una pianta al giorno
una pianta al giorno
La ginestra appartiene alla grande famiglia botanica delle Leguminosae. A questa famiglia appartengono piante come fagiolini, fave, piselli, lenticchie, ceci, arachidi ecc. A differenza di quest’ultime, però, i frutti della ginestra non sono commestibili, anzi, tutte le parti della pianta sono tossiche per l’uomo se ingerite.
Caratteristica che accomuna invece tutte le leguminose, indicate anche come Papilionaceae (dal latino papilionis=farfalla), è quella di avere un fiore che ricorda nella loro struttura una farfalla ad ali spiegate.
Esistono diverse specie differenti di ginestra, nel nostro Paese se ne contano circa 20 allo stato spontaneo.
Le più note e interessanti dal punto di vista botanico sono:
Ginestra di Spagna o odorosa, Spartium junceum
Ginestra scoparia o dei carbonai, Cytisus scoparium
Queste due specie sono molto simili e possono entrambe essere usate per ottenere fibre tessili-tecniche. Tuttavia, lo Spartium junceum è la varietà più usata, poiché molto resistente e capace di fornire fibre di migliore qualità.
La ginestra odorosa è una pianta con portamento arbustivo-cespuglioso, con altezze variabili dai 70 cm ai 3 m.
Le altezze si raggiungono nel portamento ad alberello, con forma tondeggiante.
Nelle regioni meridionali dove è più diffusa, ossia Basilicata, Calabria e Isole, le ginestre possono assumere uno sviluppo gigantesco, arborescente.
Il fusto ha consistenza legnosa, forma cilindrica, con molte ramificazioni. E’ molto contorto, di colore marrone chiaro, con presenza di evidenti fenditure longitudinali di colorazione più scura.
Le ramificazioni nel primo anno di formazione sono chiamate “vermene”, e da queste si estrazione la fibra. Sono giunchiformi, verde intense, comprimibili ma molto tenaci. La loro sezione è tondeggiante, inoltre sono ascendenti e sparse sul fusto.
Le ramificazioni più vecchie non sono adatte per la produzione di fibra. Questo perché, col passare degli anni, modificano colore (passando dal verde intenso al giallo marrone) e struttura (diventando legnose).
Le foglie della ginestra sono di tipo semplice e caduche, distanziate tra loro e rade. La superficie è glabra, di verde intenso sulla pagina superiore e dotate di tricomi in quella inferiore. La forma è obovato-oblunga, margine intero e lineare.
I fiori di ginestra invece sono di tipo ermafrodita, riuniti in racemi ascellari posti alle estremità delle vermene. Sono di grandi dimensioni, con corolla dal tipico colore giallo-dorato.
L’impollinazione è entomofila, ossia operata dalle api e gli altri insetti impollinatori. La ginestra infatti è una pianta mellifera e con cui si può produrre un ottimo miele monoflorale.
Il frutto è un piccolo legume, di forma appiattita e allungata, di colore nero o marrone scuro. Ogni legume produce dai 10 ai 18 semi di forma ovale e colore marrone-rossiccio.
L’attività vegetativa ha inizio con il germogliamento in marzo. Segue un accrescimento intenso tra i mesi di aprile e giugno. Nelle zone più fredde, la ripresa vegetativa slitta di circa un mese.
La fioritura, come tutti possono ammirare, si verifica in maggio-luglio, mentre la maturazione dei semi avviene a fine estate.
Ginestreto tra le rocce
La pianta di ginestra è tipica della macchia mediterranea, specie delle zone temperato-calde.
Nelle regioni come Calabria e Sicilia, la ginestra odorosa si può spingere fino ad altitudini elevate.
Sopporta i forti venti, ma in presenza di questi la crescita rallenta e la pianta diventa più compatta. Cresce bene lungo le coste e sopporta anche il vento salmastro.
I ginestreti spontanei possono essere molto estesi e folti, e sono diffusi in particolare nell’Appennino centro-meridionale.
Si tratta di una pianta che, dopo aver colonizzato e migliorato i terreni nudi o degradati, lascia spazio ad altre specie, che altrimenti da sole non riuscirebbero a svilupparsi. Ha quindi un’importante funzione in ambito forestale.
Cresce bene in diversi tipi di terreno, anche i più difficili.
Si incontra in quelli provenienti da rocce eruttive, in quelli acidi o calcarei, nelle arenarie e nelle silicee.
Vista la sua grande rusticità, è molto facile coltivare la ginestra sul proprio campo. E’ una pianta che può trovare spazio nei terreni scoscesi, per consolidarli. Può anche tornare utile nei bordi del campo, per attirare gli insetti impollinatori, o in un giardino, per fini ornamentali.
Non ha particolari esigenze idriche e non necessita di nessuna cura.
Il modo migliore per riprodurre la ginestra è per seme. Questo va raccolto sul finire dell’estate, quando non è troppo maturo e duro.
I semi possono essere messi a dimora in autunno, scavando delle piccole postarelle. Hanno un’ottima capacità germinativa e attecchimento iniziale. L’accrescimento della pianta inizierà nella primavera successiva.
Vediamo ora come veniva usata la ginestra nella tradizione artigianale delle nostre regioni Meridionali.
I Paesi mediterranei dove è più radicata la tradizione della ginestra sono: Albania, Grecia, sud della Spagna e Italia.
Nel nostro Paese, oggi, l’importanza di questa pianta per uso tessile è limitata a piccole realtà rurali. In particolare parliamo di località della Basilicata, come San Paolo Albanese, San Costantino Albanese e Ginestra; e della Calabria, come Vaccarizzo Albanese e Falconara Albanese.
Tutti questi paesi sono di origine albanese e fanno parte delle comunità Arbëreshë presenti in Italia.
Quando questi popoli si insediarono in Italia, sapevano già lavorare filati grezzi come quelli derivanti dalla ginestra. Questa pianta cresceva spontanea anche nella loro terra d’origine. Secondo una testimonianza storica, i soldati del condottiero albanese Castriota Scanderberg, nella guerra contro i Turchi, portavano i fucili sistemati in bandoliere tessute con fibra di ginestra.
E’ molto interessante capire come avveniva la lavorazione della ginestra nella comunità Arbëreshë. Le operazioni avevano inizio in marzo, con la potatura della pianta finalizzata ad ottenere nuovi getti teneri. Questa era l’unica fase del lavoro affidata agli uomini.
La raccolta vera e propria veniva effettuata in agosto, con l’uso della falce.
I fasci di ginestra venivano trasportati in paese a spalle o sul dorso di un asino, dove, raccolti in mazzetti, venivano messi a bollire in un’apposita pentola, chiamata kusia.
I fascetti dovevano essere rivoltati più volte, in quanto una bollitura prolungata determinava non pochi inconvenienti.
Finita la bollitura (ziemi sparten), si lasciavano raffreddare, prima di iniziare a sfilacciarli.
La ginestra sfilacciata si raccoglieva in ulteriori mazzetti (strumbilje) che, in numero di 5, venivano infilati in rametti della stessa pianta e trasferiti presso dei corsi d’acqua. Qui venivano immersi dagli otto ai dieci giorni.
L’immersione consentiva di completare il processo di maturazione.
In seguito, i mazzetti venivano esposti al sole. Questo, oltre a permettere l’imbiancamento delle fibre, creava una filaccia grezza, che veniva battuta con un apposito bastone di legno (kupani). La pettinatura e la filatura La battitura dava alla fibra un aspetto e una consistenza più morbida e la preparava alla pettinatura (krekurit). Questa avveniva con pettini rudimentali e serviva per ripulire la fibra da eventuali residui legnosi, rendendola pronta per la filatura.Quest’ultima operazione si eseguiva ponendo una certa quantità di fibra su di una rocca, dalla quale si filava un capo con la mano destra e con la mano sinistra allungato. Il filo e la fibra. Il filo, allungato e assottigliato, veniva fissato al fuso. Lo si faceva prillare con la mano destra, mentre la sinistra continuava a fornire la fibra necessaria per l’operazione. Il filo così ottenuto veniva raccolto in matasse, candeggiato in acqua e cenere e, in alcuni casi, tinteggiato. Quello a cromatismo naturale era destinato alla tessitura di lenzuola, asciugamani, tovaglie e indumenti intimi. La fibra così ottenuta veniva usata per confezionare vestiti, coperte e bisacce. Poteva essere colorata con sostanze vegetali, aventi differenti metodi di estrazione e quindi di applicazione. Gli stessi fiori di ginestra erano usati per tingere di giallo. Per il colore marrone, invece, si usava il decotto con il mallo di noce. Il rosso, infine, era estratto dalle radici della robbia. La lavorazione della ginestra, dunque, rappresentava una vero e proprio comparto di artigianato tessile. Per fortuna, in alcune località queste antiche tradizioni si sono tuttora mantenute.
Acacia dealbata
è una pianta alla famiglia delle Mimosaceae (Fabaceae secondo la classificazione APG[1]), comunemente conosciuta come mimosa.
Nel linguaggio comune, il termine di mimosa è utilizzato per indicare, oltre a questa pianta, anche altre specie appartenenti al genere Acacia; nel linguaggio scientifico, tale termine si riferisce invece al genere Mimosa.
Le foglie sono di colore verde argenteo, lineari, con margine intero, parallelinervie, disposte in 8-20 paia di pinnule perpendicolari al rametto e composte a loro volta da circa 20-30 paia di foglioline perpendicolari alla nervatura principale.
I fiori sono riuniti in capolini globosi sferici di colore giallo intenso (giallo limone) e profumati; raccolti in racemi da 7 a 10 cm che si sviluppano all'ascella delle foglie.
La pianta fiorisce tra febbraio e marzo[2].
La pianta è visitata dalle api per il polline ed il nettare.
Il frutto è un legume lungo da 4 a 10 cm che quando è maturo assume una colorazione nerastra[2].
La corteccia è liscia e grigio-biancastra e viene utilizzata per estrarre il tannino.
Alta da 8 a 15 metri con una chioma ampia, scomposta e non folta[2].
È una pianta originaria della Tasmania, in Australia. Per le sue meravigliose caratteristiche come pianta ornamentale ha avuto un facile sviluppo in Europa dal XIX secolo[2] dove a tutt'oggi prospera quasi spontanea. In Italia è molto sviluppata lungo la Riviera ligure, in Toscana, in Sicilia, e in tutto il meridione, ma anche sulle coste dei laghi del nord. È una pianta molto delicata che desidera terreni freschi, ben drenati, tendenzialmente acidi soprattutto per una buona fioritura. Cresce preferibilmente in aree con clima temperato, teme inverni molto rigidi per lungo tempo sotto lo zero che possono provocarne la morte.
La primula comune (Primula vulgaris, Huds., 1762) è una pianta della famiglia delle Primulaceae, che fiorisce agli inizi della primavera.
Viene chiamata anche coi nomi primavera[1] e occhio di civetta.[2]
La Primula vulgaris appartiene al genere (Primula) il quale comprende circa 500 specie. Anche la famiglia di appartenenza (Primulaceae) è ampia e comprende 12 generi(anche se alcuni studiosi arrivano a descriverne fino a 28), diffusi quasi esclusivamente nella zona temperata boreale.
Dato il grande numero di specie del genere Primula, questo viene suddiviso in trentasette sezioni. La specie di questa scheda appartiene alla sezione Vernales caratterizzata dall'avere foglie membranacee, rugose e gradualmente ristrette verso la base e con fiori sempre peduncolati[3].
Il nome del genere (“Primula”) deriva da un'antica locuzione italiana che significa fior di primavera (e prima ancora potrebbe derivare dal latino primus). All'inizio del Rinascimento questo termine indicava indifferentemente qualsiasi fiore che sbocciasse appena finito l'inverno, ad esempio così si indicavano le primaverili margheritine (Bellis perennis – Pratolina). In seguito però il significato si restrinse come nome specifico (nel parlare corrente) alla pianta di questa scheda (chiamata alla fine “Primula comune”), e come nome dell'intero genere nei trattati botanici. Nella letteratura scientifica uno dei primi botanici a usare il nome di “Primula” per questi fiori fu P.A. Matthioli (1500 – 1577), medico e botanico di Siena, famoso fra l'altro per avere fatto degli studi su Dioscoride, e per aver scritto una delle prime opere botaniche moderne. Nome confermato nel XVII secolo anche dal botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (5 giugno 1656 — 28 dicembre 1708) al quale normalmente si attribuisce la fondazione di questo genere[3]. Il termine specifico (vulgaris) è spiegato abbondantemente dal significato della controparte in lingua italiana (“comune”).
L'attuale binomio scientifico ("Primula vulgaris") è stato definito dal botanico inglese William Hudson (1730 ca. – 23 maggio 1793) nella sua opera ”Flora Anglica” del 1762.
In lingua tedesca questa pianta si chiama Schaftlose Schlüsselblume oppure Erd-Primel; in francese si chiama Primevère sans tige oppure Primevère vulgaire; in inglese si chiama Primrose.
È una pianta erbacea perenne acaule (ossia i fiori e le foglie nascono direttamente dal rizoma sottostante). La fioritura è unica nel corso dell'anno (sono piante “monocarpiche” = un solo frutto nell'arco della stagione). L'altezza varia da 8 – 15 cm. La forma biologica è del tipo emicriptofita rosulata (H ros), ossia sono piante con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve, con foglie disposte a formare una rosetta basale.
Le radici sono secondarie (piuttosto robuste e ispessite) da rizoma.
Parte ipogea: la parte ipogea del fusto consiste in un breve rizoma obliquo. Dimensione del rizoma: larghezza 3 –5 mm; lunghezza 30 – 40 mm.
Parte epigea: la parte aerea del fusto non esiste (ogni fiore ha un suo peduncolo).
Le foglie sono spiralate in rosetta (sono presenti solo le foglie basali o radicali). Sono obovate (od obovate-bislunghe), attenuate verso il picciolo (che è breve e allargato, ossia alato), con la pagina superiore glabra di colore verde chiaro e quella inferiore villosa e di colore grigio-verde; la superficie è rugosa-reticolata (i nervi principali sono infossati nel parenchima) è inoltre irregolarmente dentata o crenulata. Il margine della foglia è revoluto, ossia ripiegato verso il basso (specialmente da giovani), mentre l'apice è arrotondato. Dimensioni delle foglie alla fioritura (s'ingrandiscono ulteriormente fino al doppio nel corso della stagione): larghezza 1 –2 cm; lunghezza 5 – 9 cm.
L'infiorescenza è formata da diversi fiori (da 1 o 2 fino a 20 o 30), tutti capitati (posti all'apice di uno scapo afillo) e disposti ad ombrella. I fiori sono inseriti direttamente al centro della rosetta delle foglie ognuno con una suo peduncolo; a volte quest'ultimo è ridotto al minimo. Lunghezza del peduncolo : 4 – 7 cm.
I fiori sono ermafroditi, attinomorfi, tetraciclici (hanno i 4 verticilli fondamentali delle Angiosperme: calice – corolla – androceo – gineceo), pentameri (calice e corolla divisi in 5 parti). All'interno del fiore è presente del nettare e i fiori sono lievemente profumati. Dimensioni del fiore: larghezza 3 cm; lunghezza 2 – 3 cm.
K (5), C (5), A 5, G (5) (supero)[5]
Il calice
Calice: il calice (gamosepalo) è diviso in cinque denti (sepali) lanceolati e lesiniformi saldati a tubo per buona parte della sua lunghezza. La forma del tubo è più o meno cilindrica con 5 spigoli acuti in corrispondenza dei sepali (lo spigolo è sorretto da un lungo nervo che termina all'apice del dente). I denti sono acuti mentre la zona centrale del calice è lievemente rigonfia. Tutto il calice è peloso ed è persistente. Dimensioni del tubo: larghezza 3 mm; lunghezza 10 mm. Lunghezza dei denti: 5 – 7 mm.
La corolla
Corolla: la corolla (gamopetala) “ipocrateriforme” è relativamente grande (più lunga del calice) a lembo piano costituita da 5 petali obcordati generalmente giallo-chiari (a stagione inoltrata acquista sfumature verdi-azzurre) con una macchia più scura (quasi aranciata) al centro, sono inoltre retusi alla sommità, portati da peduncoli radicali lanuginosi. La corolla è “ipogina”, ossia i petali sono inseriti sul ricettacolo al di sotto dell'ovario. La parte interna della corolla è cilindrica. Lunghezza del tubo: 13 – 20 mm. Dimensione dei lobi: larghezza 7 – 12 mm; lunghezza 10 – 15 mm.
Androceo: gli stami sono 5 con brevi filamenti (non sporgono dalla corolla). Gli stami sono “epipetali” ossia sono inseriti direttamente nella corolla, (in posizione opposta ai petali) in alcuni casi, circa a metà del tubo corollino: in questo caso sono inclusi; in altri casi sono inseriti all'altezza della sommità della corolla (appena sotto le fauci) e in questo caso non sono inclusi ma sporgono dalle fauci.
Dimorfismo “eterofilia”
Gineceo: l'ovario è supero, uniloculare, formato da 5 carpelli saldati, con numerosi ovuli. La placenta è “assile” (o centrale), ossia attraversa diametralmente il pericarpo. Lo stilo è lungo e si affaccia alle fauci se gli stami sono inclusi nel tubo corollino (e quindi sono in posizione bassa), altrimenti è più corto e rimane chiuso nel tubo corollino con lo stigma capitato localizzato quindi a metà corolla circa. Questo dimorfismo (“brevistilo” e “longistilo” nella stessa specie chiamato “eterostilia”) fu studiato dal Darwin e viene considerato uno degli aspetti più interessanti di questa specie (e di altre dello stesso genere). Questa proprietà impedisce una fecondazione “autogama” (o autoimpollinazione), mentre favorisce una fecondazione entomofila (e quindi più efficiente da un punto di vista genetico) da parte degli insetti. In effetti si riscontra che l'impollinazione tra individui con lo stesso tipo di “eterostilia” è inefficace. È interessante rilevare inoltre che in una stessa popolazione le due caratteristiche sono presenti ognuna esattamente con il 50% degli individui[4].
Fioritura: da febbraio a maggio; ma se l'inizio dell'inverno è mite può fiorire anche alla fine di dicembre.
Impollinazione: impollinazione entomofila tramite farfalle (anche notturne) e api, che ne raccolgono il polline,[6] ed in condizioni favorevoli anche il nettare.[7]
Il frutto è una capsula ovoidale e deiscente alla sommità per 5-10 denti. Contiene numerosi semi che maturano da aprile ad agosto. Lunghezza della capsula : 5 – 10 mm.
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Europeo-Caucasico.
Diffusione: è presente su quasi tutte le zone temperate dell'Eurasia, sia in montagna che in pianura; in parte è presente anche in Africa settentrionale. In Italia si trova comunemente ovunque meno che in Sardegna. Nel Meridione è più facile trovarla sui rilievi.
Habitat: cresce in luoghi erbosi/boschivi come i boschi di latifoglie (faggete, quercete e carpineti) e prati magri ma sempre in zone a mezz'ombra. Si possono trovare anche lungo i ruscelli. Il substrato preferito è sia calcareo che siliceo, con pH neutro e medi valori nutrizionali del terreno mediamente umido.
Diffusione altitudinale: queste piante si trovano facilmente dal piano fino a 1200 m s.l.m.; essendo inoltre una pianta molto rustica sopporta abbastanza bene le gelate, quindi può spingersi a quote più elevate fino a 2000 m s.l.m. (rilevamento sul Gran Sasso). Sui rilievi quindi frequenta i piani vegetazionali collinare, montano e subalpino.
Veronica persica
Veronica L., 1753 è un genere di piante angiosperme dicotiledoni. I fiori vengono chiamati comunemente "Occhi della Madonna" e sono confuse con il genere Myosotis. Fiore probabilmente dedicato a Santa Veronica, protettrice della Francia.
Veronica comune è una pianta erbacea annua appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae.
Nome scientifico: Veronica persica
Classificazione superiore: Veronica
Categoria tassonomica: Specie
La corolla è pentamera ma apparentemente si presenta a 4 lobi in quanto i due petali superiori sono fusi insieme; gli stami sono 2 saldati alla corolla. Il frutto è una capsula compressa lateralmente che contiene da 2 a 250 semi.
Questo genere veniva tradizionalmente incluso nella famiglia Scrophulariaceae mentre recenti studi filogenetici lo assegnano alla famiglia Plantaginaceae.[1]
pianta erbacea che produce dei piccolissimi e bellissimi fiorellini azzurri con venature blu che sfumano verso il centro prima nel viola intenso e poi nel bianco.
La loro particolare colorazione ricorda molto un'iride celeste, da cui l'associazione agli occhi della Santa Vergine.
In effetti, leggenda vuole che la Madonna abbia colto la corolla del fiore, in origine bianca, per dissetare il Bambin Gesù con una goccia di rugiada in essa contenuta e che, dopo averla di nuovo posata sul suo gambo, questa si sia ad esso risaldata diventando azzurra come i suoi occhi.
Si tratta in effetti di "Veronica Persica", ovvero di una particolare varietà di Veronica, una pianta erbacea che conta circa 500 Specie.
La sua delicatissima corolla si stacca non appena viene toccata e, sempre secondo la leggenda, gli uccelli, devoti alla sua difesa, beccano chiunque la faccia cadere.
Il nome Veronica dovrebbe derivare dal Greco "io porto la vittoria", ma secondo alcuni deriverebbe dal Latino "vera et unica".
E, ancora secondo leggenda, sarebbe dotata di poteri medicamentosi che si farebbero addirittura risalire alla guarigione delle ferite del volto di Cristo, dopo che fù pulito con un mazzetto di queste.
In effetti, la Veronica Officinalis ha proprietà antinfiammatorie e antibatteriche utili particolarmente per vie respiratorie, reni e pelle.
Alla fine del XVII secolo, questa varietà veniva usata al posto del costosissimo tè cinese, ed era conosciuta anche come tè svizzero o tè europeo.
Il frutto è una capsula a 5 valve contenente più semi.
È pianta mellifera, non di grande quantità, ma di ottima qualità di miele. Si tratta di specie tipiche della macchia mediterranea
Smilax (Smilace) era il nome di una ninfa della mitologia greca che, perdutamente e infelicemente innamorata del giovane Croco, suicidatosi perché non poteva amarla per l'opposizione degli Dei dell'Olimpo, fu trasformata in un rampicante.
È una pianta arbustiva con portamento lianoso, rampicante, dal fusto flessibile e delicato, ma cosparso di spine acutissime.
Le foglie, a forma di cuore, hanno i margini dentati e spinosi, e spinosa è anche la nervatura mediana della pagina inferiore.
I fiori, molto profumati, sono piccoli, giallicci o verdastri, poco vistosi e raccolti in piccole ombrelle; fioriscono, nelle regioni a clima mediterraneo, da agosto ad ottobre.
I frutti sono bacche rosse, riunite in grappoli, che giungono a maturazione in autunno. Contengono semi minuscoli e rotondi. Insipide e poco appetibili per l'uomo, costituiscono una fonte di nutrimento per numerose specie di uccelli.
Cresce spontanea nei boschi e nelle macchie. È una specie legata essenzialmente all'ambiente delle sclerofille, dalla lecceta alle sue forme degradate fino al Oleo-Ceratonion e alla gariga, ad altitudini che vanno dal livello del mare fino a 1.200 m.
La salsapariglia nostrana (Smilax aspera, L.)La radice contiene numerosi principi attivi tra cui la smilacina, la salsasaponina, l'acido salsasapinico. Ha proprietà sudoripare e depurative. Può essere utilizzata in infusi e decotti per curare l'influenza, il raffreddore, i reumatismi, l'eczema. Ha inoltre proprietà espettoranti ed emetiche (se somministrata in dosi abbondanti) e gli estratti vengono usati in formulazioni galeniche per migliorare l'assorbimento dei principi attivi farmacologici.
La Chaenomeles è un arbusto che fa parte della famiglia delle Rosaceae ed è di origine orientale.
La sua scoperta risale alla fine del Settecento, quando un naturalista svedese, Carl Peter Thunberg, lo identificò per la prima volta nei boschi delle montagne del Giappone.
Una curiosità: è un arbusto molto apprezzato per creare bonsai.
Dimensioni
Il fiore di pesco è un arbusto deciduo di dimensioni medie che si sviluppa prevalentemente in larghezza, un po' a ventaglio (1,5 x 2 m).
Forma dell'arbusto
L'arbusto della Chaenomeles è eretto ed è costituito da rami piuttosto radi, forniti di lunghe spine che tendono a incrociarsi quando la pianta non viene potata.
Fioritura
La fioritura della Chaenomeles è molto precoce: avviene, infatti, tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera. I primi fiori possono comparire già a fine gennaio/inizio febbraio.
La fioritura dell'arbusto, che per il resto dell'anno è tutt'altro che decorativo, è spettacolare: i rami ancora spogli si riempiono completamente di piccoli fiori caratterizzati da petali di un colore molto intenso tra il rosa e il rosso e da vistosi stami gialli.
I fiori, che non sono profumati, sono composti da cinque petali e hanno un diametro di circa tre centimetri. Essi permangono sulla pianta per 4/6 settimane.
Foglie
Le foglie, che iniziano a comparire alla fine della fioritura, sono piccole, ovali e seghettate.
Inizialmente di colore bruno, diventano di colore verde medio per poi diventare gialle e cadere in autunno.
Frutti
I frutti che l'arbusto produce a fine stagione testimoniano la stretta parentela tra questa pianta e i meli cotogni: i frutti, infatti, somigliano a piccole mele sferiche di circa 5 centimetri di diametro. La loro buccia è gialla e, a differenza dei fiori, sono profumati.
So che i frutti, che si prestano a numerose preparazioni, sono commestibili una volta cotti. Io, però, per ora non li ho ancora utilizzati.
Esposizione
Predilige aree con inverni da freschi a freddi e preferisce essere posizionata al sole.
E' una pianta molto rustica, che resiste sia a temperature molto basse (fino a -20°C) sia a periodi di siccità.
Cure e potatura
La Chaenomeles non ha particolari esigenze per quanto riguarda la composizione del terreno e le concimazioni.
Si tratta, dunque, di un arbusto molto rustico.
L'unica cura davvero necessaria per ottenere un bel cespuglio è la potatura dopo la fioritura. Gli arbusti che fioriscono presto in primavera, infatti, vanno potati proprio in quel momento per permettere la formazione di nuovi rami sui quali avverrà la fioritura l'anno successivo.
Dopo la fioritura i rami formatisi nell'anno precedente vanno accorciati a tre gemme dalla base. Vanno inoltre eliminati i rami storti o secchi. Alcuni dei fusti più vecchi andrebbero tagliati rasoterra ogni anno o due per far posto a nuovi germogli.
Camelia Sasanqua è una pianta acidofila.
L'originalità di questa specie di Camelia è di fiorire dall'autunno fino alla fine dell'inverno.
La fioritura abbondante è semplice, di taglia piccola, a volte profumata. Sono caratterizzate per le piccole foglie, allungate, merlate. Il fogliame verde scuro e lucido, bruno all'inizio della vegetazione. Raggiunge un'altezza che va dai 2 ai 3 m. e un diametro di 1,50 m.
Origine: Giappone
Portamento: arbusto fitto eretto crescita rapida
Foglie: lanceolate lucide verde brillante
Fiori: singoli piatti o a coppa bianchi
Epoca di fioritura: Settembre, Ottobre, Novembre
Terreno: acido
Clima: mite
Temperatura Minima: -15/-10 °C
Principali Varietà:
'Bonanza': fioritura a forma semidoppia e di colore rosso intenso, a partire da novembre.
'Cleopatra': fioritura a forma semplice e di colore rosa, a partire da novembre.
'Hino de Gumo': fioritura a forma semplice e di colore rosa chiaro, a partire da novembre.
'Hiryu': fioritura a forma semidoppia e di colore rosso intenso, a partire da novembre.
'Kanjiro': fioritura a forma semidoppia, profumata e di colore rosa intenso.
'Narumi-Gata': fioritura a forma semidoppia, profumata e di colore rosa bianco sfumata di rosa.
'Plantation Pink': fioritura a forma semplice, grande e profumata e di colore rosa intenso.
Viola odorata L. è un genere di piante della famiglia Violaceae, diffuso in Europa, nelle zone tropicali e in America del nord, centrale e del sud.
Comprende circa 400 specie erbacee annuali o perenni e anche suffruticose[1], alte da 10 a 20 cm, con fioriture primaverili, in svariati colori e corolle dalla forma caratteristica; generalmente con l'inizio della stagione calda le piante interrompono la fioritura, stimolando la produzione dei semi e concludendo il ciclo vegetativo.
