo nel 1829 grazie ad un'esecuzione di Mendelssohn della "Passione secondo Matteo".
DATA DI NASCITA
LUOGO DI NASCITA
DATA DI MORTE
Mercoledì 31 maggio 1809 (a 77 anni)
LUOGO DI MORTE
Franz Joseph Haydn nasce il 31 marzo 1732 a Rohrau, in Austria. Il padre è Mathias Haydn, un mastro carraio austriaco, la madre invece è una cuoca che lavora presso la dimora dei conti di Harrach. La famiglia Haydn ama la musica, infatti, il padre ama suonare l'arpa e i suoi fratelli, Michael e Johann Evangelist, intraprendono come lui la carriera musicale; Michael diventa un ottimo compositore, mentre Johann Evangelist un tenore lirico.
Dotato di grandi doti musicali, il piccolo Franz Joseph a sei anni inizia a studiare musica a Hainburg an der Donau, dove un suo parente, Johann Matthias Franck gli insegna a suonare il clavicembalo e il violino. Franz è un allievo molto diligente e dimostra tutto il suo valore artistico. Grazie alle sue doti canore inizia a cantare nel coro della chiesa nel ruolo di soprano. Due anni dopo viene notato, per le sue doti canore, dal direttore musicale Georg Von Reutter del Stephansdom di Vienna che gli propone di trasferirsi a Vienna per lavorare all'interno di un coro. Farà parte del coro viennese per nove anni.
L'esperienza da corista presso la Cattedrale di Vienna però non gli sarà molto utile per il futuro, poiché Georg Von Rutter non sarà per lui un bravo insegnante, trascurando gli insegnamenti da impartire ai suoi allievi. Haydn può però apprendere molte cose, avendo la possibilità di conoscere importanti componimenti musicali di celebri artisti.
Nel 1749, a causa del cambiamento della voce, deve lasciare il coro. Da quel momento inizia ad avere problemi economici, poiché non ha un lavoro e un protettore aristocratico che gli permetta di continuare in modo roseo la sua carriera artistica. Affronta con coraggio le difficoltà che incontra e presto, all'età di diciassette anni, riesce finalmente a guadagnarsi da vivere dando lezioni di clavicembalo, esibendosi in occasione di feste e realizzando i suoi primi componimenti musicali sia di carattere sacro sia nel genere musicale strumentale. Nello stesso anno tra l'altro trova anche un'abitazione in cui risiede anche il celebre poeta ufficiale della Corte imperiale di Vienna, Metastasio. Realizza numerosi componimenti musicali con Carl Ditters, il quale sarebbe diventato un celebre compositore.
Haydn vuole approfondire i suoi studi di musica e di lì a poco conosce Nicola Porpora, un importante compositore campano che si è recato a Vienna per un viaggio di piacere. Entra al servizio del compositore napoletano, lavorando al suo seguito come accompagnatore di clavicembalo e come valletto. In cambio ottiene delle lezioni gratuite. Grazie alle lezioni del compositore italiano, apprende tantissimo nello studio della musica.
In questi anni inoltre approfondisce la conoscenza delle opere composte da Carl Philipp Emanuel Bach e incontra l'attore comico Johann Joseph Felix Kurz noto con lo pseudonimo Bernadon. Per lui realizza i componimenti musicali che faranno da sottofondo alla commedia "Il diavolo zoppo", la quale va in scena nel 1753 senza riscuotere grande successo, poiché insulta noti personaggi politici dell'epoca.
Haydn quindi non può trarre benefici dalla commedia, perché dopo la prima non vengono fatte più repliche.
Finalmente trova, come la maggior parte degli artisti, dei protettori provenienti da famiglie aristocratiche; prima lavora come maestro di canto e cembalo per la contessa Thun, poi il conte Karl von Morzin gli propone di lavorare per lui come Musikdirektor e Kammercompositor. Avendo un buon lavoro, compone la sua prima sinfonia. Nel 1760 sposa Maria Anna Keller e di lì a poco viene licenziato dal conte Morzin, colpito da difficoltà economiche.
L'anno successivo però ha la fortuna di essere assunto come assistente Maestro di cappella dall'influente famiglia austriaca Esterhazy, per cui lavorerà per il resto della sua vita, eccetto nel periodo compreso tra il 1791 e il 1795. Lavora insieme al vecchio Maestro di cappella Georg Werner, occupandosi della musica strumentale. Alla morte di Werner diventa il Maestro di cappella degli Esterhazy e ha molti compiti: comporre le musiche, dirigere l'orchestra, preparare lo scenario per le rappresentazioni musicali e suonare.
Alla corte della celebre famiglia aristocratica scrive tantissime sinfonie, potendo esprimere al meglio il suo estro creativo. Per il Teatro degli Esterhazy scrive innumerevoli opere tra cui si ricordano "Le pescatrici", "L'infedeltà delusa", "L'incontro improvviso", "Il mondo della Luna", "La fedeltà premiata", "L'Orlando paladino", "Armida", "Orfeo e Euridice". Per diletto personale compone altre opere di carattere sacro come la messa "Sunt bona mixta malis", "Il Salve Regina", "La Missa Santi Nicolai", "Applausus", "Le Grosse Ogelmesse".
Dal 1779 può vendere le sue opere musicali agli editori e inizia a essere noto alle grandi platee. Presso la corte degli Esterhazy, nello stesso anno, viene rappresenta l'opera musicale da lui realizzata, "La Vera Costanza" a cui partecipa anche l'Imperatore d'Austria Giuseppe II. Due anni dopo ha modo di conoscere Mozart verso cui porta un grande rispetto. Di lì a poco muore il conte Nicola Esterhazy, per cui l'orchestra viene licenziata, mentre Haydn riceve una pensione.
Il compositore può liberamente accettare nuove offerte di lavoro, per cui decide di accettare la proposta fattagli da Johann Peter Salomon. Si trasferisce quindi in Inghilterra, dove riscuote un grande successo in occasione dei suoi concerti. Tra il 1792 e il 1793 conosce Ludwig Van Beethoven durante un viaggio fatto a Bonn. Nei due anni successivi soggiorna ancora a Londra, dove dirige sei nuove sinfonie che ha composto. La platea accorre ai suoi concerti numerosa, provando ammirazione per lui.
Pensa di restare per sempre in Inghilterra, ma presto fa ritorno a Vienna per tornare al servizio degli Esterhazy per cui compone nuove opere tra cui sei messe, "La creazione" e "Le Stagioni". Nel 1802 si accentua una malattia di cui soffre da tempo e che gli impedisce di continuare in maniera costante la sua attività.
Franz Joseph Haydn muore a Vienna all'età di settantasette anni il 31 maggio 1809 nel momento in cui Napoleone Bonaparte con il suo esercito tenta di assediare la Capitale austriaca.
La Giornata mondiale del teatro, istituita dall'Istituto Internazionale del Teatro a sostegno delle arti di scena, si celebra a partire dal 1962 il 27 marzo di ogni anno.
http://www.giornatamondialedelteatro.it/
La giornata mondiale del teatro fu istituita nel 1961 a Vienna nel corso del IX Congresso mondiale dell'Istituto Internazionale del Teatro (International Theatre Institute, acronimo: ITI) su proposta del drammaturgo finlandese Arvi Kivimaa[1][2]. L'ITI è una organizzazione internazionale non governativa, avente sede a Parigi e Shanghai, fondata a Praga nel 1948 dall'UNESCO e da illustri personalità delle arti di scena[3]. La giornata mondiale del teatro si celebra dal 27 marzo 1962, dai vari centri nazionali dell'ITI; la prima di queste giornate fu celebrata il 27 marzo 1962 su iniziativa di Jean Cocteau[4][2]. In questa giornata, una eminente personalità delle arti di scena espone, su invito dell'ITI, le sue riflessioni riguardanti il teatro e la cultura della pace[2].
L’attrice Premio Oscar Helen Mirren è l’autrice del Messaggio della Giornata Mondiale del Teatro 2021 che, promossa dall’International Theatre Institute – Unesco, si celebra sabato 27 marzo. Ogni anno, nei teatri e nei centri culturali di tutto il mondo, risuona infatti un unico messaggio, affidato a una personalità della cultura mondiale per testimoniare le riflessioni vive sul tema del teatro e della cultura della pace.[5]
Donato Carrisi
scrittore
25 marzo 1973
Donato Carrisi nasce a Martina Franca, nella provincia pugliese di Taranto, il 25 marzo del 1973. E' dottore in giurisprudenza, laureato con una tesi su Luigi Chiatti e i fatti del mostro di Firenze. Il percorso di studi è poi proseguito con una specializzazione in Criminologia e Scienze del comportamento.
Gli esordi da sceneggiatore per il teatro, l'esperienza in tv
Gli esordi con il mondo della scrittura di Donato Carrisi sono da ricercarsi a teatro. A soli diciannove anni infatti firma la sua prima sceneggiatura, "Molly, Morthy e Morgan". A questa seguono un numero consistente di altre commedie: "Cadaveri si nasce!", "Non tutte le ciambelle vengono per nuocere", "Arturo nella notte" e "Il Fumo di Guzman". Al novero delle opere teatrali scritte, poi, vanno aggiunte due musical: "The siren bride" e, infine, "Dracula".
All'età di 26 anni, Donato Carrisi viene iniziato al mondo della fiction, firmando la sceneggiatura di "Casa famiglia" per la Rai, spin off della serie di successo "Un prete fra noi" sempre con Massimo Dapporto. Ancora per la televisione firma "Era mia fratello", sempre per la Rai. Per Mediaset, invece, collabora come autore alla stesura delle fiction "Nassiryia - Per non dimenticare" e "Squadra antimafia - Palermo oggi". Per Sky, infine, è fra gli autori di "Moana" miniserie biografica sulla vita di Moana Pozzi, interpretata da Violante Placido.
Il successo al cinema: Donato Carrisi miglior regista esordiente
Altro grande capitolo della produzione di Donato Carrisi è il cinema. In particolare, firma la regia e sceneggiatura dell'adattamento sul grande schermo del suo sesto romanzo, "La ragazza nella nebbia". Il film gli vale divrese nomination e la vittoria nella sezione Miglior regista esordiente al David di Donatello nel 2008. Nel prestigioso cast del film, fra gli altri, Jean Reno, Toni Servillo e Alessio Boni.
Editoria: 9 libri in 10 anni e un posto nel gotha del thriller
Fra cinema, tv e insegnamento (Donato Carrisi tiene nel 2018 una cattedra di scrittura di genere alla Iulm), il suo core business resta la scrittura per l'editoria. Un lavoro che gli fa produrre ben nove romanzi in circa 10 anni, tutti editi da Longanesi.
L'esordio, in particolare, è datato 2009 con "Il suggeritore".
Il romanzo, che narra le vicende di una Squadra speciale impegnata nelle ricerca di bambine scomparse, vale a Carrisi il premio Bancarella. Inoltre, "Il suggeritore" viene tradotto in 26 Paesi e vende oltre un milione di copie in tutto il mondo. Questa prima creatura, poi, ritorna a vivere con il suo sequel nel 2013 ovvero "L'ipotesi del male".
Intanto nel 2011 esce "Il tribunale della anime", da cui poi il sequel nel 2014 con "Il cacciatore del buio", e nel 2012 "La donna dei fiori di carta". Nel 2015 il grande successo con "La ragazza nella nebbia" da cui Carrisi stesso trae la sceneggiatura del suo primo film da regista.
Seguono nella lista della produzione da scrittore: "Il maestro delle ombre" nel 2016, sequel de "Il cacciatore del buio", "L'uomo del labirinto" del 2017 e "Il gioco del suggeritore" del 2018, legati entrambi al romanzo d'esordio.
I cicli
In sintesi, come spesso avviene nella letteratura di questo genere, la maggior parte dell'opera editoriale di Donato Carrisi si articola in due grandi cicli. Il primo è quello con al centro Mila Vasquez. Mila è un'investigatrice esperta di persone scomparse e, per questo, chiamata ad affiancare il criminologo Goran Gavila ne "Il suggeritore". Torna sulla scena del delitto sette anni dopo per "L'ipotesi del male" e poi, ancora, nei successivi "L'uomo del labirinto" e "Il gioco del suggeritore".
Il secondo ciclo, invece, è quello che ha per protagonisti Marcus e Sandra Vega. La trilogia che appartiene al sottogenere "thriller religioso", è ambientata fra Milano, Roma, Parigi e Città del Messico, Kiev e Praga e, in particolare, comprende "Il tribunale delle anime", "Il cacciatore del buio" e "Il maestro delle ombre".
Fuori da queste due collezioni, come detto, infine, "La donna dei fiori di carta" del 2012 e "La ragazza della nebbia" del 2015.
Carrisi vive a Roma dove lavora come autore a tutto tondo fra editoria, cinema e televisione. E' inoltre presente fra le firme del Corriere della sera.
Nel 2018 è insegnante all'Università IULM, dove tiene il corso "Scrittura di genere: thriller, noir, giallo, mystery" nel master di Arti del racconto. Nel 2019 torna alla regia con il film "L'uomo del labirinto", con Dustin Hoffman e Toni Servillo.
“Chi non legge, a settanta anni, avrà vissuto una sola vita, la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinità, perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.
Questo ci ha insegnato Umberto Eco
I libri e la lettura potrebbero sembrare un qualcosa di superfluo, soprattutto nella tragica situazione che stiamo vivendo, ma in realtà il potere che la parola scritta ha sulle nostre esistenze è ancora grandissimo.
Per questo è essenziale che soprattutto le nuove generazioni vengano educate alla lettura e riscoprano il piacere che un buon libro può dare alla nostra esistenza.
Siete incuriositi dalla giornata nazionale per la promozione alla lettura? Volete scoprire qualche dettaglio in più? Ecco allora che cos’è questa ricorrenza e perché è così importante festeggiarla.
Ogni 24 marzo, le amministrazioni pubbliche, in accordo con le associazioni e gli organismi operanti nel settore, si prendono carico di organizzare iniziative finalizzate alla diffusione della lettura.
Ovviamente le scuole sono i luoghi principali in cui diffondere questi progetti, ma è importante che anche gli adulti vengano invitati a leggere e a riscoprire, o in certi casi a scoprire, il vasto e fantastico mondo della letteratura.
Dunque questa giornata che è stata istituita per rafforzare il ruolo della lettura quale strumento insostituibile per la promozione e la diffusione della cultura nel nostro Paese e non solo.
I dati ISTAT del rapporto Nielsen 2018, riferiti al 2017 evidenziano che il mercato dei libri è in crescita e i libri elettronici giocano un ruolo fondamentale assumendo il 16,3% del totale. Questo dato potrebbe però gettare confusione poiché ciò che davvero preoccupa è che a comprare i libri sono sempre le stesse persone, una nicchia di appassionati a cui non si aggiungono nuovi membri.
Mediamente 4 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro nell’arco dell’anno, né per lavoro né per piacere: un dato abbastanza preoccupante che ci fa capire che l’industria del libro si regge in piedi grazie ai soliti consumatori.
In un momento di crisi economica e sociale come quella che stiamo vivendo è davvero fondamentale diffondere sempre di più la pratica della lettura come mezzo per accrescere la cultura, magari promuovendo azioni che possano rendere il mondo dei libri ancora più democratico.
Per questa ragione azioni pratiche come promuovere e pubblicizzare di più le biblioteche pubbliche o far entrare i libri nel mondo delle scuole è assolutamente fondamentale.
È dunque evidente l’importanza che la giornata nazionale per la promozione della lettura assume in questo particolare momento storico.
(Roma, 17 marzo 1917 – Montecarlo, 29 gennaio 1987)
è stato uno scrittore, saggista e partigiano italiano.
Si affaccia alla letteratura all'incirca all'inizio della seconda guerra mondiale, dopo la prosa d'arte, esperienza a lui estranea, accanto all'ermetismo. Dell'ermetismo accoglieva il gusto dell'essenzialità, della poesia come assoluto, anche nella prosa (al di fuori dunque del «resoconto», della psicologia, delle determinazioni ideologiche e culturali sentite come ingombranti rispetto alla pura intelligenza spirituale del vivere), che egli interpretava, nel campo narrativo suo proprio, come attenzione esclusiva all'esistenziale.
Biografia
Cassola nacque a Roma, nel quartiere Salario, il 17 marzo del 1917, ultimogenito dei cinque figli di Garzia Cassola (1869-1955), giornalista e traduttore originario di Borgo Val di Taro (in provincia di Parma) ma da molti anni trapiantato in Toscana (Grosseto), e di Maria Camilla Bianchi, originaria di Volterra (in provincia di Pisa). Il nonno paterno, Carlo, era un magistrato e fervente patriota italiano che aveva partecipato alle dieci giornate di Brescia ed era poi stato esule in Svizzera per sfuggire alle numerose condanne; a Risorgimento concluso era poi diventato presidente del tribunale di Volterra, dove si era sposato, già cinquantaduenne, con Rosa Belli. Così scriveva Carlo Cassola nel 1966 in una lettera indirizzata a Indro Montanelli
«S'era sposato tardi [...] (e questo spiega perché tra lui e me ci corra un secolo, anzi 103 anni); tuttavia ebbe lo stesso sette figli»
(a Montanelli, 8 febbraio 1966.)