Le specie di Viola si riproducono sia sessualmente (con ricombinazione dei caratteri) che vegetativamente (senza ricombinazione). I fiori più grandi portati in alto vengono impollinati dagli insetti, mentre i fiori più piccoli, localizzati in basso, non si aprono mai (cleistogamia) e attuano l'autoimpollinazione. I semi, che in questo caso hanno corredo genetico simile a quello della pianta che li origina cadono e germinano vicino alla pianta madre. Inoltre possono essere presenti degli stoloni, modificazioni di fusti che attuano la moltiplicazione vegetativa e danno origine a nuove piante geneticamente identiche alla pianta madre.
Tra le specie più note, coltivate come annuali, la Viola tricolor, pianta spontanea in Europa, nota col nome comune di Viola del pensiero, da cui sono derivati molti ibridi e varietà come la Viola hortensis pianta molto rustica, con fiori, in alcune cultivar, molto grandi e di vari colori.
Tra le specie perenni coltivate come biennali la Viola cornuta dai fiori di color violaceo.
Tra le perenni la Viola odorata conosciuta col nome volgare di Viola mammola, con fiori molto profumati, di colore viola-intenso, con varietà a fiore grande. Infine, la Viola calcarata a fiori gialli o lillà.
Molto comune in Europa, che cresce come pianta selvatica e perenne. È stata introdotta in Nord America, dove si è molto diffusa. È la progenitrice della viola del pensiero coltivata, ed è quindi a volte chiamata viola del pensiero selvatica; prima che si sviluppassero le viole coltivate, "viola del pensiero" era un nome alternativo per la forma selvatica.
Può produrre fino a 50 semi alla volta. È una piccola pianta con portamento rampicante, che raggiunge almeno i 15 cm di altezza, con fiori di 15 mm di diametro. Fiorisce da aprile a settembre; i petali dei fiori possono essere di vari colori tra cui viola, blu, giallo o bianco. È ermafrodita e autofertile, con impollinazione da parte delle api[1] o bombi. La pianta è commestibile.
Viola alba Besser subsp. dehnhardtii (Ten.) W. Becker
Famiglia: Violaceae
Nome comune: viola bianca
Common name: white violet
Descrizione: specie perenne, più o meno pelosa, dimensioni 5-15 cm. Stoloni epigei, allungati, sottili, già fioriti al primo anno emettono radici al secondo (spesso assenti nella subsp. dehnhardtii). Foglie tutte in rosetta basale, picciuolate, stipole lineari lanceolate, cigliate, lamina ovata, arrotondata o appuntita all'apice, margine dentato. Fiori profumati, tutti basali, portati da un peduncolo che nella metà o più su porta due brattee; sepali 5, ovali; corolla 1,5-2 cm di diametro, zigomorfa, petali 5 l'inferiore prolungato a sperone (nettario), da bianca a violacea con gamma di sfumature intermedie. Capsula più o meno pubescente.
Habitat: cresce nell’intervallo altimetrico tra 0 e 1000 metri s.l.m. Luoghi erbosi, al margine e nei boschi chiari, radure, siepi.
Periodo fioritura: Gennaio-Aprile
Note: comune nei Monti Lattari e nella penisola sorrentina. Presente anche a Capri.
Specie simile: Viola odorata da cui si distingue per le stipole largamente ovali e le foglie arrotondate.
Localmente alcuni coltivano questa piantina a scopi ornamentali; altri raccolgono le violette per decorare le insalate.
Helleborus (Tourn. ex L., 1753), comunemente noto come elleboro, è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae diffuso prevalentemente nel bacino del Mediterraneo, ad eccezione di una specie (H. thibetanus) che è presente in Estremo Oriente[1].
I fiori dell'elleboro sono formati da 5 tepali che sono diversamente colorati e assumono spesso un aspetto petaloide. Questi circondano e proteggono dei nettari che derivano dalla trasformazione dei veri petali. I tepali rimangono persistenti dopo l'impollinazione e studi condotti in Spagna suggeriscono che il perigonio persistente possa contribuire allo sviluppo dei semi[2].
Il genere, che dà il nome a una delle famiglie delle Ranuncolaceae, quella delle Helleboreae, comprende circa 30 specie erbacee perenni (di cui una decina sono spontanee sul nostro territorio), alcune con radici rizomatose, con fioritura invernale o ai primi tepori primaverili, con fiori di vari colori.
All'interno del genere Helleborus sono attualmente incluse 15 specie e 6 sottospecie:
Helleborus bocconei Ten.
Helleborus bocconei subsp. intermedius (Guss.) Greuter & Burdet
Helleborus colchicus Regel
Helleborus croaticus Martinis
Helleborus cyclophyllus (A.Braun) Boiss.
Helleborus dumetorum Waldst. & Kit. ex Willd.
Helleborus dumetorum subsp. illyricus Starm.
Helleborus lividus Aiton ex Curtis
Helleborus lividus subsp. corsicus (Briq.) P.Fourn.
Helleborus × mucheri Rottenst.
Helleborus multifidus subsp. hercegovinus (Martinis) B.Mathew
Helleborus odorus Waldst. & Kit. ex Willd.
Helleborus purpurascens Waldst. & Kit.
Helleborus × tergestinus Starm. ex Rottenst.
Helleborus thibetanus Franch.
Helleborus vesicarius Aucher ex Boiss.
Helleborus viridis subsp. abruzzicus (M.Thomsen, McLewin & B.Mathew) Bartolucci, F.Conti & Peruzzi
Helleborus viridis subsp. liguricus (M.Thomsen, McLewin & B.Mathew) Bartolucci, F.Conti & Peruzzi
In Italia sono spontanee le seguenti specie[3]:
H. foetidus: diffuso in luoghi sassosi e cespugliosi; fusto ramoso alto oltre i 50 cm; foglie lungamente picciolate, con una decina di segmenti lanceolati dal margine seghettato, le brattee sono ovali e di colore verde pallido; i fiori campanulati, pendenti, sono di colore verdastro marginati di rosso-brunastro; la pianta emana un odore nauseabondo. È il più utilizzato per la coltivazione in vaso e nei luoghi molto ombrosi.
H. lividus: presente in Sardegna nella sua sottospecie Helleborus lividus subsp. corsicus.
H. viridis: noto anche con il nome di Elleboro verde o Elleboro falso, velenoso, emana un odore fetido, spontaneo dei luoghi cespugliosi ed erbosi dalle zone collinari fino a quella alpina al margine dei boschi; pianta erbacea perenne rizomatosa alta 20–50 cm, ha grandi foglie basali, presenti fino alla cima degli scapi florali come brattee, pedate divise cioè in 3 segmenti principali, di cui il mediano libero e intero mentre i 2 laterali sono a loro volta divisi in segmenti lanceolati; i fiori odorosi, sono grandi di colore verde o rossiccio, con sepali patenti con fioritura invernale-primaverile; i frutti sono follicoli oblunghi, uniti alla base in gruppi di 3-8 e muniti di rostri, contengono numerosi semi di forma allungata. Entrambe le due sottospecie di H. viridis subsp. abruzzicus e subsp. liguricus
Helleborus bocconei: sia la specie in sé che H. bocconei subsp. intermedius sono endemiche in Italia: la prima nelle regioni centrali, la seconda nel Meridione e in Sicilia.
Helleborus niger: noto anche con il nome di Rosa di Natale, Elleboro nero e Erba rocca; pianta erbacea perenne alta 8–35 cm, velenosa, emana un odore acre; ha un rizoma corto e ingrossato di colore nerastro, ricco di radici; le foglie sono basali, lungamente picciolate, di grandi dimensioni, da oblungo-cuneate a lanceolate, coriacee a margine seghettato, di colore verde scuro; scapi floreali di colore rossiccio, con brattee ovali, sessili, i fiori sono singoli o a coppie, grandi, apicali a forma di coppa, di colore bianco, rosa o rosso-porpora, con piccoli petali, tubulosi, e numerosi stami, con fioritura da gennaio ad aprile; i frutti sono follicoli rigonfi, muniti di rostri e contengono numerosi semi oblunghi; vive nei luoghi erbosi e boscosi delle Alpi (dalla Valle d'Aosta al Friuli), incerto per l'Appennino, in pericolo per le indiscriminate raccolte in natura, soprattutto in Brianza, dove esiste il deprecabile costume di farne mazzi per i cimiteri. Spesso coltivato, da non confondere con l'elleboro bianco, che si riferisce a specie di un altro genere il Veratrum album.
Helleborus × tergestinus: specie ibrida endemica del territorio italiano.
Usi. Come pianta ornamentale per decorare roccaglie e giardini spontanei, in vaso per gli appartamenti, e per la produzione industriale del fiore reciso.
Pianta molto velenosa, sia per ingestione che per uso esterno, molto difficile da dosare, se ne sconsiglia vivamente l'uso
La polvere ricavata dalle radici e dai rizomi raccolti in primavera o in autunno, e fatti essiccare rapidamente ha proprietà cardiotoniche, narcotiche, emetiche e curative degli edemi, è anche un purgante drastico
Per uso esterno si usa come revulsivo in alcune malattie della pelle
L'estratto fluido delle radici e rizoma dell'Helleborus viridis ha proprietà sedative e irritanti dell'intestino con effetto purgativo drastico
Petronio Arbitro dice nel suo Satyricon [88,4]: "Chrysippus, ut ad inventionem sufficeret, ter elleboro animum detersit". Crisippo (di Soli), filosofo stoico del III sec. a.C. [Diogene Laerzio 7,198], dunque, "per affinare la sua capacità percettiva (inventio), per tre volte si schiarì la mente con [una pozione di] elleboro". Fonte: Ed.BUR 1996, traduzione di Andrea Aragosti.
Quinto Orazio Flacco ne parla nel suo Satirarum (Terza Satira - Libro II): "Danda est ellebori multo pars maxima avaris"; in quanto noto rimedio contro la pazzia, in questo caso degli avari.[4]
L'elleboro è un allucinogeno, noto sin dall'antichità [Plinio 25,47]. La notizia dell'uso di pozioni di elleboro da parte di Crisippo è riferita anche da Luciano [Vera hist. 2,18]. Simili notizie si trovano in: Plinio [25,52] in riferimento a Carneade, Gellio [17,15] e Valerio Massimo [8,7]. Per la relazione fra lucidità teoretica ed elleboro, vedi Stobeo [Ecl. 2,24]; fonte: Op. Cit., nota 256 di A. Aragosti.
La coltivazione non presenta molte difficoltà. Il luogo prescelto per la coltivazione non dovrà essere eccessivamente soleggiato. Il terreno dovrà essere fertile, ben drenato, con concimazioni periodiche, preferibilmente organiche.
La messa a dimora avviene in settembre-ottobre a 30–40 cm di distanza, avendo cura di non interrare la sommità degli apparati radicali a più di 2–3 cm di profondità.
Se lasciati indisturbati, con le giuste condizioni, si possono riprodurre spontaneamente. In generale gli ellebori mal sopportano i trapianti.
La specie Helleborus foetidus è quella che meglio si adatta alle posizioni più ombreggiate.
La semina non è complicata, ma richiede cura e soprattutto tempo. I primi risultati non si vedranno prima di tre anni. Risultati più immediati si hanno con la divisione dei cespi.
Il ranuncolo favagello (Ranunculus ficaria L., 1753) è una pianta appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, comune ai bordi dei ruscelli.Il nome generico (Ranunculus), passando per il latino, deriva dal greco Batrachion[3], e significa “rana” in quanto molte specie di questo genere prediligono le zone umide, ombrose e paludose, habitat naturale degli anfibi.
L'epiteto specifico (ficaria) deriva dal latino (ficus = fico). Tale nome è stato attribuito per la somiglianza dei tuberi sotterranei ai fichi.
Il binomio scientifico attualmente accettato (Ranunculus ficaria) è stato proposto da Carl von Linné (Rashult, 23 maggio 1707 –Uppsala, 10 gennaio 1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
Si tratta di piante con un'altezza variabile dai 6 ai 30 cm fondamentalmente glabre, lucenti e aspetto un po' cespitoso. Sono inoltre definite geofite bulbose, ossia sono piante perenni erbacee che portano le gemme in posizione sotterranea. Durante la stagione avversa non presentano organi aerei e le gemme si trovano in organi sotterranei chiamati tuberi, organi di riserva che annualmente producono nuovi fusti, foglie e fiori. In parte però presentano anche delle caratteristiche tipiche delle emicriptofite scapose, ossia piante con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve.
Le radici filiformi sono secondarie e sono posizionate nella parte superiori dei tuberi. Hanno un colore biancastro.
Parte ipogea: la parte sotterranea consiste in piccoli tuberi fusiformi bruno-chiari. Dimensione dei tuberi: larghezza 4 –5 mm; lunghezza 10 mm (massimo 3 cm).
Parte epigea: la parte aerea del fusto si presenta prostrato-ascendente a forma tubulosa, glabra, cava e consistenza molle. Diametro massimo di 5 mm.
Le foglie sono principalmente radicali (quelle cauline sono poche o assenti), con un lungo picciolo e la forma cordata. Il bordo è crenato e la consistenza della foglie è piuttosto carnosa. Sulla superficie di colore verde scuro ma lucida e variegata di chiaro, sono presenti 5 – 9 nervi; sul nervo centrale vi possono essere delle macchie più scure. Lunghezza del picciolo: 7 – 11 mm. Dimensione della lamina: larghezza 2 cm: lunghezza 2,5 cm (massimo 5 x 6,5 cm).
I fiori sono ermafroditi, emiciclici, attinomorfi. I fiori sono di tipo molto arcaico anche se il perianzio[4](o anche più esattamente il perigonio[5]) di questo fiore è derivato dal perianzio di tipo diploclamidato (tipico dei fiori più evoluti), formato cioè da due verticilli ben distinti e specifici: sepali e petali. Mentre gli elementi riproduttori (stami e carpelli) sono in disposizione spiralata. Il ricettacolo (supporto per il perianzio) è glabro. Dimensione dei fiori: 20 – 25 mm.
Formula fiorale: per queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
* K 3-4, C 8-11, A molti, G 1-molti (supero), achenio[6]
Calice: il calice è formato da 3 - 4 sepali a forma ovata e di colore bianco-verdastro a disposizione embricata. In realtà i sepali sono dei tepali sepaloidi[7]. Alla fioritura sono disposti in modo patente ed appressati ai petali; poi sono caduchi.
Corolla: la corolla, di tipo dialipetalo, è composta da 8 - 11 petali di colore giallo-dorato lucente con la parte basale più scura (squama nettarifera – vedi più avanti); di sotto sono brunastri. Sulla superficie sono presenti delle nervature ramificate; la forma è lanceolato-stretta; alla base dal lato interno è presente una fossetta nettarifera (= petali nettariferi di derivazione staminale) con un nettario a forma biloba. In effetti anche i petali della corolla non sono dei veri e propri petali: potrebbero essere definiti come elementi del perianzio a funzione vessillifera[8].
Androceo: gli stami, completamente gialli, inseriti a spirale nella parte bassa sotto l'ovario, sono in numero indefinito e comunque più brevi dei sepali e dei petali; la parte apicale del filamento è lievemente dilatata sulla quale sono sistemate le antere bi-logge, di colore giallo a deiscenza laterale. Al momento dell'apertura del fiore le antere sono ripiegate verso l'interno, ma subito dopo, tramite una torsione, le antere si proiettano verso l'esterno per scaricare così il polline lontano dal proprio gineceo evitando così l'autoimpollinazione. Il polline è tricolpato (caratteristica tipica delle Dicotiledoni).
Gineceo: l'ovario è formato da diversi carpelli liberi e uniovulari; sono inseriti a spirale sul ricettacolo; gli ovuli sono eretti e ascendenti. I pistilli sono apocarpici (derivati appunto dai carpelli liberi).
Fioritura: da gennaio a maggio.
I frutti sono degli acheni pubescenti (quasi irsuti) a forma ovata; sono numerosi, appiattiti, compressi e con un rostro o becco apicale. Ogni achenio contiene un solo seme. Insieme formano una testa sferica posta all'apice del peduncolo fiorale (un poliachenio).
La riproduzione di queste piante avviene i due modi:
per via sessuata grazie all'impollinazione degli insetti pronubi (soprattutto api) in quanto sono piante provviste di nettare (impollinazione entomogama);
tramite dei bulbilli posti all'ascella delle foglie superiori che, staccandosi dalla pianta madre, svolgono la funzione di riproduzione vegetativa. In questo caso le piante presentano dei frutti acheni quasi atrofizzati e quindi inutili per la riproduzione. Anche i fiori sono più piccoli in quanto non svolgono la funzione di richiamo per gli insetti.
Anemone hortensis L.Anemone stellata Lam., nom. illeg.
Ranunculaceae
Anemone fior-stella, Anemone stellata, Anemone fior di stella
Forma Biologica: Geofite bulbose. Piante il cui organo perennante è un bulbo da cui, ogni anno, nascono fiori e foglie.
Descrizione: Pianta erbacea perenne, con piccolo tubero legnoso nerastro e scapo fiorifero esile, pubescente, eretto alla fioritura, alto 10-30 cm.
Foglie basali palmatosette con 3 – 5 segmenti a loro volta variamente divisi o lobati, portate da un picciolo di 5 – 10 cm, le cauline che formano un verticillo sotto il fiore sono semplici o triforcate.
Fiori solitari all’apice del fusto, con numerosi (8) 12-13 (20) sepali petaloidi ellittico-lanceolati, rosa-azzurrini, bianchi o violetti, con nervature violette, stami azzurro-violetti e numerosi pistilli
Il frutto e un acheneto, frutto multiplo formato di acheni derivati da carpelli liberi e indipendenti.
Entità mediterranea in senso stretto (con areale limitato alle coste mediterranee: area dell'Olivo).
Antesi: Febbraio - Maggio.
Habitat: Vive nei luoghi aridi, prati asciutti, radure, oliveti dal piano a 1.200 m.
Note di Sistematica: Sono specie somiglianti, diffuse nella regione Mediterranea in ambienti simili:
Anemone pavonia Lam. che ha foglie basali spesso soltanto lobate e non profondamente divise, brattee indivise poste in basso sullo stelo e il calice petaloideo che è formato da un minor numero di sepali rossi o porpora, più larghi, e che spesso ha un anello centrale bianco.
Anemone coronaria L. pianta commensale delle colture di cereali, che ha brattee finemente divise che formano una corona sotto il fiore e 5-8 sepali ellittico-arrotondati, sovrapposti, di colore rosso o viola, blu o bianco.
Etimologia: dal greco ànemos = vento, data la sua vita effimera e dal latino hortensis= degli orti per il suo habiitat e stellata per la forma dei petali.
Proprietà ed utilizzi: Specie tossica
Pianta che contiene protoanemonine tossiche, come tutti gli anemoni.
Il genere si identifica, nell'ambito della famiglia, per la presenza di fiori isolati e apicali con paracorolla presente (gialla o rossa). Gli stami (6) sono inseriti al di sotto della paracorolla, non o poco sporgenti dal perigonio. Le foglie lineari-lanceolate sono basali, guainanti, con l'apice ottuso, di colore verde chiaro. Il bulbo è ovale-piriforme o a volte subgloboso, da cui origina lo scapo eretto e compresso, alto 20–50 cm. Il pistillo presenta un ovario infero. Il frutto è una capsula ovoidale.
Il genere comprende molte specie bulbose divise in varie sezioni, con alcune specie spontanee in Italia come il Narcissus poēticus L. - noto col nome di Narciso selvatico o Fior di maggio - diffuso nei pascoli montani dalle Alpi alla Sila o il Narcissus pseudonarcissus L. - noto volgarmente come Trombone inselvatichito.
I bulbi dei narcisi, ma anche le foglie, contengono la narcisina, un alcaloide velenoso che provoca, se ingerito accidentalmente, disturbi neuronali e infiammazioni gastriche negli animali al pascolo o nell'uomo e, se non curato in meno di 24 ore, può provocare la morte.[1][2] Sono noti avvelenamenti in quanto i bulbi possono essere erroneamente scambiati per cipolle.
Vinca minor
La pervinca minore (Vinca minor L.) è una liana erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Apocinacee[1], tipica del sottobosco, dove forma estesi tappeti sempreverdi, ma comune anche lungo i bordi delle strade.
È una pianta piuttosto diffusa, di cui alcune cultivar sono coltivate a scopo ornamentale, soprattutto per realizzare bordure.
Alta 10–15 cm, ha un portamento strisciante e tappezzante. Forma grandi tappeti di fusti striscianti piuttosto esili ed alti al massimo 18 cm che producono radici ai nodi e portano foglie opposte, ellittiche, coriacee e lucide superiormente.
I fiori compaiono tra marzo e maggio, con una possibile seconda fioritura in autunno e sono caratterizzati da un colore azzurro-violetto, denominato appunto blu-pervinca. Sbocciano su peduncoli di 1 - 1,5 cm all'ascella di corti rametti ascendenti. La corolla è composta da 5 petali con l'apice troncato obliquamente.
È nativa dell'Europa centrale e meridionale.
Cresce nel sottobosco erbaceo, specialmente sotto le querce.
La pratolina comune (nome scientifico: Bellis perennis L., 1753) nota come margheritina comune o pratolina, è una specie appartenente alla famiglia delle Asteraceae, molto comune in Europa.
Per i fiori così comuni come questo, l'etimologia del nome è sempre un problema in quanto si deve risalire parecchio indietro nel tempo. Alcuni dicono che il nome derivi da Bellide, una delle barbare e crudeli figlie (chiamate Danaidi) di Dànao, re di Argo; altri lo fanno derivare dal latino bellum (= guerra) in riferimento alle sue presunte capacità di guarire le ferite. Più facilmente, secondo i filologi moderni, il suo nome deriva dall'aggettivo (sempre latino) bellus (= bello, grazioso) con riferimento alla delicata freschezza di questo fiorellino[1]. Mentre L'epiteto specifico (perennis) fa riferimento al ciclo biologico di questa specie (perenne).
Il binomio scientifico attualmente accettato (Bellis perennis) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753[2].
Il nome inglese, daisy, deriverebbe da day's eye, occhio del giorno, per la peculiarità del suo riaprirsi ogni giorno al sorgere del sole.
L'altezza della pianta difficilmente supera i 5–15 cm. Sono piante acauli, senza un fusto vero e proprio: il peduncolo fiorale nasce direttamente dalla rosetta basale. La forma biologica è emicriptofita rosulata (H ros), ossia sono piante erbacee (quasi cespitose) perenni con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve con delle foglie disposte a formare una rosetta basale.
Le radici sono secondarie da fittone.
Parte ipogea: la parte sotterranea consiste in un breve rizoma (a carattere fittonante).
Parte epigea: la parte aerea è eretta e alta da 2 a 10 cm, priva di foglie (oppure 1 - 2 foglie alla base, per il resto è afilla), alla sommità della quale si trova l'infiorescenza. La superficie è ricoperta da una sottile peluria.
In questa specie è presente solamente una rosetta basale con foglie obovato-spatolate allungate e ristrette verso il picciolo (alato) mentre la parte più larga è verso l'apice della foglia. La lamina è semplice e lievemente dentata (o crenulata) all'apice. La superficie è percorsa da 1 – 3 nervi (quello centrale è ben visibile e causa anche una certa geometria carenata). Dimensioni delle foglie: larghezza 14 – 16 mm; lunghezza 35 – 40 mm.
Descrizione delle parti della pianta
I fiori sono zigomorfi (quelli periferici ligulati) e attinomorfi (quelli centrali tubolosi). Entrambi sono tetra-ciclici (formati cioè da 4 verticilli: calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (calice e corolla formati da 5 elementi)[3].
Formula fiorale: per questa pianta viene indicata la seguente formula fiorale:
* K 0/5, C (5), A (5), G (2), infero, achenio[4]
Calice: i sepali del calice sono ridotti ad una coroncina di squame quasi inesistenti.
Corolla: i petali della corolla sono 5; i fiori di tipo tubuloso sono saldati a tubo e terminano in cinque dentelli (o lacinie) appena visibili, quelli ligulati sono saldati a tubo nella parte basale e si prolungano in una ligula nastriforme. I fiori periferici (ligulati) sono bianchi e sfumati di porporino all'apice sul retro; quelli centrali (tubulosi) sono gialli. I petali esterni si chiudono di notte sul capolino per poi riaprirsi al mattino. Dimensione dei fiori ligulati: larghezza 1 – 1,7 mm; lunghezza 8 – 9 mm. Lunghezza dei fiori tubulosi: 1,5 - 1,7 mm.
Androceo: gli stami (5) hanno delle antere con appendice triangolare (non filiforme); sono saldate e formano una specie di manicotto avvolgente lo stilo. Dimensione delle antere: 1 mm.
Gineceo: i carpelli sono due e formano un ovario bicarpellare infero uniloculare. Lo stilo è unico terminante in uno stigma profondamente bifido di tipo filiforme. Nei fiori tubulosi lo stilo sporge appena dalla corolla.
Fioritura: tutto l'anno (a parte un breve periodo estivo di stasi).
Il frutto è un achenio compresso e indeiscente con un pappo ridotto (o anche assente) e con peli a forma di clava. Dimensione dell'achenio: 1,5 mm.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti (impollinazione entomogama).
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra); è possibile anche una propagazione di tipo clonale favorita ad esempio nei prati falciati di frequente[5].
Dispersione: i semi cadendo a terra sono dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Europeo/Caucasico - Circumboreale.
Distribuzione: è una pianta diffusissima nei prati ed è originaria dell'Europa occidentale, centrale e settentrionale, largamente distribuita in Italia. Oltre all'Europa si trova in Asia occidentale, nell'isola di Madera, in Africa settentrionale (Libia) e nell'America Settentrionale (qui però è considerata specie naturalizzata)[1].
Habitat: l'habitat tipico sono gli incolti, i prati, i giardini e parchi; è considerata una pianta sinantropica. Il substrato preferito è sia calcareo che siliceo con pH neutro, terreno ad alti valori nutrizionali e mediamente umido.
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 2000 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Il bucaneve (Galanthus nivalis, Linnaeus 1753) è una pianta perenne, erbacea ed eretta della famiglia delle Amaryllidaceae.
Galanthus è un piccolo genere con circa una ventina di specie, tutte molto precoci nel fiorire a primavera. All'interno della famiglia delle Amaryllidaceae il nostro genere appartiene alla tribù delle Galantheae.
La classificazione di questo gruppo di piante ha subito alcune modifiche nel corso del tempo. Questo è causato dal fatto che la famiglia delle Amaryllidaceae è strettamente imparentata con quella delle Liliaceae. Infatti secondo il Sistema Cronquist (degli anni ottanta) queste piante facevano parte di quest'ultima famiglia (e quindi all'ordine delle Liliales): il sistema Cronquist non contempla una famiglia di nome Amaryllidaceae, nonostante nelle classificazioni ancora più vecchie (vedi Adolf Engler) tale famiglia avesse una sua collocazione ben precisa.
Ma gli ultimi studi filogenetici (vedi la moderna classificazione APG) hanno dimostrato che le Liliaceae sono un gruppo parafiletico per cui molti generi sono stati attribuiti ad altre famiglie e quindi il genere Galanthus è rientrato nella famiglia delle Amaryllidaceae e nell'ordine delle Asparagales.
Il nostro fiore è l'unico del genere che cresce spontaneo in Italia. All'estero sono segnalate diverse cultivar (varietà coltivate) di questa specie: con fiori a diverse dimensioni, periodi diversi di fioritura, e altre caratteristiche di interesse per gli appassionati e il commercio.
Il nome del genere (“Galanthus”) deriva da due parole greche: “gala” = latte (bianco come il latte) e “anthos” = fiore.
L'epiteto specifico (“nivalis”) fa riferimento alla sua precoce fioritura in mezzo alla neve.
I riferimenti storici al bucaneve si perdono nella “notte dei tempi”. Viene chiamato “Stella del mattino” perché è uno dei primi fiori ad apparire nel nuovo anno. Anche le feste religiose (sia cristiane sia pagane) fanno riferimento a questo fiore: è una pianta sacra e simbolica per la festa della Candelora (2 febbraio); invece in Imbolc (antica festa irlandese del culmine dell'inverno – 1º febbraio) si dice che il colore bianco del bucaneve ricorda allo stesso tempo la purezza di una Giovane Dea (festeggiata in questa ricorrenza pagana) e il latte che nutre gli agnelli.
Tra le varie leggende anche Adamo ed Eva sono collegati al bucaneve: un racconto inglese narra che Eva scacciata dal paradiso terrestre fu presa dallo sconforto nel trovarsi su una terra buia e gelida, ma ben presto l'apparire di un bucaneve (grazie al miracolo di un angelo) le diede di nuovo forza e speranza.
È interessante ricordare ancora che in Inghilterra il bucaneve fu introdotto dalla Regina Elisabetta prelevato dalle zone selvatiche dell'Italia alpina.
La forma biologica è definita come geofita bulbosa (G bulb): sono piante decidue provviste di un bulbo come organo perennante che ogni anno produce foglie e fiori.
Le radici si generano nella parte inferiore del bulbo e sono fascicolate e di tipo contrattile.