Il padre, invece, era stato un militante socialista e redattore dell'Avanti!, al tempo sotto la direzione di Leonida Bissolati: «Mio padre era un uomo dell'800. Io lo ricordo così, e non credo di ricordarlo male. Non si rendeva conto che nel nostro secolo i problemi erano cambiati. Non si rendeva conto soprattutto che il nazionalismo avrebbe fatto solo del male e, nell'era atomica, un male irreparabile».[2]
La fanciullezza di Cassola «non era quella di un bambino, di un ragazzo felice»[3]; la causa della sua infelicità può farsi risalire al fatto che, avendo fratelli molto più grandi di lui, si sentisse un po' nella situazione di figlio unico per i genitori; si aggiungano inoltre la sua indole, che lo induceva all'isolamento, il suo scarso spirito di iniziativa e la fervida immaginazione, che sarà negli anni giovanili la sua dote dominante. Come Cassola stesso scriverà nei suoi Fogli di diario, «... bastava un nome a emozionarlo, a mettergli in moto la fantasia, col risultato di allontanargli spesso e deprezzargli tutto ciò che sapeva di reale e obbediva a ragioni pratiche.»[4]
Sempre nei Fogli di diario egli ci lascerà testimonianza di questo suo particolare modo di sentire, e infatti per lui aveva un senso, più di quello che vedeva, ciò che apprendeva indirettamente, magari solamente grazie all'evocazione di un nome. «Una volta mio fratello [...] disse qualcosa a proposito di un tale che andava tutti i giorni a Settecamini. Venni a sapere che Settecamini era vicino a Roma. Ora Roma mi pareva una città morta, appunto perché ci stavo. Malgrado ciò, quella borgata divenne per me un posto meraviglioso. Ci fantasticai per mesi. Settecamini! Non era un puro nome, si associava ad esso l'immagine di quel tale che ci andava in motocicletta. Ma supponiamo che mio fratello mi avesse detto: andiamo a Settecamini. Che magari mi avrebbe proposto di andare in motocicletta. Credo che avrei rifiutato. Perché? Perché sapevo in partenza che sarebbe stata una delusione. La Settecamini vista con i miei occhi non avrebbe mai posseduto l'incanto della Settecamini evocata dalle parole di mio fratello»[5].
Carlo si rifugiava volentieri nei libri, che, già prima che imparasse a leggere, lo attiravano molto. «I libri mi attirarono quando ancora non sapevo leggere. Due voluminosi trattati di zoologia furono tra i primi a capitarmi fra le mani: uno era dedicato ai Mammiferi, l'altro agli Uccelli».[6] Più tardi, quando ormai aveva acquisito la padronanza della lettura, lesse appassionatamente i romanzi d'avventura di Salgari e di Verne, che gli permettevano di immaginare vasti spazi geografici e incontri straordinari; leggerà anche le Poesie del Carducci, che gli riportavano alla mente le immagini della Toscana, con la Maremma, il Chiarone, la Torre di Donoratico ed i cipressi di Bolgheri.
Carlo Cassola giovane redattore de La penna dei ragazzi.
L'educazione scolastica del futuro scrittore fu regolare, anche se l'esperienza della scuola verrà in seguito considerata un fallimento, tanto da fargli scrivere, nel 1969, «Scuola di criminalità, ecco cos'è la scuola oggi, non solo da noi ma dappertutto. E la colpa risale alla cultura laica o religiosa che sia. A questa grande spacciatrice di droghe; a questo autentico oppio del popolo».
Nel 1927 Cassola cominciò a frequentare il liceo-ginnasio Torquato Tasso[7] e nel 1932 s'iscrisse al liceo classico Umberto I, ma di quegli anni ricordava Pascoli quale sua unica lettura e che dai classici e dal modo in cui gli venivano insegnati ebbe solamente "disgusto". Per scoprire il piacere della letteratura e sentirla come una cosa viva, dovrà scoprire gli scrittori contemporanei, da solo o con l'aiuto di qualche amico. È quello l'anno in cui Riccardo Bacchelli pubblica Oggi, domani e mai, Antonio Baldini Amici miei e Leonida Répaci I fratelli Rupe, tutti libri che il giovane Cassola riesce a procurarsi.
Cassola negli anni del liceo frequentò i figli di Mussolini (era compagno di classe di Vittorio), Ruggero Zangrandi e Mario Alicata, e collaborò a una rivista studentesca, La penna dei ragazzi, fondata proprio da Vittorio. La rivista, che prese nel 1934 il nome di Anno XII per celebrare l'età fascista, terminò con Anno XIII, quando ormai i suoi promotori avevano finito il liceo. Fu proprio nel numero del 10 gennaio 1935 di Anno XIII che Cassola ebbe il primo riconoscimento come scrittore, anzi di poeta.[8]
Nel 1933 assisté, nel cinema del quartiere dove viveva a Roma, alla prima proiezione del film À nous la liberté di René Clair, determinante per la sua maturazione artistica: «... cominciai a guardare il film con crescente interesse. Senza che me ne fossi accorto, ero mutato e avevo cominciato a guardare le cose in altro modo. Fu Piero Santi a farmelo capire: molto più tardi, nel luglio del 1935. Io ero un passatista; fu lui a farmi capire la bellezza dell'arte moderna».[9]
L'adesione al Movimento Novista Italiano
Il 16 marzo 1933 Zangrandi, insieme con Vittorio Mussolini (che però presto si ritirerà) e altri cinque adolescenti, tra cui il quindicenne Cassola, aveva fondato un movimento che venne denominato «Novismo» di dissidenza giovanile antifuturista e che ebbe nel maggio il suo Manifesto; la presa di posizione suscitò immediatamente aspre reazioni sul settimanale «Futurismo» per le inevitabili implicazioni sul rapporto tra arte e politica e la pretesa dei futuristi di essere gli unici depositari della concezione di arte nel fascismo[10].
I giovani novisti risposero immediatamente ribadendo come sfida i loro principi e dichiarandosi un movimento di idee aperto a tutti i campi dell'attività umana e che rifiutava pregiudizi di ogni tipo. Cassola non solo partecipava alle riunioni dei novisti, ma le ospitava nella sua casa di via Clitunno a Roma, come ci racconta Ruggero Zangrandi,[11] «Dalle prime adunate tenute in casa mia si era passati alle riunioni semiclandestine nella cantina di Carlo Cassola, in via Clitunno a Roma: un simbolo o, forse, la suggestione delle società carbonare, cui cominciavamo a ispirarci»[12] e ancora «Ci proponevamo di affrontare problemi filosofici e ideologici di ogni sorta, discettavamo intorno alla pace, all'ordine sociale e internazionale, alla questione religiosa (eravamo ferocemente anticlericali) a quella sessuale, ecc.»[13]
In quello stesso anno i giovani novisti decidono di prendere contatto con il mondo operaio: «Avevamo sedici o diciassette anni quando una inconscia smania di conoscere da vicino "i fratelli oppressi", di legarci con loro per una "rivolta sociale" che non aveva ancora, per noi, definizione politica ci spingeva ad andarli a cercare. Pietro Gadola, Carlo Cassola, Enzo Molajoni e io ci vestivamo a quel tempo dei nostri abiti più malandati e, con la barba incolta e i capelli in disordine, ci avventuravamo per i quartieri popolari di Roma, a tarda sera. Entravamo nelle osterie, nei luoghi più abbietti, timorosi e schifati. Ci capitava di imbatterci in gente strana, che la nostra fantasia, nutrita di letture russe, coloriva subito di nichilismo»[14]. Nel 1935, mentre nel paese stavano maturando grandi avvenimenti che porteranno alla guerra d'Etiopia, Cassola si iscrive alla Facoltà di Legge dell'Università di Roma dimostrando scarso entusiasmo per la guerra.
Nell'autunno di quello stesso anno, insieme a Cancogni e Giuseppe Lo Presti, Cassola dà vita ad uno dei vari nuclei antifascisti e alla fine dell'anno partecipa al congresso tenuto dai gruppetti minoritari antifascisti, dei quali fanno parte anche Mario Alicata, Bruno Zevi, Marcello Merlo, Giulio Marini, Pietro Gadola. Ben presto però la polizia individua i loro movimenti e cerca di farli rientrare ai Gruppo universitario fascista (GUF). Nasce in questo periodo l'amicizia con lo scrittore Piero Santi, cugino da parte della madre, con il quale intrattiene una fitta corrispondenza e al quale invia alcune sue poesie per averne un giudizio.
Sotto la guida del cugino la vocazione letteraria di Cassola viene a consolidarsi e anche la scelta delle letture a farsi più raffinata. Scrive Cassola: «Le nostre conversazioni s'erano svolte in luglio, al mare; in agosto, in campagna, decisi di diventare uno scrittore. fu un periodo di letture frenetiche, perché Piero mi aveva detto che bisognava leggere almeno Huxley, Lawrence, Döblin e Dos Passos»[15]. Nel 1936 Cassola lascerà, insieme all'amico d'infanzia Manlio Cancogni, il gruppo dei novisti e scioglierà il piccolo partito che aveva fondato.
Conosce Rosa Falchi, nativa di Cecina, e si fidanza regolarmente.[16] Sempre con Cancogni fa la sua prima esperienza giornalistica fondando un giornalino scolastico, intitolato Il pellicano,[16][17] dedicato alla storia della letteratura e pubblicherà il suo primo scritto in prosa sulla Gazzetta di Messina intitolato Grande adunata. Sarà questo anche l'anno delle letture decisive per la sua formazione. Leggerà con passione soprattutto Joyce e proprio dalla scoperta di Joyce nascerà la prima formulazione della sua poetica:
«Le idee mi si chiarirono nell'inverno 1936-1937 grazie a una lettura e a un'amicizia.
La lettura fu quella di Dublinesi e Dedalus. In Joyce scoprii infatti il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della realtà che per me erano stati sempre i più importanti. Fin da bambino, infatti, ero consapevole che ogni cosa, ogni fatto, ogni luogo, ogni tempo, aveva una tonalità particolare; e questo alone che era intorno alle cose per me era più importante delle cose stesse. L'amico fu Manlio Cancogni (...). Insieme elaborammo una poetica che avrebbe dovuto guidarci nello scrivere... La battezzammo "subliminarismo".»
([18]; a Montanelli, 8 febbraio 1966)
All'inizio del 1937 proverà a cimentarsi anche con il cinema scrivendo il soggetto surrealista di un cortometraggio, Alla periferia che verrà prodotto dal Cineguf di Roma e verrà preso in considerazione alle gare dei Littoriali della Cultura e dell'Arte di Napoli. Proprio in questa occasione Cassola farà amicizia con Antonello Trombadori.
Tra il 1937 e il 1940 Cassola scrive i suoi primi racconti, che verranno raccolti e pubblicati nel 1942 nei due volumetti Alla periferia e La visita (uno di questi racconti, Paura e tristezza, uscirà nell'agosto del 1937 su Il Meridiano di Roma). Sin da questi primi racconti, come scrive Salvatore Guglielmino.[19][20] «Cassola mira a cogliere in una vicenda o in un gesto quello che è il suo aspetto più autentico, l'elemento sia pur modesto e quotidiano che ci svela il senso di un'esistenza, il tono di un sentimento. Questo comporta un paziente scavo nella vicenda di ogni giorno per mettere in luce e ritrovare in essa una dimensione di poesia e di verità, che invece sfuggirebbe in una narrazione di tradizionale impianto realistico tutta ancorata - e limitata - a una rappresentazione fenomenica delle cose, a gerarchie di valori fra accadimenti importanti e secondari.»
Nel 1937 presta servizio militare prima alla Scuola Allievi Ufficiali di Spoleto e poi a Bressanone. Congedato, si laurea nel 1939 discutendo una tesi in Diritto civile,[8] una scienza che non gli era mai piaciuta e che non lascerà nessun segno nella sua personalità culturale.
Nel 1939 Cassola inizia a frequentare un gruppo di intellettuali che gravitavano su Firenze tra i quali Romano Bilenchi, Franco Fortini, Franco Calamandrei, Ferruccio Ulivi, Paolo Cavallina, allora direttore della rivista Rivoluzione, e grazie a questi contatti riesce a pubblicare i tre racconti, La visita, Il soldato, Il cacciatore su la rivista Letteratura che furono segnalati da Giansiro Ferrata su "Corrente".
Da quel momento, Cassola inizia a collaborare alle riviste Corrente, Il Frontespizio, Letteratura e presto riceve l'invito di Alessandro Bonsanti di fargli pervenire tutti i racconti che scriveva. I racconti inviati verranno poi raccolti e costituiranno nel 1942 il volumetto La visita, nelle edizioni di Letteratura.
Insegna per due anni a Volterra dove vive la fidanzata con la quale il 26 settembre 1940 si sposa. Nel 1941 viene richiamato, dopo l'intervento dell'Italia in guerra, prima a Pisa e in seguito a La Spezia. Gli verrà dato l'ordine di far saltare Manarola nelle Cinque Terre ma disobbedisce ai comandi e riesce a sfuggire alla corte marziale grazie alla perdita, dovuta ai bombardamenti, della documentazione accusatoria. Nel 1942 partecipa ad un concorso per la Cattedra di Storia, Filosofia e Pedagogia nei licei classici e scientifici e negli istituti magistrali e inizia la sua attività di insegnamento prima a Foligno e poi a Volterra.
Dopo l'armistizio di Cassibile, Cassola inizia a prender contatti con i gruppi comunisti più attivi nel volterrano e insieme a loro partecipa alla resistenza con il nome di Giacomo, nella ventitreesima brigata garibaldina Guido Boscaglia, come capo della squadra Esplosivisti e di questa esperienza abbiamo testimonianza nel libro a carattere autobiografico, Fausto e Anna. Durante la Resistenza e i mesi di azione partigiana che trascorre nell'Alta Val di Cecina, a Berignone, Cassola ha modo di conoscere la gente del popolo, gli operai, i contadini, i taglialegna e quando ricomincia a scrivere sarà proprio di loro che parlerà e delle loro vicende.
Il ricordo della militanza partigiana ritorna nella dedica de L'ultima frontiera ai compagni della brigata Guido Boscaglia, ma tra tutti i luoghi di combattimento conserva più di tutti il ricordo del Berignone «... è un massiccio boscoso che, da Volterra, ha l'aspetto di un fortilizio. Io ne ho parlato in vari miei libri col nome di Monte Voltrajo»[21].
In questi anni Cassola sospenderà momentaneamente la scrittura, si appassionerà alla poesia di Montale e conoscerà Giorgio Caproni. A Volterra, dove è sfollato, tiene, dal novembre 1944 al 19 settembre 1945, la cattedra di storia al liceo classico e di italiano e storia all'Istituto tecnico commerciale. Stabilitosi in seguito a Firenze per svolgere attività giornalistica, collabora con brevi racconti e articoli alla «Nazione del popolo», a «L'Italia socialista», al «Giornale del Mattino», a «Il Mondo» e accetta l'invito di Bilenchi a collaborare a «Società».
Dopo la Liberazione, avvenuta in Toscana, nell'agosto del 1944, lo scrittore si iscrive al Partito d'Azione nel quale rimane fino al suo scioglimento nel 1946. Dal 1942 al 1946 la produzione scritta di Cassola si interrompe ma nel 1946 egli riprende a scrivere e nello stesso anno pubblicherà in quattro puntate su Il Mondo, rivista quindicinale diretta da Bonsanti e Montale uscita a Firenze dopo la Liberazione, il racconto Baba, che contiene ormai pieni caratteri resistenziali.
Dal 1945 al 1949 Cassola fa parte della redazione de La Nazione del Popolo, rivista del Comitato Toscano di Liberazione, e collabora attivamente al Giornale del Mattino e a L'Italia Socialista. Dal 1948 al 1971 insegna storia e filosofia al liceo scientifico Mascagni.[22]
Il 1949 è per lo scrittore un anno di forte crisi umana e letteraria. Muore la moglie a soli 31 anni per un attacco renale e Cassola mette in discussione la poetica esistenziale sulla quale aveva basato, fino a quel momento, il suo lavoro di scrittore. Nasce, dal suo dolore e dai suoi ripensamenti letterari, un nuovo modo di scrivere che sfocerà in uno tra i suoi testi più validi Il taglio del bosco.
Il testo incontra però difficoltà per trovare un editore, fu infatti rifiutato da Botteghe Oscure, da Einaudi e uscì solamente nel 1950 su Paragone[23] e in volume nel 1954 presso Fabbri. Anche Fausto e Anna non ebbe subito un esito positivo, esso fu rifiutato sia da Mondadori, sia da Bompiani e alla fine, ma dopo molte esitazioni, venne pubblicato da una collana sperimentale, I gettoni diretta da Vittorini e diede occasione ad una polemica sulla rivista Rinascita, dove, in una recensione, veniva dato un giudizio severo al racconto riguardo allo stile e lanciata un'accusa dal punto di vista ideologico e politico.
All'accusa, Cassola rispose con una lettera al Direttore di Rinascita respingendo il giudizio diffamatorio. Intervenne nella polemica Palmiro Togliatti, allora direttore della rivista, spostando la questione su di un piano generale e chiudendo pertanto la polemica riguardo alla quale Cassola così scriveva in una lettera a Indro Montanelli:
«Vi facevo il processo a me stesso, cioè a Fausto: presentandolo in due esperienze fallimentari: un'esperienza amorosa (che fallisce per sua colpa, per la sua incapacità di abbandonarsi al sentimento) e l'esperienza dell'impegno politico durante la Resistenza. Qui però finivo quasi per dar ragione a Fausto, per lo meno dargli ragione nei confronti dei comunisti, e questo mi attirò i fulmini di "Rinascita", prima per mano di un critico, poi di Togliatti stesso. L'accusa era di aver diffamato la Resistenza. Me la fecero anche altri, anche dei non comunisti. Mi amareggiò molto, anche se ero convinto di aver ragione.»
(A Montanelli, 8 febbraio 1966.)
Nel periodo che va dal 1953 al 1957 la narrativa è ormai il centro della carriera di scrittore di Cassola che, desideroso di essere libero da ogni norma precostituita, si appoggia ad una poetica che nasce dall'esperienza, sempre in lui molto viva, dell'antifascismo.
Cassola, che ormai dal 1948 si era trasferito a Grosseto e che nel frattempo si era risposato con Giuseppina Rabagli e aveva avuto una figlia, Barbara, conosce Luciano Bianciardi che faceva il bibliotecario nella Biblioteca Comunale di Grosseto e dalla sua amicizia e dalla sua collaborazione nasce uno studio sui minatori della Maremma pubblicato nel 1954 da Nuovi Argomenti e in seguito ampliato da Cassola (Bianciardi nel frattempo si era trasferito a Milano) e pubblicato nel 1956 nei Libri del tempo di Laterza.
Negli anni che vanno dal 1950 al 1956 lo scrittore collabora al Mondo e al Contemporaneo, esce Fausto e Anna (1952), scrive I vecchi compagni che esce da Einaudi nel 1953, appare sul Ponte La casa sul Lungotevere (1953), che prenderà poi il nome di Esiliati, inizia a scrivere La casa di via Valadier e Il soldato, esce da Nistri-Lischi a Pisa la seconda edizione del racconto Il taglio nel bosco (1955) che comprende anche una parte dei racconti de La visita, La moglie del mercante, Le amiche di Baba, esce sul Ponte Un matrimonio del dopoguerra e Il soldato, compie un viaggio in Cina,[24] del quale lascerà testimonianza nel suo Viaggio in Cina, Einaudi pubblica La casa di via Valadier che comprende anche Esiliati, Feltrinelli pubblica Viaggio in Cina, Laterza, I minatori della Maremma.
Nel maggio 1957 nasce la seconda figlia, Nora, che morirà, a soli sei mesi, di asiatica. Einaudi pubblica Un matrimonio del dopoguerra con il quale concorre al premio Marzotto senza però uscirne vincitore. Nel 1958 Il soldato, pubblicato da Feltrinelli, vince il Premio Salento, e nello stesso anno vede le stampe la seconda edizione riveduta di Fausto e Anna. Nel 1959 pubblica Il taglio del bosco. Racconti lunghi e romanzi brevi, con cui partecipa al premio Selezione Marzotto e lo vince.
Nel 1960 esce per Einaudi La ragazza di Bube che ebbe subito un grande successo di vendita. Con La ragazza di Bube Cassola vinse il Premio Strega.[25] Gli viene offerto, nell'agosto dello stesso anno, di collaborare alla terza pagina del Corriere della Sera ma Cassola è costretto a rifiutare perché troppo impegnato nella scrittura dei suoi romanzi. Firma, nel novembre, il Manifesto di solidarietà degli intellettuali italiani, promosso da Fortini e Vittorini, per sostenere la Dichiarazione dei 121 intellettuali francesi contro la guerra d'Algeria.[26]
Nel gennaio del 1961 collabora alla trasposizione cinematografica della Ragazza di Bube e in febbraio si recherà in Francia, dove nel frattempo era uscita la traduzione di Philippe du Seuil di Fausto e Anna con la prefazione di Fortini, Cassola ou la fidélité.[27]
Proprio in occasione della presentazione dei libri per il Premio Strega, Pier Paolo Pasolini che presentava quell'anno Italo Calvino, in un epigramma La morte del realismo (nel quale è evidente il continuo richiamo a Cassola), sosteneva il sopravvento dei "neopuristi", dei "socialisti bianchi", della "elezione stilistica" e denunciava la "restaurazione nello stile" e ricordava con nostalgia «l'impuro Realismo/ sigillato col sangue partigiano/ e la passione dei marxisti», rammentava il Realismo e la sua ideologia «nella luce della Resistenza», «Quando il fascismo era vinto,/ pareva vinto il Capitale».[28] Pasolini sostiene che al momento tutti si sentivano in dovere di dare il loro colpo al Realismo, ma che il colpo peggiore era stato proprio dato da Cassola perché era loro sembrato che egli fosse dalla parte del Realismo.
L'epigramma di Pasolini è un anticipo della reazione antineorealista che verrà da Edoardo Sanguineti nel Convegno del Gruppo 63 a Palermo che, in modo poco lusinghiero, parlava di "Liala '63" riferendosi a Cassola e a Giorgio Bassani.[29]
L'accusa colpiva un Cassola già mutato rispetto allo scrittore di Fausto e Anna e de La ragazza di Bube ed egli iniziò, già dal 1961 ad operare una revisione nella sua visione letteraria ripudiando completamente tutto il periodo dell'impegno legato alla resistenza e ritornando alla primitiva poetica.
La ripresa della vecchia poetica non può, comunque, non tener conto delle esperienze fatte negli anni cinquanta. In questo modo nasce un Cassola arricchito, ne è testimonianza Un cuore arido del 1961, che conserva, ma nello stesso tempo allarga, la misura del romanzo con tutte le tecniche di sviluppo dei fatti e dell'intreccio.
Nel 1962 diventa consigliere comunale socialista a Grosseto, dove continua ad abitare, e nello stesso anno lascia l'insegnamento. Da quel momento, tranne la collaborazione con i Fogli di Diario del Corriere della sera, egli si dedica solamente alla scrittura delle sue opere, dimostrando quello stesso disimpegno che aveva coinciso in gioventù con l'abbandono degli interessi politici.
Nel marzo del 1963 inizia un Diario manoscritto sul quale appunta, in modo meticoloso, le traduzioni delle sue opere da un lato e dall'altro le date della redazione, riscrittura, ripulitura e copiatura dei testi. Durante l'estate acquista del terreno a Marina di Castagneto e fa costruire una casa in mezzo ai pini. Diventa così vicino di casa di Indro Montanelli. Esce intanto nelle sale il film La ragazza di Bube girato da Luigi Comencini con Claudia Cardinale e George Chakiris che Cassola vedrà a Firenze nel febbraio del 1964.
Pubblica nell'autunno, presso Einaudi, Il cacciatore e riprende a scrivere il racconto Angela che concluderà nel luglio del 1966 attribuendogli il titolo La maestra. Nel 1965 fa un viaggio in Scandinavia e al rientro verrà pubblicato, nella nascente collana degli Oscar Mondadori, il romanzo La ragazza di Bube. Nel 1966 esce da Einaudi Tempi memorabili. In maggio si reca a Londra e a Parigi per presenziare un pubblico dibattito con alcuni rappresentanti del nouveau roman e della nouvelle critique che però non ha felice esito a causa di incomprensioni reciproche sul fatto di fare letteratura.
In luglio si reca in Inghilterra insieme alla famiglia per un viaggio di piacere e a novembre va in Germania. Nei primi mesi del 1967 fa un viaggio in Francia e si reca in varie città d'Italia per le presentazioni dei suoi libri. La RAI, con il suo consenso, trasmette a puntate Fausto e Anna ed esce da Einaudi Storia di Ada che comprende La maestra e che rientrerà tra i primi cinque del premio Campiello.[30]
Nel 1968 vede finalmente la luce Ferrovia locale e l'autore, in una lettera a Daniele Ponchiroli, scrive:
«È la cosa che ho scritto con maggior impegno, ma anche con maggior piacere. M'era venuta in mente nel '61, ma sbagliai i primi due tentativi. Sono riuscito a scriverla solo nel '66-'67. Ci tengo molto, e se da una parte ho desiderato di vederla pubblicata al più presto, dall'altra mi preoccupo che esca nel momento più opportuno»
(a Ponchiroli, 17 gennaio 1968)
Esce come supplemento estivo, sulla rivista femminile Amica, Un matrimonio del dopoguerra e la collaborazione con il Corriere della sera diventa stabile fino al 1973 con la rubrica Fogli di Diario e con articoli vari, ma in modo irregolare, fino al 1978. Nel 1969 pubblica Una relazione dal quale verrà tratto, nel 2004, il film L'amore ritrovato con la regia di Carlo Mazzacurati. Con il romanzo Una relazione vince nel 1970 il Premio Napoli.[31]
Nel 1970, pubblica da Einaudi il lungo romanzo Paura e tristezza, con il quale si chiude la terza fase della sua scrittura e se ne apre una nuova.
«Sono in un periodo di grave crisi. Accenno soltanto al versante letterario: col mio ultimo romanzo, Paura e tristezza, già finito ma che pubblicherò in autunno, sarà irrevocabilmente finita una lunga applicazione letteraria, cominciata nell'immediato dopoguerra. Non ci tornerò più sopra. Sento che non potrò più fare la commemorazione del passato e l'elegia della giovinezza. Se riuscirò ancora a scrivere, scriverò del presente, Una letteratura problematica, una letteratura d'indagine, è ormai la sola che m'interessi.»
(a Fortini, 12 gennaio 1970)
Nel 1971 lo scrittore, colpito da grave crisi cardiaca, viene ricoverato all'ospedale Gemelli di Roma dove gli viene diagnosticata una malattia degenerativa. Dimesso dall'ospedale dopo due mesi, si trasferisce da Grosseto a Marina di Castagneto Carducci dove, ripresosi, nella tranquillità del luogo continua la sua attività scrivendo e pubblicando a ritmo frenetico, molte altre opere.
Nel 1972 esce negli Oscar Ferrovia locale, nel 1973 pubblica da Rizzoli Monte Mario e, sempre per Rizzoli, con Mario Luzi, Poesia e romanzo. Il 16 maggio dello stesso anno inizia la stesura di Gisella che terminerà il 19 ottobre e il 16 dicembre inizia a scrivere un nuovo romanzo, L'antagonista. Con Monte Mario entra nella rosa del Premio Selezione Campiello,[30] riconoscimento al quale teneva molto, come scrive a Marabini nel 1973.
«Ci tenevo molto a entrare in cinquina e temevo di non potercela fare. La situazione si presentava brutta, a detta di Spagnol; e so che sul mio nome s'è accesa una vera e propria battaglia»
(a Marabini, 1º giugno 1973)
Nel 1975 esce da Rizzoli Troppo tardi che era stato concluso già nel 1971 nella versione intitolata Fratello e sorella. Progetta intanto un settimanale di discussione politica che vorrebbe intitolare L'impegno e contatta Fortini, Caproni, Moravia, Calvino, Leonetti, Garboli, Testori, Sciascia, Siciliano, Parronchi e altri, ma il progetto non si conclude. Nel 1976 si dedica alla scrittura di saggi e scrive L'intelligenza e il potere e Il vecchio e il nuovo che verranno poi a far parte, dopo poco, del volume Il gigante cieco che esce da Rizzoli insieme all'altro libro, L'ultima frontiera, nel quale esprime la sua posizione politica antimilitaristica. Sempre in questo anno esce presso Rizzoli L'Antagonista con il quale otterrà il premio Bancarella.
Nel 1977, sempre da Rizzoli, esce La disavventura che gli fa vincere il premio Marina di Camerota ex aequo con Malacqua di Nicola Pugliese e L'uomo e il cane con il quale vince il premio Bagutta. Continua nel frattempo la programmazione letteraria sul Diario. Riceve la proposta di Davico Bonino per una riduzione radiofonica di Un cuore arido di cui la RAI aveva acquistato i diritti, ma rifiuta. Andrà invece in onda, il 26 luglio, su Radio Uno l'adattamento radiofonico di Fausto e Anna a cura di Giuseppe Lazzari. In questo stesso anno fonda la «Lega per il Disarmo» e ne assume la presidenza. Da questo momento inizia, tra forti polemiche, una stretta campagna per sensibilizzare l'opinione pubblica tenendo incontri e numerose conferenze; invita gli amici a sottoscrivere un «Appello degli uomini di cultura per il disarmo unilaterale dell'Italia».
Porta intanto avanti il piano di lavoro per una trilogia avveniristica e nel 1978 verranno pubblicati da Rizzoli Il superstite, Il nuovo Robinson Crusoe, La lezione della storia e Un uomo solo. I rapporti con la casa editrice Rizzoli si stanno però guastando perché Cassola si lamenta che i suoi ultimi scritti non vengono valorizzati e cerca un altro editore. Ferragosto di morte e Un uomo solo finiranno infatti con un diverso editore. Il 30 aprile si inaugura a Firenze il Congresso per la costituzione ufficiale della Lega per il disarmo unilaterale dell'Italia ma le sue condizioni di salute si aggravano e si rompe l'amicizia con Cancogni che non ha voluto sostenerlo per la proposta di disarmo. Decide intanto di trasferirsi in campagna a Montecarlo di Lucca[32] come aveva sempre desiderato:
«... il mio rifugio finale sarà una casa in campagna»
(a Cancogni, 2 ottobre 1959)
L'8 gennaio partecipa alla trasmissione televisiva Acquario di Maurizio Costanzo e il 4 luglio inizia a scrivere il romanzo L'amore tanto per fare che terminerà l'8 settembre. Rizzoli pubblica Il paradiso degli animali (Diario). Va nel frattempo in onda, trasmessa da Radio Uno, la sceneggiatura radiofonica di Un cuore arido a cura di Mauro Pezzati. Per la «serie di romanzi politici» pubblica da Rizzoli La morale del branco e Il ribelle, mentre Ferragosto di morte e Contro le armi verranno pubblicati per i tipi di Ciminiera.
A febbraio assume la direzione, con Francesco Rutelli, del mensile L'Asino, interrotto al n. 7/8; sulla rivista esce a puntate l'inserto L'amore tanto per fare. Nel 1981 escono da Rizzoli il romanzo storico La zampa d'oca e L'amore tanto per fare, e in quello stesso anno Cassola fonda il Comitato promotore di un Convegno di intellettuali sul problema della fine del mondo, convegno che si terrà a Firenze l'anno seguente.
Nel 1982 Cassola rinnova il contratto con Rizzoli, che pubblica Gli anni passano, continuazione de La ragazza di Bube e Colloquio con le ombre mentre da Ciminiera Il mondo senza nessuno. Nel mese di maggio si reca a Riva di Solto (lago d'Iseo) per curarsi ma le cure non gli giovano e in maggio ritorna a Montecarlo. Nel 1983 viene dato alle stampe da Rizzoli Mio padre e La rivoluzione disarmista, mentre presso la casa editrice Pananti esce Due racconti.
Nel 1984 il suo stato di salute peggiora; così scriverà a Giampieri:
«... ti mando come promesso il pezzo per Pananti. Ci avevo pensato subito, ma ho dovuto aspettare che altri me lo battessero. Nelle mie condizioni, non riesco più a battere a macchina né a leggere. Questo sarebbe ancora il meno: in realtà ho molti altri disturbi che mi procurano un dolore maggiore.»
(a Giampieri, 23 aprile 1984)
Collabora a «Paese sera» con l'articolo del 10 settembre Reagan contro Mondale e nella rubrica Controcanto pubblica racconti e articoli letterari di carattere sempre più accentuatamente politico, spesso non scritti da lui. Nel 1985 Pananti pubblica Le persone contano più dei luoghi e il 1º marzo del 1986, a Montecarlo di Lucca, Cassola si sposa con Pola Natali, sua terza moglie,[22] amante degli animali e conosciuta nel 1974 al convegno su Collodi tenutosi a Pescia
Nel 1984 Pananti pubblica Le persone contano più dei luoghi, continuazione di Un cuore arido. Il 29 gennaio del 1987, còlto da un collasso cardiocircolatorio, muore a Montecarlo di Lucca.[33]
«viveva in solitudine non perché l'avesse scelta, ma perché questa era la costrizione che gli era stata costruita attorno, e questa l'ha vissuta fino all'ultimo. Io non potrò dimenticare quei funerali di quella mattina dove se ne andava in solitudine, [...] solitudine di una grande umanità; ha ricevuto il saluto della natura, tirava un vento gelido e gli alberi si inchinavano al passaggio della bara. È stato quello credo l'omaggio più bello, partigiano, che forse uno come lui potesse desiderare avere»
(congedo di Mario Capanna in Letteratura e disarmo, p. 114[34])
Lo stesso argomento in dettaglio: Poetica di Carlo Cassola.