Parte ipogea: consiste in un bulbo ovoide di colore bruno – scuro dato da alcune tuniche avvolgenti come le cipolle. Dimensione: 3 cm.
Parte epigea: eretto, glabro e leggermente striato; può arrivare fino a 20 – 30 cm di altezza.
Le foglie lineari - nastriformi
Le foglie sono tutte radicali, fuoriescono cioè dal bulbo basale.
Foglie inferiori: una parte delle foglie (quelle più vicine al bulbo) sono ridotte a guaine membranose.
Foglie superiori: le altre sono lineare – nastriformi lunghe come il fusto (lunghezza: 10 – 20 cm; larghezza: 3 – 7 cm), arrotondate all'apice e di consistenza carnosa con un'unica nervatura centrale. Sono di colore verde glauco (bluastro) e dotate di una copertura pruinosa dalla tinta cerosa. Inoltre si presentano appaiate a due a due.
L'infiorescenza è solitaria e pendula (nutante - oscillante). Questa, tramite un peduncolo fiorale, fuoriesce dal bulbo radicale. Il fiore non ha un odore particolarmente gradevole e ha il peduncolo accompagnato da una spata patente (che sovrasta il fiore), trasparente e inguainata, dentellata alla sua estremità e fornita di due verdi e brillanti nervature. Lunghezza della spata: qualche centimetro (3 – 4 cm).
Tepali esterni/interni e stami
I fiori sono ermafroditi, attinomorfi e di colore bianco. Dimensione del fiore: 2,5 cm.
Perigonio: il perigonio petaloide è composto da 6 tepali: 3 esterni e 3 interni.
I tepali esterni sono patenti (e liberi) e disposti a stella; hanno la forma ovata, concavi e sono lunghi 15–25 mm e larghi 3 – 9 mm.
I tepali interni sono eretti, embricati e sono più corti (1 cm di lunghezza); sulla pagina interna sono macchiati di verde (qualche volta sono giallastri), mentre su quella esterna hanno una V rovesciata, sempre di colore verde. Inoltre sono lievemente bilobati.
Entrambi i tepali hanno una decina di striature longitudinali e all'apice sono lievemente smarginati.
Androceo: gli stami sono 6. Dei filamenti capillari portano le antere lesiniformi e di colore giallo-aranciato; queste hanno diversi pori o piccole fessure (dalle quali scaricano il polline) e convergono al centro attorno allo stilo.
Gineceo: l'ovario è infero con 3 loculi (da 3 carpelli). Lo stilo è unico e fa sporgere lo stigma sopra il cono delle antere. In questo modo le vibrazioni degli insetti auto - impollinano il fiore.
Fioritura: in febbraio e marzo.
Impollinazione: tramite api. La disseminazione avviene anche tramite le formiche che sono ghiotte del frutto. È presente anche una fase di auto - impollinazione (vedi sopra) resa ancora più probabile dal fatto che i fiori sono omogami (maturano insieme le antere e gli stigmi).
Il frutto è una capsula carnosa dalla forma ovoidale di 6 – 9 mm.
Geoelemento: il geoelemento è definito come Euroasiatico (Eurasiat. )
Diffusione: la nostra pianta è presente in Europa meridionale e nelle zone caucasiche. In Italia questa specie è presente nelle regioni settentrionali e in quelle della penisola con l'esclusione della Calabria e della Sicilia dove è sostituito da Galanthus reginae-olgae Orph., risulta assente anche dalla Sardegna.
Habitat: vegeta nei boschi di latifoglie, cespuglieti o prati; in tutti i casi zone di mezz'ombra e con terreni un po' pesanti. Nell'Italia centro-meridionale tende a divenire specie montana, mentre nel Nord Italia, in Toscana e nelle Marche è presente anche nelle pianure alluvionali e in prossimità delle coste.
Il bucaneve si può coltivare abbastanza facilmente: il bulbo deve essere piantato in autunno ad almeno 5 cm di profondità in terreni soleggiati d'inverno ma ombrosi d'estate (in prossimità di piante caducifoglie). Attenzione particolare si deve fare alle radici che siano ben coperte di terra in quanto non attecchiscono tanto facilmente.
Nelle Isole Britanniche questo fiore è particolarmente celebrato come segno della Primavera imminente. A questo proposito esiste un Festival Galanthus (1º febbraio – 11 marzo) dove ad esempio nel 2007 in Scozia hanno preso parte ben 60 giardini aperti appositamente per i visitatori desiderosi di ammirare questo bel fiore.
Il biancospino (Crataegus monogyna Jacq., 1775) è un arbusto o un piccolo albero molto ramificato, contorto e spinoso, appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere dei Crataegus. Talvolta è usato il sinonimo Crataegus oxyacantha.
Il biancospino è una caducifoglia e latifoglia, l'arbusto può raggiungere altezze comprese tra i 50 centimetri ed i 6 metri. Il fusto è ricoperto da una corteccia compatta, di colore grigio. I rami giovani sono dotati di spine che si sviluppano alla base dei rametti brevi. Sono i rametti spinosi (brocche) che in primavera si rivestono di gemme e fiori. Questa specie è longeva e può diventare pluricentenaria, ma con crescita lenta.
Le foglie sono lunghe 2-6 centimetri, dotate di picciolo, di forma romboidale ed incise profondamente. L'apice dei lobi è dentellato.
I fiori sono raggruppati in corimbi, che ne contengono circa 5-25. I petali sono di colore bianco-rosato e lunghi 5 o 6 millimetri.
I frutti sono ovali, rossi a maturazione, delle dimensioni di circa 1 cm e con un nocciolo che contiene il seme. La fioritura avviene tipicamente tra aprile e maggio, mentre i frutti maturano fra settembre e ottobre. I frutti del biancospino sono edibili, ma solitamente non vengono mangiati freschi, perché piccoli e con un grosso nocciolo, bensì lavorati per ottenere marmellate, gelatine o sciroppi. I frutti sono decorativi perché rimangono al lungo sull'arbusto, anche durante tutto l'inverno.
Si trova in Europa, Nordafrica, Asia occidentale e America settentrionale. Il suo habitat naturale è rappresentato dalle aree di boscaglia e tra i cespugli, in terreni prevalentemente calcarei. Vegeta a quote comprese tra 0 e 1.500 metri.
il biancospino è una pianta mellifera e viene bottinata dalle api ma solo raramente se ne può ricavare un miele monoflorale, perché di solito si trova in minoranza rispetto alle altre piante del territorio.
Il legno, denso e pesante, è un apprezzato combustibile.
Un tempo, in diverse regioni italiane, veniva utilizzato come essenza costituente delle siepi interpoderali, cioè per delimitare i confini degli appezzamenti. In ragione delle spine e del fitto intreccio dei rami la siepe di biancospino costituiva una barriera pressoché impenetrabile. Attualmente l'esigenza di non rendere difficoltosa la circolazione dei mezzi agricoli meccanici ha determinato la quasi totale scomparsa delle siepi di biancospino con questa funzione.
Il prugnolo selvatico (nome scientifico Prunus spinosa L.) è un arbusto spontaneo appartenente alla famiglia delle Rosaceae[1] e al genere Prunus. viene chiamato anche prugno spinoso, strozzapreti o semplicemente prugnolo.
Frutti del prugno spinoso
Il prugnolo è un arbusto o piccolo albero folto, è caducifoglie e latifoglie, alto tra i 2,5 e i 5 metri. La corteccia è scura, talvolta i rami sono contorti. Le foglie sono ovate, verde scuro. I fiori, numerosissimi e bianchissimi, compaiono in marzo o all'inizio di aprile e ricoprono completamente le branche. Produce frutti tondi di colore blu-viola, la maturazione dei frutti si completa in settembre -ottobre. Sono delle drupe ricoperte da un patina detta pruina. È un arbusto resistente al freddo, si adatta a diversi suoli. Resistente a molti parassitati e con crescita lenta. Le bacche, che contengono un unico seme duro, sono ricercate dalla fauna selvatica.
Distribuzione e habitat
il prugnolo è una pianta spinosa spontanea dell'Europa, Asia, e Africa settentrionale; cresce ai margini dei boschi e dei sentieri, in luoghi soleggiati.
Forma macchie spinose impenetrabili che forniscono protezione agli uccelli ed altri animali.
Usi
I frutti, chiamati prugnole, possono essere usate per fare marmellate, confetture, salse, gelatine e sciroppi. I frutti contengono molta vitamina C, tannino e acidi organici. Anche i fiori sono commestibili (tra i fiori eduli), possono essere usati in insalate o altri piatti.
Il prugnolo spinoso è un arbusto comune, adatto per formare siepi. Un tempo, in qualche parte d'Italia, veniva utilizzato come essenza costituente delle siepi interpoderali, cioè per delimitare i confini degli appezzamenti. In ragione delle spine e del fitto intreccio dei rami, la siepe di prugnolo selvatico costituiva una barriera pressoché impenetrabile.
Le bacche rimangono a lungo attaccate ai rami e la pianta talvolta può essere usata come arbusto ornamentale in giardini. I frutti del prugno spinoso sono utilizzati in alcuni paesi per produrre bevande alcoliche (in Inghilterra lo sloe gin, in Navarra, Spagna, il Pacharán, in Francia la prunelle, in Giappone l'umeshu ed in Italia il bargnolino o prunella).
Il prugno spinoso è usato come purgante, diuretico e depurativo del sangue, per erba medicinale ed erba officinale. I principi attivi contenuti nei fiori sono cumarine, flavone e glucosidi dell'acido cianidrico. La corteccia della pianta era utilizzata in passato per colorare di rosso la lana.
Il legno, come quello di molti alberi da frutto è un apprezzato combustibile, è duro e resistente, e può essere lucidato. Se di piccole dimensioni viene usato per attrezzi agricoli, intarsi e bastoni da passeggio.
Il mandorlo è una specie arborea appartenente alla famiglia botanica delle Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae.
Ulteriore classificazione scientifica è quella che identifica le diverse specie.
Attualmente si distingue il mandorlo dolce, Prunus dulcis, dal mandorlo amaro, Amygdalus communis o Prunus amygdalus.
Altri autori suddividono la specie Prunus dulcis, in altre sottospecie, variabili a seconda delle caratteristiche dei frutti.
Il mandorlo è un piccolo albero, caducifoglie e latifoglie, alto fino a 5-7 metri. Il mandorlo ha crescita lenta ed è molto longevo, può diventare plurisecolare. Presenta le radici a fittone e fusto dapprima diritto e liscio e di colore grigio, successivamente contorto, screpolato e scuro, le foglie, lunghe fino a 12 cm, sono lanceolate e picciolate; i fiori, bianchi o leggermente rosati e con un diametro fino a 5 cm, hanno 5 sepali, 5 petali, 40 stami (disposti su tre verticilli) e un pistillo con ovario semi-infero. I fiori sbocciano all'inizio della primavera: è tra le fioriture più precoci e dove il clima sia mite, anche tra gennaio e febbraio. Il frutto è una drupa contenente la mandorla, cioè il seme con guscio legnoso ricoperto da un mallo verde. Le mandorle si raccolgono in settembre-agosto a seconda delle cultivar.
Prunus serrulata Lindl., 1830 è una pianta della famiglia delle Rosacee[1] diffusa in estremo oriente e in particolare in Giappone, Corea e Cina. È un tipo di ciliegio ornamentale molto apprezzato per i fiori primaverili. In Giappone i ciliegi si chiamano sakura (桜?). In occidente il Prunus serrulata è chiamato anche ciliegio giapponese. Alcune varietà producono anche frutti commestibili.
I sakura più diffusi in tutto il Giappone sono i Prunus × yedoensis, comunemente chiamati Yoshino o Somei-Yoshino, con i quali si festeggia l'Hanami.
È un albero deciduo di medie dimensioni (8–12 m altezza). La corteccia è marrone. I fiori vanno dal bianco al rosa porporino, disposti in racemi in gruppi da due a cinque, su brevi peduncoli. Il frutto è una drupa scura, di 8–10 mm di diametro.
Il sakura è il simbolo del Giappone. Il fiore di ciliegio, la sua delicatezza, il breve periodo della sua esistenza, rappresentano per i giapponesi il simbolo della fragilità, ma anche della rinascita e della bellezza dell'esistenza. Oltre ad essere da sempre un segno premonitore di un buon raccolto del riso, è un segno di buon auspicio per il futuro degli studenti, che nel mese della fioritura dei sakura iniziano l'anno scolastico, o per i neodiplomati o neolaureati, che nello stesso mese entrano nel mondo del lavoro.
Il sakura viene visto anche come simbolo delle qualità del samurai: purezza, lealtà, onestà, coraggio. Come la fragilità e la bellezza effimera di questo fiore, nel pieno del suo splendore muore, lasciando il ramo, così il samurai, nel nome dei principi in cui crede, è pronto a lasciare la propria vita in battaglia. Si tratta dell'immagine di una morte ideale, pura, distaccata dalla caducità della vita e dai beni terreni. In Giappone l'usanza di ammirare la bellezza dei fiori del Ciliegio è una tradizione che viene chiamata col nome di hanami.
Oxalis montana Raf.
Nomi comuni
Acetosella dei boschi
Agretta
Erba brusca
Lambrusca
Melagra
Pane degli angeli
Pancuculo
Trifoglio acetoso
Alleluja
L'Oxalis acetosella (nome comune Acetosella dei boschi) è una piccola pianta alta al massimo 12 cm, appartenente alla famiglia delle Oxalidaceae.
Il Sistema Cronquist assegna la famiglia delle Oxalidaceae all'ordine Geraniales mentre la moderna classificazione APG la colloca nell'ordine Oxalidales.
Etimologia
Il nome del genere (Oxalis) deriva dal greco oxys (acuto o pungente) per il sapore acido della pianta e da hals (sale) per l'elevata quantità di acido ossalico.
Il nome comune della pianta (acetosella) deriva dal sapore acidulo (ma anche aspro) delle foglie usate anticamente come condimento per le insalate e che ricorda appunto l'aceto.
Morfologia
È una pianta geofita rizomatosa, leggermente pelosa, erbacea, perenne o biennale, acaule e le cui foglie e fiori sono inseriti direttamente su un rizoma strisciante. La pianta in sé è esile e per proteggersi durante la pioggia (o un forte vento) tende a ripiegarsi su sé stessa. Come altre piante primaverili, fiorisce precocemente prima che gli alberi sovrastanti emettano le foglie limitandole la luce del sole.
Secondarie da rizoma.
Parte ipogea: fusto sotterraneo perenne, rizomatoso, carnoso e bulboso. Presenta degli ingrossamenti dovuti alle guaine delle foglie morte. Questo fusto strisciando e dividendosi dicotomicamente (divisione 2 a 2) forma un continuo intreccio filiforme di maglie vegetative.
Parte epigea: finisce direttamente in uno scapo floreale. Raramente a portamento completamente eretto.
Foglie trilobate obcordate con picciolo arrossato
Le foglie sono tutte basali derivate dal ceppo radicale. Hanno un picciolo molto lungo arrossato e sono formate da tre foglioline obcordate cuoriformi. Sono inoltre presenti quattro nervi e il margine è intero (non dentellato). Alla base del picciolo si trovano due piccole stipole. Queste foglie hanno anche la particolarità, grazie a specifiche articolazioni, di contrarsi ed espandersi secondo le condizioni atmosferiche, oppure per rinchiudersi verso sera, oppure ancora per poter ricevere la giusta luce del sole durante le fasi della giornata. Infatti durante le ore più calde d'estate, essendo una pianta sciafila, le foglioline tendono a ripiegarsi lontano dai raggi del sole. Le foglie normalmente sopravvivono alla prima fioritura primaverile e continuano a riformarsi continuamente.
Fiore solitario.
I sepali del fiore
I petali del fiore con stami e pistilli
Fiore in disposizione chiusa
Le venature porporine dei petali
I fiori ermafroditi, basali, pentameri, attinomorfi e dialipetali, sono lungamente peduncolati. Il calice ha 5 sepali liberi, lunghi 4–5 mm strettamente ovati (ellittici) e smussati. La corolla è formata da 5 petali spatolati lunghi 10–16 mm di colore bianco (può essere anche rosa) con delle striature longitudinali violette-porporine che verso la base divengono giallognole o rosate. I 5 petali possono essere lievemente saldati fra di loro alla base. Gli stami sono 10: metà lunghi e metà corti. L'ovario è supero a 5 carpelli. L'impollinazione avviene tramite insetti (api, mosche e insetti notturni); è quindi entomofila. Questo tipo di impollinazione avviene in Primavera nella fase iniziale di vita della pianta ed è caratterizzata da una produzione molto esigua di semi; ma successivamente (in Estate) si attua una seconda fecondazione interna (le antere trasferiscono il polline direttamente sullo stigma) si ha quindi una fase di autoimpollinazione molto più proficua quanto a produzione di semi per la nascita di piante successive. Fioritura: aprile - giugno.
Come le foglie così anche i petali del fiore possono contrarsi in certe condizioni. Di notte, o con tempo piovoso, i petali, infatti, si rinchiudono uno sull'altro. Tutto il fiore così sembra una piccola campana pendula.
I frutti sono raccolti in una capsula avente cinque cavità (a forma pentagonale) lunga 4–10 mm e contenente ciascuna uno o due semi immersi in una sostanza mucillaginosa (questo tipo di capsula si definisce come ovoide loculicida). Alla maturazione i semi vengono spinti attraverso una fessura elastica molto stretta che scattando di colpo li lancia anche con forza a distanze ragguardevoli.
Distribuzione e habitat
Il tipo corologico dell'Oxalis acetosella è definito come "circumboreale", quindi è una pianta tipica delle zone temperate fredde dell'Eurosiberia e Nord America. In Italia si trova in prevalenza nelle zone ombrose (boschi) ed umide, ma anche pedemontane con particolare concentrazione nell'Italia settentrionale. Vegeta dal piano sino a 2000 m s.l.m. Non si trova nelle isole e zone litoranee.
Altrove è presente in Europa, Asia (fino in Giappone) e America settentrionale. Predilige un terreno fertile e ricco di humus ma anche boschivo (carpini e faggi) e comunque esposto a Nord. Non ha bisogno di molta luce, per questo è definita come pianta sciafila.
Usi
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
L'acido ossalico e gli ossalati contenuti nella pianta possono arrecare gravi danni nel caso se ne ingerisca una quantità eccessiva. Da evitarsi per chi soffre di gotta, artriti, litiasi.
È usata in erboristeria come depurante, diuretico, rinfrescante, facendone un decotto di 20 g di foglie fresche in 1 l d'acqua e bevendone massimo due tazze al giorno. Le foglie se masticate disinfettano il cavo orale. Similmente all'acetosa è considerata un buon rimedio per dermatosi e ascessi (applicando le foglie dello stesso decotto precedentemente descritto), decongestionante e febbrifugo. Il decotto della radice (20 g in 1 l d'acqua) bevendone due tazze al giorno rende più elastica la pelle. La pianta viene utilizzata fresca poiché essiccandola perde molte delle sue proprietà. I suoi principi attivi sono gli ossalati e gli antrachinoni. La pianta contiene tra l'altro acido ascorbico (vitamina C).
Nell'industria è usata per ricavarne un ottimo sbiancante delle macchie d'inchiostro e ruggine. Può essere usato anche come disincrostante per i radiatori delle automobili e in genere per lucidare oggetti metallici come rame e bronzo. Quest'ultimo composto veniva preparato dai droghieri - artigiani di una volta e si chiamava sale di acetosa.
Anticamente (nel Medioevo) si usava come condimento. Al pari dell'acetosa arricchisce di sapore verdure e minestre. Dalle foglie si può ricavare una bevanda dissetante (quasi una limonata). Le radici possono essere usate come gli asparagi. Attualmente nell'America del Sud (Perù) si possono trovare nei mercati diversi tuberi di alcune specie di questo genere (Oxalis crenata - chiamata anche Oxalis tuberosa). I tuberi devono però rimanere esposti al sole per diversi giorni perché lo sgradevole sapore acido si trasformi in un sapore più gradevole, quasi dolce.
In tutti i casi si deve usare questa pianta con parsimonia in quanto contiene l'acido ossalico (come sale di potassio) che può provocare danni ai reni, fino alla morte.
Al sopraggiungere di temporali le foglie dell'acetosella si rialzano indicando l'arrivo della pioggia.
Magnolia
Magnolia L. è un genere di piante della famiglia delle Magnoliacee, originarie del Nord e Sud America e dell'Asia sud-orientale, dall'India alla Nuova Guinea.[1]
Il nome del genere è un omaggio a Pierre Magnol (1638-1715) medico e botanico francese, direttore dell'orto botanico di Montpellier.
Comprende specie arboree e arbustive, a lento accrescimento, ma che in alcune specie come Magnolia campbellii e Magnolia officinalis possono superare i 20 m di altezza, caratterizzate da interessanti fioriture.
Hanno foglie alterne, ovali o ellittiche, generalmente grandi e coriacee, perenni sempreverdi o decidue, fiori solitari e molto grandi, generalmente a forma di coppa, con perianzio formato da 6-9 tepali (petali e sepali indifferenziati) di vari colori a seconda delle specie, gli stami numerosi sono lamellari, i carpelli sono disposti a cono sul ricettacolo. I frutti ovoidali in infruttescenze conoidali, contengono dei semi lucidi rossastri o arancio.
Tassonomia
Il genere comprende oltre 300 specie.[1]
Molte di esse erano in passato assegnate ai generi Alcimandra, Aromadendron, Dugandiodendron, Kmeria, Manglietiastrum, Michelia, Parakmeria, Paramichelia, Talauma e Tsoongiodendron, attualmente considerati sinonimi di Magnolia.
Le specie più conosciute in Italia come piante ornamentali sono:
Magnolia precia originaria dell'Asia orientale, dai fiori bianchi e profumati a fogliame caduco.
Magnolia glauca originaria dell'America con fiori a forma di tulipano di colore bianco-crema, profumati, dalla fioritura estiva.
Magnolia grandiflora dai fiori bianchi e profumati a fogliame coriaceo persistente sempreverde, originaria del sud-est degli Stati Uniti.
Magnolia liliiflora arbusto con foglie decidue, alto fino a 3 m, con fiori profumati, aperti di colore bianco-rosato internamente, rosso-porpora all'esterno.
Magnolia stellata originaria dell'Asia orientale, arbusto dallo sviluppo limitato alto fino a 5 m, foglie decidue, fiori bianchi e profumati con petali aperti e sottili di aspetto leggero. La Magnolia stellata esiste anche nella varietà a fiore rosa: Magnolia stellata var. Leonard Messel, ha lo stesso sviluppo della varietà a fiore bianco in più è profumatissima. Le Magnolie stellate sono adatte ad essere utilizzate nelle siepi anche miste e a portamento spontaneo, anche se ne esistono degli esemplari alti anche 5 metri di regola non arrivano a 300 cm.
Magnolia soulangeana, pianta a foglia caduca, di altezza imponente: in base alle varietà arriva fino ai 6 metri e più. La fioritura è abbondante e limitata alla primavera. Sono note le seguenti varietà:
M. solangeana var. alba superba definita da molti coltivatori anche M. soulangeana julan: ha fiori bianco puro e di grandi dimensioni, foglie verde chiaro che raggiungono le dimensioni di 14 cm e larghe 10 cm.
M. solangeana var. soulangeana: stesse caratteristiche della precedente, si diversifica solo per il colore del fiore: bianco rosato.
M. solangeana var. satisfaction: nuova varietà introdotta dagli olandesi, fiori poco più piccoli, petalo interno di colore rosa chiaro e petalo esterno di colore rosa carico.
M. solangeana denutada var. yellow river: nuova varietà introdotta dagli olandesi, fiori generalmente poco più piccoli rispetto alle classiche soulangeane; la sua caratteristica consiste nel colore: giallo.
M. solangeana var.red lucky: stupendo calice sfondo rosa chiaro con striature di rosa carico che partono dalla base del fiore e sfumano nel salire.
Diffuse in parchi e giardini come piante isolate gruppi e siepi, possono essere coltivate in vaso sui terrazzi, per il portamento e le copiose fioriture primaverili o estive.
Il legno chiaro e facile da lavorare viene molto apprezzato per lavori di falegnameria.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
I semi di Magnolia campbellii avrebbero proprietà febbrifughe grazie all'azione del magnolialide, un terpene lattonico che interferisce con la sintesi delle citochine infiammatorie (interleuchine) responsabili anche della febbre.[senza fonte]
Le resine aromatiche presenti nella corteccia di Magnolia virginiana vantano un'azione antireumatica.[senza fonte]
La Magnolia saliciforme contiene la magnosalicina ed il magnifloenone, composti anti-infiammatori che sarebbero responsabili di azioni antiflogistiche ed anti-asmatiche.[senza fonte]
Prediligono posizione a mezzo-sole, clima estivo umido e piovoso, terreno acido permeabile e fresco.
Le zone alluvionali delle regioni prealpine italiane, costituiscono l'habitat ideale per lo sviluppo di queste piante.
La moltiplicazione avviene per talea, margotta, propaggine, innesto o con la semina.
Magnolia stellata (Siebold & Zucc.) Maxim., 1872 è una pianta angiosperma della famiglia delle Magnoliacee.
La Lista rossa IUCN classifica Magnolia stellata come specie in pericolo di estinzione
Hyacinthus è un genere di piante della famiglia delle Asparagaceae[1] (già incluso nelle Liliaceae), originario del Mediterraneo Orientale, dell'Asia minore e delle regioni tropicali africane.
Il nome del genere deriva dal personaggio mitologico Giacinto, il ragazzo amato dal dio Apollo e successivamente ucciso per errore dal dio Zefiro.Comprende specie bulbose con numerose varietà dalle ricche infiorescenze coloratissime e profumate, presenta un bulbo arrotondato, tunicato, che produce pochi bulbetti; tra le specie coltivate e in parte inselvatichite ricordiamo lo Hyacinthus orientalis L. dalle foglie nastriformi con i fiori riuniti in un unico racemo, con colori vari dal ceruleo, azzurro-cupo, al bianco, roseo o giallo.
Il genere Hyacinthus comprende le seguenti specie:[2]
Hyacinthus litwinovii Czerniak.
Hyacinthus transcaspicus Litv.
In floricoltura, per motivi pratici, si distinguono i giacinti in diversi gruppi:
Giacinto romano: con il bulbo ricoperto da una pellicola bianca, ha due-tre fusti per bulbo, con foglie piccole lineari e fiori bianco-verdastri campanulati, molto profumati, precoce, si presta alla forzatura
Giacinto italiano: con cultivar a fiore bianco, lilla o violaceo, e con il bulbo ricoperto da una pellicola violacea, semi-tardivo
Giacinto olandese: ibridi derivati dal Hyacinthus orientalis a fiori grandi riuniti fittamente in una infiorescenza, semplici o doppi, dai vari colori, tardivo
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Hyacinthus orientalis
La coltivazione del giacinto richiede terreno di medio impasto, misto a sabbia, ricco di humus, fresco, ben concimato e lavorato in profondità; nella coltivazione in vaso per la forzatura si usa terriccio composto per metà da terra argillo-silicea, un quinto di sabbia e il resto terricciato maturo di letame, con temperature intorno ai 13-14 °C in assenza di luce fino alla fioritura e poi a 17 °C in piena luce.
La moltiplicazione avviene per mezzo di bulbilli.
Una distesa di giacinti in fiore
Infiorescenze di giacinto orientale
Afide verde del pesco adulti e larve dell'emittero Myzodes persicae Sulz. si sviluppano come ospiti secondari in primavera-estate, a spese delle parti epigee, in autunno-inverno torna come ospite primario su varie specie di Prunus
Mosca dei bulbi le larve del dittero Eumerus strigatus Fall. penetrano nei bulbi divorandoli
Anguillula dei bulbi e dello stelo l'attacco del nematode Ditylenchus dipsaci (Kühn) Goodey provocano fenomeni di rachitismo, contorsioni e alterazioni dello sviluppo dello stelo, distorsioni e raggrinzamenti fogliari, formazione di noduli a margini giallastri sulle foglie; all'interno dei bulbi causa piccole macchie brunastre, e sulle tuniche esterne strisce nerastre; causa frequentemente anche il marciume dei tessuti
Funghi:
Marciume l'attacco di Botrytis hyacinthi Westerd. et van Beyma, favorito dal ristagno idrico, provoca sulle parti epigee e sul bulbo maculature grigiastre su cui possono evidenziarsi piccoli sclerozi nerastri
Nerume dei bulbi le piante attaccate da Sclerotinia bulborum (Wakker) Rehm, presentano ingiallimento e appassimento delle foglie, che seguono all'imbrunimento e marciume del bulbo, su cui si evidenziano sclerozi nerastri
Batteri:
Giallume dei bulbi l'attacco di Pseudomonas hyacinthi E. F. Smith, provoca macchie giallo-brunastre sulle foglie che disseccano rapidamente, causando inoltre il rammollimento e l'imputridimento del bulbo
Marciume putrido l'attacco di Bacterium carotovorum Jones, noto anche come Marciume molle dei bulbi causa nelle parti interne del bulbo, la disintegrazione dei tessuti che assumono un aspetto brunastro, con conseguente ingiallimento e morte delle parti epigee
Morbo bianco i bulbi colpiti da Bacillus hyacinthi-septicus Heinz, presentano decomposizione dei tessuti che si trasformano in una massa putrescente, con ingiallimento e disseccamento fogliare
Fasciazione e distorsione l'attacco virale provoca danni rilevanti sullo stelo florale, con infiorescenze gravemente compromesse.
Solo il colchico è velenoso ed ha 6 stami
mentre tutti i crochi (zafferani) hanno 3 stami e non sono velenosi
Crocus sativus
Lo zafferano ([ʣaffeˈra:no][1][2]) è una spezia che si ottiene dagli stigmi del fiore del Crocus sativus, conosciuto anche come zafferano vero, una pianta della famiglia delle Iridacee. La pianta di zafferano vero cresce fino a 20–30 cm e dà fino a quattro fiori, ognuno con tre stigmi color cremisi intenso. Gli steli e gli stigmi vengono raccolti e fatti seccare per essere usati principalmente in cucina, come condimento e colorante. Lo zafferano, annoverato tra le spezie più costose del mondo, è originario della Grecia o dell'Asia Minore[3][4] e fu coltivato per la prima volta in Grecia. Come clone geneticamente monomorfo, si è diffuso lentamente per la maggior parte dell'Eurasia e più tardi è stato portato in aree del Nord Africa, dell'America del Nord e dell'Oceania.
Lo zafferano vero, la cui specie selvatica è sconosciuta, probabilmente discende dal Crocus cartwrightianus, originario dell'isola di Creta; il Crocus thomasii e il Crocus pallasii sono altri possibili precursori. La pianta è un triploide autoincompatibile il cui maschio è sterile; subisce una meiosi aberrante e quindi non è capace di riprodursi sessualmente in maniera indipendente. La propagazione avviene infatti con moltiplicazione vegetativa, attraverso la selezione di un clone iniziale o per ibridazione interspecifica. Se il C. sativus è una forma mutata del C. cartwrightianus, potrebbe essersi sviluppata come specie, preferita per i lunghi stigmi, da una selezione vegetale nella Creta della tarda età del bronzo.
L'aroma dello zafferano e l'odore simile a fieno e iodoformio sono dovuti alle molecole picrocrocina e safranale. Contiene inoltre un pigmento carotenoide, la crocina, che dà una tonalità giallo-dorata ai piatti e ai tessuti. La sua storia documentata comincia con un trattato botanico assiro del VII secolo a.C. compilato sotto il regno di Sardanapalo e per oltre quattro millenni è stato commerciato ed usato. Ha costituito nel Medioevo l'unica spezia commerciata in Occidente di provenienza indigena. Attualmente la produzione iraniana di zafferano rappresenta il 90% di quella mondiale.
La forma domestica del croco da zafferano, il Crocus sativus, è una pianta perenne delle Angiosperme che fiorisce in autunno, la cui forma selvatica è sconosciuta. Progenitore potrebbe essere il Crocus cartwrightianus, anch'essa angiosperma dalla fioritura autunnale, originaria della zona orientale del bacino mediterraneo. La forma domestica si è probabilmente originata quando il C. cartwrightianus è stato sottoposto ad un'intensiva selezione artificiale da parte di agricoltori alla ricerca di stigmi più lunghi. Altri possibili progenitori della pianta sono il C. thomasii e il C. pallasii.
È una forma sterile triploide, ovvero avente tre copie di ogni cromosoma omologo a costituire il corredo genetico di ogni esemplare; il C. sativus ha un corredo aploide di otto cromosomi, per un totale quindi di 24. Essendo la pianta sterile, i fiori non riescono a riprodursi attraverso i semi, dovendo fare affidamento sull'intervento umano: gruppi di cormi, organi simili a bulbi che si trovano sottoterra e immagazzinano amido, devono essere scavati, divisi e ripiantati. Un cormo sopravvive per una stagione, producendo con la sua divisione vegetativa fino a dieci piccoli cormi che possono svilupparsi in nuove piante nella stagione successiva. I cormi compatti sono piccoli globi marroni che hanno un diametro di 5 cm, una base piatta e sono avvolti in una densa rete di fibre parallele, rivestimento chiamato "tunica del cormo". Il cormo inoltre sostiene delle fibre verticali sottili e simili ad una rete che crescono fino a 5 cm al di sopra del collo della pianta.
La pianta cresce fino ad un'altezza di 20–30 cm e da essa germogliano 5-11 catafilli, foglie bianche e non fotosintetiche. Queste strutture coprono e proteggono come membrane le 5-11 foglie vere del croco quando sbocciano e si sviluppano. Queste ultime sono verdi, sottili, dritte e lanceolate, con un diametro di 1–3 mm e possono svilupparsi o dopo che i fiori si sono aperti (isteranzia) oppure contemporaneamente alla fioritura. I catafilli del C. sativus potrebbero comparire, secondo alcuni, prima della fioritura se nella stagione di crescita la pianta pianta viene irrigata presto. L'asse dei fiori ha delle piccole brattee, foglie specializzate che germogliano dallo stelo del fiore, il pedicello. Dopo l'estivazione in primavera, la pianta emette le sue foglie vere, ognuna lunga fino a 40 cm. In autunno compaiono le gemme viola. Solo nel mese di ottobre, dopo che la maggior parte delle altre piante ha liberato i propri semi, si sviluppano dei fiori dal colorito brillante che varia tra una leggera sfumatura pastello di lilla e un malva più scuro e screziato. I fiori hanno un profumo dolce, simile al miele. Appena terminata la fioritura, le piante raggiungono un'altezza media minore di 30 cm. Da ogni fiore spunta uno stilo a tre punte, ognuna delle quali termina con uno stigma cremisi intenso alto 25–30 mm.
Il Crocus sativus cresce molto bene nella macchia mediterranea e in climi simili come chaparral californiano e matorral cileno, dove la brezza estiva, calda e secca, soffia su terre semi-aride. Può tuttavia sopravvivere anche a inverni freddi, tollerando temperature fino a -10 °C e brevi periodi coperto dalla neve. È necessaria l'irrigazione se cresce al di fuori di ambienti umidi come quello del Kashmir, dove ci sono precipitazioni medie annuali di 1000–1500 mm; rispetto alla zona di coltivazione principale, quella iraniana, le regioni di coltura in Spagna (500 mm annui) e in Grecia (400 mm annui) sono molto più secche. Ciò è possibile grazie alla tempistica della stagione umida locale: abbondanti piogge primaverili ed estati più secche costituiscono un clima ottimale. La pioggia immediatamente precedente alla fioritura aumenta il raccolto di zafferano, un tempo piovoso o freddo durante la fioritura invece promuove malattie e riduce il raccolto. Un'umidità persistente e condizioni di forte caldo danneggiano le coltivazioni; conigli, topi ed uccelli causano danni scavando i cormi. Nematodi, ruggini delle foglie e marcescenza dei cormi costituiscono altre minacce. Tuttavia l'inoculazione del bacillo del fieno può portare vantaggi ai coltivatori accelerando la crescita dei cormi e aumentando la biomassa di stigmi raccolti.
La pianta sopravvive male in condizioni d'ombra, crescendo al meglio esposta alla piena luce solare. Ideali sono i terreni inclinati verso la luce del sole, come ad esempio quelli inclinati verso sud nell'emisfero boreale. La semina viene effettuata principalmente a giugno nell'emisfero settentrionale, dove i bulbi vengono piantati ad una profondità di 7–15 cm; le radici, lo stelo e le foglie possono svilupparsi tra ottobre e febbraio. La profondità e lo spazio tra i cormi sono fattori critici nel determinare i raccolti. Cormi "madre" piantati più in profondità producono zafferano di alta qualità, ma formano meno boccioli e cormi "figli". Gli agricoltori italiani ottimizzano la resa dei pistilli piantando a 15 cm di profondità e in file a una distanza di 2–3 cm; una profondità di 8–10 cm ottimizza invece la produzione di fiori e cormi. I coltivatori greci, marocchini e spagnoli impiegano profondità e distanze proprie, adattate ai loro ambienti.
Il C. Sativus preferisce suoli argilloso-calcarei friabili, a bassa densità, ben irrigati e ben drenati e con alto contenuto organico. Letti coltivati tradizionalmente promuovo un buon drenaggio. Il contenuto organico dei suoli veniva storicamente incrementato con l'applicazione di 20-30 tonnellate di concime per ettaro. In seguito, senza ulteriori applicazioni di concime, venivano piantati i cormi. Dopo il periodo estivo di quiescenza, i cormi emettono le loro foglie strette ed iniziano a gemmare nella prima parte dell'autunno, a metà del quale, poi, fioriscono. La raccolta deve necessariamente essere fatta velocemente: dopo essere sbocciati all'alba, i fiori appassiscono velocemente con il passare del giorno; tutte le piante fioriscono in una finestra di una o due settimane. All'incirca 150 fiori insieme fruttano 1 g di pistilli di zafferano secchi; per produrre 12 g di zafferano secco (o 72 g umido e raccolto da poco) è necessario 1 kg di fiori. Un fiore appena colto ha una resa media di 30 mg di zafferano fresco o 7 mg di zafferano secco.
Circa il 90% della produzione mondiale di zafferano arriva dall'Iran[12]. In Italia lo zafferano viene prodotto in diverse regioni, con il riconoscimento di denominazione di origine protetta per lo zafferano aquilano (Abruzzo, provincia dell'Aquila), lo zafferano di Sardegna (provincia del Sud Sardegna) e lo zafferano di San Gimignano (Toscana, provincia di Siena). Altre zone di coltivazione nella penisola sono a Montegiorgio, nelle Marche, e a Cascia e Città della Pieve, in Umbria.
Struttura della picrocrocina:
gruppo funzionale safranale
Lo zafferano contiene più di 150 composti volatili ed aromatici ed ha anche svariati composti attivi non volatili, molti dei quali sono carotenoidi, tra cui si possono citare zeaxantina, licopene ed α- e β-carotene. Il colore giallo-arancione dorato dello zafferano però è dovuto principalmente all'α-crocina, l'estere di trans-crocetina e di di-(β-D-gentiobiosile), avente il nome IUPAC di acido 8,8-diapo-8,8-carotenoico. Ciò significa che la crocina alla base dell'aroma dello zafferano è un estere digentiobiosico del carotenoide crocetina. Le crocine stesse sono una serie di carotenoidi idrofilici, esteri polieni della crocetina o monoglicosilici o diglicosilici. La crocetina è un acido dicarbossilico polienico coniugato che è liposolubile, essendo idrofobico. Quando la crocetina è esterificata con due molecole di gentobiosio, uno zucchero idrosolubile, il prodotto è anch'esso idrosolubile. L'α-crocina che ne risulta è un pigmento carotenoide che può costituire più del 10% della massa di zafferano secco. I due gentobiosi esterificati rendono l'α-crocina ideale per colorare piatti a base acquosa e non lipidici, come pietanze a base di riso.
Reazione di esterificazione tra la crocetina e il gentiobiosio. Componenti dell'α–crocina:
crocetina
Il glucoside amaro picrocrocina è responsabile del sapore dello zafferano. La picrocrocina (formula chimica: C16H26O7; nome sistematico: 4-(β-D-glucopyranosyloxy)-2,6,6- trimethylcyclohex-1-ene-1-carboxaldehyde) è l'unione di una subunità aldeidica conosciuta come safranale (nome sistematico: 2,6,6-trimetilcicloesa-1,3-diene-1-carbossialdeide) con un carboidrato. Ha delle proprietà insetticide e pesticide e può costituire fino al 4% dello zafferano secco. La picrocrocina è una versione troncata del carotenoide zeaxantina prodotta attraverso clivaggio ossidativo ed è anche il glicoside dell'aldeide terpenica safranale.
Quando lo zafferano, dopo la raccolta, viene fatto seccare, il calore e l'azione enzimatica dividono la picrocrocina in D-glucosio e una molecola libera di safranale. Il safranale, un olio volatile, dona allo zafferano gran parte del suo caratteristico aroma; esso è meno amaro della picrocrocina e in alcuni saggi può arrivare a costituire fino al 70% della frazione volatile dello zafferano secco. Un altro elemento determinante per l'aroma dello zafferano è il 2-idrossi-4,4,6-trimetil-2,5-cicloesadien-1-one, che quando viene fatto seccare come il fieno, produce un profumo descritto come quello dello zafferano. I chimici ritengono che questo abbia l'influenza più forte nel determinare il profumo dello zafferano, nonostante la sua presenza quantitativamente minore rispetto al safranale. Lo zafferano secco è molto sensibile alle fluttuazioni di pH e i suoi legami chimici si rompono rapidamente in presenza di luce ed agenti ossidanti. Per questo motivo deve essere conservato in contenitori ermetici, per minimizzare il contatto con l'ossigeno atmosferico. Lo zafferano è però piuttosto resistente al calore.
Lo zafferano non è tutto della stessa qualità e intensità. L'intensità dipende da vari fattori, tra cui la quantità di stilo raccolto insieme allo stigma rosso e l'età dello zafferano stesso. La maggior presenza di stilo nella parte raccolta significa una minore intensità per grammo di zafferano, poiché il colore e il profumo sono concentrati negli stigmi. Lo zafferano da Spagna, Iran e Kashmir viene classificato in classi in base alle quantità relative di stigmi rossi e stili gialli. Le classi dello zafferano iraniano sono: "sargol" (solo le punte degli stigmi rossi, la classe con la maggior intensità), "pushal" or "pushali" (stigmi rossi più alcuni stili gialli, intensità più bassa), "bunch" (stigmi rossi più una maggiore quantità di stili gialli, presentato in piccoli mazzetti come fascetti di grano in miniatura) e "konge" (solo stili gialli, per cui viene rivendicato l'avere un aroma, ma con uno scarso potenziale colorante). Le classi dello zafferano spagnolo sono: "coupé" (il più intenso, come il "sargol" iraniano), "mancha" (come il "pushal" iraniano), e, in ordine di intensità decrescente, "rio", "standard" e "sierra". Il nome "mancha" nella classificazione spagnola può avere due significati: una classe generica di zafferano oppure una varietà di qualità molto alta coltivata in Spagna, con una specifica origine geografica. Il vero zafferano La Mancha coltivato in Spagna ha il riconoscimento di prodotto DOP, indicato sull'etichetta. I coltivatori spagnoli hanno lottato molto per ottenere questo status poiché si sono resi conto che le importazioni di zafferano iraniano rietichettato in Spagna e venduto come zafferano La Mancha stavano danneggiando il marchio originale.
Le nazioni che producono quantità minori di zafferano non hanno termini specifici per le diverse classi e possono produrne solo una. Di contro, i produttori artigianali in Europa e Nuova Zelanda hanno la maggior parte del lavoro nella raccolta di zafferano mirata all'alta qualità, offrendo solo un prodotto di classe estremamente alta.
In aggiunta alle descrizioni basate sul metodo di raccolta, lo zafferano può essere categorizzato in base allo standard internazionale ISO 3632[13] dopo misurazioni in laboratorio del contenuto in crocina (responsabile del tipico colore), picrocrocina (responsabile del gusto) e safranale (responsabile dell'aroma). Spesso però sull'etichetta del prodotto non c'è una chiara informazione riguardo alla classe e solo una piccola parte dello zafferano in vendita pronto nel Regno Unito è etichettato con la categoria ISO. Questa mancanza di informazioni rende difficile per gli acquirenti condurre delle scelte consapevoli al momento di comparare i prezzi ed acquistare zafferano.
Secondo lo standard ISO 3632 è dirimente anche la determinazione del contenuto che non provenga dagli stigmi ("contenuto in scarti floreali") e di altre sostanze estranee come materiali inorganici (le "ceneri" della chimica analitica, residuali dopo la combustione di un campione). Gli standard per la classificazione vengono stabiliti dall'Organizzazione internazionale per la normazione, una federazione di organizzazioni nazionali di standardizzazione. L'ISO 3632 riguarda unicamente lo zafferano e fissa tre categorie: III (di qualità più bassa), II e I (di qualità più alta). Precedentemente esisteva anche una categoria IV, al di sotto della III. I campioni vengono assegnati alle varie categorie valutando il contenuto di crocina e picrocrocina nella spezia, rivelato dalla misura dell'assorbanza specifica all'analisi per spettrofotometria. Il safranale è trattato in maniera leggermente diversa, poiché le misurazioni non vengono distinte in base a valori soglia, ma i campioni di ogni categoria devono restituire un valore tra 20 e 50.
Questi dati vengono misurati attraverso analisi spettrofotometriche eseguite in laboratori certificati presenti in tutto il mondo. Una maggiore assorbanza indica maggiori livelli di crocina, picrocrocina e safranale, e di conseguenza un maggior potenziale colorante, ed è anche segno di una maggiore intensità per grammo. Il valore di assorbanza della crocina è chiamato "forza colorante" dello zafferano esaminato e può variare da un minimo inferiore ad 80 (tipico della categorie IV) fino ad un massimo di 200 ed oltre (per la categoria I). I campioni migliori (costituiti dalle punte degli stigmi, per la maggior parte rosso-marroncine, selezionate dai fiori più pregiati) forniscono all'esame una forza colorante superiore a 250, rendendo uno zafferano di questo livello quattro volte più intenso di uno di categoria IV. I prezzi di mercato delle diverse varietà dipendono da queste categorie ISO. Il sargol e il coupé ricadono generalmente nella categoria I dell'ISO 3632, il pushal e il mancha nella II. Su molte delle etichette delle confezioni di zafferano non vengono indicate né la categoria ISO 3632 né la forza colorante (che misura la crocina contenuta).
Molti coltivatori, commercianti e consumatori però rifiutano i risultati di questi test di laboratorio. Alcune persone preferiscono un metodo più olistico, campionando i lotti di pistilli in base a gusto, aroma, flessibilità ed altre caratteristiche in una maniera simile a quella praticata dai degustatori di vino professionisti. Le informazioni sulle classi ISO 3632 e sulla forza colorante permettono comunque ai consumatori di fare comparazioni istantanee tra la qualità di diversi marchi, senza la necessità di acquistare e saggiare lo zafferano. In particolare, i consumatori possono calcolare il valore economico in base al prezzo per unità di forza colorante invece che in base al prezzo per grammo, vista l'ampia gamma di forza colorante che i diversi tipi di zafferano possono avere.
Nonostante tentativi per controllare la qualità e per una standardizzazione, una lunga storia di adulterazione dello zafferano, in particolare nelle varietà più economiche, continua ancora in tempi moderni. Sofisticazioni sono state documentate per la prima volta in Europa nel Medio Evo, quando chi veniva trovato a vendere zafferano adulterato veniva giustiziato secondo il codice Safranschou. Metodi tipici includono il mescolamento in sostanze diverse come barbabietola, fibre di melograno, fibre di seta tinte di rosso, e gli stami gialli del croco, senza sapore e senza odore. Un altro metodo è quello di bagnare le fibre di zafferano con sostanze viscose come miele o oli vegetali per aumentarne il peso. Lo zafferano in polvere è comunque di più facile adulterazione, con curcuma, paprica e altre polveri usate come riempitivi per allungare la miscela. La sofisticazione può consistere anche nella vendita di miscele di diverse classi di zafferano etichettate in modo fallace. In India infatti, lo zafferano di alta intensità del Kashmir viene spesso venuto e mescolato con un più economico zafferano iraniano d'importazione, fenomeno che è costato ai coltivatori del Kashmir molti dei loro guadagni.
Lo zafferano di differenti nazioni, raccolto e seccato in vari modi, dà diverse qualità finali
Le diverse cultivar del croco da zafferano danno origine a tipi di pistilli spesso distribuiti regionalmente e caratteristicamente distinti. Le varietà (non nel senso botanico) spagnole, inclusi i nomi commerciali "Spagnolo Superiore" e "Creme", hanno generalmente colore, sapore ed aroma più dolce e vengono classificati in base a standard stabiliti dal governo. Le varietà italiane sono leggermente più forti di quelle spagnole, anche se le più intense sono generalmente quelle iraniane. Diverse piccole coltivazioni provengono da Nuova Zelanda, Francia, Svizzera, Inghilterra, Stati Uniti ed altri paesi. Negli USA, lo zafferano tedesco della Pennsylvania (Pennsylvania Dutch), conosciuto per le sue note "di terra", è commerciato in piccole quantità.
I consumatori possono considerare alcune cultivar come qualitativamente superiori. Lo zafferano dell'Aquila è caratterizzato da un alto contenuto in safranale e crocina, una forma specifica dei pistilli, un aroma insolitamente pungente ed un colore intenso; cresce esclusivamente in otto ettari sull'altopiano di Navelli, vicino a L'Aquila, nella regione italiana d'Abruzzo. Venne introdotto per la prima volta da un monaco domenicano durante l'epoca dell'inquisizione spagnola. La più grande coltivazione di zafferano in Italia si trova però a San Gavino Monreale, in Sardegna, dove ne crescono 40 ettari, che rappresentano il 60% della produzione nazionale; anche quello sardo ha un contenuto insolitamente alto in crocina, picrocrocina e safranale. Un altro tipo è lo zafferano "Mongra" o "Lacha" del Kashmir (Crocus sativus 'Cashmirianus'), tra i più difficili da reperire sul mercato per i consumatori; ripetute siccità, ruggini e carenze nei raccolti nell'area indiana del Kashmir insieme al divieto indiano di esportazione contribuiscono a far raggiungere dei prezzi proibitivi. Lo zafferano del Kashmir è riconoscibile dal suo colore granata-purpureo ed è tra i più scuri del mondo, con sapore, aroma ed effetto colorante forti.
Gli stigmi vanno raccolti a mano, con delicatezza, per non rovinarli. Per un chilo di spezia occorrono circa centoventimila fiori. Per questo motivo i pistilli di zafferano costano almeno 12.000 euro al chilo. A seconda delle varietà dei bulbi e dei climi la raccolta dei fiori avviene fra ottobre e novembre.
Il nome gigaro deriva direttamente dall'etrusco, come testimoniato dal naturalista greco Dioscoride (II 167), il quale menziona la pianta, affermando che viene chiamata dagli Etruschi gigarum (γιγάρουμ).
Il nome scientifico del genere (Arum) deriva dal greco aron (ma anche, secondo altre etimologie, dall'ebraico “ar”); in entrambi i casi questi due termini significano “calore” e si riferisce al fatto che queste piante quando sono in piena fioritura emettono calore (caratteristica particolare del genere)[1].
Il nome scientifico attualmente accettato (Arum) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753. Mentre il primo autore che ha descritto questo genere è stato il medico tedesco Leonhart Fuchs (1501 – 1566), considerato uno dei fondatore della botanica tedesca, in un lavoro del 1542[2].
I dati morfologici si riferiscono soprattutto alle specie europee e in particolare a quelle spontanee italiane.
Sono piante mediamente alte, non oltre il metro. La caratteristica più interessante di queste specie è la particolare forma dell'infiorescenza: un spadice racchiuso da una grande spata affusolata. La forma biologica prevalente è (almeno per le specie europee) geofita rizomatosa (G rhiz) o anche “geofita tuberosa”, ossia sono piante perenni erbacee che portano le gemme in posizione sotterranea. Durante la stagione avversa non presentano organi aerei e le gemme si trovano in organi sotterranei chiamati rizomi/tuberi (un fusto sotterraneo dal quale, ogni anno, si dipartono radici e fusti aerei).
Le radici sono secondarie da rizoma.
Parte ipogea: la parte sotterranea del fusto è un rizoma tuberiforme.
Parte epigea: lo scapo è inserito direttamente nel rizoma. Il fusto è compresso all'interno di guaine (sono la base dei piccioli fogliari).
Foglie sagittate
Le foglie (tutte radicali e a disposizione spiralata) sono grandi ed hanno la lamina intera a forma sagittata o astata con tre lobi, ma anche oblungo-ovata e cordata. Sono lungamente picciolate, e la base dei piccioli è inguainante lo scapo fiorifero. La superficie superiore è verde e può essere variamente disegnata a macchie scure o chiare a seconda della specie.
Infiorescenza
L'infiorescenza è del tipo indefinita e si compone di tanti piccolo fiori sessili; sono appressati gli uni sugli altri. Lo spadice (così si chiama questo tipo di infiorescenza) è lungo ed è avvolto da una grande spata convoluta lunga il doppio dell'infiorescenza e con un tubo basale più o meno lungo; questa spata svolge la funzione vessillare (= petaloide) e di protezione all'infiorescenza. L'apice dello spadice è una clava ingrossata o sottile e progressivamente assottigliata alla base. La disposizione dei fiori sessuali è in basso per quelli femminili (formano un glomerulo basale), mentre quelli maschili sono posti più in alto; in mezzo tra i fiori femminili e quelli maschili c'è una zona di fiori sterili. Sopra i fiori maschili, alla fine c'è un glomerulo sterile. Tra queste varie sezioni sono presenti delle estroflessioni setoliformi con il compito di trattenere gli insetti pronubi per favorire l'impollinazione. Da un punto di vista filogenetico la particolare struttura dello spadice è una delle sinapomorfie distintive del genere.
I fiori
Il perianzio è di tipo sepaloide (gli elementi sono indifferenziati tra calice e corolla, ossia fiori di tipo apetalo) e unisessuali (pianta monoica: fiori maschili e femminili separati, ma sulla stessa pianta). Altri fiori sono sterili di tipo filamentoso nello stadio di antesi femminile[3]. I fiori sono 5-ciclici (2 verticilli di tepali, 2 verticilli di stami e un verticillo del gineceo).
Formula fiorale: per queste piante viene indicata la seguente formula fiorale[4]:
* P 3+3, A 3+3, G (3) (supero)
Perianzio: il perianzio è formato da due verticilli di tre tepali ciascuno.
Androceo: gli stami sono 6 (tre interni e tre esterni).
Gineceo: il gineceo è formato da tre carpelli saldati insieme con un ovario supero. Lo Stilo è sormontato da un unico stigma.
Frutti di Arum italicum
I frutti sono delle bacche. Dopo la fecondazione la spata subisce un rapido avvizzimento e così si rendono visibili le bacche carnose di colore generalmente scarlatto. Infatti nei boschi è facile incontrare la pannocchia delle bacche isolate e senza altra vegetazione (le foglie) intorno.
Impollinazione: l'impollinazione è garantita soprattutto da diversi insetti (coleotteri, mosconi e altri piccoli insetti = impollinazione entomogama) in quanto pur non essendo piante nettarifere rilasciano comunque diverse sostanze zuccherine ma anche odori molto sgradevole, di putrefazione che attirano in modo particolare le mosche. Altre specie (es. Arum balansanum, Arum creticum e Arum gratum) emanano invece un gradevole profumo. In queste piante l'autoimpollinazione è evitata in quanto in ogni pianta i fiori femminili maturano prima di quelli maschili[5].
Riproduzione: la fecondazione avviene tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: la dispersione dei semi avviene ad opera di uccelli e piccoli mammiferi favorita dal colore delle bacche
Il genere è nativo dell'Europa, Africa del Nord e Asia occidentale. La maggiore diversità di specie si trova nella regione mediterranea. Queste specie crescono preferibilmente in boschi ombrosi e freschi, ma anche in luoghi sassosi rupestri e ruderali.
Questo genere comprende dalle 30 alle 40 specie (a seconda dei vari autori) delle quali cinque appartengono alla flora spontanea italiana. La famiglia di appartenenza (Araceae Adanson) comprende 109 generi per 2830 specie[4] (108 generi e 3300 specie – incluse le Lemnaceae - secondo altre fonti[6]). Diverse specie assegnate inizialmente a questo genere, sono migrate ad altri generi quali: Montrichardia, Arisarum, Arisaema, Syngonium, Caladium, Amorphophallus, Philodendron, Alocasia, Xanthosoma e molti altri ancora[7].
Il numero cromosomico di base è: n = 14[2]; ma molte specie sono tetraploidi (Arum maculatum con 2n= 56)[8] o anche tesaploidi (Arum italicum con 2n=84)[8].
Qui di seguito viene proposta la classificazione scientifica di questo genere per i livelli superiori (fino alla famiglia):
Famiglia: Araceae, definita da botanico francese Antoine-Laurent de Jussieu (1748 – 1836) nella pubblicazione ”Genera Plantarum, secundum ordines naturales disposita juxta methodum in Horto Regio Parisiensi exaratam” (Parigi, 1789).
Sottofamiglia: Aroideae, definita dal botanico scozzese George Walker Arnott-Arnott (1799 – 1868) in una pubblicazione del 1832.