Carlo Cassola, pur vivendo nel periodo del neorealismo, non ne accettava completamente la poetica, giacché riteneva che l'uso del linguaggio popolare, vale a dire del dialetto, fosse da condannare in ambito letterario; lo scrittore si considera un realista, ma rifiutava l'approccio del naturalismo e la ricerca degli "spaccati sociali" tipici del neorealismo.
Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Carlo Cassola.
Scrive Giacinto Spagnoletti,[35] «È difficile sintetizzare in poche pagine il fecondissimo lavoro narrativo di Carlo Cassola; innanzitutto per le differenze tematiche e stilistiche a cui va incontro, ma soprattutto per l'enorme distacco che separa la produzione giovanile, quella della maturità, e l'ultimissima. Scrittore che, per l'ardua pulizia formale delle origini, lo strenuo e accanito rivolgersi a semplici trame (quasi sempre aventi a protagoniste delle donne), rappresentò per tutti gli anni cinquanta e nel seguito un'alternativa tanto alla letteratura engagèe, dapprima, quanto a quella uscita dalla neoavanguardia dopo.»
Si può dividere l'opera narrativa di Cassola in quattro periodi: il primo periodo, che rifiuta la narrazione di tipo realistico, si colloca tra il 1937, anno di stesura di alcuni dei racconti della Visita, e il 1949, anno di stesura del Taglio nel bosco anche se già nel 1946, con Baba, si individua l'impegno futuro a trattare temi politici; il secondo periodo, che situato cronologicamente nel momento del neorealismo ne risente l'influenza, «Sia pure intesa in una maniera assai personale, siamo in un tipo di narrativa impegnata, in cui il tempo coincide con la storia, i personaggi partecipano alle lotte politiche e le loro vicende prendono inizio da un fatto preciso per giungere alla conclusione.»[36], il terzo periodo nel quale lo scrittore rinnega il periodo precedente e ritorna alla poetica del primo periodo e un quarto periodo, tra il 1980 e il 1987,che si può definire dell'antimilitarismo.
Dal suo romanzo La ragazza di Bube (1960), che ricevette il Premio Strega, fu realizzato nel 1963, da Luigi Comencini, il film omonimo, con Claudia Cardinale e con George Chakiris[37].
Sempre nel 1963, dal racconto La visita, il film diretto da Antonio Pietrangeli. Nel 2004 Carlo Mazzacurati ha tratto un film, L'amore ritrovato, dal racconto Una relazione, che era stato già citato al cinema in quanto il cognome del protagonista (Mansani) è stato volutamente utilizzato da Paolo Virzì per personaggi dei suoi film: Ovosodo e La prima cosa bella.
Le linee interpretative della critica riguardanti le opere di Cassola sono fondamentalmente quattro e vanno dalla considerazione dei singoli testi con il taglio della recensione alla misura più ampia del saggio o della monografia.
La prima linea interpretativa si dimostra interessata soprattutto a definire, attraverso i contenuti, la tematica esistenziale di Cassola; la seconda affronta in modo più diretto i rapporti dell'intellettuale Cassola con la storia e la società contemporanea; la terza analizza la disponibilità dell'opera cassoliana nei confronti del Novecento europeo e la quarta privilegia la sfera linguistica valutandone le procedure scritturali adottate.
«L'opera di Cassola esige molta intelligenza. Cassola secondo me è uno degli scrittori più difficili che ci siano. È stato accusato di facilità, e questo dimostra appunto la ottusità di chi ha pronunziato questo giudizio. È uno scrittore molto difficile, non nel senso della testualità apparente, ma nel senso della giustezza dell'ascolto. La sua prosa è apparentemente dimessa, apparentemente rinunciataria, quasi dimissionaria riguardo alle complessità retoriche dello stile, ma invece nei momenti alti tutta vibrante e tutta risonante in una sfera molto precisa di sensibilità. Io a distanza di tanti anni, che sono stati anni di obliterazione e di parziali recuperi, sono venuto qui per riconfermare tutte le ragioni che mi hanno avvicinato a lui, che mi hanno fatto sentire una intensità espressiva e una castità espressiva congiunte che invano avrei cercato in altri scrittori che pure mi erano cari»[38]
«Come Morandi, anche Cassola ha orrore della retorica. Nei confronti dei sentimenti semplici, elementari, egli ha la medesima nostalgia, intrisa di sfiducia, che lo fa tornare con sempre rinnovato slancio ai grandi classici, francesi e russi dell'Ottocento... Nel Taglio del bosco, non meno che nella Visita, vige la poetica in base a cui nulla accade, veramente, che possa essere raccontato, e ogni sentimento, per quanto profondo e doloroso sia, in realtà è ineffabile».[39]
«Generalmente i personaggi di Cassola si configurano in una attitudine schiva e come sospesa: non vinti né vincitori di fronte alla vita, ma toccati profondamente dall'esperienza in forme ch'essi non prevedevano e che perciò li fanno perplessi e come interdetti. La crisi li coglie gradatamente ma li rivela a distanza e quasi di colpo, per l'improvviso maturarsi della coscienza. E nel farsi della realtà essi si trovano alla fine vincolati al vivere, alla società, alla temperie storica come seme che nel suolo si pianta. Cioè, la realtà che Cassola dispone come dimora e scena per i suoi attori, anche se di ampia e articolata prospettiva, non li sviluppa interamente e non li esaurisce. Ciascuno di essi ha bisogno di un'ulteriore integrazione, che va rinvenuta nell'interiorità morale, e che di volta in volta sarà sgomento, rimpianto, disincanto, sogno o speranza: ciò che noi chiamiamo elegia»[40]
«Cassola ha, nel quadro della nostra narrativa, un'importanza notevole. In primo luogo, per la felice scelta di un linguaggio medio al quale è saputo restare fedele, salvi gli aggiustamenti cui lo hanno consigliato l'esperienza e il mutare dei gusti. Un mezzo espressivo che aderisce in modo sensibile al suo mondo di esseri semplici, rendendone le sfumature dialettali e gergali, senza inutili verghismi, ma con una pietas intellettiva di recuperi, di annotazioni, di resa emotiva che pochi riscontri trovano nella odierna narrativa. In secondo luogo poi, per aver saputo condurre avanti una sua idea di letteratura subliminare che ha indotto la pagina a eludere sia le strette di una estroversione oggi improponibile, sia i mali più evidenti di un neorealismo di maniera, riscattando sempre, per la levità di tocco, per il saper vedere al di là della superficie opaca delle cose e degli uomini, un riflesso dello splendore eterno che le une e gli altri anima. (...) Altro merito di Cassola è quello di aver saputo cogliere la vita nel suo divenire, quasi sempre senza inutili minuzie di analisi, ma solo per la felicità della scelta di alcuni elementi costitutivi: gli interni proletari o borghesi, le speranze, le delusioni, le ripicche di un mondo che, osservato da vicino, appare meno grigio, meno avaro di suggestioni di quanto a prima vista parrebbe. Di aver creato insomma, dell'esistenza di ogni giorno, un poema tra i più alti di questi ultimi venti anni; un poema in prosa che ha la possibilità di durare proprio per la già vista, quasi costante, lontananza e compromissione con le ideologie".»[41]
«La rappresentazione narrativa di Cassola costituisce un esempio di rapporto con la realtà che nulla ha a che vedere con le strutture del realismo, nelle sue originarie manifestazioni ottocentesche come nei revivals contemporanei: in questa scrittura così indeterminata, di una chiarezza cercata con tanto accanimento, non viene fotografata la realtà esterna, non viene trascritto il mondo com'è, né si attua la fedeltà naturalistica ai dati, al parlato. Della realtà Cassola rifiuta, nell'a priori della sua costruzione narrativa, tutto ciò che di troppo particolare, specifico, locale vi può essere; dai personaggi rimuove tutto ciò che è individuale, determinato; il mondo dei suoi racconti è costituito da una realtà sublimata da nozione locale e limitata a comunicazione generale e diffusa, a discorso comune (...). »[42]
«Il meglio di Cassola si ha quando il respiro e il flusso esistenziali passano all'interno dei suoi personaggi, identificandosi con la loro umile consapevolezza umana e con il loro destino. Attraverso minime e struggenti dislocazioni reali o pensate, o attraverso la fissità apparente della loro condizione Anna di Fausto, Rosa Gagliardi, l'uomo del Taglio del bosco, Anna del Cuore arido misurano gli acquisti e le perdite della loro vita sul metro della vita stessa, così com'è stata e sarà per tutti, così come è in se stessa. Più si adeguano al suo ritmo e respirano del suo stesso respiro, più modificano la nozione tradizionale di personaggio evitando de definirsi, di chiudersi: e così la continuità e il flusso non sono intaccati, forzati e tanto meno arrestati; sono anzi propiziati dai casi e dai pensieri che impercettibilmente fanno diventare sempre più adulte quelle persone e le fanno assomigliare sempre più al volto anonimo della vita»[43]
«Cassola nega che i grossi fatti della storia gli siano indifferenti o siano assenti nei suoi racconti; ma la storia, egli dice, lo interessa quando viene a casa sua e non quando, storicamente, si presenta come il tutto, come una sorta di iper-soggetto che comprende e travolge il destino dei singoli. Si prendano il fascismo e la Resistenza; essi non vengono entificati, non vengono astratti in un senso staccato dalle sorti individuali, da come ciascuno per sé li visse e li sentì, per cui il fascismo è l'umiliazione e il grigiore in cui vissero i vecchi compagni, e la Resistenza è la condizione amletica tra esaltazione e depressione in cui la vive Fausto o l'utopia della violenza in cui la vive Bube; e la restaurazione che le succedette è l'attesa di Mara che sconta nella sua pazienza, maturata nelle prove della vita, le grandi lotte della storia. Su questi fondamenti ideologici, i romanzi di Cassola si presentano come veri antiromanzi.»[44]
Alla periferia, Edizioni de «Il fiore». Narrativa II, (collezione di «Rivoluzione»), Firenze 1942 (contiene Paura e tristezza, Alla periferia, Pensieri e ricordi su Monte Mario, Il mio quartiere, Diario di campagna, Gli amici, Storia e geografia, La vedova del socialista, L'orfano, Ornitologia).
La visita, Parenti (collezione di«Letteratura»,'42), Firenze 1942 contiene La visita, I due amici, Tempi memorabili, Ferrovia locale, Monte Mario, Il soldato, Il cacciatore, Dànroel, Il ritorno dei marinai, Terra di Francia, Bandiera rossa, Sogno invernale, Studenti, Franceschino, Giorgio Gromo, Al polo)
La moglie del mercante, in Botteghe oscure, 1949.
Fausto e Anna, Collana I gettoni n.8, Torino, Einaudi, 1952. Einaudi («Supercoralli»), Torino 1958; Mondadori («Il bosco», 175) 1966; Mondadori («Oscar, 360») Milano 1971; con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, Edito-service S.A., Ginevra 1972; con introduzione di Mario Luzi, Rizzoli («BUR», 87), Milano 1975; a cura di Miriam Galiberti, Sansoni («Leggere a scuola», Firenze 1979.
I vecchi compagni, Collana I gettoni n.19, Torino, Einaudi, 1953; con introduzione di Giuliano Gramigna, Rizzoli («BUR»,319), Milano 1979 (contiene anche Un matrimonio del dopoguerra).
Il taglio del bosco, Fabbri («Narrativa italiana»), Milano 1953 (contiene La moglie del mercante, Le amiche, Il taglio del bosco). Pisa, 1955; Torino, Einaudi, 1959.
Il taglio del bosco. Venticinque racconti, Nistri-Lischi («Il Castelletto. Collana di romanzi italiani», Pisa 1955 (in realtà contiene ventisei racconti: Paura e tristezza, I due amici, La visita, Ferrovia locale, Il soldato, Il cacciatore, Monte Mario. Dànroel, Il ritorno dei marinai, Terra di Francia, Bandiera rossa, Plotino, Franceschino, La moglie del mercante, Clerici, Romolo, Tricerri, L.C., Relazione di Giacomo sulla Svizzera, Decadenza di «Jack», Incontro sullo sdradale, Il Settentrione, Il Settentrione, Il caporale Sbrana, Baba, Le amiche, Il taglio del bosco).[45]
La casa di via Valadier, Collana «I Coralli», 72, Torino, Einaudi, 1956; Mondadori («Oscar», 165), Milano 1968 (contiene anche Esiliati); Einaudi («I Nuovi Coralli»,7) Torino 1971; con introduzione di Geno Pampaloni, Rizzoli («BUR», 270), Milano 1979 (contiene anche Esiliati).
Un matrimonio del dopoguerra , Collana I Coralli n. 82, Torino, Einaudi, 1957 (in copertina dipinto "Tetti al sole" di Roberto Sernesi) .
Il soldato, Milano, Feltrinelli, 1958 (contiene anche Rosa Gagliardi).
La ragazza di Bube, Torino, Einaudi, 1960.
Un cuore arido, Collana SuperCoralli, Torino, Einaudi, 1961.
La visita, Torino, Einaudi, 1962 (raccoglie i precedenti La visita, Alla periferia e La moglie del mercante).
Il cacciatore, Collana I Coralli, Torino, Einaudi, 1964.
Tempi memorabili, Collana I Coralli n. 229, Torino, Einaudi, 1966.
Storia di Ada, Collana SuperCoralli, Torino, Einaudi, 1967.
Ferrovia locale, Collana SuperCoralli, Torino, Einaudi, 1968.
Una relazione, Collana SuperCoralli, Torino, Einaudi, 1969.
Paura e tristezza, Collana SuperCoralli, Torino, Einaudi, 1970.
Monte Mario, Milano, Rizzoli, 1973.
Gisella, Milano, Rizzoli, 1974.
Troppo tardi, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1975.
L'antagonista, Milano, Rizzoli, 1976.
La disavventura, Milano, Rizzoli, 1977.
L'uomo e il cane, Milano, Rizzoli, 1977.
Un uomo solo, Milano, Rizzoli, 1978.
Il superstite, Milano, Rizzoli, 1978.
Il paradiso degli animali, Milano, Rizzoli, 1979.
Vita d'artista, Milano, Rizzoli, 1980.
Ferragosto di morte, Reggio Emilia, Ciminiera, 1980.
Il ribelle, Milano, Rizzoli, 1980.
La morale del branco, Milano, Rizzoli, 1980 (contiene Il dinosauro risvegliato, La lucertola cambia casa, Il falco defraudato, L'egoismo del bue, La morale del branco, Le carte geografiche, La comunità dei camosci e degli stambecchi, Gli amori della ghiandaia, Zabaiòn!, Mare, cielo e campagna, Davanti a una torre normanna, I castelli della Lunigiana, Sacrifici inutili, Buio e nebbia, Vacanza in Sardegna, La vicinanza è deleteria, La guerra greco-gotica, Spartaco, L'origine comune della società e dell'esercito).
La zampa d'oca, Milano, Rizzoli, 1981.
L'amore tanto per fare, Milano, Rizzoli, 1981.
Colloquio con le ombre, Milano, Rizzoli, 1982 (contiene Colloquio con le ombre, Il leone fuggito, Il coleottero, La morte del figlio di Gostino, Al caffè, Vieri, Una vita).
Il mondo senza nessuno, Marmirolo, Ciminiera, 1982.
Gli anni passano. La ragazza di Bube vent'anni dopo, Milano, Rizzoli, 1982.
Mio padre, Milano, Rizzoli, 1983 (contiene Mio padre, Confessione d'una debolezza, Romano, Dante, Beppe, Piero, Baba e Lidori, I pericoli peggiori corsi da partigiano, Cecina e Volterra, Grosseto, L'uva).
Le persone contano più dei luoghi, Firenze, Pananti, 1985 (contiene anche Paura della morte).
I minatori della Maremma, con Luciano Bianciardi, Bari, Laterza, 1956.
Viaggio in Cina, Milano, Feltrinelli, 1956.
Poesia e romanzo, con Mario Luzi, Milano, Rizzoli, 1973.
Fogli di diario, Milano, Rizzoli, 1974.
Ultima frontiera, Milano, Rizzoli, 1976.
Il gigante cieco, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1976.
La lezione della storia, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1978.
Carlo Cassola: letteratura e disarmo. Intervista e testi, a cura di Domenico Tarizzo, Milano, A. Mondadori, 1978.