Tribù: Areae, definita dal botanico britannico Robert Brown (1773 – 1858) nel 1828.
Genere: Arum L. (1753).
La famiglia delle Araceae pur essendo abbastanza eterogenea (da un punto di vista morfologico) è considerata monofiletica. All'interno di questa famiglia il genere di questa voce appartiene al subclade (associato al rango tassonomico di sottofamiglia) delle Aroideae Arn. (1832) (comprendente 73 generi oltre al genere Arum)[5]. All'interno della sottofamiglia questa specie è assegnata alla tribù delle Areae R. Br. ex Duby (1828)[9].
La struttura del genere in sottogeneri e sezioni, secondo la classificazione classica è indicata più avanti (paragrafo ”Specie del genere “). In realtà un recente studio filogenetico su alcune sequenze del DNA del plastidio[2] fatto su 26 specie di questo genere sta mettendo in discussione questa classificazione derivata soprattutto dai caratteri morfologici e a volte fatta su individui d'erbario e quindi “non freschi”. L'analisi ha individuato 5 cladi monofiletici che solo in parte confermano la classificazione più in uso.
Essendo presenti all'interno del genere fenomeni di diploidia (vedi sopra) alcune specie si presentano abbastanza polimorfe. La variabilità si evidenzia soprattutto nei seguenti caratteri[10]:
i disegni delle foglie possono essere scuri, chiari o assenti;
i lobi basali delle foglie possono presentarsi con divergenze diverse;
la colorazione della spata è variabile;
la colorazione dei frutti in funzione del periodo di maturazione può variare.
Per meglio comprendere ed individuare le varie specie del genere (solamente per le specie spontanee della flora italiana) l'elenco che segue utilizza in parte il sistema delle chiavi analitiche (vengono cioè indicate solamente quelle caratteristiche utili a distingue una specie dall'altra)[11].
Gruppo 1A: il colore della spata è giallastro o verdastro con sfumature violette; la lunghezza della spata è due volte lo spadice; la fioritura è in primavera;
Gruppo 2A: la parte sotterranea del fusto è un tubero ovoide a portamento orizzontale, e il fusto è inserito in posizione laterale rispetto al tubero; lo scapo è lungo 1/3 – 4/5 della spata; l'appendice dello spadice è ingrossata ed è simile ad una clava;
Gruppo 3A: il colore della clava dello spadice è violaceo; la clava verso il basso si assottiglia in modo progressivo; le foglie sono verdi con macchie scure;
Arum maculatum L. - Gigaro scuro: altezza della pianta 2 – 4 dm; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è geofita rizomatosa (G rhiz); il tipo corologico è Centro - Europeo; l'habitat tipico sono le radure di faggete; la diffusione sul territorio italiano è più o meno totale fino ad una altitudine di 1600 m s.l.m..
Gruppo 3B: il colore della clava dello spadice è gialla; la clava si assottiglia bruscamente verso il basso; le foglie sono verdi con venature e macchie biancastre;
Arum italicum Mill. - Gigaro chiaro: altezza della pianta 4 – 10 dm; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è geofita rizomatosa (G rhiz); il tipo corologico è Steno - Mediterraneo; l'habitat tipico sono le macchie, i vigneti e oliveti; la diffusione sul territorio italiano è totale fino ad una altitudine di 800 m s.l.m..
Gruppo 2B: la parte sotterranea del fusto è un tubero discoide, e il fusto è inserito in posizione centrale; lo scapo è lungo poco più della spata; l'appendice dello spadice è sottile e cilindrica;
Arum cylindraceum Guss. - Gigaro meridionale: altezza della pianta 3 – 3 dm; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è geofita rizomatosa (G rhiz); il tipo corologico è Sud Europeo - Endemico; l'habitat tipico sono i pascoli montani; sul territorio italiano è diffuso solo al sud fino ad una altitudine compresa tra 1300 e 1700 m s.l.m..
Gruppo 1B: il colore della spata è rossiccio-violaceo; la lunghezza della spata è poco più dello spadice; la fioritura è in autunno;
Arum pictum L. fil. - Gigaro sardo-corso: altezza della pianta 3 – 5 dm; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è geofita rizomatosa (G rhiz); il tipo corologico è Steno-Mediterraneo Occidentale; l'habitat tipico sono le macchie e i cespuglieti; sul territorio italiano si trova solo in Sardegna fino ad una altitudine di 1000 m s.l.m..
La consolida femmina è una pianta che predilige i luoghi ombrosi nei boschi di latifoglie o presso le siepi. I fiori campanulati, riuniti in piccoli grappoli pendenti, sono di colore giallo pallido. Le foglie, ruvide e pelose, sono di forma ovata.
Pianta appartenente alla famiglia delle Boraginaceae presente in gran parte dell'Europa.[1][2][3]
Descrizione
È una pianta erbacea perenne, alta dai 20 ai 50 cm, molto diffusa che cresce fino a 1500 m di altitudine. Presenta rizoma che ogni anno emette radici e fusti avventizi. È in generale densamente pelosa, con foglie setolose ovato-oblunghe od obovate di 3–12 cm, larghe 3–4 cm. I fiori sono di colore giallo-pallido, riuniti in cime dense e pendule.
Fiorisce da marzo a maggio.
Usi
Ha proprietà emollienti, cicatrizzanti, espettoranti, analgesiche e vulnerarie[4]. Viene usata l'intera pianta, ma soprattutto le radici; le giovani foglie ed i getti vengono usati in cucina.
L'euforbia calenzuola (nome scientifico Euphorbia helioscopia L., 1753) è una pianta erbacea e annuale, appartenente alla famiglia delle Euphorbiaceae. L'etimologia del nome generico è controversa. Da un lato lo scrittore latino Plinio (Como, 23– Stabia, 79) c'informa che la parola ”Euphorbia” deriva da un medico, di nome appunto ”Euforbio”, cerusico di corte del re Giuba del regno della Mauritania; ma d'altra parte considerando la derivazione di questo vocabolo dal greco si viene a sapere che con ”Euphorbium” s'indicavano le piante (che ora noi conosciamo sotto il genere considerato) che producevano un succo latteo caustico e velenoso utilizzato nella medicina di allora[1]. In altri testi si cita un medico greco di nome “Euphorbus” che per primo usò questa pianta nella medicina. Ma anche ”Euphorbia” potrebbe derivare da ”Euphorbius” che è formato da due parole: ”eu” (= buono) e ”phorbe”, (= pascolo o da foraggio), il cui significato finale potrebbe essere "ben nutrito"[2].
Deve invece il suo nome specifico (helioscopia) da due parole greche ”helios” (= sole) e ”skopein” (= guardare) perché le sue infiorescenze si volgono sempre verso il sole (fatto da verificare) come i girasoli.
Il binomio scientifico attualmente accettato (Euphorbia amygdaloides) è stato proposto da Carl von Linné (Rashult, 23 maggio 1707 – Uppsala, 10 gennaio 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
In tedesco questa pianta si chiama: Sonnenwend-Wolfsmilch; in francese si chiama: Euphorbe réveille-matin; in inglese si chiama: Sun Spurge.
l'”Euforbia calenzuola” è alta circa 10 – 40 cm. Tutta la pianta è glabra. La forma biologica è terofita scaposa (T scap), ossia sono piante erbacee che differiscono dalle altre forme biologiche poiché, essendo annuali, superano la stagione avversa sotto forma di seme e sono munite di asse fiorale eretto con poche foglie.
La radice è di tipo fibroso (o fittone) e ramificata. Dimensione delle radici: diametro 3 - 5 mm; lunghezza 7 – 10 cm.
Il fusto è unico, cilindrico e ascendente (dei peli patenti possono essere presenti nella parte alta). Il colore è rossastro. Diametro del fusto: 3 – 7 mm.
Le foglie sono semplici, hanno una forma obovata o obcuneata (a forma di cucchiaio), e sono seghettate finemente all'apice che è arrotondato. Lungo il fusto sono disposte in modo opposto ma anche spiralato. Dimensioni delle foglie inferiori: 6 – 12 mm; quelle superiori sono grandi il doppio: larghezza 0,5 – 1,5 cm; lunghezza 1 – 3,5 cm.
L'infiorescenza delle “euforbie” e quindi di questa pianta è diversa da quella delle altre Angiosperme e si chiama ciazio (= coppa da spumante), chiamata anche “pseudanzio”. Consiste in cinque brattee glabre verdastre e lisce, saldate a forma lievemente campanulata. La loro funzione è quella di protezione dei fiori interni: per questo motivo una tale struttura viene spesso chiamata involucro similmente all'involucro delle Asteraceae. Queste brattee è quello che rimane del perianzio dei fiori maschili. In quattro insenature, tra le dentellature delle cinque brattee, emergono in evidenza dei corpi ghiandolari (sono generalmente quattro – il quinto è mancante) a forma ovale; sono colorati di giallo scuro e contengono delle sostanze nettarifere per attirare gli insetti pronubi.
All'interno della coppa trovano posto dei fiori maschili e femminili. In realtà i fiori maschili sono diversi (fino a 5 e più) ma ridotti al solo stame. Mentre la parte femminile è rappresentata da un unico fiore centrale con una forma simile ad un calice lungamente pedicellato fino ad essere incurvato durante la fruttificazione; anche questo fiore è ridotto, cioè privo degli altri verticilli fiorali (calice, corolla e androceo) rimanendo solo il gineceo.
I ciazi sono disposti in ombrelle terminali, di tipo “pleiocasio” o “cima multipara” ossia a più di due raggi, in questo caso i raggi normalmente sono 5 (lunghi 2 – 4 cm) ognuno dei quali con ulteriori divisioni dicotome, ossia con due ciazi terminali (= infiorescenza “dicasiale”). Può essere presente anche una seconda divisione “dicasiale”. Alla base dell'ombrella sono presenti delle foglie (spesso in numero uguale ai raggi). Anche queste di forma obovata-oblunga con margini dentati. Mentre a protezione dei ciazi sono presenti due larghe brattee giallastre simili alle foglie superiori. Sono sessili e libere (non sono saldate alla base). Queste brattee sono obovata ed hanno il bordo dentellato come le foglie caulinari con apice arrotondato.
Questa unione di fiori unisessuati può facilmente essere scambiata per un singolo fiore ermafrodita; in effetti questa disposizione in rapporto agli insetti impollinatori differisce molto poco dai normali fiori ermafroditi della altre Angiosperme.[1][3][4]. Dimensioni delle foglie dell'ombrella: larghezza 0,8 – 1,4; lunghezza 3 – 4 cm. Dimensione delle brattee triangolari alla base del ciazio: larghezza 15 mm; lunghezza 13 mm. Dimensione dell'involucro: 2 x 2,5 mm.
I fiori sono unisessuali (solo parte maschile e parte femminile) e monoici, ridotti all'essenziale (sono presenti solo gli organi strettamente riproduttori – quindi il perianzio è assente). Diametro dei ciazi: 10 – 20 mm.
Il frutto
Il frutto è una capsula “tricocca” a tre logge monosperme (a un solo seme) e quindi contenente in totale tre semi. La forma dei semi invece è ovoidale e “caruncolata” (con protuberanze). Queste protuberanze emergenti derivano direttamente dall'ovulo nel quale inizialmente erano delle escrescenze del tessuto della placenta utilizzate durante la fecondazione da parte del polline[4]. La disseminazione avviene per esplosione della capsula . La superficie delle capsula è liscia, mentre i semi sono irregolarmente rugosi. L'endosperma è abbondante e i cotiledoni sono grandi. Dimensione della capsula: 3 mm; dimensione dei semi: 2 mm.
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Cosmopolita, o più precisamente Eurasiatico.
Diffusione: è comune su tutto il territorio. Anche sulle Alpi è presente ovunque. Sui rilievi e nelle pianure europee è altrettanto comune (escluse le Alpi Dinariche). È comune anche in Asia.
Habitat: è considerata pianta infestante ed è comune nei campi coltivati (e incolti) ma anche nei giardini ed orti di città ed in tutti gli ambienti rurali. Il substrato preferito è sia calcareo che calcareo-siliceo con pH neutro, alti valori nutrizionali del terreno che deve essere mediamente umido.
Diffusione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1200 m s.l.m. (massimo 1800 m s.l.m.); frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano e in parte quello subalpino.
Il genere di appartenenza (Euphorbia) è molto numeroso e comprende circa 2100 specie, diffuse soprattutto nelle regioni tropicali e subtropicali dell'Africa e dell'America, ma anche nelle zone temperate di tutto il mondo. Una ottantina di queste specie sono proprie della flora italiana.
Il genere delle "Euphorbie" essendo molto numeroso viene suddiviso in diversi sottogeneri. La pianta di questa scheda appartiene al sottogenere Anisophyllum, caratterizzato dall'avere le appendici dell'involucro a coppa di tipo petaloideo ossia colorate come i petali e capaci di secernere del nettare[1].
Questa specie è polimorfa nei seguenti caratteri:
L'alloro (Laurus nobilis L., 1753) è una pianta aromatica e officinale appartenente alla famiglia delle Lauracee, diffusa nel bacino del Mediterraneo.
Si presenta, poiché spesso sottoposto a potatura, in forma di arbusto di varie dimensioni ma è un vero e proprio albero alto fino a 10 m, con rami sottili e glabri che formano una densa corona piramidale.
Il legno della pianta è aromatico ed emana il tipico profumo delle foglie. Il fusto è eretto, la corteccia verde nerastra.
Le foglie, ovate, sono verde scuro, coriacee, lucide nella pagina superiore e opache in quella inferiore, sono inoltre molto profumate.
L'alloro è una pianta dioica, cioè porta fiori, unisessuali, in due piante diverse, una con i fiori maschili e una con i fiori femminili (che portano poi i frutti). L'unisessualità è dovuta a fenomeni evolutivi di aborto a partire da fiori inizialmente completi. Nei fiori femminili infatti sono presenti 2-4 staminoidi (cioè residui di stami) non funzionali, analogo fenomeno accade per i maschili, che presentano parti femminili atrofiche (non funzionali ed atrofizzate). I fiori, di colore giallo chiaro, riuniti a formare una infiorescenza ad ombrella, compaiono a primavera, generalmente in marzo-aprile.
I frutti sono drupe nere e lucide (quando mature) con un solo seme. Le bacche maturano a ottobre-novembre.
Biologia
L'impollinazione è principalmente entomofila, ovvero ad opera di insetti.[3]
Distribuzione e habitat
Diffuso lungo le zone costiere settentrionali del Mar Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia e nell'Asia Minore, passando per la Svizzera e l'Italia.
In Italia cresce spontaneamente nelle zone centro-meridionali e lungo le coste; nelle regioni settentrionali è invece coltivato e talvolta naturalizzato.
L'ampia diffusione spontanea in condizioni naturali ha fatto individuare uno specifico tipo di macchia: la macchia ad alloro o Lauretum. Si tratta della forma spontanea di associazione vegetale che si stabilisce nelle zone meno aride dell'area occupata in generale dalla macchia.
Coltivazione
L'alloro è una pianta rustica, cresce bene in tutti i terreni e può essere coltivato in qualsiasi tipo di orto[4].
La diffusione avviene molto facilmente per seme (i semi sono diffusi dagli uccelli che predano i frutti), la moltiplicazione avviene molto facilmente in natura per polloni, fatto che produce agevolmente dei piccoli boschi prodotti da un solo individuo (cioè dei cloni dell'albero di partenza), oppure artificialmente per talea.
Varietà
Il 20 aprile 2015 il Vlaamse laurier, l'alloro fiammingo, è stato iscritto nel registro europeo delle indicazioni geografiche protette (IGP)[5]. È caratterizzato da una forma simmetrica e da una resistenza al freddo (particolarmente apprezzata dalle clientele dei paesi del Nord).
Usi
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati
La diffusione e l'uso ampio che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato l'alloro ad essere inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) come prodotto tipico siciliano.[6]
Si utilizzano le foglie e se ne possono fare vari usi: in cucina, per aromatizzare carni e pesci, come rimedio casalingo per allontanare le tarme dagli armadi (ottimo e più profumato sostituto della canfora), per preparare decotti rinfrescanti e dalle qualità digestive o pediluvi, o trattato con alcool per ricavarne un profumato e aromatico liquore dalle proprietà digestive, stimolanti, antisettiche ed è utile contro tosse e bronchite.[7]
Dalle bacche si può ricavare un olio aromatico, l'olio laurino e con proprietà medicinali, ingrediente peculiare dell'antichissimo sapone di Aleppo. Veniva inoltre utilizzato per preservare libri e pergamene e per preparare le classiche coroncine d'alloro.
A marzo, quando fiorisce l'alloro, soprattutto nei climi temperati freddi dove non ci sono altre fioriture rilevanti, è un'importante fonte di nettare e polline per le api.
L'alloro è conosciuto con il termine lauro; tuttavia, in alcune regioni italiane, con questo termine viene indicato anche il lauroceraso (Prunus laurocerasus), il quale è una pianta tossica.
Mitologia
Nella mitologia greco-romana l'alloro era una pianta sacra e simboleggiava la sapienza e la gloria: una corona di alloro cingeva la fronte dei vincitori nei Giochi pitici o Delfici[8] e costituiva il massimo onore per un poeta che diveniva un poeta laureato. Da qui l'accezione figurativa di simbolo della vittoria, della fama, del trionfo e dell'onore. Inoltre questa pianta era sacra ad Apollo poiché Dafne, la ninfa di cui il dio si invaghì, chiese che fosse eliminata la causa dell'invaghimento di Apollo nei suoi confronti, e dunque le fu tolto l'aspetto umano venendo trasformata in Alloro. Apollo a quel punto mise la pianta di Alloro nel suo giardino e giurò di portarne sul suo capo in forma di corone per sempre, e disse che allo stesso modo facessero i Romani durante le sfilate in Campidoglio[9]. Sarebbe stato proprio Apollo, infatti, a rendere questo albero sempreverde. All'alloro era connesso anche il potere della divinazione (Apollo era infatti anche il dio dei vaticini): la sacerdotessa del dio (la Pizia) usava masticare foglie di alloro prima di profetizzare.
In Italia è tradizione far indossare una corona d'alloro a tutti i neolaureati.
Il "lauro" è spesso citato nel Canzoniere di Petrarca. Nell'opera, infatti, Laura, (anche il gioco omofonico che il poeta realizza è funzionale a questa metafora), la donna amata dall'io lirico, viene in parte assimilata a questo arbusto (emblematica la sestina "Giovene donna sotto un verde lauro"). Riprendendo le immagini della mitologia greca (in particolare il mito di Dafne e Apollo), l'alloro è simbolo di rifiuto e inaccessibilità, caratteristiche di Laura. Il "lauro" è anche però pianta sacra al Dio Apollo e simbolo di sapienza e gloria. Interessante il gioco di parole architettato dal poeta: egli realizza l'accostamento da un lato tra "lauro-l'auro" (dove "l'auro" sta a significare "l'oro" ed è riferito alla lucentezza tipica della donna, in particolare alle sue chiome); mentre compare anche la coppia Laura-l'aura(=l'aria), come accade nel sonetto 90 Erano i capei d'oro a l'aura sparsi.
Il taràssaco comune (Taraxacum officinale [Weber ex Wiggers, 1780]) è una pianta a fiore (angiosperma) appartenente alla famiglia delle Asteracee. L'epiteto specifico, officinale, ne indica le virtù medicamentose, note fin dall'antichità e sfruttate con l'utilizzo delle sue radici e foglie.
È comunemente conosciuto come dente di leone[4], dente di cane[4], soffione[5] (l'infruttescenza), cicoria selvatica[6], cicoria asinina[6], grugno di porco[6], ingrassaporci[6], brusaoci[6], insalata di porci[6], pisciacane[6], lappa[6], missinina[6], piscialletto[7], girasole dei prati[8], erba del porco o anche con lo storpiamento del nome in tarassàco.
È una pianta erbacea e perenne, di altezza compresa tra 10 e 30 cm. Presenta una grossa radice a fittone dalla quale si sviluppa, a livello del suolo, una rosetta basale di foglie munite di gambi corti e sotterranei.
Le foglie sono semplici, oblunghe, lanceolate e lobate, con margine dentato (da qui il nome di dente di leone) e prive di stipole.
Il fusto, che si evolve in seguito dalle foglie, è uno scapo cavo, glabro e lattiginoso, portante all'apice un'infiorescenza giallo-dorata, detta capolino. Il capolino è formato da due file di brattee membranose, piegate all'indietro e con funzione di calice, racchiudenti il ricettacolo, sul quale sono inseriti centinaia di fiorellini, detti flosculi.
Ogni fiore è ermafrodita e di forma ligulata, cioè la corolla presenta una porzione inferiore tubolosa dalla quale si estende un prolungamento nastriforme (ligula) composto dai petali. L'androceo è formato da 5 stami con antere saldate a tubo; il gineceo da un ovario infero, bi-carpellare e uniloculare, ciascuno contenente un solo ovulo e collegato, tramite uno stilo emergente dal tubo, a uno stimma bifido.
La fioritura avviene in primavera per la maggior parte in aprile-maggio ma si può prolungare fino all'autunno. L'impollinazione è di norma entomogama, ossia per il tramite di insetti pronubi, ma può avvenire anche grazie al vento (anemogama). Da ogni fiore si sviluppa un achenio, frutto secco indeiscente, privo di endosperma e provvisto del caratteristico pappo: un ciuffo di peli bianchi, originatosi dal calice modificato, che, agendo come un paracadute, agevola col vento la dispersione del seme, quando questo si stacca dal capolino.
Distribuzione e habitat
Il tarassaco cresce spontaneamente nelle zone di pianura fino a un'altitudine di 2000 m e in alcuni casi con carattere infestante. È una pianta tipica del clima temperato e, anche se per crescere non ha bisogno di terreni e di esposizioni particolari, predilige maggiormente un suolo sciolto e gli spazi aperti, soleggiati o a mezzombra. In Italia cresce dovunque e lo si può trovare facilmente nei prati, negli incolti, lungo i sentieri e ai bordi delle strade.
La pianta fresca di Taraxacum officinale contiene oltre alla cellulosa una serie di sostanze bioattive.
La foglia contiene particolarmente:
derivati di acido taraxinico (sesquiterpenlactone)
flavonoidi (glicosidi dell'apigenina e luteolina)
vitamine (B1, B2, C, E)
La radice è particolarmente ricca di:
sesquiterpenlactoni
acido taraxinico e taraxacolide
triterpeni e steroidi
taraxacosidi
Il tarassaco viene usato sia dalla cucina sia dalla farmacopea popolare. La terapia a base di foglie o radici di tarassaco è chiamata "tarassacoterapia".
È una pianta di rilevante interesse in apicoltura, che fornisce alle api sia polline sia nettare, se ne può ricavare un ottimo miele monoflorale, che cristallizza abbastanza velocemente.
Il tarassaco è usato per preparare un'insalata primaverile, sia da solo che con altre verdure. In Piemonte, dove viene chiamato "girasole"[10], è tradizione consumarlo con uova sode durante le scampagnate di Pasquetta. In Liguria è utilizzato insieme ad altre erbe per il ripieno dei pansoti.
Anche i petali dei fiori possono contribuire a dare sapore e colore a insalate miste. I boccioli sono apprezzabili se preparati sott'olio; sotto aceto possono sostituire i capperi[6]. I fiori si possono preparare in pastella e quindi friggere. Le tenere rosette basali si possono consumare sia lessate e quindi condite con olio extravergine di oliva, sia saltate in padella con aglio (o ancor meglio con aglio orsino). In Carnia le stesse rosette basali vengono consumate crude, condite con guanciale soffritto con pochissimo olio e "spento" a fine cottura con abbondante aceto.
I fiori vengono inoltre utilizzati per la preparazione dello sciroppo (o gelatina) di tarassaco, spesso erroneamente definite "miele di tarassaco"[11][12].
Con le radici tostate di tarassaco si può preparare il caffè di tarassaco, un surrogato del caffè che ne mantiene in certa misura il gusto e le proprietà digestive, in modo simile al caffè d'orzo e al caffè di cicoria[6][13].
In orticoltura si coltivano diverse varietà mutate, da consumare come insalata e verdura.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Quando il tarassaco viene estirpato, la sua radice può rimanere nel terreno e così dar vita a un nuovo individuo nella stagione più propizia.
In medicina popolare il tarassaco viene usato per diverse indicazioni e composizioni con altri fitorimedi come:
epatico / biliare
antireumatico spasmolitico, anaflogistico, diuretico
antidiscratico
Tra le sue molte azioni vi è anche quella di blando lassativo, collegata all'incremento della produzione di bile.[14]
In fitoterapia si usa ancora la droga pura, in infusione o decotto, per disappetenza e disturbi dispeptici.
È pianta molto visitata dalle api, che vi raccolgono abbondante nettare.[15]
Esiste naturalmente una spiegazione per i vari nomi della pianta: viene chiamata "dente di leone" a causa della forma dentata delle foglioline, "soffione"[5] per via della palla lanosa che contiene i semi.
Il nome ufficiale Tarassaco proviene dal greco tarakè "scompiglio", e àkos "rimedio", questa è dunque capace di rimettere in ordine l'organismo. Infine esiste un ultimo nome con cui il tarassaco è conosciuto, "piscialetto", datogli per le sue proprietà diuretiche[16].
Il ginestrino (Lotus corniculatus L.) è una pianta appartenenti alla famiglia delle Fabacee (o Leguminose)[1]. È comune dappertutto nei luoghi erbosi ed è buona foraggera.
È un'erba perenne a fusto pieno e ricurvo alla base, alta da 10 a 30 cm. Le foglie, composte, sono divise in tre foglioline romboidali. I fiori, gialli, sono riuniti in ombrellette di 2-6 elementi (maggio-agosto). I legumi, sottili e cilindrici, sono di colorito brunastro.
Il ginestrino è pianta di origine euro asiatica presente normalmente nei pascoli e nei prati naturali europei. Il centro di origine del ginestrino è forse il bacino del Mediterraneo dove il genere Lotus è caratterizzato da grande variabilità di forme. Notizie sul valore foraggero del ginestrino si hanno fin dal 1700, ma è solamente tra la fine del ‘800 e i primi del ‘900, che esso inizia ad essere coltivato, dapprima in Inghilterra e poi, gradatamente, nel resto d’Europa.
Il ginestrino è originario del Vecchio Mondo (Europa, Asia e Nordafrica), ma oggi è naturalizzato anche in Nordamerica[2][3] e in altre parti del mondo.
In Europa è presente in tutti i paesi, dall'Islanda alla Grecia, e in Italia in tutte le regioni.
E' pianta visitata dalle api[4] per il polline ed il nettare, ed a volte si riesce a produrne un miele uniflorale.[5]
Wisteria Nutt. è un genere di piante rampicanti della famiglia delle Fabacee (o Leguminose)[1], note col nome comune di glicine.
Il nome del genere è stato attribuito in onore di Gaspare Wistar (1761-1818), studioso di anatomia di Filadelfia[2].
Le Wisteria crescono avvolgendosi attorno a qualunque supporto sia in senso orario (come W. floribunda) sia in senso antiorario (W. sinensis)
Possono crescere fino a 20 m in altezza e 10 m in orizzontale. L'esemplare di Wisteria più estesa al mondo è stata piantata nel 1894 e si trova a Sierra Madre nella Contea di Los Angeles (California): occupa una superficie di oltre 0,4 ettari e pesa 250 tonnellate[3].
Le foglie sono alterne, lunghe da 15 a 35 cm, imparipennate, con da 9 a 19 foglioline. I fiori sono riuniti in racemi penduli lunghi da 10 a 80 cm, viola, rosa o bianco. La fioritura è precedente o contemporanea alla fogliazione ed avviene in primavera in alcune specie asiatiche, e in tarda estate nelle specie americane e in W. japonica. I fiori di alcune specie, in particolare W. sinensis, sono profumati. Le specie di glicine sono usate come cibo dalle larve di alcune specie di lepidotteri, compreso il bombice dal ventre bruno (Euproctis chrysorrhoea).
I frutti sono dei legumi e contengono semi velenosi. Tutte le parti della pianta contengono una saponina chiamata wisterina, che è tossica se ingerita e può causare vertigini, confusione, problemi di linguaggio, nausea, vomito, dolori di stomaco, diarrea e collasso ma la maggior concentrazione è nei semi.[4][5] I semi di glicine hanno causato avvelenamento in bambini e animali domestici in molti paesi, producendo gastroenterite da lieve a grave e altri effetti[5][6][7].
Il genere comprende le seguenti specie:[1]
Wisteria brachybotrys Siebold & Zucc., originaria del Giappone, arbusto volubile, alto fino a 7,5 m, con i fiori colorati di bianco.
Wisteria brevidentata Rehder
Wisteria floribunda (Willd.) DC., originaria del Giappone, arbusto volubile, alto fino a 10 m, foglie composte imparipennate, formate da 13-15 foglioline ovato-lanceolate, di colore verde-chiaro, fiori papilionacei, profumati, di colore rosa o viola-azzurrato, riuniti in stupende infiorescenze a grappolo lunghi 30–60 cm, con fioriture in maggio-giugno; in alcune varietà i grappoli colorati di bianco, viola, rosso raggiungono il metro di lunghezza
Wisteria frutescens (L.) Poir., originaria del Nord America (dalla Virginia al Texas)
Wisteria sinensis (Sims) DC., originaria della Cina, è una pianta arbustiva rampicante, rustica e vigorosa, con apparato radicale robusto che si espande facilmente, fusti volubili, che raggiungono i 10–20 m di altezza a seconda del sostegno; foglie decidue, imparipennate, composte da 7-13 foglioline ovali-lanceolate con l'apice acuminato; fiori ermafroditi e profumati, con corolla papilionacea di colore azzurro-lilla o malva, riuniti in vistosi grappoli pendenti lunghi 20–30 cm, con fioriture a fine inverno inizio primavera; il frutto è un legume di 8–15 cm di lunghezza; sono state selezionate varietà a fiori bianchi, rosati, violacei.
Wisteria venusta Rehder & Wils.
Wisteria villosa Rehder
Desidera posizioni soleggiate, con terreno profondo e fresco, argilloso e ricco di elementi nutritivi. Si adatta comunque a qualunque tipo di terreno esclusi quelli calcarei. Annaffiature moderate, per ottenere forme compatte e fioriture raccolte; è necessario effettuare ogni anno prima della ripresa vegetativa una potatura 'a sperone', tagliando cioè le cacciate di 1 anno, lasciando solo alcune gemme. È prevista anche una potatura verde estiva per alcune specie.
Si moltiplica d'estate. Per alcune varietà si pratica in marzo l'innesto su soggetto di Wisteria sinensis.
Come pianta ornamentale per ricoprire muri, pergolati, recinzioni o arrampicarsi ad alberi, nei giardini e sulle terrazze grazie al rapido sviluppo ed alla fioritura esuberante[8]. Le giovani piante opportunamente potate formano piccoli alberetti adatti alla coltivazione in vaso.
Nel linguaggio dei fiori indica amicizia[9].
I fiori sono commestibili e possono essere cucinati in una tempura[10] vegetariana oppure mescolati in insalata.
Il giglio di mare (Pancratium maritimum L.) è una pianta bulbosa della famiglia delle Amaryllidaceae[1], che cresce spontaneamente sui litorali sabbiosi del Mar Mediterraneo e del Mar Nero.
Può essere anche coltivato come pianta ornamentale.
Pancratium viene dal greco παν (pan, "tutto") e κρατυς (cratys, "potente") in allusione alle supposte virtù medicinali. Maritimum viene dal latino "mare", per via del suo habitat costiero.
Pancratium maritimum è una pianta perenne bulbosa, con fusto alto sino a 40 cm e ampie foglie lineari.
I fiori, da 3 a 15, bianchi e lunghi fino a 15 cm, sono riuniti in infiorescenze ad ombrella; si aprono tra luglio e ottobre. I fiori hanno un profumo intenso e persistente di giglio, che diventa percepibile principalmente durante le notti d'estate senza vento.
Il frutto è una capsula contenente semi neri lucidi di forma irregolare. [senza fonte]
Pancratium maritimum è impollinato, per impollinazione incrociata, dalle falene della famiglia Sphingidae, tra cui la sfinge del convolvolo. Questi insetti visitano il fiore solo quando la velocità del vento è inferiore a 2 metri al secondo.[2] In alcune aree geografiche l'impollinazione può essere mediata da piccoli rettili, come p.es. Podarcis lilfordi nelle isole Baleari [3].
I semi sono molto leggeri e galleggiano, cosicché la disseminazione avviene sia tramite il vento che attraverso le correnti marine.[4]
La specie produce diversi alcaloidi tra cui licorina, maritidina, licoramina e galantamina.[5]
Cresce sui litorali sabbiosi del Mar Mediterraneo e del Mar Nero, dal Portogallo, Marocco e le Isole Canarie fino a est in Turchia, Siria, Israele e Caucaso. Può essere osservato anche nella Bulgaria meridionale e nel nord della Turchia e sulle coste della Georgia nel Mar Nero, dove la specie è minacciata di estinzione. È anche naturalizzato nel sud della California, nelle Bermuda e nelle isole Azzorre
In Italia lo si può osservare sulle dune costiere di tutte le regioni salvo il Friuli-Venezia Giulia. In particolare da occidente a oriente è presente in Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, specialmente nella fascia ionica, Calabria, Sicilia, Sardegna, Puglia, specialmente nel Salento, Molise, Abruzzo, Marche, Emilia-Romagna e Veneto.
Facilmente coltivabile, ma richiede una posizione molto soleggiata e un terreno sabbioso molto ben drenato. Ha bisogno di estati calde per indurre la fioritura, mentre una fioritura timida può avvenire in climi più freschi. Tollera temperature fino a circa -5°. La propagazione avviene per seme o divisione dopo la fioritura. Piantine possono fiorire nel loro terzo o quarto anno di vita.
Il nome ebraico per il fiore è חבצלת החוף (khavatselet ha-Khof), strettamente legato alla rosa di Sharon (khavatselet ha-Sharon - חבצלת השרון), menzionata nel Cantico dei Cantici. Dal momento che la pianta cresce sulla pianura di Sharon della costa del Mar Mediterraneo, si suppone che il passo biblico possa fare riferimento a questo fiore.
IlGelsomino giallo o Jasminum nudiflorum viene anche detto Gelsomino di S. Giuseppe perchè sembra fiorire in particolare il giorno di San giuseppe, ovvero il 19 Marzo. In effetti si tratta di un arbusto di origine asiatica, diffuso in Italia da secoli, e coltivato in giardino: la fioritura, come suggerisce il nome botanico, avviene con la pianta completamente spoglia delle foglie, a fine inverno, più o meno a partire dalla metà di marzo. Questo gelsomino è di facile coltivazione; si sviluppa in qualsiasi terreno, anche sassoso e poco ricco di materia organica; dopo la messa a dimora necessita di una buona annaffiatura, per permettere alle radici di attecchire, in seguito si accontenta delle precipitazioni e non necessita di grandi cure. La fioritura avviene, appunto, tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera; in seguito la pianta sviluppa piccole foglie di colore verde chiaro; questi arbusti sono molto densi e compatti, e in genere non superano i 100-140 cm di altezza. Una rapida potatura a fine fioritura aiuta a mantenere il nostro gelsomino più compatto, ed a rimuovere i rami eventualmente rovinatisi durante la stagione fredda. Questo gelsomino non teme il freddo, e predilige posizioni soleggiate; se coltivato in luogo eccessivamente ombreggiato tende a fiorire poco. Si adatta ad esposizioni e climi diversi, anche se il pieno sole durante l’inverno favorisce una fioritura abbondante. Le irrigazioni non sono necessarie per piante adulte in piena terra, a meno di lunghe siccità.
Le potature non sono indispensabili. Si interviene solamente se si vuole contenere lo sviluppo, specialmente negli esemplari cresciuti a cespuglio. Il periodo giusto per questa operazione è la primavera, dopo la fine della fioritura (mai invece in autunno). La pianta infatti produce boccioli sui rami prodotti l’anno precedente.
Forsythia Vahl è un genere di piante angiosperme della famiglia delle Oleaceae[1], che comprende specie in maggior parte originarie dell'Asia orientale (Cina, Corea e Giappone), con una sola specie (Forsythia europaea Degen & Bald.) nativa della penisola balcanica.
Il nome del genere è in onore di William Forsyth, uno dei fondatori della Royal Horticultural Society[
Si tratta di arbusti a fogliame deciduo che raggiungono l'altezza di 1–3 m.[2]
Fioriscono alla fine dell'inverno prima dell'emissione delle foglie, ricoprendosi di fiori di colore giallo-zolfo. I fiori sono gamopetali con una corolla di 4 lobi ed un calice ridotto, con incisure dei lobi molto profonde. Le foglie sono opposte, oblunghe o tondeggianti, a volte seghettate.
Il frutto è una capsula plurisperma.
Tassonomia
Il genere comprende le seguenti specie:[1]
Forsythia europaea Degen & Bald.
Forsythia giraldiana Lingelsh.
Forsythia japonica Makino
Forsythia koreana (Rehder) Nakai
Forsythia likiangensis Ching & K.M.Feng
Forsythia × mandschurica Uyeki
Forsythia mira M.C.Chang
Forsythia ovata Nakai
Forsythia saxatilis (Nakai) Nakai
Forsythia suspensa (Thunb.) Vahl
Forsythia togashii H.Hara
Forsythia velutina Nakai
Forsythia viridissima Lindl.
Coltivazione
Gradisce posizione soleggiata, sopporta qualunque tipo di terreno purché fresco, anche se resiste bene alla siccità e al gelo.
La potatura dei rami di 1 anno va effettuata tutti gli anni dopo la fioritura, lasciando poche gemme per far sviluppare nuovi getti vigorosi, sui quali si avrà la fioritura nella primavera successiva, mentre i rami più vecchi vanno eliminati. In particolare richiede un bel taglio subito dopo la fioritura di febbraio-marzo (che consente lo sviluppo durante tutta la stagione dei nuovi rami destinati a fiorire l'anno successivo). Purtroppo, invece, viene spessissimo potata in inverno, perdendo così il 90% della sua splendida fioritura.
Industrialmente si coltivano le varietà per la produzione di rami legnosi fioriti, che vengono raccolti precocemente e forzati in ambiente caldo umido come per i Prunus.
La moltiplicazione avviene facilmente per talea legnosa, utilizzando i rami di 1 anno potati dopo la fioritura; per margotta o propaggine; è possibile la coltivazione in vaso per decorare i terrazzi.
La rapa (Brassica rapa L.) è una pianta della famiglia Brassicaceae[1] largamente coltivata come ortaggio, di cui si consumano, secondo le varietà botaniche, le foglie, la radice (rapa), le cime fiorite, il seme oleoso[2].
È una specie a ciclo annuale o biennale.[1]
Introdotta e coltivata in tutto il mondo, questa pianta è originaria della regione mediterranea e dell'Asia occidentale.
Organismi sperimentali
Alcune varietà di queste piante sono impiegate per esperimenti visto che necessitano una cura maggiore del dovuto per la quantità di luce, acqua e fertilizzante. Queste piante «pretenziose» sono ideali per esperimenti di botanica e di biologia di base, siccome crescono rapidamente, maturando in circa 40 giorni. Alcune versioni modificate geneticamente maturano in appena 28 giorni. Questo breve tempo di accrescimento rende tali piante più adatte per esperimenti delle altre piante. Alcune di esse sono state inviate nello spazio per testare la germinazione.
Brassica rapa oleifera
Il ravizzone è una cultivar annuale o biennale di Brassica rapa. Viene coltivato nell'Europa centrale e settentrionale e, in Italia, principalmente nella Pianura Padana.[1]
È anche noto come Brassica rapa oleifera, Brassica rapa campestris, Brassica rapa sylvestris, Brassica campestris o Brassica campestris oleifera.[2] In passato era indicata anche con il nome di Brassica napus var. oleifera,[3]. Può essere confuso con la colza (Brassica napus).[4]
Viene coltivato come erbaio primaverile ed autunnale. Se ne utilizzano i minuscoli semi, da cui si ricava un olio dai caratteri organolettici simili all'olio di colza.[1] Il panello viene usato in zootecnia per l'alimentazione del bestiame.[3]
Le coltivazioni di ravizzone diventano molto appariscenti in fioritura (che inizia nel mese di aprile e può finire anche a fine maggio),[1] quando si trasformano in distese di un giallo intenso di straordinaria vivacità.
È una pianta molto visitata dalle api, che ne ricavano un miele dalla consistenza e dall'aroma molto caratteristici.
Iris L., 1753 è un genere di piante della famiglia delle Iridaceae, che comprende oltre 300 specie,[1] molte delle quali comunemente note come giaggioli.
Il nome del genere deriva dalla parola greca iris che significa arcobaleno.
Il genere è caratterizzato da un fiore attinomorfo (a simmetria raggiata) con petali saldati alla base in un breve tubo. I petali esterni sono ripiegati verso il basso, e sono dotati di una fascia di papille chiare; i petali interni sono ripiegati verso l'alto. Lo stilo è diviso in 3 porzioni coprenti gli stami.
Comprende specie erbacee e perenni per lo più rizomatose[2].
Può essere di molti colori: tipo viola, blu, bianco o rosa.
Giaggiolo
Attualmente il genere Iris viene suddiviso da molti autori in sei sottogeneri:[senza fonte]
Iris: iris barbate a radici rizomatose
Limniris: iris non-barbate a radici rizomatose
Xiphium, il gruppo più importante degli Iris bulbosi, da alcuni autori considerato come genere autonomo: Xiphion.
Nepalensis, comprende alcune specie di Iris bulbosi, da alcuni autori considerato come genere autonomo: Junopsis.
Scorpiris, comprende alcune specie di Iris bulbosi, da alcuni autori considerato come genere autonomo: Juno.
Hermodactyloides, comprende la specie Iris reticulata e altre specie bulbose simili, da alcuni autori considerato come genere autonomo: Iridodictyum.
Iris pseudacorus
Il giaggiolo acquatico o iris delle paludi (Iris pseudacorus L.) è una pianta selvatica appartenente alla famiglia delle Iridaceae.
È una pianta erbacea perenne, alta 1-1,5 m (o raramente 2 m), con foglie erette lunghe fino a 90 cm e larghe 3 cm. I fiori, raccolti in un'infiorescenza che termina con un fiore apicale, sono d'un giallo brillante, con la tipica forma da Iris ma con lacinie esterne non barbate. Il frutto è una capsula lunga 4–7 cm, contenente semi marrone chiaro.
Iris pseudacorus preferisce le zone umide dove tollera immersioni, basso pH e suoli anossici. È una pianta acquatica ma i suoi rizomi possono sopravvivere a lungo all'asciutto. La pianta si diffonde velocemente, sia per rizoma che disperdendo in acqua i semi.
In Italia è comune in fossi, paludi, risaie, nella fascia planiziale. Grandi esemplari di questa specie si trovano nella parte occidentale della Scozia, dove costituiscono una alimentazione importante e un habitat adatto per il re di quaglie.
Iris pseudacorus viene coltivato nelle regioni temperate come pianta ornamentale. Ne esistono diverse cultivar selezionate a seconda dei tipi di giardino.
Nelle regioni dove non è endemico si è affermato come una pianta acquatica invasiva che può creare dense distese, dannose per le altre piante dell'ecosistema acquatico. Là, è difficile da rimuovere su larga scala. Anche l'aratura dei rizomi è spesso inefficace.
La Iris japonica (蝴蝶花, hu die hua, detta anche iris frangiato o fiore farfalla) è una pianta della famiglia delle Iridaceae, diffusa prevalentemente in Cina e Giappone ma usata come pianta ornamentale anche in altre aree dal clima temperato.
I fiori sono di colore bianco striati di blu e giallo accesi, molto eleganti con disegni elaborati, ed hanno una grandezza variabile tra i 4,5 ed i 5,5 cm. Le infiorescenze compaiono all'inizio della primavera e si presentano al termine di un gambo che presenta un'altezza di circa 40-50 centimetri da terra. Le foglie sono di colore verde con striature crema sul contorno, lunghe e filiformi, di aspetto lucido. Nella variante Iris japonica variegata le foglie si presentano con una bordatura più marcata.
Distribuzione e habitat
A dispetto del nome, la pianta è nativa dell'area della Cina e solo in tempi successivi sembra essersi storicamente diffusa anche in Giappone. Cresce perenne nell'aperta foresta, in angoli umidi o ai piedi di grandi alberi ombrosi tra i 500 e gli 800 metri sul livello del mare. Ad ogni modo questa pianta si adatta facilmente anche a climi molto diversi in quanto non solo è stata in grado di divenire una pianta ornamentale per giardini di climi temperati come quello europeo, ma nella Cina sud occidentale cresce anche ad altezze comprese tra i 2.400 e i 3.400 metri.
Il giaggiolo bianco o giglio fiorentino (Iris florentina L., 1759) è una pianta della famiglia delle Iridacee.[1]
Linneo inserisce l’Iris florentina nel Systema Naturae del 1759, approfondendone la descrizione poi nello Species Plantarum del 1762 e definendola come caratterizzata da “caule foliis altiore subbifloro, floribus sessilibus” (caule più alto delle foglie, con pochi fiori, da 1 a tre; con fiori sessili). In pratica l’Iris florentina presenta fra i suoi caratteri distintivi principali un'infiorescenza semplicissima, non ramificata, con 2 o 3 fiori non pedicellati (solo quello posto più in basso sull'asse fiorale può essere scarsissimamente pedicellato). Per quanto riguarda il fiore dell’Iris florentina esso è descritto da Linneo come integralmente bianco, con le lacinie superiori piuttosto dritte e gli stigmi petaloidei anch'essi dritti e poco dentellati. I fiori dell’Iris florentina oltre ad essere di color bianco candido, sono caratterizzati infatti dall'avere le lacinie del perigonio di forma allungata, il che conferisce al fiore un aspetto slanciato ed elegante. In particolare le lacinie superiori sono di forma allungato-ellittica, quelle inferiori allungate e spatolate.
Una descrizione dell’Iris florentina assai approfondita, in cui vengono definite accuratamente anche le particolarità del fiore di questa specie è quella di Filippo Parlatore (Filippo Parlatore; Flora italiana; Firenze, Le Monnier, 1858; pp. 271-274).
Tamarix L. è un genere di piante della famiglia delle Tamaricaceae, originario delle zone sabbiose e salmastre di India, Cina ed Europa meridionale.
Il nome del genere è di origine latina e deriverebbe dal fiume Tambre, chiamato anticamente "Tamara", che scorre in Galizia.
Comprende circa 60 specie tra alberi e arbusti, tra sempreverdi e a foglie decidue, che possono raggiungere un'altezza di 15 metri nelle specie arboree.
I fiori sono piccolissimi e sono caratterizzati da una fioritura piumosa in spighe sottili, generalmente primaverile-estiva o a volte, come nella T. aphylla, anche invernale.
Hanno fronde vaporose, formate da piccolissime foglie alterne, squamiformi, generalmente di colore verde glauco, simili, ad un esame superficiale, a quelle di alcune conifere. I frutti sono generalmente delle piccole capsule triangolari.
Una curiosa caratteristica delle tamerici, osservata sulle piante in riva al mare in Corsica ed in Grecia, è la "sudorazione" sotto forma di gocce di liquido chiaro ed estremamente salato, la quale durante il giorno ed in assenza di vento (che ne favorirebbe l'evaporazione) genera una vera pioggia, che colpisce chi si trova sotto la loro chioma.
Come piante ornamentali nelle zone rivierasche, per viali o gruppi isolati nei giardini, o come siepi frangivento nelle zone ventose vicino al mare; si adattano anche alla coltivazione in vaso sui terrazzi.
Come bonsai vengono utilizzate le specie T. juniperina (= Tamarix chinensis), T. parviflora e T. ramosissima.
Dalla corteccia si estraggono sostanze tanniche.
Le tamerici sono piante mellifere, sono bottinate dalle api ma il miele che si produce è in piccole quantità.
Gradiscono esposizioni soleggiate, terreno sciolto leggero, meglio se sabbioso, tollerando anche quelli salmastri. Le tamerici resistono alla siccità, sono rustiche e resistono anche al freddo. Riescono a vivere anche in terreni salini, quindi sono piante alofite. Le tamerici non temono il caldo e non patiscono la maggior parte dei parassiti. La moltiplicazione delle tamerici avviene con la semina, per talea legnosa o propaggine in autunno.
Erica arborea L., 1753 è un arbusto sempreverde, dalla corteccia rossastra, a portamento eretto, appartenente alla famiglia delle Ericaceae.
Ha numerosi rami, anch'essi a portamento quasi sempre eretto. Le foglie sono aghiformi, persistenti e coriacee, verde scuro, normalmente in verticilli di quattro, con margine dentellato.
I fiori sono piccoli, penduli, molto numerosi, riuniti in ricche infiorescenze terminali, dal colore bianco-crema e profumati.
Fioritura: marzo-maggio.
Frutti: capsule contenenti numerosi piccoli semi.
Nome comune: Radica.
È distribuita in Africa settentrionale e centro-orientale, Europa meridionale, e nelle Canarie.
In Italia ha distribuzione peninsulare con popolazioni presenti anche oltre lo spartiacque appenninico; è presente anche nelle isole (tipico elemento della macchia mediterranea).
Le ramificazioni di eriche legate in fascina sono utilizzate per fare scope e infatti veniva chiamata scopiglia, e un tempo potevano costituire le coperture e le pareti di abitazioni povere e capanni.
Per ottenere i bozzoli per la filatura della seta, i bachi erano posti, spesso, su rami di erica.
La parte inferiore della ceppa, era "cotto" (combustione interrotta) nella carbonaia nel bosco, per ottenere un carbone in grado di sviluppare molto calore. Il carbone da legno d'erica era richiesto nelle officine dei fabbri per la forgiatura del ferro.
Il legno rossiccio di erica arborea è duro e pregiato, ed è il materiale più utilizzato nella costruzione dei fornelli da pipa. La parte utilizzata per ottenere la pipa è quella nodosa della base, in angolo, il cosiddetto "ciocco".
I fiori hanno interesse officinale e la pianta è medicinale. L'infuso delle sommità fiorite è ritenuto diuretico, disinfettante ed antireumatico; anticamente si credeva che avesse la virtù di guarire i morsi delle vipere[2].
I fiori hanno anche uso apistico: è una buona pianta mellifera, cioè sono bottinati dalle api per il polline, e per il nettare[3] da cui ottengono un ottimo miele monoflorale, anche se, per il periodo di fioritura, ha più umidità rispetto ad altri.
Il mughetto (Convallaria majalis L.) è una pianta erbacea perenne, rizomatosa, appartenente alla famiglia delle Asparagaceae (precedentemente inclusa nelle Liliaceae).
È alto fino a 20 cm. È spontaneo nelle zone prealpine italiane. È diffuso in Europa, Nord America e Asia. Il nome Convallaria deriva dalla denominazione latina Lilium convallium o giglio delle convalli; viene chiamato volgarmente mugherino, convallaria e fioraliso e presenta alcune varietà a fiore rosa[
Esistono diverse cultivar selezionate per la grandezza del fiore (C. majalis 'Berlin Giant' and C. majalis 'Géant de Fortin') il colore delle foglie (C. majalis 'Albostriata' 'Green Tapestry', 'Haldon Grange', 'Hardwick Hall', 'Hofheim', 'Marcel', 'Variegata' and 'Vic Pawlowski's Gold') per la maggiore fioritura (C. majalis 'Flore Pleno') o il colore rosa (C. majalis 'Rosea').
Coltivata come pianta ornamentale nei luoghi ombrosi di parchi e giardini per decorare aiuole, sottobosco, per la produzione industriale del fiore reciso o forzato in serra per la commercializzazione invernale di piante fiorite in vaso.
L'aroma di mughetto è usato in profumeria, ma spesso gli è preferito quello di sintesi.
Utilizzata per le proprietà medicinali di alcuni glicosidi come la convallatossina, convallamarina, convallarina e acido convallarico.
L'aglio triquetro (Allium triquetrum L.) è una pianta della famiglia delle Liliaceae (o Amaryllidaceae secondo la classificazione APG[1]), diffusa nel bacino del Mediterraneo.
È una pianta erbacea bulbosa, con fusti alti fino a 45 cm, a sezione triangolare.
Le foglie, nastriformi, sono lunghe all'incirca quanto il fusto e larghe 5–10 mm.
I fiori, penduli e di forma campanulata, hanno petali di colore bianco con una striatura mediana verde; fiorisce da marzo a maggio.
La specie è diffusa nella parte occidentale del bacino del Mediterraneo.[2] In Italia è presente nella parte centro-meridionale della penisola e nelle isole maggiori.
Cresce in luoghi umidi e ombrosi, da 0 a 600 m di altitudine.
Il ciombolino comune (nome scientifico Cymbalaria muralis, Gaertn., Mey. & Scherb. 1753) è una pianta rampicante, erbacea e perenne dai delicati fiori multicolore, appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae. La famiglia delle Plantaginaceae è relativamente numerosa con un centinaio di generi, mentre il genere della Cymbalaria comprende una decina di specie di cui almeno 8 sono presenti nella flora spontanea italiana.
La classificazione tassonomica della Cymbalaria muralis è in via di definizione in quanto fino a poco tempo fa il suo genere apparteneva alla famiglia delle Scrophulariaceae (secondo la classificazione ormai classica di Cronquist), mentre ora con i nuovi sistemi di classificazione filogenetica (classificazione APG) è stata assegnata alla famiglia delle Plantaginaceae; anche i livelli superiori sono cambiati (vedi box tassonomico a destra).
Anche il genere non è sempre stato lo stesso: nelle classificazioni fino agli anni '60 (del secolo scorso) la Cymbalaria muralis apparteneva al genere Linaria sezione Cymbalaria[1].
La variabilità di questa pianta si manifesta soprattutto nella pelosità più o meno accentuata sul fusto e sulle foglie. Nell'elenco che segue sono indicate alcune varietà e sottospecie (l'elenco può non essere completo e alcuni nominativi sono considerati da altri autori dei sinonimi della specie principale o anche di altre specie):
Cymbalaria muralis P.Gaertn., B.Mey. & Scherb. subsp. muralis (sinonimo = Linaria acutangula Ten.)
Cymbalaria muralis P.Gaertn., B.Mey. & Scherb. subsp. pubescens (C.Presl) D.A.Webb (1972) (sinonimi = C. pubescens (C.Presl) Cufod.; = Linaria pilosa (Jacq.) DC. var. pubescens (C.Presl) Bég.; = Linaria pubescens C.Presl)
Cymbalaria muralis P.Gaertn., B.Mey. & Scherb. subsp. visanii D.A.Webb (1972) (sinonimi = Linaria cymbalaria (L.) Mill. subsp. cymbalaria var. pilosa Vis.; = Linaria pilosa auct., non (Jacq.) DC.)
Cymbalaria muralis P.Gaertn., B.Mey. & Scherb. var. pilosa (Vis.) Degen.
In Italia la Cymbalaria muralis viene chiamata in diversi modi a seconda delle zone:
Cimbalaria dei muri
Ederina dei muri
Erba tondella
Erba piattella
Linaria dei muri
Parrucca
Il Fior di cuculo (Lychnis flos-cuculi L.) è una pianta erbacea perenne alta 30–70 cm, appartenente alla famiglia delle Caryophyllaceae.
Il genere Lychnis comprende 15-25 specie erbacee perenni, originarie di Europa, Asia e Nordafrica. Di queste, 5 sono spontanee della flora italiana.
Il genere Lychnis è strettamente legato al genere Silene, dal quale differisce per la presenza di capsule deiscenti con 5 dentelli apicali anziché 6 o 10, e di fiori con 5 stili anziché 3 o 5.
Il nome del genere deriva dal greco lýchnos (=lume, lucerna), e si riferisce alla forma delle capsule, oppure al fatto che le foglie di una specie congenere (L. coronaria (L.) Desr.) venivano utilizzate come lucignoli.
L'epiteto specifico si rifà al nome comune, il quale probabilmente allude alla frequente presenza sulla pianta della schiuma prodotta dall'insetto sputacchina (Philaenus spumarius), nota anche come saliva di cuculo.
La pianta è conosciuta anche come manine di Gesù o manine del Signore, per la forma dei petali, che ricordano delle piccole mani.
La forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap): pianta perennante per mezzo di gemme al suolo e con asse fiorale allungato più o meno privo di foglie.
Possiede una struttura radicale rizomatosa.
Il fusto è eretto, con getti sterili alla base, pubescente; vischioso, arrossato e ramoso in alto.
Le foglie basali sono glabre, picciolate, lineari–spatolate e disposte in rosetta; le cauline sono sessili, lineari e opposte.
I fiori sono riuniti in cime corimbose lasse, e hanno un diametro di 2–3 cm.
Calice: il calice è gamosepalo e cilindrico, con dentelli acuti. Il colore è rossastro, con striature brune.
Corolla: i petali della corolla sono 5, di colore roseo-violetto, più raramente bianchi. Lunghi 20–25 mm, hanno lembo profondamente suddiviso in 4 lacinie, le mediane generalmente più lunghe delle altre.
Gineceo: gli stili sono 5. Il gineceo è supero e tricarpellare (sincarpico).
Fioritura: fiorisce da maggio ad agosto
Impollinazione: l'impollinazione è prevalentemente entomofila, mediante lepidotteri.
Il frutto è una capsula piriforme deiscente con 5 dentelli.
Geoelemento: tipo corologico “Eurosiberiano” (Eurasib.), proprio delle specie che vivono nelle zone fredde e temperato-fredde dell'Eurasia.