Contro le armi, Marmirolo, Ciminiera, 1980.
Cassola racconta, a cura di Pietro Poiana, Marmirolo, Ciminiera, 1981.
Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, 1981.
Diritto alla sopravvivenza, Torino, Eurostudiopocket, 1982.
La rivoluzione disarmista, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1983.
Il mio cammino di scrittore, con illustrazione di Venturino Venturi, Pananti, Firenze 1984 (edizione fuori commercio di 300 esemplari numerati).
Disarmo o barbarie, con Angelo Gaccione, a cura di Bruno Zanotti, postfazione di Cesare Medail, Trento, New Magazine, 1984.
La donna del poeta; Morte dell'adolescente; Pioggia di fin d'agosto (poesie), «Almanacco 1935, Anno XIII», II, pp. 225–9.
La buona morta e Andare di sera per la città con gli occhi socchiusi (poesie), «Il pensiero dei giovani - La Gazzetta», Messina, 30 marzo 1936.
Soffioncino (poesia), «Il pensiero dei giovani - La Gazzetta», Messina, 30 marzo 1936.
Giardino pubblico (poesia), «Il pensiero dei giovani - La Gazzetta», Messina, 27 aprile 1936.
Grande adunata (prosa), «Il pensiero dei giovani - La Gazzetta», Messina, 11 maggio 1936.
Andavamo ansiosi di respirare e Mediocrità dei sensi (poesie), «Il pensiero dei giovani - La Gazzetta», Messina, 8 giugno 1936.
Ritornello (prosa), «Il pensiero dei giovani - La Gazzetta», Messina, 22 giugno 1936. Poi in Sergio Palumbo, L'impetuosa giovinezza di antiborghesi senza rimedio, EDAS, Messina, 1999.
Tre poesie (Momento 13 maggio 1936; Nella valle, 27 gennaio 1937; Figura, maggio 1936), «La Ruota», 28 febbraio 1937, pp. 24–5.
Uomini sul mare, «Il Meridiano di Roma», XV, 2 maggio 1937, p. VI.
Paura e tristezza. Racconto, «Il Meridiano di Roma», XV, 26 settembre 1937, p. VII. Poi, con Tempi memorabili e I due amici, «Letteratura», IV, 3, luglio-settembre 1940, pp. 35–44, e in Alla periferia.
Tre racconti. La visita, Il soldato, Il cacciatore, «Letteratura», III, 4, ottobre-dicembre 1939, pp. 42–9.
Ferrovia locale, «Rivoluzione», II, 4, 5 marzo 1940, p. 5.
Dànroel, «Corrente», III, 5, 15 marzo 1940, p. 3.
Il ritorno dei marinai, «Frontespizio», XII, 3, marzo 1940, p. 160.
La casa di campagna, «Corrente», III, 9,15 maggio 1940, p. 5.
Terra di Francia e Sogno invernale, «Il Frontespizio», XII, 3, marzo 1940, p. 160.
Bandiera rossa, «Il Frontespizio», 6, giugno 1940, p. 324.
Le ballerine, «Il Frontespizio», XII, 6, giugno 1940, p. 324.
Tempi memorabili, I due amici, 'Paura e tristezza, «Letteratura» IV, 3, luglio-settembre 1940, pp. 35-44.
Rynton Pem, «Il Frontespizio», XII, 10, ottobre 1940, p. 662.
Tre frammenti, «Il Frontespizio», 12, dicembre 1940, p. 662.
il gioco, «Oggi», III, 1, 4 gennaio 1941, p. 18.
Racconti (Giorgio Gromo; Inizio di un racconto; Monte Mario), «La Ruota», II, serie III, 1º gennaio 1941, pp. 26-9.
Gli scherzi. Racconto, «Oggi», III, 5, 1º febbraio 1941, p. 5. Poi in Alla periferia.
Diario di campagna, «Rivoluzione», III, 7-9, 20 febbraio 1941, p. 5. Poi in Alla periferia.
La lite. Racconto, «Oggi», III, 12, 22 marzo 1941, p. 10.
Ricordi senza importanza, «Ansedonia», III, III, 2 marzo 1941, pp. 26-7.
Viaggio in città, «Lettere d'oggi», III, 3, aprile 1941, pp. 41-2.
L'amico perfetto. Racconto, «Oggi», III, 20, 17 maggio 1941, p. 14. Poi in Alla periferia.
Frammento, «Il Campano», maggio 1941.
La vedova del socialista, «Oggi», III, 25, 21 giugno 1941, p. 14. Poi in Alla periferia.
Contrasti, «Oggi», III, 28, 12 luglio 1941, p. 14.
Il noce e l'olivo, «Oggi», III, 20, 17 maggio 1941, p. 10.
Pensieri e ricordi su Monte Mario, «Letteratura», V, 3, luglio-settembre 1941, pp. 62-5. Poi in Alla periferia.
Il denaro. Racconto, «Oggi», III, 43, 25 ottobre 1941, pp. 12-3.
Gli amici, «Rivoluzione», III, 1-2-20 novembre 1941, p. 4. Poi in Alla periferia.
Tre romanzi, «Rivoluzione», III, 3, 5 dicembre 1942, p. 16.
Gli adolescenti, «Oggi», IV, 2, 10 gennaio 1942, p. 16.
Grosseto come Kansas City, «Il Mattino dell'Italia Centrale», 10 novembre 1948, p. 3.
Una Maremma verde, «Il Mondo», III, 33, 18 agosto 1951, p. 5.
Tre studiosi locali, «Il Mondo», IV, 3, 19 gennaio 1952, p. 5.
Il Santo dell'Amiata, «Il Mondo», IV, 11, 15 marzo 1952, p. 5.
I nababbi del sottosuolo, «Il Mondo», IV, 27, 5 luglio 1952, p. 5.
I localisti, «Il Mondo», V, 6, 7 febbraio 1953, p. 12.
Marxismo e cinema, «Il Mondo», V, 17, 25 aprile 1953, p. 5.
La riforma agraria in provincia di Grosseto, «Comunità», VII, 19, giugno 1953, pp. 16-20.
La cultura in provincia, «Comunità», VII, 21, novembre 1953, pp. 34-35.
Gli inizi del fascismo in Maremma, con Luciano Bianciardi, «Comunità», VII, 23, febbraio 1954, pp. 32-36.
La strage di Niccioleta, «Il Contemporaneo», I, 1, 27 marzo 1954, p. 6.
Il clima di una tragedia, «Il Nuovo Corriere - La Gazzetta», 5 maggio 1954, p. 1.
La guerra della Montecatini, «Il Contemporaneo», I, 8, 15 maggio 1954, p. 7.
I minatori maremmani, con Luciano Bianciardi, «Nuovi Argomenti», 8, maggio-giugno 1954, pp. 1-34.
Biografie di minatori della Maremma, con Luciano Bianciardi, «Nuovi Argomenti», 14, maggio-giugno 1955, pp. 111-133.
Problemi di lavoro e di libertà nella miniera di Boccheggiano, «Il Nuovo Corriere - La Gazzetta», 24 giugno 1955, p. 2.
Una vita, in Antologia del Campiello millenovecentosessantasette. Antonio Barolini, Carlo Cassola, Gino De Sanctis, Giuseppe Mesirca, Luigi Santucci, Venezia, Scuola grafica del Centro arti e mestieri della Fondazione Giorgio Cini, 1967, pp. 36–53. Poi in Colloquio con le ombre.
Il leone fuggito, Firenze, Pananti, 1981 (edizione fuori commercio di 150 esemplari numerati). Poi in Colloquio con le ombre.
Due racconti, Pananti, Firenze, 1983 (edizione fuori commercio di 300 esemplari numerati). Poi in Mio padre.
DATA DI NASCITA Venerdì 11 marzo 1921 LUOGO DI NASCITA Mar del Plata, Argentina
DATA DI MORTE Sabato 4 luglio 1992 (a 71 anni) LUOGO DI MORTE Buenos Aires, Argentina
Qui, ancora giovanissimo, intraprende la carriera musicale. Riconosciuto da subito come uno straordinario solista di bandonèon (strumento a lamella libera, simile alla fisarmonica, paradossalmente nato in Germania a differenza del luogo comune che lo vuole tipicamente argentino), inizia la sua avventura in un'orchestra che si esibiva nei locali notturni della città, per poi "evolversi" e intraprendere una proficua attività di compositore accademico, temprata dalle lezioni parigine di Nadia Boulanger, generosa mentore di innumerevoli musicisti del Novecento, e da quelle del grande connazionale Alberto Ginastera.
Ma la sua vera aspirazione è quella di suonare il tango: è quella la musica che lui sente veramente, tanto che i suoi stessi insegnanti lo spingono in quella direzione.
Quando fa dunque ritorno in Argentina, nel 1955, il suo bagaglio è straordinariamente ricco e la sua preparazione di altissimo livello; una preparazione assai rara da trovare nei musicisti di estrazione "popolare". Tutto questo non si può dimenticare quando si ascolta la sua musica. L'amore per l'Europa, la sua aspirazione ad un linguaggio complesso e sofisticato, l'omaggio che il musicista implicitamente desidera attribuire ai maggiori compositori di sempre, da lui profondamente amati, sono elementi imprescindibili del suo far musica. E i risultati lo hanno storicamente premiato di tanto sforzo. Mai si era sentita una musica così commossa, intrisa di malinconia ma anche capace di inaspettata aggressività e vitalità.
Insomma, Piazzolla, grazie agli spettacoli realizzati in Argentina cominciò a dar vita, con la formazione dell'Octeto Buenos Aires, a quello che fu definito il "nuovo tango", rivoluzionario nella forma e nei colori rispetto al tradizionale tango argentino.
Il linguaggio ritmico, lo spirito fortemente drammatico e passionale, i vividi colori sono gli elementi fondamentali a cui quali Piazzolla si ispira per creare composizioni "quasi" classiche per struttura ed elaborazione, servendosi di tutti gli strumenti espressivi della musica "colta" e del jazz.
Naturalmente, questo non mancò di suscitare rimostranze e disapprovazione da parte di alcuni conservatori, senza capire che in realtà l'arte di Piazzolla collocava il Tango definitivamente al di là del tempo e dello spazio, offrendo una dimensione colta e assolutamente nobile a quella tradizione.
Piazzola creò all'uopo un ensemble completamente strumentale, comprensivo di bandoneon , di pianoforte, violini, violoncello, contrabbasso e chitarra . Copiosissima fu la sua produzione nel periodo argentino e in quelli che seguirono. Fra i suoi titoli più famosi citiamo "Concierto para Quinteto", "Adiós Nonino", "Libertango", la serie "Las cuatro estaciones porteñas", "Tristezas de un Doble A", "Soledad", "Muerte del Angel", "Tanguedia", "Violentango", "Tango apasionado" , "Five Tango Sensations" e moltissimi altri, a cui si aggiungono le numerose colonna sonore realizzate. Ma ha anche realizzato una stupenda opera teatrale "Maria di Buenos Aires", che ha tutte le caratteristiche inconfondibili della sua arte.
Oggi Piazzolla è ritenuto a tutti gli effetti uno dei più grandi compositori del Novecento e gode di stima e fama in tutto il mondo. Le sue composizioni sono interpretate da grandi orchestre e da famosi musicisti classici, oltrechè da numerosi jazzisti. Con la sua opera, il passionale musicista argentino ha dimostrato che il tango può essere un'espressione eterna dello spirito umano.
8 marzo festa delle donne
BASSANI, Giorgio
Primogenito di Angelo Enrico, proprietario terriero e medico, senza esercitare la professione, e Dora Minerbi, nacque il 4 marzo 1916 a Bologna.
TRA FERRARA E BOLOGNA: GLI ANNI DI FORMAZIONE
A Ferrara, città della sua famiglia appartenente all’alta borghesia ebraica, Bassani visse l’infanzia e l’adolescenza, con i fratelli Paolo e Jenny, nella grande casa al n. 11 di via Cisterna del Follo, dove abitavano anche i nonni paterni: Davide, stimato commerciante di tessuti, e Jenny Hannau. Frequentò il liceo classico «Ludovico Ariosto», dove ebbe per compagno Lanfranco Caretti e come docente di latino e greco Francesco Viviani, antifascista, sospeso dall’insegnamento nel 1936 (cui Bassani inviò una commossa lettera di solidarietà, e morto poi a Buchenwald nel 1945). Il docente di italiano, Francesco Carli, gli trasmise la passione per Dante, un cui celebre verso («L’essilio che m’è dato, onor mi tegno»), divenne poi il motto del protagonista di Dietro la porta. Allo studio, compreso quello del piano, poi surclassato dall’amore per la letteratura, si accompagnava la passione per il tennis, con la frequentazione, assieme tra l’altro a Michelangelo Antonioni, del Tennis Club Marfisa d’Este, punto di incontro della borghesia ferrarese. Nel 1934, rompendo la tradizione familiare (padre, nonno materno, Cesare, e zio materno, Giacomo, tutti medici) si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, quotidianamente raggiunta in treno con l’amico Caretti. Fu proprio la campagna emiliana, inquadrata dal finestrino di un treno in una poesia giovanile (Verso Ferrara, ma originariamente Verso F.) e rivisitata tramite le luci e i colori dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento, a suggerirgli i toni dell’ispirazione lirica. L’ambiente bolognese rappresentò per lui anche una scuola letteraria, con i nomi di Riccardo Bacchelli, Leo Longanesi che lì aveva fondato L’Italiano, e Giuseppe Raimondi, che lo introdusse ai classici francesi del secondo Ottocento (Flaubert, Rénard, Maupassant, Zola). Con Attilio Bertolucci, Augusto Frassineti, Franco Giovanelli, Antonio Rinaldi e i fratelli Francesco e Gaetano Arcangeli, a Bologna frequentò anche un circolo di intellettuali distanti sia dai rondisti sia dagli ermetici. Nell’intersecarsi di rapporti letterari e artistici, la mediazione pittorica, fondamentale nel suo approccio al reale, molto si avvalse dell’opera dell’amato Giorgio Morandi e soprattutto delle lezioni di Roberto Longhi (cfr. Un vero maestro, in Di là dal cuore, in Opere, Milano 1998, pp. 1073-1077), conosciuto sul finire del ’35 e con cui instaurò una profonda e ammirata amicizia, protratta anche sui campi da tennis. Insieme a Longhi, punto di riferimento fu Benedetto Croce, il cui magistero idealistico fu da lui sempre riconosciuto centrale per la propria formazione, e nella cui religione della libertà si identificò totalmente. Nel maggio 1935 sul Corriere Padano di Ferrara, fondato nel 1925 da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, aperto a giovani quali Antonioni, Antonio Delfini, Elio Vittorini e Caretti, pubblicò il suo primo racconto, III classe, ispirato all’esperienza di pendolare e destinato a inaugurare una collaborazione, con racconti, poesie, articoli e traduzioni, protratta fino al novembre 1937. Nel giugno 1939 si laureò con Carlo Calcaterra discutendo una tesi su Niccolò Tommaseo: oltre a escluderlo dalla Biblioteca comunale, le leggi razziali lo costrinsero a insegnare nella scuola israelitica di via Vignatagliata, nel ghetto di Ferrara.
PUBBLICITÀ
Nel 1940 pubblicò a sue spese a Milano, presso l’Arte grafica A. Lucini e c., Una città di pianura, firmandosi, ancora per le restrizioni razziali, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, usato anche per alcune collaborazioni giornalistiche, unendo il cognome della cattolica nonna materna, Emma Marchi, al nome dello zio Giacomo Minerbi, poi protagonista dei versi di Storia di famiglia, in Epitaffio. Il libro, dal titolo significativo, raccoglieva, oltre al testo eponimo, altri quattro racconti, Omaggio, Un concerto (già apparso in Letteratura nell’aprile del 1938), Rondò, Storia di Debora (prima versione di Lida Mantovani) e una poesia, Ancora dei poveri amanti, poi passata nella raccolta Storie dei poveri amanti. Si avviava così il tentativo di ricostruire secondo una personale topografia del cuore una città di provincia, la qui ancora innominata Ferrara, strappata ai mitologismi di «città del silenzio» di quel d’Annunzio da lui considerato non poeta ma letterato, e resa credibile al lettore pur nel nesso realtà-fantasia in cui era fatta rivivere. Importante fu, tra le amicizie ferraresi, la dichiarata influenza di un gruppo di insegnanti sardi formatisi a Pisa, tra i quali Giuseppe Dessì e Claudio Varese. Fu proprio Dessì che suggestionò la stesura di Un concerto, leggendogli via via le pagine di San Silvano, romanzo che stava scrivendo e per cui nel 1939 Gianfranco Contini parlò di un Proust sardo.