Diffusione: Europa. In Italia è presente in tutte le regioni, ma è rara nell'area mediterranea.
Habitat: frequente nei prati umidi, su terreni concimati, nei pascoli e ai margini dei boschi.
Diffusione altitudinale: 0 - 1600 m s.l.m., raramente 0 – 2100 m s.l.m.
La pianta contiene saponine ed ha scarso valore come foraggio.
Le foglie più tenere della rosetta basale vengono consumate lessate e condite come gli spinaci, ma possono essere utilizzate anche per frittate o come ripieno per i tortelli.
Pæonia (Peonia L., 1753)[1] è l'unico genere appartenente alla famiglia delle Peoniacee (Paeoniaceae (Raf., 1815))[2] ed è costituito da diverse piante perenni a portamento erbaceo o arbustivo, molto apprezzate per le notevoli e profumate fioriture.
Le peonie sono erbe o arbusti, alte fino a circa 2 metri ed ancorate al suolo da radici tuberose. Le foglie sono sempre caduche. I fiori sono grandi e molto colorati. Gli stami sono molto numerosi (in alcune specie possono essere più di 200). I frutti contengono semi scuri molto grossi (anche più di 1 cm di diametro).
Le specie più utilizzate come piante ornamentali vengono suddivise in floricoltura in due gruppi distinti:
Peonie erbacee, comprendono le varietà derivate dalla P. officinalis di origine europea, con fiori privi di profumo, portati da steli uniflori, e della P. lactiflora originaria della Siberia, con fiori al profumo di rosa portati da steli multiflori, molto decorativi e con una vasta gamma di colori dal bianco al rosso
Peonie legnose o arboree, originarie della Cina, sono piante piuttosto rustiche, abbastanza facili da coltivare e si adattano molto bene al clima continentale sono anche molto resistenti alla siccità estiva ed esplodono con la loro generosissima fioritura ai primi tepori primaverili, purché si abbia l'accortezza di non potarle drasticamente (vale a dire che le piante non vanno recise "raso terra", cioè senza lasciare ramificazioni munite di gemme "fertili"). Più difficoltà comporta la moltiplicazione per divisione dei cespi radicali, che è sempre un'operazione estremamente delicata e va condotta con la massima cura e nel periodo giusto.
La distribuzione naturale del genere Paeonia si estende in modo frammentato all'intero emisfero boreale: Europa (essenzialmente meridionale e orientale), Nordafrica (molto localizzata), Asia (principalmente Asia Minore, Siberia, Cina, Giappone e Himalaya), Nordamerica solo sul versante Pacifico[2].
Paeonia sp.
Il genere Paeonia attualmente comprende 35 specie[1]:
Paeonia algeriensis Chabert
Paeonia archibaldii Ruksans
Paeonia arietina G.Anderson
Paeonia × baokangensis Z.L.Dai & T.Hong
Paeonia broteri Boiss. & Reut.
Paeonia brownii Douglas ex Hook.
Paeonia californica Nutt.
Paeonia cambessedesii (Willk.) Willk.
Paeonia cathayana D.Y.Hong & K.Y.Pan
Paeonia clusii Stern
Paeonia coriacea Boiss.
Paeonia corsica Sieber ex Tausch
Paeonia daurica Andrews
Paeonia decomposita Hand.-Mazz.
Paeonia delavayi Franch.
Paeonia emodi Royle
Paeonia intermedia C.A.Mey.
Paeonia jishanensis T.Hong & W.Z.Zhao
Paeonia × kayae Özhatay
Paeonia kesrouanensis (J.Thiébaut) J.Thiébaut
Paeonia lactiflora Pall.
Paeonia ludlowii (Stern & G.Taylor) D.Y.Hong
Paeonia mairei H.Lév.
Paeonia × maleevii Kem.-Nath. ex Mordak & Punina
Paeonia mascula (L.) Mill.
Paeonia obovata Maxim.
Paeonia ostii T.Hong & J.X.Zhang
Paeonia parnassica Tzanoud.
Paeonia peregrina Mill.
Paeonia qiui Y.L.Pei & D.Y.Hong
Paeonia rockii (S.G.Haw & Lauener) T.Hong & J.J.Li ex D.Y.Hong
Paeonia sandrae Camarda
Paeonia saueri D.Y.Hong, Xiao Q.Wang & D.M.Zhang
Paeonia × saundersii Stebbins
Paeonia sterniana H.R.Fletcher
Paeonia × suffruticosa Andrews
Paeonia wendelboi Ruksans & Zetterl.
Paeonia × yananensis T.Hong & M.R.Li
Utilizzate come piante ornamentali nei giardini per formare aiuole e macchie fiorite su tappeti erbosi, o in vaso sui terrazzi; le numerose varietà orticole a fiore semplice o doppio dai vari colori, vengono coltivate industrialmente per la produzione del fiore reciso.
Come pianta officinale per le proprietà medicinali.
Cultivar di Paeonia lactiflora.
Sono piante facili da coltivare, gradiscono esposizione in pieno sole o mezz'ombra, suolo ben concimato con sostanze organiche, neutro o leggermente acido, privo di calcare, fresco nei mesi estivi, si giovano di una pacciamatura con letame bovino ben maturo.
Si moltiplicano a fine autunno per divisione dei vecchi cespi, lasciando un occhio per ogni porzione, con fioritura piena dal secondo-terzo anno dall'impianto. L'impianto della peonia va fatto possibilmente in un luogo abbastanza lontano dalle radici di altre piante, in modo da lasciarle uno spazio di crescita sufficiente.
La semina viene poco utilizzata, in quanto richiede lunghi tempi di cure colturali.
Anguillosi fogliare - le foglie attaccate dai nematodi della specie Aphelenchoides olesistus si presentano clorotiche e traslucide, successivamente marciscono o disseccano; le piante colpite hanno fioriture stentate
Muffa grigia - dovuta ad attacchi di funghi come Botrytis paeonia (Oud.) van Beyma o Botrytis cinerea Pers., provocano il marciume dei getti, che imbruniscono e si ricoprono di muffa grigiastra
Saxifraga rotundifolia , nome comune sassifraga a foglia tonda
La Saxifraga rotundifolia può raggiungere un'altezza di 20-50 centimetri (7,9-19,7 pollici). Questa pianta erbacea perenne ha foglie carnose disposte in fitte rosette basali. Sono picciolati (fino a 10 cm), larghi fino a 5 cm, verde scuro, pelosi, semplici, arrotondati o quasi cuoriformi, delimitati da numerose tacche triangolari. Gli steli fiorali sono eretti, pubescenti, ramificati nella parte superiore, portanti strette pannocchie di fiori a forma di stella. Questi fiori hanno cinque petali lanceolati, solitamente bianchi con numerosi piccoli granelli rosa-viola. Fioriscono da aprile ad agosto.
Questa specie è presente nell'Europa centrale e meridionale nella penisola iberica, nelle Alpi e nei Balcani.
Saxifraga rotundifolia preferisce foreste ombrose, umide, scogliere, terreni pietrosi e margini di ruscelli a un'altitudine di 700–2.200 metri (2.300–7.200 piedi) sul livello del mare.
Heuchera sanguinea , chiamata campane di corallo , è una specie di pianta da fiore del genere Heuchera , originaria degli stati americani dell'Arizona e del New Mexico e del Messico settentrionale. [2] Diverse cultivar sono disponibili in commercio.
Nome scientifico: Heuchera sanguinea
Classificazione superiore: Heuchera
Categoria tassonomica: Specie
Photinia × fraseri è un grande arbusto appartenente alla famiglia delle Rosaceae. L'aspetto è arbustivo, compatto, eretto. I fiori sono piccoli, a cinque petali, riuniti in grandi infiorescenze. Fioriscono fine primavera. Le foglie sempreverdi, ovali cuoiose, di colore verde scuro, rosso porpora brillante da giovani. Raggiunge un'altezza di 5 m o più ed un diametro di 5 m. Arbusto resistente al gelo che può sopportare anche una temperatura di -5 °C.
Varietà
Esistono due varietà chiamata: Photinia × fraseri "Birmingham" e Photinia × fraseri "Red Robin" o "Monte Funchal".
Ibrido da giardino, ma ormai introdotto in molte parti dell'Europa e del Mediterraneo in luoghi soleggiati con terreno ben drenato.
Tollera un moderato ombreggiamento. Cresce in tutti i terreni di media fertilità e fortemente drenati. Collocarla in un luogo riparato dai venti freddi ed asciutti dell'inverno. Nella coltivazione in pieno campo partendo da piantine con almeno un anno di precoltivazione in vaso si possono ottenere piante di due metri di altezza nel secondo anno di coltivazione, per raggiungere il suo massimo sviluppo, quattro o cinque metri di altezza nel quarto o quinto anno.
Arbusto che viene apprezzato più per le foglie che per i fiori, che nel periodo primaverile, sono di un colore rosso porpora brillante, molto decorativo.
La silene rigonfia o gonfiata (Silene vulgaris (Moench) Garcke) è una piccola pianta (alta fino a 60–70 cm; massimo 100 cm) perenne e glabra, dai caratteristici fiori chiamati “bubbolini”, appartenente alla famiglia delle Caryophyllaceae.
Il genere Silene è molto vasto: comprende oltre 300 specie; per lo più erbacee, annue, bienni o perenni. Di queste in Italia se contano almeno una sessantina spontanee. La specie presenta una grande variabilità di caratteri. Le moderne classificazioni ne individuano diverse sottospecie che si differenziano per la dimensione, il portamento e le foglie (che possono essere pubescenti o glabre, oppure dentellate o intere, oppure cigliate).
Dato il carattere polimorfo della pianta si sono creati nel tempo anche diversi sinonimi.
Il nome del genere (Silene) si riferisce alla forma del palloncino del fiore. Si racconta che Bacco avesse un compagno di nome Sileno con una gran pancia rotonda. Ma probabilmente questo nome è anche connesso con la parola greca “sialon” (= saliva); un riferimento alla sostanza bianca attaccaticcia secreta dal fusto di molte specie del genere.
Morfologia
La forma biologica di questa pianta è emicriptofita scaposa (H scap): pianta perennante per mezzo di gemme al suolo (emicriptofita), e con asse fiorale più o meno privo di foglie (scaposa).
La pianta possiede una struttura radicale rizomatosa a base lignificata. Possiede anche diverse radici (e radichette) secondarie da rizoma.
Il fusto ha un aspetto erbaceo ma ascendente ed eretto. Può essere glabro o leggermente pubescente. Nella parte alta il fusto è in qualche caso vischioso.
Le foglie sono del tipo ovate o lineari – lanceolate (non molto strette). Il colore è verde con riflessi bluastri (ma in altre varietà verde – cenere).
Foglie basali: hanno un piccolo picciolo e formano una rosetta.
Foglie cauline: sono sessili a disposizione opposta nei nodi lungo il fusto.
L'infiorescenza è di tipo lasso a pannocchia con fiori penduli su peduncoli flessuosi lunghi 5 – 15 mm.
In particolare l'infiorescenza viene definita come bipara ossia i fiori crescono da ambo i lati rispetto al fiore apicale con 3 – 9 fiori totali.
I fiori sono ermafroditi ( dioici o poligami) e pentameri.
Calice: il calice ha una caratteristica forma a palloncino ovoidale (lungo il doppio rispetto alla larghezza) sinsepalo (= gamosepalo; ossia i sepali sono fusi insieme) a volte definito anche “monosepalo”; il colore può essere verde pallido o rosa – biancastro tendente al bruno chiaro. Sulla superficie rigonfia sono presenti 20 evidenti nervature longitudinali, collegate da altre nervature trasversali più brevi e meno evidenti e meno precise. Il calice contiene interamente sia l'ovario che la capsula fruttifera da qui la sua particolare struttura rigonfia. Sul calice sono inoltre presenti dei denti terminali lunghi 1/6 del calice. Questi denti sono papillosi e pubescenti. Questa struttura è persistente.
Corolla: i petali della corolla sono 5 di colore bianco o rosa chiaro. Terminano con una unghia sporgente dal calice lunga quanto il calice stesso. L'unghia è completamente divisa (bilobata) in due lacinie subspatolate o oblanceolate a disposizione patente. Dimensioni dell'unghia: larghezza 3 mm; lunghezza 8 mm.
Gineceo: gli stili sono 3 (anche questi sporgono dal calice) con stimmi lievemente pubescenti. Il gineceo è supero e tricarpellare ( sincarpico).
Fioritura: fiorisce da Maggio a Settembre
Impollinazione: vento, api, farfalle soprattutto notturne. La particolare forma del fiore a palloncino con imboccatura stretta è di difficile accesso agli insetti più grossi come i calabroni (pur tuttavia alcuni di questi hanno trovato il modo di bucare la parte bassa del fiore per accedere al suo nettare) per cui il fiore per facilitare l'impollinazione rimane aperto fino ad ore tarde per favorire gli insetti notturni più piccoli.
Il frutto è una capsula globoso–piriforme compresa col calice persistente e con una corona di denti (in numero di 6) apicali. La capsula alla fruttificazione è lunga tre volte il carpoforo (piccolo peduncolo basale che sostiene la capsula – vedi illustrazione qui sotto). Il frutto è del tipo deiscente nella parte alta con molti semi.
Calice con stami e stili sporgenti
Nervature del calice
Capsula e carpoforo
Infiorescenza bipara
Parte persistente della pianta
Distribuzione e habitat
Geoelemento: il tipo corologico di Silene vulgaris è definito come “Euroasiatico” (Eurasiat. ) quindi di provenienza dalle zone freddo - temperate dell'emisfero boreale. È da notare che data la vastità dell'areale di questa pianta (con le sue molte varietà) alcuni autori considerano il geoelemento come “Paleotemperato” (Paleotemp. ), quasi subcosmopolita (presente cioè in quasi tutte le parti del mondo).
Distribuzione: la pianta è presente in Europa, Asia, Africa settentrionale, America meridionale. In Italia è comune in tutte le regioni.
Habitat: è possibile trovarla nei prati, arbusteti, boschi radi e margini dei sentieri. La pianta è sinantropa e nitrofila, è frequente quindi la sua presenza in zone ruderali ricche di azoto, o anche nei prati fertili concimati e antropizzati. In alcuni casi può essere considerata erba infestante.
Molto ricercata in gastronomia (con il nome di grisol, strigoli, stridoli, strigioli, carletti, strisci, scrissioi, s-ciopit o sclopit, zimole, s-ciopetin, verzulì, cuiet o versèt in Veneto e nell'Appennino Umbro Marchigiano meglio noti come concigli), fra le migliori erbe commestibili, ma solo prima della fioritura, poi le foglie basali diventano troppo coriacee. Si mangiano sia crude, sia cotte (come gli spinaci), in risotti, minestre, ripieni, ravioli e frittate: hanno un sapore dolce e delicato.[1]
L'industria dalla pianta ricava saponi.
A Galeata, nell'Appennino forlivese, si tiene ogni anno una tradizionale Sagra dello stridolo, dedicata ai piatti tipici cucinati con la silene. Nel forlivese, infatti, quest'erba, è chiamata stridolo, a causa del caratteristico rumore che produce allo sfregamento, percepito come uno stridìo.
Aquilegia vulgaris (L., 1753), comunemente nota come aquilegia comune, è una pianta appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, originaria dell'Europa
L'origine del nome del genere (aquilegia) non è chiaro. Potrebbe derivare da Aquilegium (cisterna) o Acquam legere (raccoglitore d'acqua) per la forma particolare che ha la foglia nel raccogliere l'acqua piovana; come anche da aquilina (piccola aquila) a somiglianza dei rostri dell'aquila. Resta comunque il fatto che il primo ad usare tale nome sia stato il Tragus (altro botanico del 1600), e quindi il Tournefort (Joseph Pitton de Tournefort 1656 - 1708, botanico francese) e definitivamente Linneo che nel 1735 sistemò il genere nella sua Polyandria pentagyna.
L'epiteto specifico vulgaris deriva dal latino e significa "comune", ad indicare l'ampia diffusione di questa specie.
È una pianta erbacea perenne che raggiunge 1,2 m di altezza. Fusto eretto, glabro o pubescente ramificato; foglie basali peduncolate suddivise in tre elementi a forma di ventaglio con lobi arrotondati; foglie cauline progressivamente ridotte, le superiori costituite da tre elementi lanceolati. Fiori azzurro-violetti penduli grandi, con speroni ritorti ad uncino. Sepali simili ai petali e una corolla di 5 petali. al centro della corolla spunta un ciuffetto di antere di colore giallo vivace, sorrette da filamenti allungati.
Pianta comune, fiorisce da Giugno ad Agosto nelle radure ed ai margini dei boschi da 600 a 1800 m.
Nell'erboristeria tradizionale, l'Aquilegia era considerata sacra a Venere, poiché si credeva che un mazzetto avrebbe suscitato l'affetto di una persona cara. Nicholas Culpeper la raccomandava per alleviare i dolori del parto. Nella moderna erboristeria è utilizzata come astringente e diuretico.
Varie parti della pianta sono state usate in passato contro la diarrea, per aumentare la sudorazione, per aiutare durante il parto e per alleviare i reumatismi.
L'aquilegia venne rappresentata nei suoi quadri da Leonardo da Vinci con significati simbolici[4] in quanto era considerata una pianta androgina.
Pelargonium (L'Hér., 1789) è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Geraniaceae, originario dell'Africa meridionale[
Il genere Pelargonium include al suo interno oltre 280 specie. Le più conosciute e comunemente coltivate sono Pelargonium zonale o geranio comune dal fogliame peloso e cuoriforme caratterizzato da un anello scuro; Pelargonium peltatum o geranio edera con foglie peltate lucide e carnose, fusti ricadenti; Pelargonium grandiflorum o geranio a farfalla dagli eleganti fiori con cinque macchie bruno-rossastre e foglie profondamente lobate; Pelargonium odoratissimum o geranio odoroso con piccole foglie frastagliate e aromatiche, fiori piccoli bianchi o rosei dal caratteristico profumo di mela; Pelargonium graveolens dal profumo di rosa; Pelargonium radens dal profumo di limone.
I gerani maggiormente coltivati sono quelli zonali e edera: ne sono state selezionate numerose varietà dalle diverse colorazioni dei fiori, che variano dal rosso, al rosa, al violetto, al fucsia, all'arancione e al bianco.
Nell'aromaterapia viene utilizzato per la sua proprietà riequilibratrice del sistema nervoso, antidepressiva, antinfiammatoria, lenitiva, astringente e antisettica. Tra le sue funzioni vi è anche quella di stimolatore del sistema linfatico, di tonificante per il fegato e per i reni.[2]
Tra i suoi principali utilizzi vi è la cura di acne, bruciature, vesciche, eczema, artrite, nevralgia, mal di gola.
Ama le posizioni soleggiate, anche se vive abbastanza bene in mezz'ombra: durante l'estate, infatti, una prolungata esposizione al sole può deteriorare la pianta. Le innaffiature devono essere regolari per tutta la stagione riproduttiva: in primavera si annaffia circa tre volte alla settimana, a seconda delle condizioni climatiche locali, mentre d'estate anche tutti i giorni; tuttavia, non bisogna eccedere, perché troppa acqua potrebbe apportare dei marciumi alla pianta; inoltre, bisogna aver cura di non bagnare le foglie. Necessarie per ottenere una splendida fioritura sono le concimazioni, che vanno effettuate ogni 2 settimane circa. Quando i fiori cominciano a seccare è necessario cimarli, tagliando fino alla base del rametto fiorifero: in questo modo, la pianta continuerà a rifiorire[3].
La moltiplicazione avviene per talea nel periodo tardo primaverile.
Il Pelargonium crispum (il "pelargonium dalle foglie croccanti" ) è unaspecie di Pelargonium originaria della provincia del Capo Occidentale , in Sudafrica . È nel sottogenere Pelargonium insieme a Pelargonium graveolens e Pelargonium capitatum e Pelargonium tomentosum .
Il Pelargonium crispum è una specie piuttosto grande, arbustiva e ramificata, che cresce fino a 70 cm di altezza. Le foglie sono generalmente disposte lungo gli steli in due file opposte ( disposizione distica ).
Le foglie sono piccole (diametro 10 mm), verdi, profumate di limone, a forma di ventaglio e hanno bordi distintamente croccanti (increspati o ondulati) .
I piccoli fiori (25 x 5-8 mm), dal bianco al rosa, compaiono in primavera-estate, in piccoli gruppi o da soli, su brevi pedicelli. [1] [2]
"Pelargonium" deriva dal greco ( "pelargos" che significa " cicogna ", e un altro nome per i pelargonium è "storksbills" per la forma del loro frutto). "Crispum" si riferisce ai margini delle foglie croccanti e increspati.
Esistono molte cultivar e ibridi di Pelargonium crispum poiché si ibrida facilmente con altre specie del sottogenere Pelargonium . Queste cultivar e ibridi includono:
Pelargonium × nervosum - Un ibrido profumato di lime tra P. crispum e un'altra specie (forse P. principissae [3] secondo Robert Sweet (botanico) ). [4] P. × nervosum è leggermente peloso e ha fiori rosa intenso. Una varietà di P. × nervosum è P. × torrento o 'Cola Bottles'. Questa varietà ha un leggero odore di zenzero o cola e di agrumi.
Pelargonium × melissinum - La melissa pelargonium (melissa - Melissa officinalis ). Questo è un ibrido tra P. crispum e Pelargonium graveolens .
Pelargonium × citriodorum (sinonimo - 'Prince of Orange') - Un pelargonium profumato all'arancia. Un ibrido tra P. crispum e P. × limoneum con piccoli fiori rosa pallido.
Pelargonium crispum 'Cy's Sunburst' - Una varietà piccola e compatta con piccole foglie gialle variegate e fiori rosa. Ha un profumo di limone molto forte. P. Cy's Sunburst è stato allevato con il plantman americano; Cyrus Hyde e compare nel catalogo del suo vivaio. [5]
Pelargonium crispum 'variegatum' (sinonimo - 'Prince Rupert') - Una varietà con foglie argentate variegate.
Pelargonium crispum 'Peaches and Cream' - Una varietà di foglie profumate distintamente di pesca.
Pelargonium 'Poquita' - Varietà profumata di pompelmo dell'ibrido P. × nervosum .
Pelargonium × limoneum - Un ibrido con parentela incerta ma crispum è quasi certamente una pianta madre. Ha foglie piccole dentate e fiori magenta piuttosto grandi. Ha un profumo di limone/lime/rosa/fragola/cannella; persone diverse rilevano odori diversi, ma sicuramente ha un odore di agrumi.
Pelargonium 'Lady Scarborough' - Una cultivar molto popolare che profuma di fragole mature. Ha foglie molto simili a P. × limoneum con fiori rosa pallido e venature rosse nelle foglie che si verificano quando le foglie invecchiano. Si presumeva che appartenesse al gruppo crispum , ma questo non è certo. Arthur Tucker dice che è simile a P. englerianum .
Nota: la maggior parte degli Angel Pelargonium sono incroci tra un pelargonium regale e un Pelargonium crispum .
Questa specie si trova nella provincia del Capo occidentale , in Sudafrica , tra Worcester a nord e Bredasdorp a sud, nonché verso est nella regione del Little Karoo .
Si trova in terreni rocciosi e sabbiosi sui pendii più bassi, nei fynbos proteoidi aridi e nella vegetazione renosterveld . [6]
La malvarosa (Alcea rosea L., 1753) è una pianta ornamentale della famiglia delle Malvacee.
Presenta grandi foglie alterne ovato-lobate, bollose. Il fusto, di portamento eretto, e le foglie sono ricoperti d'una fitta peluria che rende la pianta ispida al tatto. I fiori sono ascellari, con colori dal bianco al rosa al rosso, anche screziati. Esistono inoltre varietà viola, blu e quasi nere. È pianta rustica dal vigoroso sviluppo, capace di vegetare allo stato selvatico anche in condizioni estreme (bordo strada, terreni aridi).
In letteratura è descritta variamente come pianta annuale[2] o biennale[3] e la ripresa vegetativa della pianta nel medesimo sito è attribuita ad auto-semina. Altrove[4], in accordo con quanto riporta l'esperienza dei coltivatori[5] (soprattutto se si è lasciato sviluppare il fittone radicale senza molestare la rosetta basale), la pianta è descritta come perenne.
Presenta un accrescimento molto rapido in primavera-estate, periodo in cui dalla rosetta basale si slanciano uno o più fusti verticali recanti le infiorescenze i quali raggiungono rapidamente l'altezza di 1,5 - 2,5 m o più. La fioritura perdura fino ad inizio autunno. Ai primi freddi invernali i fusti si disseccano e la pianta si riduce ad un basso (20 - 30 cm) cespo globoso di caratteristiche camefite, forma sotto la quale la pianta sverna allo stato di sempreverde.
La radice della pianta è un fittone carnoso bianco; si insinua facilmente a grandi profondità (circa 1 m) anche in terreni compatti e sassosi, ed ha numerose indicazioni farmacologiche.
Alcea rosea è coltivata prevalentemente in giardini informali dall'aspetto naturale; particolarmente, considerata la mole dei fusti, come ultima fila delle bordure. La propagazione della pianta è effettuata usualmente tramite semi, i quali hanno fertilità ottima, al punto che il fenomeno dell'auto-semina è d'osservazione frequente in natura. La semina può essere effettuata in autunno nei climi temperati o preferenzialmente in primavera nei climi rigidi. Una pianta germinata da seme può portare fiori di colore differente da quello della pianta madre. Una volta sviluppato il fittone radicale, l'Alcea rosea è pianta molto frugale, con buona tolleranza ai climi rigidi. Non necessita d'irrigazione se non come soccorso in stagioni eccezionalmente siccitose; teme anzi i terreni umidi.
A causa del profondo sviluppo del fittone, che rende pressoché impossibile effettuare uno scavo di profondità tale da estrarlo senza provocarne la rottura, la pianta soffre molto il trapianto. Per la stessa ragione risulta inusuale la coltivazione in vaso; è pratica comune la semina in terreno aperto, in luogo da cui è prevedibile che la pianta non dovrà essere successivamente spostata.
Viene facilmente attaccata dalla ruggine fogliare (Puccinia malvacearum), che può essere combattuta con fungicidi.
Usi
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico.
Il fittone radicale di Alcea rosea ha un uso farmacologico di protezione delle mucose. La raccolta della radice avviene in autunno da piante di due anni d'età: viene tagliata in bastoncini di max 20 cm, decorticata e seccata a 40 °C. Le radici vengono vendute anche sotto forma di estratti secchi, sciroppi e pastiglie.[6] Gli zuccheri mucillaginosi di cui le radici sono ricche, composti principalmente da acido glucuronico, acido galatturonico, ramnosio e galattosio[7], a contatto con l'umidità si convertono in un soffice gel che viene utilizzato per proteggere la faringe dagli elementi irritanti e nel trattamento della tosse secca.
Possiede inoltre proprietà immunomodulanti: ricerche indicano che si comporta come un attivatore policlonale dei linfociti B.[8]
I fiori mostrano anche proprietà antinfiammatorie ed analgesiche[9]; l'estratto acquoso sembra possedere capacità di stimolare il metabolismo degli steroidi[10] senza modificare però le caratteristiche della steroidogenesi dei ratti studiati.[11]
Si è infine trovato negli estratti di Alcea la presenza di polifenoli con deboli attività antiestrogeniche dovute al blocco dell'aromatasi quali la quercetina e il kaempferolo.[12]
Vari composti fenolici acidi sono stati isolati; tra essi: acido ferulico, acido vanilico, acido siringico, acido p-cumarico, acido p-idrossibenzoico, acido idossifenilacetico e acido caffeico.[13]
Tra le proprietà fitoterapiche più importanti vanta:[14]
Azione inibente l'aromatasi,
Azione astringente,
Studi indicano che l'Altea si possa comportare come un possibile depuratore biologico di metalli pesanti nei terreni contaminati.[15][16][17]
La pianta è visitata dalle api per il polline ed il nettare.[18]
La robinia è una pianta avente i rami sparsi, a rapida crescita, alta fino a 25m.
TRONCO.
Il tronco è eretto e i ramuli sono fortemente spinosi, con spine appaiate. La corteccia è grigio bruna, solcata, a liste variamente incrociate. La radice è grossa, serpiginante stolonifera.
FOGLIAME.
Deciduo
FOGLIE.
Le foglie sono alterne, imparipennate, lunghe 20-30 cm, con 9-19 foglioline ellittiche sottili, queste di 3-5 cm, opposte, a margine intero. Picciolo con due robuste spine alla base (stipole trasformate). La fogliazione è tardiva.
FIORI.
Infiorescenze a grappoli di 10-20 cm, formate da 15-25 fiori papillonati bianchi, profumati. La fioritura avviene a maggio giugno.
FRUTTI.