L’ANTIFASCISMO, L’ARRESTO E LA SCELTA DI ROMA
Gli anni fra il 1937 e il 1943 furono segnati dall’attività antifascista clandestina che, avviata dall’incontro nel 1937 con Carlo Ludovico Ragghianti, tramite il quale conobbe anche Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, doveva salvarlo dalla disperazione in cui vide sprofondare tanti ebrei italiani traditi dal fascismo, compreso suo padre. Arrestato nel maggio 1943, Bassani fu scarcerato il 26 luglio: restano, di quella esperienza, le lettere scritte ai familiari (Da una prigione), poste poi in apertura del volume saggistico Di là dal cuore (Milano 1984). Il 4 agosto si sposò a Bologna con Valeria Sinigallia e decise di lasciare Ferrara prima per Firenze, dove si legò di amicizia con Manlio Cancogni, e poi, nel dicembre 1943, per Roma che diventò la sua città di adozione, percorsa in bicicletta come già la sua Ferrara e continuata sempre negli anni a scoprire con un gusto da flâneur: nella camera da letto della sua ultima casa in Trastevere posavano i fogli della grande mappa settecentesca di Roma di Giambattista Nolli, invito a mattutine esplorazioni.
Nell’estate del 1944 si spostò a Napoli, dove già si erano rifugiati tra l’altro Leo Longanesi e Mario Soldati, con cui Bassani sviluppò un forte sodalizio intellettuale, e da dove scrisse qualche articolo per l’edizione romana di L’Italia libera, quotidiano del Partito d’Azione (Pd'A). I rapporti con Napoli si mantennero nel tempo, specie con la collaborazione, tra il ’46 e il ’51, mediata dal direttore Carlo Zaghi conosciuto a Ferrara, con il quotidiano di ispirazione liberale Il Giornale, attivo dal 1944 al 1957 e che si avvalse anche della firma di Benedetto Croce. Il 1945, anno in cui nacque la figlia Paola, cui seguì, nel 1949, Enrico, fu anche l’anno di uscita delle sue traduzioni di Vita privata di Federico II di Voltaire e Il postino suona sempre due volte di James Cain, ma soprattutto di Storie dei poveri amanti e altri versi, edite a Roma da Astrolabio, ristampate e ampliate l’anno successivo. A queste liriche, positivamente recensite da Leonardo Sinisgalli (v. Il Costume politico e letterario, 29 settembre 1945, p. 14) ed Eugenio Montale (Il Mondo, 1° dicembre 1945, p. 6), fecero seguito nel 1947, sempre per l’editore Ubaldini, i versi di Te lucis ante. 1946-1947, dal titolo ispirato all’omonimo canto liturgico intonato nel canto VIII del Purgatorio e di cui ventun poesie confluirono con varianti nella successiva raccolta mondadoriana del 1951, Un’altra libertà. Le tre raccolte furono riviste e riunite in L’alba ai vetri. Poesie 1942-50, pubblicata da Einaudi (Torino 1963).
In un Poscritto inserito ne L’alba ai vetri e risalente a un testo del 1952, edito su Paragone-Letteratura nel 1956, Bassani ripercorreva la propria nascita alla poesia, con un richiamo d’esordio a Longhi («Critici si nasce: poeti si diventa – ha detto Roberto Longhi»), e segnava il passaggio da un iniziale approccio lirico mediato dall’arte e dalla cultura e affidato a paesaggi amati e dunque idilliaci, alla volontà di fare i conti con una realtà impressa dalla guerra e dalla prigione. Se infatti tali esperienze segnavano i versi di Te lucis ante, considerati dallo stesso autore fondanti per la sua scrittura, non solo lirica, già Storie dei poveri amanti, aperte dai temi della memoria e del rimpianto («Lascia ch’io ti ricordi»), dell’assenza e del silenzio, su un sostrato ermetico e montaliano, trovavano accenti funerei, come nei versi di Cena di Pasqua, cui si ricollegò poi un episodio del Giardino dei Finzi-Contini. E gli altri versi della raccolta del ’45 erano ispirati da un ragazzo morto nelle quattro giornate napoletane del settembre 1943 e dalla tomba, presso il lago di Albano, di un soldato tedesco. La vocazione lirica, preminente a quest’altezza cronologica con modelli quali Montale, Saba, l’Ungaretti religioso, ma anche poeti minori del tardo Ottocento come Pompeo Bettini e Francesco Gaeta, cari entrambi a Croce, rimase comunque fondamentale per chi come Bassani amò sempre definirsi, al di là della connotazione retorico-stilistica, sostanzialmente un poeta.
Iscrittosi al Partito socialista italiano (PSI), dopo il congresso del 1946 del Partito d’Azione e le sue fratture interne, allargò nel frattempo il cerchio delle amicizie, con la conoscenza di Pier Paolo Pasolini, Cesare Garboli, Niccolò Gallo e la moglie Dinda, i coniugi Maria e Goffredo Bellonci e la principessa Marguerite Caetani che, dopo l’esperienza della rivista parigina Commerce, fondò nel 1948 il cosmopolita semestrale Botteghe Oscure (dal nome della via sede della redazione, a palazzo Caetani), che divulgò importanti autori sia stranieri sia italiani e in cui Bassani ebbe fino alla chiusura (1960) il ruolo di redattore. Oltre all’impegno didattico, che lo vide insegnare presso l’istituto nautico di Napoli e alla scuola d’arte di Velletri, venne avviandosi l’attività di sceneggiatore, con collaborazioni tra l’altro con Soldati, Antonioni, Blasetti e Zampa: un’esperienza che influì anche sulla sua tecnica narrativa e in cui coinvolse l’amico Pasolini, iniziandolo così al cinema, sin dalla sceneggiatura nel 1954 di La donna del fiume di Soldati. Nel ruolo di un professore, fu anche attore ne Le ragazze di piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer.
GLI ANNI CINQUANTA E LA NASCITA DELLE «STORIE FERRARESI»
Nel 1953 Sansoni pubblicò La passeggiata prima di cena che riuniva tre racconti apparsi in Botteghe oscure: il racconto eponimo del 1951 (ma di cui una prima stesura risaliva al 26 agosto 1945 su Domenica), Storia d’amore, rielaborazione del 1948 di Storia di Debora, e Una lapide in via Mazzini, edita nel 1952. Nell’aprile 1954 apparve nella sezione letteraria di Paragone, la rivista di Anna Banti e Roberto Longhi – di cui era divenuto redattore nel 1953 e che lasciò definitivamente nel 1971 – Gli ultimi anni di Clelia Trotti, rifiutato da Marguerite Caetani e poi in volume nel 1955 a Pisa per Nistri-Lischi. Questi racconti, insieme a Una notte del ’43, uscito nel 1955 sempre su Botteghe oscure e da cui nel 1960 l’esordiente regista ferrarese Florestano Vancini trasse il film La lunga notte del ’43, con Pasolini tra gli sceneggiatori, composero le Cinque storie ferraresi, pubblicate nel 1956 da Einaudi e insignite con il premio Strega, ma destinate a una fitta serie di revisioni nella protratta rielaborazione dello scrittore del suo Romanzo di Ferrara. La più rivisitata tra queste storie, da un primitivo abbozzo del ’37 fino all’edizione definitiva del 1980, fu il racconto titolato nel volume del ’56 Lida Mantovani (l’originaria Storia di Debora). Con queste cinque storie che composero poi Dentro le mura, primo libro del Romanzo di Ferrara, Bassani aveva comunque ritrovato la sua città, finalmente nominata per esteso dopo un precedente pseudoanonimo F.
Di grande impatto visivo è la scena di apertura de La passeggiata prima di cena: un racconto che nella sua stessa struttura intendeva asserire, su parole d’autore, che «il passato non è morto […] non muore mai» (Laggiù, in fondo al corridoio, in L’odore del fieno, in Opere, cit., p. 939). Da una vecchia cartolina ingiallita, ricavata da una fotografia, rinasce corso Giovecca, principale arteria cittadina, quale era sul finire dell’Ottocento: in questa lunga carrellata cinematografica, prendono vita l’apprendista infermiera Gemma Brondi, figlia di contadini, e il dottor Elia Corcos con la sua bicicletta. E di Elia, vanto di Ferrara nella rivalità con Bologna e il suo Murri e controfigura del nonno dello scrittore, Cesare Minerbi, presente poi nei versi de La cuginetta cattolica (in Epitaffio), seguiremo le tracce dal lontano 1888, data del suo fidanzamento con Gemma, fino alla deportazione in Germania, nel ’43, insieme con il figlio Jacopo. Ma le strade di Ferrara sprigionano anche tutti gli altri personaggi di queste storie: da Lida Mantovani, nelle sue vicende sentimentali prima con il ricco borghese contestatore David, che la lascia incinta, poi con l’onesto, pacato rilegatore Oreste Benetti, che diverrà suo marito, a Geo Josz che, ricomparso a Ferrara nell’agosto 1945, unico superstite dei 183 ebrei deportati nell’agosto 1943, vede il proprio nome sulla lapide che un operaio sta murando in via Mazzini. E ancora Clelia Trotti, la vecchia maestra socialista in cui è proiettata la figura di Alda Costa, frequentata fra il 1936 e il ’43 dall’autore che, a sua volta, presta alcuni dei propri connotati al deuteragonista, Bruno Lattes, e Pino Barilari, il paralitico farmacista impietrito testimone dai vetri di una finestra (immagine cardine, di partecipazione/esclusione, nella narrativa di Bassani) dell’eccidio fascista compiuto sul marciapiede di fronte a lui il 15 novembre 1943 (ma dicembre, nel testo): eccidio di cui al processo non rivelò tuttavia le responsabilità, trincerandosi dietro un lapidario «dormivo».
Nel 1955 con Umberto Zanotti Bianco, Filippo Caracciolo, Elena Croce e altri, Bassani fu tra i fondatori dell’associazione «Italia Nostra» e nel 1956 divenne consulente editoriale della Feltrinelli, promuovendo vari autori sia stranieri, come Jorge Luis Borges, Edward Morgan Forster, Ford Madox Ford, Karen Blixen, sia italiani, quali Cancogni, Delfini e Franco Fortini. Clamorosi successi editoriali dovuti al suo intuito critico furono nel 1957 l’anteprima mondiale de Il dottor Živago di Boris Pasternak e nel 1958, con una sua prefazione, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suggeritogli da Elena Croce e già rifiutato da Mondadori e da Einaudi. Nel 1957 iniziò a insegnare storia del teatro all’Accademia d’arte drammatica «Silvio d’Amico», dove ebbe allievi che furono poi attori e registi famosi e rimase seguito maestro per un decennio, specie per le sue lezioni sul teatro francese. Nel 1958 uscì su Paragone-Letteratura e poi in volume da Einaudi Gli occhiali d’oro, romanzo breve da cui nel 1987 Giuliano Montaldo trasse l’omonimo film: nel 1960, insieme a Cinque storie ferraresi, formò una nuova edizione intitolata Le storie ferraresi.
Persuaso della necessità, dopo le cinque storie che avevano ricreato la sua Ferrara, di uscire allo scoperto e di dire “io”, lo scrittore adotta ne Gli occhiali d’oro la prima persona, nelle vesti di uno studente ebreo che narra la storia del dottor Athos Fadigati, trasferitosi nel primo dopoguerra da Venezia a Ferrara e identificato sin dal titolo da quegli occhiali che, nella narrativa di Bassani, si pongono a diaframma di separazione dalla realtà. Di là dalla passione per Wagner, anomala fra i personaggi ferraresi di Bassani, usi a canticchiare arie tra Verdi e Rossini, la sua diversità è data dalle frequentazione sessuali, discretamente praticate con uomini modesti e di mezza età. Ma nel 1937 sul treno Ferrara-Bologna la conoscenza di un gruppo di studenti, tra i quali l’anonimo io narrante, parziale ritratto dello scrittore da giovane, lo coinvolge in una scandalosa storia d’amore con il biondo, sfrontato e bellissimo Eraldo Deliliers, con cui girerà le spiagge adriatiche su una rossa Alfa Romeo a due posti. Una storia dunque che riecheggia il Thomas Mann della Morte a Venezia, chiusa non dal sopravvenire di un allegorico colera, ma dal suicidio di Fadigati che, abbandonato e derubato dal cinico Eraldo, trova compassione e amicizia nel solo io narrante, anch’egli un emarginato, nell’approssimarsi delle legge razziali. Ed è da questa esperienza che il giovane deuteragonista misurerà la propria distanza da un padre romantico e patriota, la cui ingenuità politica, comune a una generazione di ebrei italiani, lo aveva indotto a prendere nel 1919 la tessera del fascio e quindi a persuadersi di contingenti ragioni di politica estera per la campagna antisemitica.
IL SUCCESSO DEGLI ANNI SESSANTA
Nel 1962, dopo lunga elaborazione retrodatabile a primi abbozzi degli anni Quaranta, apparve presso Einaudi Il giardino dei Finzi-Contini, che si aggiudicò il premio Viareggio decretando così la piena affermazione del Bassani narratore. Nel 2016, il manoscritto, regalato dall’autore nel dicembre 1961 alla contessa veneziana Teresa Foscari Foscolo (1916-2007) con una dedica che la eleggeva a sua musa, è stato donato dagli eredi al Comune di Ferrara.
L’immagine ormai atemporale delle tombe etrusche di Cerveteri, su cui si apre il romanzo, riallaccia il circuito memoriale richiamando il cimitero israelitico di Ferrara e, lì, la monumentale tomba dei Finzi-Contini in cui, eccetto il primogenito Alberto, morto di malattia nel 1942, non hanno trovato riposo i personaggi legati alla giovinezza dell’io narrante: Micòl, i genitori e la paralitica nonna materna, deportati in Germania nell’autunno del 1943. Un giardino edenico, introvabile sulle guide turistiche ma assimilabile al baudelairiano «vert paradis des amours enfantines» e memore del castello di Yvonne de Galais nel Grand Meaulnes di Alain-Fournier, fa da sfondo all’affascinante quanto imprendibile Micòl, novella Angelica destinata a sparire non per un anello fatato ma per gli orrori della storia. Proustiana figura di fuggitiva, eppur di prigioniera, la mitica e tragica Micòl trova il suo consistere solo entro il muro di cinta di un giardino fantasticamente creato sullo spazio verde cittadino che avrebbe potuto accoglierlo e chiude sé e l’io narrante, accomunati dal «vizio […] d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro» (Opere, cit., p. 513), in un cerchio fuori dal tempo e dalla storia. Come ribadisce l’Epilogo, l’adesione di Micòl, sulla scia di Mallarmé, a «le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui», ma soprattutto a un passato investito di dolcezza e di pietas, non sarà scalfita dalla fiducia in un domani democratico e socialmente migliore del giovane lombardo Malnate, destinato a perdersi tra le nevi della campagna di Russia. Fra il 1938 quando l’io narrante, espulso in quanto ebreo dal Circolo del Tennis, varca il muro di cinta del chiuso giardino, accolto dai correligionari Finzi-Contini nel loro campo da tennis, e l’estate del 1939, svolta di maturazione segnata dalla laurea e dalla rinuncia all’amore cui Micòl si rifiuta, si consuma una epoché della storia, il cui cammino si appresta a cancellare ogni traccia edenica, spazzando via singole vite che solo una memoria etica e civile saprà salvare.
Consigliere comunale di Ferrara per il Partito socialista nel 1962, Bassani si mobilitò, in linea con i principî di «Italia Nostra», per la salvaguardia dell’ambiente e dei beni artistici cittadini. Con Feltrinelli, sempre più aperto ai gruppi neoavanguardistici, a causa del libro di Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia, rifiutato con richiesta di revisione nella collana da lui diretta, si ebbe una rottura, sfociata anche in una causa per spionaggio editoriale, vinta da Bassani. Dello stesso periodo fu l’accesa polemica proprio con il Gruppo ’63 che lo aveva definito, insieme a Cassola, «la Liala della letteratura italiana».
Nel 1964 uscì da Einaudi il romanzo Dietro la porta, il cui titolo veniva da lontano, se già nel testo di Rondò, in Una città di pianura, un adolescenziale protagonista ebreo si trovava ad ascoltare «dietro i muri, dietro le porte» (Opere, cit., p. 1542).
Romanzo breve, trascurato da critica e lettori, ma rivendicato dall’autore, al di là della confessione viscerale, come affresco etico-politico di un ambiente storico, Dietro la porta, in una Ferrara còlta tra il 1929 e il 1930, ripercorre l’emarginazione adolescenziale di un ragazzo ebreo, voce narrante al primo anno di liceo, nella conflittualità con il compagno di banco e primo della classe, Carlo Cattolica, dall’arianissimo cognome, e nell’ambiguo rapporto con un altro compagno, Luciano Pulga, mosso dall’invidia sociale. Il voyeurismo è tema portante del romanzo: se alla pensione Tripoli Pulga spia dietro al muro e alla porta i cambi dei pigionanti a ore, l’io narrante spia con le ciglia abbassate il comportamento di Luciano; spia dietro la porta socchiusa, su incitamento del prevaricante Cattolica, Luciano che sparla di lui; spia, da una porta a vetri, la sua stessa famiglia riunita a cena. E il ring che Cattolica ha apprestato in salotto perché i due compagni si affrontino a viso aperto, non sarà mai calcato, se il protagonista opterà per una fuga solitaria, suggello a ogni potenzialità di rapporto.
Nel 1964 Bassani divenne vicepresidente della RAI, in quota socialista e, nel 1965, eletto alla presidenza di «Italia Nostra». Nel 1966, in seguito alle nomine fatte in sua assenza, dette le dimissioni dalla RAI e dal partito, passando tra le fila dei repubblicani, ai quali lo legava tra l’altro la vecchia amicizia con Ugo La Malfa. Sempre nel 1966 uscì da Einaudi Le parole preparate, raccolta di articoli apparsi su periodici, poi riproposta e ampliata nel mondadoriano Di là dal cuore dell'84. Nel 1968, per Mondadori, uscì il romanzo L’airone, vincitore nel 1969 del premio Campiello e che rappresentò una felice volontà di rinnovamento della sua narrativa.
Voyeur per eccellenza è il protagonista, Edgardo Limentani, nel registrare il cui sguardo che si posa sulle cose senza parteciparvi lo scrittore si è servito di una tecnica da école du regard. Il «misero / Edgardo / incapace di dire di sì / al mondo / altrimenti che salutandolo» (Anche tu, in Epitaffio), pare nascere da proiezioni autobiografiche, come suggerisce la conversazione con Cancogni nella Fiera letteraria del 14 novembre 1968. L’atonia del personaggio Bassani si materializza nel quarantacinquenne Edgardo, trovando la sua veste storica nella crisi postbellica di una borghesia agricola ferrarese rimasta attardata sulla via dei rinnovamenti, senza alcuna spinta, né psicologica, né ideale, verso un ipotetico mondo nuovo. In un lungo percorso, coincidente con una battuta di caccia e consumato nell’arco di una sola giornata, in una discesa entro spirali d’angoscia, lungo metafore (il pozzo; un budello sotterraneo) che riecheggiano la botola che separa Pino Barilari dal mondo della storia, Edgardo abdicherà totalmente all’azione, accucciato come in sogno nella botte sperduta tra le valli. Nel riuscitissimo episodio-simbolo del romanzo, il protagonista, ceduto il suo costoso fucile al contadino che lo accompagna, l’ex partigiano comunista Gavino, assisterà passivamente allo sterminio degli uccelli per mano dell’altro e, infine, al gratuito ferimento dell’airone e alla sua spaurita agonia. Ed è questa buffa, inutile figura di airone andato scioccamente a cacciarsi nei guai, reminiscenza dell’albatros baudelairiano e del cigno del sonetto di Mallarmé caro a Micòl, l’unico possibile alter ego, la cui morte indicherà la via di un suicidio da consumare pudicamente fuori scena.
LA RISCRITTURA DEL ROMANZO DI FERRARA E LA NUOVA VENA LIRICA
Nel 1970 uscì Il giardino dei Finzi Contini per la regia di Vittorio De Sica, dopo che Valerio Zurlini aveva abbandonato il progetto avviato nei primi anni Sessanta. Bassani sentì ‘tradito’ il suo testo anche in questa versione filmica (v., in partic., Il giardino tradito, in Di là dal cuore, cit., pp. 1255-1265) e ottenne, con un’azione legale, che fosse espunto il proprio nome dalla sceneggiatura. Nel 1972 uscì da Mondadori L’odore del fieno, raccolta di testi narrativi apparsi già in rivista o in volume, che chiuse l’epopea ferrarese e aprì alla ripresa lirica. La revisione della sua narrativa trovò collocazione nei successivi volumi mondadoriani di Dentro le mura (1973) e poi del Romanzo di Ferrara (1974), in edizione definitiva nel 1980 e comprensivo di Dentro le mura, Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi-Contini, Dietro la porta, L’airone e L’odore del fieno. Una rinnovata vena lirica si affermò con i versi di Epitaffio (1974) e di In gran segreto (1978), entrambi per i tipi di Mondadori.
Nel 1982 tutta la sua produzione poetica, oltre alle traduzioni (da Toulet, Char, Stevenson), fu riunita nel volume mondadoriano In rima e senza, insignito del premio Bagutta. Il titolo In rima e senza distingue due diversi periodi: il primo, già confluito in L’alba ai vetri e segnato dal ricorso alla rima e l’ultimo, delle due raccolte degli anni Settanta, con un accostamento a moduli prosastici e un dispiegamento tonale che ricorda sia il Montale di Satura sia l’Attilio Bertolucci (poeta cui Bassani si sentiva affine) di Camera da letto, in fieri sin dagli anni Cinquanta. Tra i due momenti, la lunga elaborazione del Romanzo di Ferrara. I versi di Epitaffio e quelli, contigui anche per ispirazione, di In gran segreto, sono tipograficamente collocati sullo schema di una lapide, sostitutiva della forma metrica, e si muovono su più registri: dalla polemica letteraria e dall’invettiva alla narrazione familiare, all’annotazione metaletteraria, alla persecuzione razziale e al fascismo ferrarese. I paesaggi si aprono, in un vagabondare che è l’asse portante di questi versi, e oltrepassano i confini italiani fino a quell’America da Bassani felicemente scoperta in quegli anni. La vocazione lirica che aveva suggerito, nel Giardino, la tesi su Panzacchi del protagonista (a sua volta poeta), quella su Emily Dickinson di Micòl e le discussioni poetiche con Malnate, si riafferma e rinnova dunque a partire da Epitaffio, ammirato da Pasolini come il suo libro più bello (in Tempo, 21 giugno 1974, p. 77) e riconosciuto dalla critica per la sua importanza nel contesto lirico contemporaneo.
Tra i paesaggi ispiratori di Epitaffio c’è anche Maratea, dove dalla fine degli anni Sessanta in poi Bassani, acquistatavi una casa, trascorse molte estati, legate anche all’intensa relazione con un’americana trapiantata a Parigi, Anne Marie Stelhein. Sul finire del 1977 conobbe Portia Prebys, un’insegnante americana, con cui condivise gli anni successivi fino alla morte. Negli anni Settanta si aprì un periodo ricco di premi e riconoscimenti, in Italia e all’estero, e si moltiplicarono i viaggi in Europa e in America, dove fu anche visiting professor.
Gli anni Novanta furono segnati da una lunga malattia degenerativa: morì la mattina del 13 aprile 2000 nell’ospedale San Camillo di Roma e, per sua volontà, fu sepolto nel cimitero ebraico di via delle Vigne a Ferrara.
Nel 2002 si concretizzò il progetto dei figli Paola ed Enrico di una Fondazione Giorgio Bassani, centro documentario e di iniziative culturali, con sede a Codigoro; il 4 marzo 2016, per il centenario della nascita, è stato inaugurato, nella restaurata Casa Minerbi della Ferrara medievale, il Centro studi bassaniani, dove confluiscono documenti e oggetti, lascito di Portia Prebys al Comune di Ferrara.
OPERE
Per la bibliografia delle opere di Bassani si veda il volume La bibliografia delle opere di G. B., cui deve essere aggiunto La memoria critica su G. B., entrambi a cura di P. Prebys (Ferrara 2010). L’opera di Bassani è riunita, nelle sue stesure definitive, in Opere, a cura e con un saggio di R. Cotroneo (Milano 1998), con apparati a cura di P. Italia. Oltre a Il romanzo di Ferrara, già edito in ultima versione nel 1980 da Mondadori, il volume riunisce le pagine saggistiche di Di là dal cuore (1984), e le liriche di In rima e senza (1982). In Appendice è riproposto Una città di pianura del 1940, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, e la prima edizione presso Einaudi nel 1956 delle Cinque storie ferraresi. Gli scritti di impegno civile per la difesa ambientale sono invece raccolti in Italia da salvare: scritti civili e battaglie ambientali, a cura di C. Spila (Torino 2005). Il trattamento, inutilizzato, di Bassani dei Promessi sposi per la Lux Vide S.p.a. è stato edito da Sellerio con il titolo I Promessi sposi. Un esperimento, a cura di S.S. Nigro (Palermo 2007). Per l’epistolario, oltre a sparse pubblicazioni di lettere, si veda G. Bassani - M. Caetani, «Sarà un bellissimo numero». Carteggio 1948-1959, a cura di M. Tortora (Roma 2011). Nel 2014 è uscito da Feltrinelli Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di P. Pieri, che raccoglie, oltre a testi editi come quelli sul Corriere padano, inediti del Fondo eredi Bassani.
James Augustine Aloysius Joyce, noto semplicemente come James Joyce (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese.
Benché la sua produzione letteraria non sia molto vasta, è stato di fondamentale importanza per lo sviluppo della letteratura del XX secolo, in particolare della corrente modernista. Soprattutto in relazione alla sperimentazione linguistica presente nelle opere, è ritenuto uno dei migliori scrittori del XX secolo e della letteratura di ogni tempo.
Il suo carattere anticonformista e critico verso la società irlandese e la Chiesa cattolica traspare in opere come I Dublinesi o Gente di Dublino (Dubliners, del 1914) - palesato dalle famose epifanie - e soprattutto in Ritratto dell'artista da giovane (A Portrait of the Artist as a Young Man, nel 1917), conosciuto in Italia anche come Dedalus.
Il suo romanzo più noto, Ulisse, è una vera e propria rivoluzione rispetto alla letteratura dell'Ottocento, e nel 1939 il successivo e controverso Finnegans Wake ("La veglia dei Finnegan" o più propriamente "La veglia per i Finnegan") ne è l'estremizzazione. Durante la sua vita intraprese molti viaggi attraverso l'Europa, ma l'ambientazione delle sue opere, così saldamente legata a Dublino, lo fece diventare uno dei più cosmopoliti e allo stesso tempo più locali scrittori irlandesi.
Un esordio precoce
James Joyce aveva solo nove anni quando fu pubblicata la sua prima opera. Nel 1891 Joyce aveva scritto un poema intitolato Et Tu Healy, in cui veniva criticato il politico Tim Healy per aver abbandonato il politico nazionalista Charles Stewart Parnell in seguito a uno scandalo sessuale; i due venivano paragonati rispettivamente a Bruto e Cesare. Il padre aveva apprezzato così tanto il componimento da farlo pubblicare per distribuirlo agli amici... e non solo: pare che avesse inviato alcune copie persino al Papa!
Oggi non esiste alcuna copia completa di Et Tu Healy.
Ernest Hemingway era il suo compagno di bevute a Parigi
Incontratisi alla Shakespeare and Company, Joyce e Hemingway erano diventati presto compagni di bevute. I racconti dei due scrittori a proposito sono piuttosto divertenti: Hemingway ricorda che Joyce andava sempre a invischiarsi in risse da bar lasciando poi a lui il compito di intervenire e gestire la situazione.
Ha inventato una parola di 100 lettere per descrivere i tuoni
Lampi e tuoni terrorizzavano lo scrittore fin da ragazzo, anche a causa dei moniti della sua governante cattolica, secondo la quale i fenomeni naturali altro non erano che il modo in cui Dio manifestava la sua ira nei suoi confronti.
In Finnegans Wake, Joyce ha fuso le parole francesi, italiane, greche e giapponesi per “tuono”, creando una parola di 100 lettere per rappresentare il tuono divino:
Nora Barnacle mancò il loro primo appuntamento
James Joyce e Nora Barnacle si incontrarono a Dublino nel 1904. Nora aveva scambiato lo scrittore per un marinaio, a causa dei suoi occhi blu e del cappello che l’uomo indossava quel giorno, e ne era rimasta talmente affascinata che i due avevano deciso di incontrarsi il 14 giugno successivo. Nora mancò all’appuntamento, ma James non si arrese: le scrisse una lettera e i due si incontrarono qualche giorno dopo, presumibilmente proprio il 16 giugno 1904, lo stesso giorno in cui si svolgono le vicende dell’Ulisse (noto come Bloomsday).festeggia il 16 giugno. La romantica fiaba dietro la ricorrenza
Critiche celebri
Non tutti hanno amato James Joyce. Tra i suoi più famosi detrattori si trova Virginia Woolf: per lei Joyce era un “nauseabondo studente universitario intento a grattarsi i brufoli” e l’Ulisse il libro “ignorante e plebeo di un operaio autodidatta”. In realtà il giudizio della scrittrice è più complesso di così: in altre occasioni considera Joyce come “l’esempio più rimarchevole dell’opera di giovani scrittori” e alcune scene dei suoi romanzi come veri e propri capolavori.
Anche D.H. Lawrence non era esattamente un grande fan dello scrittore. In una lettera datata 16 agosto 1928, ha scritto:
“Dio mio, che olla putrida e malfatta che è James Joyce! È tutto vecchi froci e moncherini di citazioni dalla Bibbia e da tutto il resto, ribolliti nel brodo di una mentalità deliberatamente sporca, giornalistica; e che scarsa originalità stantia e laboriosa, presentata come fosse nuovissima”.: i grandi classici rifiutati dagli editori
Aveva una vista pessima
Joyce soffriva di uveite anteriore, una malattia che lo portò a sottoporsi a ben 12 operazioni agli occhi nel corso della vita. Per anni, a causa di questi problemi alla vista, fu costretto a scrivere su fogli di carta bianchi e immensi, usando solo una matita rossa.
Il suo incontro con Proust non andò un granché
Nel maggio 1922 James Joyce e Marcel Proust si incontrarono a Parigi a una festa del compositore Stravinsky e dell’impresario teatrale e direttore artistico Djagilev. Pare che Joyce arrivò tardi, ubriaco e vestito in modo totalmente inadatto (era troppo povero per potersi permettere un completo elegante); Proust fece ancora più tardi.
Le versioni che circolano su quanto i due titani del modernismo si dissero sono piuttosto contrastanti, ma tutte riportano un incontro decisamente poco piacevole.
Fu responsabile di una controversia nella redazione del giornale scolastico
Durante i suoi studi all’University College di Dublino, Joyce collaborava con il giornale scolastico “St. Stephen’s”. Un giorno la redazione del foglio decise di rifiutare un suo articolo che criticava il parrocchialismo eccessivo di un teatro locale. Scandalizzato dal tentativo di censura, Joyce si rivolse direttamente al preside dell’istituto.
Come andò a finire? Joyce fu costretto a stampare personalmente 85 copie del suo pamphlet, che fu poi distribuito.
“Nessuno capisce?”
Joyce morì il 13 gennaio 1941: ricoverato per un’ulcera duodenale perforata, entrò in coma subito dopo l’intervento chirurgico. Le sue ultime parole si dice siano state riferite alla complessa decifrabilità delle sue opere (spesso rimproveratagli anche dalla moglie): “Nessuno capisce?”.
Il 28 gennaio la Chiesa cattolica celebra
San Tommaso d'Aquino
patrono dei librai e degli scolari
San Tommaso (1225-1274), punto di raccordo fondamentale tra la cristianità e la filosofia classica, è considerato uno tra i pilastri fondamentali della teologia e filosofia cristiano cattolica.
I dettagli su luogo e data di nascita di San Tommaso sono incerti, ma le ipotesi più accreditate la collocano tra il 1225 e il 1226 a Roccasecca, sede del castello paterno. Figlio più piccolo di una famiglia nobile, a soli cinque anni Tommaso è inviato all’Abbazia benedettina di Montecassino per ricevere l’educazione religiosa necessaria a succedere all’abate.
Costretto a trasferirsi a Napoli a causa della contesa tra papato e impero, Tommaso si iscrive all’Università fondata da Federico II. Nel 1244 entra a far parte dell’ordine domenicano. La scelta di appartenere a un ordine diverso da quello benedettino minano i piani familiari sul suo incarico come abate di Montecassino e, su commissione della madre, Tommaso viene catturato e tenuto prigioniero per due anni nel tentativo di fargli cambiare idea.
Una volta liberato, convinto a restare tra i domenicani, segue Giovanni Teutonico (maestro dell’ordine) a Parigi e a Colonia. In queste città porta avanti i suoi studi, assimilando profondamente il pensiero di Sant’Alberto Magno.
Nel 1252 è inviato a Parigi per insegnare, ottenendovi per la prima volta il permesso di insegnare pubblicamente il pensiero di Aristotele.
La sua attività di insegnante lo porterà anche in Italia, prima a Orvieto e poi a Roma. È durante il soggiorno romano che inizia a scrivere la Summa Theologiae, il più famoso e importante trattato di teologia medievale.
Nella primavera del 1272 Tommaso lascia definitivamente Parigi, dove era tornato per portare avanti la sua attività di insegnamento e scrittura, e gli viene affidato il compito di organizzare uno Studium generale di teologia a Napoli. Lì gli viene offerto anche l’arcivescovado, che rifiuta, per dedicarsi allo studio e alla preghiera.
A queste attività si dedicherà fino alla morte, nel 1274.
Ricorre oggi il centenario di Leonardo Sciascia, nato a Racalmuto l’8 gennaio 1921. Il suo spirito illuministico, libero, lucido e anticonformista, unito a un senso di giustizia sempre deluso e tuttavia mai indebolito, hanno caratterizzato i suoi scritti — tra i più celebri Il giorno della civetta, L’affaire Moro, La scomparsa di Majorana, A ciascuno il suo, Il contesto.
Per celebrare la ricorrenza sono in programma cicli di conferenze e letture disponibili online, nuove pubblicazioni, documentari e mostre fotografiche.
Programma di eventi dedicati a uno dei più importanti protagonisti del panorama intellettuale italiano del secondo Novecento.
Gli eventi della Fondazione Leonardo Sciascia
In occasione della ricorrenza, la Fondazione Leonardo Sciascia inaugura le celebrazioni dedicate allo scrittore con una conferenza online, disponibile sui canali Facebook e YouTube della Fondazione, che coinvolge alcuni degli intellettuali che maggiormente, nei loro studi, si sono concentrati sulla produzione di Sciascia.
www.sololibri.net/Centenario-di-Leonardo-Sciascia-eventi.html
Giorno della memoria: i libri da leggere per non dimenticare
Se questo è un uomo e Se non ora quando? di Primo Levi
Primo Levi racconta, senza rabbia e giudizi, ma con malinconia e tragicità, la sua esperienza di ebreo, sopravvissuto al campo di concentramento di Monowitz. Una lettura che aiuta a comprendere cosa accade nella vita di un uomo, travolta e stravolta da un grande e devastante evento e che, ci aiuta a capire, le illogiche leggi e regole di un campo di sterminio.
L’amico ritrovato di Fred Uhlman
I due protagonisti sono Hans Schwarz, ragazzo di sedici anni, appartenente all’alta borghesia ebrea e Koradin, figlio unico di una famiglia tedesca antisemita. Il racconto descrive, con semplicità, la vita di due adolescenti che diventano amici nella Germania del 1933, mentre Hitler inizia l’ascesa al potere e avvia il suo diabolico e assurdo piano. La guerra e la persecuzione nazista finiranno per allontanare i destini dei due ragazzi, fino a quando, Hans ormai adulto, verrà a conoscenza di una verità che dimostra come l’Amicizia, il Rispetto e la Condivisione non hanno confini geografici, etnia e religione; lezione di vita oggi attuale più che mai.
Il diario di Anna Frank di Anna Frank
Il libro sull’Olocausto più conosciuto e letto. Tradotto in 60 lingue, racconta giorno dopo giorno, la semplicità della vita quotidiana di una ragazza tredicenne, fatta dai primi flirt; dai giorni di scuola; dalle passeggiate con gli amici e dall’improvvisa introduzioni delle nuove regole naziste, restrittive per gli ebrei e per tutti coloro considerati “diversi”. Anna, attraverso il suo racconto giornaliero, ci fa vivere con i suoi occhi il cambio delle abitudini quotidiane e il vano tentativo, di tutta la famiglia Frank, di nascondersi alle SS.
Il pianista di Wladyslaw Szpilman
Un libro noto per la versione cinematografica del 2002, diretta da Roman Polański e vincitrice della Palma d’oro al Festival di Cannes e dell’Oscar come Miglior Attore Protagonista per Adrien Brody. Il pianista ebreo polacco Władysław Szpilman, racconta gli orrori dell’invasione tedesca della Polonia, l’occupazione di Varsavia, la nascita del ghetto e la sua liberazione. Lo sguardo di distruzione, morte, di una bellezza finita è il leitmotiv di tutto il racconto che andrebbe letto sulle note del Preludio I – Suite per violoncello di Bach.
Bruno, il bambino che imparò a volare di Nadia Terranova e illustrazioni di Ofra Amit
Racconto illustrato, destinato ai bambini a partire dai 10 anni, che può aiutare gli adulti a spiegare vicende storiche che hanno segnato e sconvolto così tanto gli equilibri socio-politici mondiali da essere ancora oggi attuali.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa e andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
GIORNI DELLA MEMORIA E DEL RICORDO 2021 in provincia di Lucca
PROVINCIA DI LUCCA, COMUNI DI LUCCA, ALTOPASCIO, BARGA, BORGO A MOZZANO, CAMAIORE, CAPANNORI, CASTIGLIONE DI GARFAGNANA, GALLICANO, MINUCCIANO, MONTECARLO, PORCARI, STAZZEMA, VIAREGGIO 23 gennaio - apertura mostra multimediale “Nel vento e nel ricordo, storie di
bambini ebrei della Shoah in provincia di Lucca” - www.nelventoenelricordo.it Una visita virtuale della mostra dell’ISREC Lucca “Nel vento e nel Ricordo”, curata da Silvia Angelini, Luciano Luciani ed Emmanuel Pesi, sul tema della deportazione e della salvezza di bambini ebrei della provincia che, durante l’occupazione nazista, furono strappati dalle proprie terre e portati in campi di sterminio e di concentramento europei
27 gennaio ore 10.30 - profili facebook degli Enti Locali che hanno aderito Reading teatrale “La tregua” tratto dall’omonimo libro di Primo Levi. Con Marco Brinzi, musiche di Luca Giovacchini In collaborazione con Liberation Route Italia
27 gennaio ore 17.15 - Noi TV (canale 10 digitale terrestre)
Concerto “La musica ai tempi del nazismo” a cura dell’Istituto Musicale “L. Boccherini” Il Quartetto di Wilhelm Kempff disegna un affresco di aspetti che sono stati tragicamente vissuti nel XX° secolo e che sembrano riaffaciarsi nei nostri giorni, una riflessione sulla perdita dei valori Info: Provincia di Lucca - 0583 417481 - scuolapace@provincia.lucca.it, Comune di Lucca - casadellamemoria@comune.lucca.it
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COMUNE DI LUCCA
17 gennaio ore 18.00 - diretta su Noi TV
Concerto “Quartetto per la fine del Tempo di Olivier Messiaen” a cura dell’Ass. Musicale Lucchese - in occasione degli 80 anni dalla prima esecuzione nel Campo di concentramento di Görlitz, la musica di Messiaen incontra il racconto di Sandro Cappelletto
27 gennaio ore 9.30 - Lucca, Via della Stufa
Apposizione “Pietre d’inciampo” in ricordo di Angela Ferrari e Italia Lascar 27 gennaio ore 11.00 - conferenza online
Presentazione libro “La questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca” di Virginio Monti (Tralerighe libri Editore) Evento a cura di ATVL Lucca
27 gennaio ore 12.30 - Lucca, Mura Urbane
“Il Giardino dei Giusti”, sull’esempio dello Yad Vashem di Gerusalemme, per onorare i Giusti di tutti i genocidi. Intitolazione di due alberi storici a Fratel Arturo Paoli e Don Aldo Mei 28 gennaio ore 8.30 - Maggiano, ex Ospedale Psichiatrico
Apposizione "Pietra d'inciampo" in ricordo di Guglielmo Lippi Francesconi con la partecipazione di Alessandra Nardini, Assessora alla Cultura della Memoria Regione Toscana 28 gennaio ore 9.15 - conferenza online
Presentazione della ricerca sulla memoria orale dell'Eccidio della Certosa di Farneta, a cura degli studenti del Liceo Artistico “Passaglia”. Interviene Gianluca Fulvetti, Università di Pisa 29 gennaio ore 11.00 - diretta streaming dalla Casa della Pace e della Memoria Presentazione del libro "Questa guerra tanto rovinosa per tutto il mondo dai Diari di Fosco Guidugli" e presentazione del museo relativo a cura di Patrizia Fornaciari, ARNP Info: Comune di Lucca - casadellamemoria@comune.lucca.it
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COMUNE DI LUCCA, PROVINCIA DI LUCCA
26 gennaio ore 10.30 - conferenza online
Presentazione libro “Tradotti agli estremi confini. Musicisti ebrei internati nell'Italia fascista” di Raffaele Deluca. Ne discutono con l’autore Giulio Battelli, già docente di bibliografia musicale alll’Ist. Musicale “L. Boccherini” e Carlo Spartaco Capogreco, Storico dell’Università della Calabria, coordina Nicola Barbato, ISREC Lucca
2 febbraio ore 17.30 - conferenza online
"Sport e razzismo, ieri e oggi", incontro con Adam Smulevich, giornalista, autore del libro "Un calcio al razzismo" e Pippo Russo, giornalista. Introduce Luciano Luciani, ISREC Lucca 10 febbraio ore 9.30 - incontro online
Aligi Soldati, esule di Pola, e Paolo Battistini, figlio di esuli, incontrano gli studenti 10 febbraio ore 11.30 - Lucca, Real Collegio
Deposizione di una corona alla targa commemorativa
10 febbraio ore 17.30 - incontro online
Il Giorno del Ricordo, Consiglio Provinciale e Comunale congiunto con interventi di storici, testimonianza di un esule e interventi degli studenti
Info: Provincia di Lucca - 0583 417481 - scuolapace@provincia.lucca.it, Comune di Lucca - casadellamemoria@comune.lucca.it
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COMUNE DI ALTOPASCIO
27 gennaio - profilo facebook del Comune di Altopascio
Proiezione video “Altopascio: luogo di internamento. Storie di reclusione e di inclusione alla ricerca della libertà” - con la guerra Altopascio diviene comune di internamento libero. Il video ricostruisce le regole dell’internamento e presenta le storie degli internati altopascesi Info: Comune di Altopascio - 0583 216455 - informa@comune.altopascio.lu.it _____________________________________________________________
COMUNE DI BARGA
27 gennaio mattina - profilo facebook e canale youtube del Comune di Barga I giudici siete voi: dalla testimonianza di Primo Levi al campo di concentramento incontro con Caterina Frustagli e Renzo Paternoster. Introduce Andrea Giannasi Evento promosso in collaborazione con Comune di Lucca, ATVL, Tralerighe libri Info: Comune di Barga - 0583 724791 - cultura@comunedibarga.it
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COMUNE DI BORGO A MOZZANO
27 gennaio ore 11.00 - Borgo a Mozzano, loc. Socciglia
Commemorazione presso il Cippo della memoria a ricordo del campo di concentramento tedesco del 1943-1944. Deposizione corona e alzabandiera
Info: Comune di Borgo a Mozzano - 0583 82041 - posta@comune.borgoamozzano.lucca.it
COMUNE DI CAPANNORI
27 gennaio ore 15.30 - canale youtube del Comune di Capannori
La Giornata della Memoria attraverso i “dottorini” di Marlia ed Erno Erbstein Le storie di Erno Erbstein, allenatore della Lucchese in serie A, e dei “Dottorini di Marlia” che, arrivati dall'Ungheria, trovarono a Capannori felicità e gratificazione professionale fino a quando non furono costretti a fuggire a causa delle leggi razziali
11 febbraio ore 18.00 - canale youtube del Comune di Capannori
Presentazione del libro “Senza salutare nessuno, un ritorno in Istria” di Silvia Dai Pra’. Partecipa l’autrice, introduce e coordina Armando Sestani, ISREC Lucca
Info: Comune di Capannori - 0583 936427 - artemisia@comune.capannori.lu.it _____________________________________________________________
COMUNE DI CASTELNUOVO DI GARFAGNANA
27 gennaio ore 10.00 - Scuola Secondaria di Primo Grado - IC Castelnuovo di Garfagnana, Via Roma
Il Comune e gli istituti scolastici di Castelnuovo di Garfagnana ricorderanno gli alunni vittime dell'internamento ebraico a Castelnuovo dal 1941 al 1943.
Dal 27 gennaio al 10 febbraio - pagina facebook Biblioteca Civica “Domenico Pacchi” Video letture sul tema del Giorno della Memoria e del Giorno del Ricordo a cura del gruppo lettori volontari della Biblioteca Civica e dei ragazzi della Consulta dei Giovani.
Dal 27 gennaio al 10 febbraio
Esposizione in tutti gli esercizi del capoluogo di due manifesti celebrativi della giornata della memoria e del giorno del ricordo. In collaborazione con l’Associazione "Compriamo a Castelnuovo" 9 febbraio - conferenza online
Presentazione del libro "Senza salutare nessuno: un ritorno in Istria" di Silvia Dai Pra'. L'autrice incontrerà gli studenti dell'ISI Garfagnana. Evento in videoconferenza. Info: Comune di Castelnuovo Garf. - 0583 6448315 - f.pozzi@comune.castelnuovodigarfagnana.lu.it _____________________________________________________________
COMUNE DI CASTIGLIONE DI GARFAGNANA
10 febbraio
Il Giorno del Ricordo consegna del libro "Il rumore del silenzio" agli studenti In collaborazione con il Comitato 10 febbraio
I n f o : C o m u n e d i C a s t i g l i o n e d i G a r f a g n a n a - 0 5 8 3 6 99 1 1 , protocollo@comune.castiglionedigarfagnana.lu.it
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COMUNE DI COREGLIA ANTELMINELLI
27 gennaio ore 11.00 - canale youtube Comune di Coreglia Antelminelli Concerto musicale con il gruppo amatoriale Ziribim Klezmer Band
Info: Comune di Coreglia Antelminelli - 058378152 int. 4 - i.pellegrini@comune.coreglia.lu.it _____________________________________________________________
COMUNE DI MASSAROSA
27 gennaio ore 18.00 - conferenza online, profilo facebook del Comune di Massarosa La memoria delle immagini, incontro con fotografi e artisti che hanno rappresentato la memoria con le immagini
10 gennaio ore 18.00 - conferenza online, profilo facebook del Comune di Massarosa Il ricordo delle immagini, incontro con fotografi e artisti che hanno rappresentato il ricordo con le immagini
Info: Comune di Massarosa - segreteria.sindaco@comune.massarosa.lu.it
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COMUNE DI SERAVEZZA
27 gennaio dalle ore 10.00 - capoluogo e frazioni
Apposizione coccarde tricolori ai luoghi della memoria: targa a Italo Geloni (capoluogo), P.zza Perlasca (Querceta), P.zza Deportati nei Campi di Concentramento (Pozzi), P.zza P. Levi (Querceta) 10 febbraio dalle ore 10.00 - Seravezza, Piazza Vittime delle Foibe Apposizione coccarda tricolore al luogo del ricordo sul territorio comunale: P.zza “Vittime delle Foibe – agli esuli istriani fiumani e dalmati” (Querceta)
Info: Comune di Seravezza - 0584 757760 - alessandra.foffa@comune.seravezza.lucca.it _____________________________________________________________
COMUNE DI STAZZEMA
PARCO NAZIONALE DELLA PACE DI S.ANNA DI STAZZEMA 26 gennaio ore 10.30 e ore 12.00 - Scuola secondaria di Primo Grado Visita virtuale nel Campo di Auschwitz, a cura di Michele Andreola, guida ufficiale del Campo 27 gennaio ore 12.00 - PAGINA facebook del Parco Nazionale della Pace L’attrice Ottavia Piccolo legge l’intervento di Liliana Segre al Parlamento Europeo. Introduce Matteo Corradini
Info: Comune di Stazzema 0584 775218
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COMUNE DI VIAREGGIO
27 gennaio
Giorno della Memoria momento dedicato all’interno del Consiglio Comunale e adesione formale del Comune di Viareggio all’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca
27 gennaio ore 18.00 - canali social del Comune
Giorno della Memoria letture a tema all’interno della rassegna on line #BibliotecaFuoriDiSè Pietre d’inciampo avvio iter per l’apposizione della “soglia di inciampo” in ricordo della scuola ebraica di Viareggio
10 febbraio - Viareggio, Via Martiri delle Foibe
Giorno del Ricordo deposizione corona di fiori
Info: Comune di Viareggio - sindaco@comune.viareggio.lu.it
27 gennaio ore 22.00 - Noi TV (canale 10 digitale terrestre)
Speciale Giorno della Memoria 2021
“Ricordare non basta, il ricordo non resta lì per sempre. A volte ci si emoziona solo per un attimo e poi tutto vola via. Perché resti, questo è il punto, il ricordo si deve trasformare in memoria […] Memoria è quando i ricordi sono diventati i mattoncini del nostro oggi.”
Da Lia Levi, Il giorno della memoria raccontato ai miei nipoti
250 anni fa nasceva a Bonn il grande compositore tedesco Ludwig van Beethoven. Anche se non è nota con certezza la sua data di nascita, si ipotizza tradizionalmente che questa sia stata il 16 dicembre 1770. Protagonista del passaggio dal classicismo al periodo romantico della musica, è considerato uno dei più grandi compositori di tutti i tempi. E questo nonostante abbia dovuto convivere, da prima che compisse 30 anni, con una sordità che si aggravò progressivamente nel corso della sua vita fino a diventare totale. Nell’anno del 250esimo anniversario della nascita, ecco la vita e le opere del genio tedesco che si spense a Vienna il 26 marzo del 1827.