Legumi pendenti, bruni, di 5-10cm, che restano sulla pianta fino all'inverno. All'interno vi sono 4-10 semi bruni.
NOTE.
In Italia la robinia ha sostituito gran parte dei boschi originali. Il suo habitat è costituito dalla pianura e dalla collina. Cresce su suoli freschi e ricchi di nutrienti, così come su suoli poveri e aridi. Non ama i luoghi troppo umidi ed ha bisogno di parecchia luce. Radicando molto intensamente, è indicata per il consolidamento del terreno.
La robinia, mediante i batteri radicali, è in grado di legare l'azoto atmosferico. La lettiera di foglie, assai ricca d'azoto, esercita un'azione di rivitalizzazione del suolo.
Le robinie sono velenose e le sue parti vanno quindi usate con prudenza. I fiori sono usati talvolta in cucina, per preparare dolci e infusi; l'acacia è inoltre eccellente pianta mellifera e il miele risulta pregiato poiché non cristallizza con il tempo. I semi sono molto duri e si usano per rosari e collane.
PROPRIETÀ MEDICINALI
La corteccia ha proprietà emetiche, le foglie colagoghe ed emetiche, i fiori lassative e antispasmodiche.
Rosa
Rosa L., 1753 è un genere della famiglia delle Rosacee che comprende circa 150 specie, originarie dell'Europa e dell'Asia.
Comprende specie cespugliose, sarmentose, rampicanti, striscianti, arbusti e alberelli a fiore grande o piccolo, a mazzetti, pannocchie o solitari, semplici o doppi, frutti ad achenio contenuti in un falso frutto (cinorrodo); le specie spontanee in Italia sono oltre 30, di cui ricordiamo la R. canina (la più comune), la R. gallica (poco comune nelle brughiere e luoghi sassosi), la R. glauca (frequente sulle Alpi), la R. pendulina (comune sulle Alpi e l'Appennino settentrionale) e la R. sempervirens.
Il nome generico deriva dal latino rosa, con tradizione dotta o semidotta (assenza di dittongo ascendente -uo- e pronuncia sonora della -s- anche nella parlata toscana), forse perché la tradizione della coltivazione di rose si era interrotta nell'Alto Medioevo ed era iniziata di nuovo in età carolingia[1]. Il latino rosa non è di origine indoeuropea, anche se ci sono collegamenti con il greco antico Ϝρόδον wródon e l'iranico *wr̻d- (cfr. persiano gul)[2], da cui[3] l'armeno vard[2]. È probabile un'origine mediterranea della parola[2], da una forma approssimativa wr(o)d(ya)-[3]. Rosa è poi passato al celtico insulare (irlandese rós) e al germanico (anglosassone róse, alto tedesco antico rosa)[1].
Rose botaniche
Rose che crescono spontanee, quasi sempre non rifiorenti. Producono molti polloni dando vita a cespugli aggrovigliati, con rami lunghi e flessibili. I fiori sono nelle tonalità del bianco e del rosa, solo nelle Foetida possono essere anche gialli.[4] Tra le specie più note:
Rose antiche
Rosa alba "Maiden's Blush" (1400)
Rosa bifera "Quatre Saisons Continue". (prima del 1633)
Rosa Lanchester 'Rose de Rescht', (prima del 1840 - Iran o Persia)
Rosa rubiginosa.
Le rose antiche vengono classificate in base a parametri storici, botanici e genetici, con talvolta risultati discordanti a causa dell'origine spesso incerta. Le denominazioni indicate per i gruppi sono quelle utilizzate da Edward A. Bunyard in Old Garden Roses, del 1978, mentre tra parentesi è indicato il nome della specie capostipite[5]. I colori delle rose antiche vanno dal bianco a tutte le tonalità di rosa, fino al cremisi e violetto. Spesso la fioritura è unica, ma opulenta.
Rosa Alba (R. alba)
Rosa Ayrshire (R. arvensis)
Rosa Banksian (R. banksiae)
Rosa Bourbon (R. bourboniana)
Rosa Boursault (R. pendulina x R. chinensis)
Rosa Burnet (R. spinosissima)
Rosa Centifolia (R. centifolia)
Rosa Chinensis (R. chinensis)
Rosa Damask o Damasco (R. × damascena)
Rosa Sempervirens (R. sempervirens)
Rosa Microphylla (R. microphylla)
Rosa Muscosa o Moss (R. centifolia muscosa)
Rosa Muschiata (R. moschata)
Rosa Noisette (R. moschata x R. chinensis)
Rosa Persian (R. hemispherica, R. foetida, R. × harrisonii)
Rosa Polyantha (R. multiflora)
Rosa Portland (R. portlandica)
Rosa Praire (R. setigera)
Rosa Sweet Briar (R. rubiginosa)
Rosa Rugosa (R. rugosa)
Rosa Tea (R. tea)
Rose moderne
1867: nasce la prima «rosa moderna», il primo Ibrido di Tea, 'La France'; questa data si considera, per convenzione, una sorta di spartiacque tra le rose antiche e quelle moderne.[6] I colori delle rose moderne abbracciano tutti quelli dello spettro, tranne il blu scuro[7]. La rifiorenza di solito è prolungata fino all'autunno inoltrato.
Rose a cespuglio
Rose ad alberello
Rose arbustive
Ibridi di Tea e Floribunde
Rose nostalgiche
Rose miniatura
Rose rampicanti
Rose inglesi
Rose tappezzanti
Rose sarmentose
Arbusto
Cespuglio
Rampicante
Sarmentoso
Tappezzante
Piatta: fiore aperto, singolo o semidoppio, con petali appiattiti.
A forma di coppa: fiore aperto, da singolo a completamente doppio, con petali ricurvi verso l'alto.
A punta: fiori semidoppi o completamente doppi e consistenti, appuntiti, tipici della rosa Tea.
A forma di vaso: da semidoppi a completamente doppi, con apice appiattito e petali incurvati.
A rosetta: fiori appiattiti, doppi o completamente doppi, con molti petali disposti in modo disordinato.
A quarti di rosetta: fiori appiattiti, doppi o completamente doppi, con petali disposti in quattro settori.
A coppa profonda. Fiori doppi o completamente doppi, con petali grandi sovrapposti a forma di boccia.
A pompon: fiori piccoli e rotondi, doppi o completamente doppi, con piccoli petali.
Il cinorrodo della rosa è chiamato anche frutto, ma in realtà si tratta di un falso frutto, poiché deriva dall'ingrossamento del ricettacolo del fiore invece che dall'ovario. I veri frutti della rosa sono gli acheni, contenuti all'interno del cinorrodo.[8] I cinorrodi, con forme, dimensioni e colori anche molto diversi da una specie all'altra, sono un elemento distintivo dal valore ornamentale.
Rosa canina
Rosa spinosissima
Rosa rugosa
Rosa rubiginosa
Rosa californica
Rosa pinpinellifolia
Le spine, o aculei, possono avere forme e colori diversi a seconda della varietà e dell'età.
Rosa canina
Rosa rubiginosa
Rosa rugosa
Rosa sericea omeiensis pteracantha
Rosa spinosissima
Ibrido di tea
Come pianta ornamentale nei giardini, per macchie di colore, bordure, alberelli, le sarmentose o rampicanti per ricoprire pergolati, tralicci o recinzioni, le specie nane dalle tinte brillanti e con fioriture prolungate per la coltivazione in vaso sui terrazzi o nei giardini rocciosi.
Industrialmente si coltivano le varietà a fusti eretti e fiori grandi, per la produzione del fiore reciso, che occupa in Italia circa 800 ettari, localizzati per oltre la metà in Liguria, il resto in Toscana, Campania e Puglia.
I petali vengono utilizzati per le proprietà medicinali, per l'estrazione dell'essenza di Rosa e degli aromi utilizzati in profumeria, nell'industria essenziera, nella cosmetica, pasticceria e liquoristica. È una delle basi immancabili più utilizzate in profumeria.
Come pianta medicinale si utilizzano oltre ai petali con proprietà astringenti, anche le foglie come antidiarroico, i frutti ricchi di vitamina C diuretici, sedativi, astringenti e vermifughi, i semi per l'azione antielmintica, e perfino le galle prodotte dagli insetti del genere Cynips ricche di tannini per le proprietà diuretiche e sudorifere.
In aromaterapia vengono attribuite all'olio di rosa proprietà afrodisiache, sedative, antidepressive, antidolorifiche, antisettiche, toniche del cuore, dello stomaco, del fegato, regolatrici del ciclo mestruale.[9]
Sono vari gli utilizzi delle rose in cucina, sia come elemento decorativo che come alimento, ma è importante che le piante non siano state trattate chimicamente. Ad esempio, le giovani foglie delle rose spontanee servono per la preparazione di un tè di rosa, i petali possono essere consumati in insalata, i frutti della rosa sono impiegati nella preparazione di confetture.
La rosa di Damasco[1][2] (rosa × damascena), anche nota come rosa di Castiglia, è una rosa ibrida derivata dalla rosa gallica,[3] dalla rosa moschata[3] e dalla rosa fedtschenkoana.[4]
I fiori sono rinomati per il loro profumo e vengono utilizzati in profumeria per la fabbricazione dell'olio di rosa e l' acqua di rose I petali della rosa di Damasco sono commestibili: possono infatti essere usati per aromatizzare il cibo, come guarnizione e utilizzati per la preparazione di tisane. La rosa di Damasco viene anche usata per la preparazione del gulkand.
La rosa × damascena è un fiore coltivato e che non si trova più allo stadio selvaggio. Sebbene la tradizione faccia provenire il fiore dal Medio Oriente, test genetici indicano che essa si tratta in realtà di un ibrido di rosa moschata incrociata con il polline della specie fedtschenkoana. Si presume pertanto che l'origine del fiore sia da rintracciare nell'area pedemontana dell'Asia centrale.[5]
Alcuni ritengono che la rosa damascena fu portata dalla Siria all'Europa grazie al crociato francese Roberto I di Dreux, che prese parte all'assedio di Damasco del 1148 durante la seconda crociata. Il nome della rosa si riferisce all'omonima città siriana, nota per il suo acciaio, i tessuti e le rose.
Altri resoconti riportano invece che furono gli antichi romani a esportare la rosa presso le loro colonie in Inghilterra. Qualcuno riporta che il medico del re Enrico VIII donò al sovrano una rosa di Damasco intorno al 1540.[6]
La rosa di Damasco è un arbusto dall'aspetto informale a foglie decidue che può raggiungere un'altezza pari a 2,2 metri. I suoi fusti sono ricoperti da spine robuste e curve e da setole rigide. Le foglie sono pennate, con cinque (raramente sette) foglioline. Le rose hanno una colorazione che spazia dal rosa chiaro al rosso chiaro e i suoi fiori, di dimensioni relativamente piccole, crescono in gruppi.
Esistono due principali varietà di rosa di Damasco:[3]
R. × damascena nothovar, damascena – ha una breve stagione di fioritura e perdura solo in estate.
R. × damascena nothovar, semperflorens – ha una stagione di fioritura più lunga, che si estende fino all'autunno.
Quella di Damasco ha assunto un posto di rilievo fra le rose da giardino e da essa provengono altri tipi di rosa fra cui la rosa di Ispahan, l'ibrida rosa × centifolia, così come la rosa di Bourbon, quella di Portland e quelle ibride perpetue. La cultivar conosciuta come Rosa gallica trigintipetala o Rosa damascena Trigintipetala è considerata un sinonimo di Rosa × damascena.[7] Esiste anche la varietà semi-doppia a fioritura conosciuta come celsiana.
Uso culinario
Nelle culture persiane, mediorientali e indiane le rose di Damasco costituiscono una spezia e un ingrediente aromatico e vengono usate per la preparazione di vari alimenti fra cui l'acqua di rose, usata per condire la carne, il cosiddetto ras el hanout marocchino e la polvere di rose, che serve a insaporire le salse. Fra i piatti a base di rosa si possono citare il pollo alla rosa della cucina persiana, il lokum, il tè zuhurat, la confettura di rose, nonché diversi tipi di latticini fra cui yogurt, gelati e il risolatte alla rosa.
Jasminum L. è un genere di piante (che include varie specie del gelsomino) appartenente alla famiglia Oleaceae.[1]
Comprende circa 200 specie arbustive e rampicanti alte fino a 4-6 metri, tra cui le più note e coltivate come piante ornamentali sono il Gelsomino comune, il Gelsomino di Spagna, il Gelsomino trifogliato e il Gelsomino marzolino; specie più rustiche, a fiore giallo e fioritura a fine inverno sui rami nudi, sono il Gelsomino di san Giuseppe e il Gelsomino primulino.
I fiori sono comunemente piccoli e di colore bianco, però esistono anche specie i cui fiori hanno sfumature di rosa sulla pagina inferiore dei petali.
Con il termine gelsomino ci si può riferire anche a piante di altre famiglie e generi quali:
gelsomino rampicante o gelsomino sempreverde, detto anche "falso gelsomino": Trachelospermum jasminoides
gelsomino notturno (Cestrum nocturnum): della famiglia delle Solanaceae
Le specie più commercializzate sono:
Jasminum officinale; originario dell'Iran, della Cina e dell'India; noto come 'gelsomino comune', pianta rampicante con piccoli fiori bianchi, con un odore caratteristico, resiste bene al gelo e in alcune zone dell'Italia, si trova rinselvatichito allo stato spontaneo.
Jasminum grandiflorum originario dal Nepal e noto come 'gelsomino di Spagna' (Catalugno) o 'gelsomino di Sicilia'[2] a foglie persistenti e fiori grandi che sbocciano dalla primavera all'autunno, e nelle regioni a clima mite anche d'inverno, è una pianta rampicante poco rustica, adatta a climi miti, dove viene utilizzata per ricoprire pergole, muri e recinzioni.
Jasminum azoricum, noto come 'gelsomino trifogliato', viene utilizzato come pianta ornamentale per ricoprire pergole, muri e recinzioni.
Jasminum polyanthum, originario della Cina, noto come 'gelsomino bianco', pianta rampicante vigorosa e rustica, alta fino a 6 m se coltivato in piena terra, che d'inverno e in primavera produce numerosi grappoli di fiori bianchi esternamente rosati, profumati.
Jasminum nudiflorum (gelsomino di San Giuseppe)[3] e il Jasminum primulinum originari della Cina, a fiori gialli non profumati, piante sarmentose, dalle lunghe ramificazioni pendule, con fiori ascellari che sbocciano a fine inverno inizio primavera.
Jasminum sambac, noto come 'gelsomino d'Arabia', può raggiungere i 3–4 m di altezza. Fiorisce dall'inizio dell'estate fino all'inizio dell'autunno (giugno-ottobre), producendo numerosissimi fiori bianchi particolarmente profumati.
Fiore
Oggi il genere Jasminum è utilizzato a scopi ornamentali, in piena terra nei giardini, come arbusti isolati o per rivestire muri, recinzioni e pergolati. Un tempo si credeva avesse innumerevoli virtù officinali. Il famoso olio di gelsomino, che i Persiani offrivano agli invitati nei banchetti, si arricchisce da Dioscoride a Linneo d'una quantità di potenzialità terapeutiche legate alla sessualità. Per quanto lo Jasminum officinalis d'origine persiana fosse noto anche agli antichi Greci e Romani, il primo a coltivarlo davvero in Italia fu Cosimo I de Medici, che naturalmente ne aveva proibito la diffusione fuori dai giardini granducali[1][4]; l'Inghilterra dovrà addirittura aspettare il 1730, quando riceverà una pianta dal Malabar.
Nel frattempo si era diffuso anche lo Jasminum sambac di più facile coltura, che resta tranquillamente all'aperto nelle zone temperate. Ecco dunque coltivazioni industriali in Calabria e Sicilia (se ne ricavano profumi) ed una discreta presenza in tanti altri giardini italiani.
Nel trapanese è tradizionalmente utilizzata in infuso per una delicata granita, chiamata Scursunera, inserita tra i prodotti agroalimentari tradizionali.
Secondo l'aromaterapia, il profumo di gelsomino sarebbe euforizzante e stimolerebbe direttamente l'ipotalamo a produrre encefaline, sostanze che oltre ad inibire il dolore procurano uno stato di benessere e di felicità. Il gelsomino dissolve le paure e le tensioni legate alla sessualità ed è tradizionalmente usato per curare i disturbi uterini e per facilitare il parto.
Le sue virtù officinali sono tuttavia state smentite dalla farmacopea moderna.
Pur essendo piante rustiche preferiscono posizioni soleggiate, clima fresco e devono essere coltivate in vaso nelle zone a clima sfavorevole; richiedono terreno di medio impasto, sciolto e ben concimato nella bella stagione fino all'autunno e la somministrazione mensile di un fertilizzante liquido[5].
Nelle regioni a clima invernale rigido le specie meno rustiche vengono coltivate in vaso con appositi sostegni circolari, assumendo la forma di piccolo cespuglio alto circa 1 m, utilizzato per decorare terrazzi o appartamenti.
Per i soggetti coltivati in vaso, bisogna rinvasare o negli esemplari più grandi interrare nuovamente in primavera, utilizzando terriccio universale; nella bella stagione si giovano dell'esposizione all'aperto.
La moltiplicazione avviene facilmente per mezzo di talea e propaggine, grazie al rapido radicamento.
Il gelsomino giallo (Jasminum fruticans L.) è una pianta della famiglia delle Oleaceae.
La specie è diffusa lungo le coste mediterranee dell'Europa e del Nordafrica e si spinge ad est attraverso l'Asia occidentale, sino all'Iran.[2]
Fiorisce in primavera e all'inizio dell'estate su terreni asciutti, soleggiati, spesso rocciosi, con una lieve preferenza per il calcare.
È coltivata in terreno secco, per le sue qualità ornamentali.
Clematis (L. 1753) è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, dall'aspetto cespuglioso e con copiose infiorescenze. È un genere cosmopolita, diffuso in tutti i continenti ad eccezione dell'Antartide[1]. Il nome di questo genere (Clematis) viene normalmente attribuito a Dioscoride e deriva dalla radice greca klema (= “viticcio” o anche =“pianta volubile” o anche ="legno flessibile")[2].
Nella nomenclatura scientifica questo genere è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753.
I dati morfologici si riferiscono soprattutto alle specie europee e in particolare a quelle spontanee italiane.
Queste piante perenni di tipo arbustivo, volubile o rampicante possono essere alte (o lunghe nel caso di specie lianose) fino a diversi metri (10 e più). La forma biologica è suddivisa tra emicriptofite scapose (H scap) oppure fanerofite lianose (P lian) (specie rampicanti). Tutti i loro tessuti, come del resto in altre “ranuncolacee”, sono percorsi da un succo acre.
In genere l'apparato radicale è fascicolato. Alcune specie hanno anche la capacità pollonifera, cioè sono in grado di riprodurre altre piante dalla radice stessa.
Il fusto può essere sia erbaceo che lianoso e quindi legnoso con portamento volubile e rampicante. In questo caso la corteccia è fibrosa e si distacca in lamelle.
Le foglie sono disposte con fillotassi opposta o verticillata. La lamina fogliare è pennato-composta con 3 o più segmenti generalmente impari-pennata (raramente in alcune specie sono anche intere). I segmenti possono essere interi o lobati o dentati, normalmente a forma lanceolata con apice acuto. Le foglie sono picciolate o meno spesso sessili. Nelle zone temperate le foglie sono decidue, mentre le specie dei climi più caldi sono sempreverdi.
Le infiorescenza sono dei racemi corimbosi, ma anche fiori solitari terminali. All'ascella del peduncolo del corimbo sono presenti delle piccole brattee di tipo fogliaceo (che non fanno da involucro), mentre ogni fiore ha un suo pedicello.
I fiori di queste piante sono caratterizzati da una certa assenza di coesione tra i vari organi fiorali. Non esiste una corolla vera e propria e se i petali sono presenti si tratta quasi sempre di organi rudimentali, mentre è il calice colorato che ha la funzione vessillifera (quindi i sepali del calice possono essere indicati come petaloidei)[3]. In questa pianta il perianzio è quindi formato da un solo verticillo di elementi più o meno indifferenziati (perianzio apoclamidato)[4]. I fiori in genere sono bisessuali (ermafroditi) e raramente sono unisessuali; sono attinomorfi e tetrameri (formati cioè da 4 sepali – raramente 5). I colori di varie tonalità sono vivaci e vistosi (verde-giallognolo, rosso, viola o bianco). Emettono un debole profumo lievemente mielato. Questi fiori non producono nettare.
Formula fiorale: per queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
* K 4-8, C 0-molti, A molti, G molti (supero)[5]
Calice: i sepali sono normalmente quattro (raramente 5 - 8), patenti, persistenti e di aspetto petaloide, più o meno separati (dialisepali) e a disposizione valvare (raramente embricata); la forma dei sepali è lanceolata con apice acuto.
Corolla: assente o rudimentale (come nella sezione delle Clematis alpine chiamata Atragene con 10 – 20 lamelle definite staminodi petaloidi)[2].
Androceo: il numero degli stami a disposizione più o meno divergente è indefinito.
Gineceo: il numero dei carpelli è indefinito (da 5 a 150) e sono monospermi (contengono un solo ovulo); gli stili, simili a setole, sono lunghi e persistenti. In queste piante, come in tutti i fiori che sono impollinati ad opera del vento, gli stigmi maturano prima delle antere.
Fioritura: la maggioranza delle specie entrano in fioritura tra maggio e giugno.
I frutti (Clematis vitalba).
I frutti sono costituiti da numerosi acheni riuniti in un capolino. Ogni achenio, fusiforme, con un breve becco è indeiscente e contiene un solo seme. Lo stilo è persistente alla fruttificazione e si trasforma in una piuma lunga e sericea per favorire la disseminazione tramite il vento (disseminazione anemocora). Quest'ultima caratteristica accomuna questo genere a quello degli “anemoni”.
La riproduzione di questa pianta avviene attraverso l'impollinazione del vento (anemofila); comunque questi fiori sono frequentati anche da diversi insetti (api e vespe) per appropriarsi del polline, per cui non è esclusa anche una certa impollinazione di tipo entomofilo.
Le Clematis sono originarie delle zone temperate e temperato-fredde dell'America, Cina, Europa e Siberia. Sono distribuite in entrambi gli emisferi e coltivate particolarmente per l'abbondante fioritura (sono stati prodotti diversi ibridi e cultivar).
Lo stesso argomento in dettaglio: Specie di Clematis.
Il genere Clematis comprende oltre 250 specie[6] (325 secondo alcuni autori[7]), sette delle quali sono spontanee della flora italiana[8], appartenenti sia dell'emisfero boreale che quello australe. La famiglia delle Ranunculaceae invece comprende oltre 2000 specie[6] distribuite su circa 35 generi.
Qui di seguito viene proposta una possibile classificazione scientifica di questo genere tratto da USDA (United States Department of Agriculture)[9]:
Famiglia: Ranunculaceae, definita dal botanico francese Antoine-Laurent de Jussieu (1748 – 1836) nella pubblicazione ”Genera Plantarum, secundum ordines naturales disposita juxta methodum in Horto Regio Parisiensi exaratam“ del 1789[10].
Sottofamiglia: Ranunculoideae, definita dal botanico scozzese George Arnott Walker-Arnott (1799 – 1868) in una pubblicazione del 1832.
Tribù: Anemoneae, definita dal botanico e micologo svizzero Augustin Pyrame de Candolle (1778 – 1841) in una pubblicazione del 1817.
Genere: Clematis L.Sono piante velenose (contiene il glicoside ranunculina): irrita gli occhi e al contatto della pelle può produrre irritazione e vesciche. Le foglie e i fiori hanno un sapore acre che brucia; l'asprezza può essere notevolmente ridotta con l'essiccazione della pianta. Anticamente erano usate dalla medicina popolare per diverse cure. Attualmente alcune specie sono usate nella medicina omeopatica[19].
L'unico impiego che queste piante trovano normalmente è nel giardinaggio. Esistono oltre 1400 cultivar e ibridi[7].
Altre notizie
Le clematidi in Europa e il loro "linguaggio":
Le clematidi, pur essendo presenti da millenni in territorio europeo, comparvero nei nostri giardini soltanto nel medioevo… e proprio al ritorno dei crociati. Probabilmente i coltivatori più o meno professionisti (una bella fetta di terra era una ricompensa ambita per chi si ritirava dalle armi) pensarono di riprodurre con le clematidi nostrane i padiglioni che in Oriente erano realizzati col gelsomino… certo edera e rose, piante nostrane, s'arrampicano bene e resistono al freddo, ma sono anche lente, tenaci e l'edera è addirittura sempreverde! Perfetta per mascherare un vecchio muro o l'ingresso di una cantina, ma del tutto inadatta ad un padiglione estivo, da rimuovere ai primi venti autunnali. La clematide invece è perfetta e fa ombra solo quando serve, cioè nel cuore dell'estate. Così venne coltivata in abbondanza (ne esistono 250 specie) e i contadini presero l'abitudine di tagliarne i rami e adornarne i campi, assicurando che la cosa favoriva i raccolti. In Inghilterra fu soprannominata addirittura “gioia del viandante” perché cresceva libera anche nei boschi e ai margini delle strade. Una curiosità culinaria: i germogli servono a preparare ottime frittate! La clematide alpina, detta anche azzurra, per quanto la tinta tenda a virare verso il violetto, è attualmente una delle più diffuse, perché i montanari furono tra i primi a coltivare questo fiore in giardino, dato che ne usavano le foglie per curare le piaghe di difficile cicatrizzazione, le ulcere e addirittura i tumori ulcerati cutanei, sia degli uomini che degli animali domestici. Troppo amata nel medioevo per non finire sul rogo delle streghe nella cosiddetta età della Ragione! Studiando metodicamente ci si accorse infatti che la pianta appartiene alla famiglia delle ranuncolacee, ed è quindi potenzialmente velenosa. Le clematidi che oggi crescono nei nostri giardini (che più nessuno usa per frittate e men che meno per curare le ferite), provengono tutte dall'America, dalla Siberia, se non addirittura dalla Cina, perché, dopo tre secoli abbondanti d'oblio, furono reintrodotte come piante ornamentali esotiche, esclusivamente per la suggestione dei colori; i fiori, come spesso accade, sono leggermente più grandi di quelli nostrani e oggi si trovano sul mercato anche specie sempreverdi. I mendicanti di Parigi s'accorsero presto che le barbe di vecchio sono urticanti e producono delle escoriazioni che, a prima vista, possono far pensare ad una piaga vera. Questo non giovò alla reputazione della pianta, poveretta, che da “gioia del viandante” fu retrocessa a simbolo d'artificio e menzogna. tratto da: https://web.archive.org/web/20080919222421/http://www.daltramontoallalba.it/archeomitologia/clematidi.htm con autorizzazione dell'autore: Mary Falco
Verbena L. è un genere di piante erbacee annue o perenni della famiglia delle Verbenaceae Si ritiene che il nome di questa pianta derivi dal latino verbenae, che indicava genericamente rametti e sterpi. Ma anche dal celtico ferfaen, da fer (scacciare via) e faen (pietra), infatti la pianta era usata per curare problemi dovuti ai calcoli renali.[2] Veniva usata dalle tribù indiane, da maghi e stregoni per incantesimi e sacrifici agli dèi, per questo veniva chiamata anche erba sacra. La verbena era sacra ad Iside, sacra la ritenevano gli antichi Romani. La pianta era nota per le sue presunte proprietà magiche e afrodisiache. Una leggenda narra che fu utilizzata sul Monte del Calvario per cicatrizzare le ferite di Gesù crocifisso ed ancora oggi, nella liturgia della festività dedicata all'Assunzione di Maria, viene utilizzata per benedire le chiese. La verbena possiede proprietà: antidepressiva, antinevralgica, spasmolitica, febbrifuga, antinfiammatoria; inoltre ha proprietà emollienti e rinfrescanti.[3]
Il fusto è quadrangolare. Le foglie sono per lo più opposte, dentate, alterne e con nervature ben visibili. I fiori hanno un calice a quattro o cinque sepali, parzialmente fusi. La corolla (gamopetala) ha la forma di un tubo allungato con cinque petali non perfettamente uguali. L'androceo è formato da 4 stami inseriti sul tubo corollino. Si presentano dalla primavera all'autunno inoltrato. Il frutto è una capsula con quattro semi.
La maggior parte delle specie del genere sono spontanee nel Nuovo Mondo, dal Canada al Cile. Poche specie sono spontanee nel Vecchio Mondo, più che altro in Europa.
Il genere comprende 124 specie:[
La pianta della Verbena è citata in Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Il protagonista Pinkerton, rivolgendosi alla moglie giapponese Cio-Cio-San, alias Madama Butterfly, l'appella con questi versi: Piccina, mogliettina, olezzo di verbena.
La pianta della verbena è considerata velenosa per i vampiri.
In Spagna, la Verbena è anche una festa di carattere popolare, presente in varie città o paesi.
Nella serie televisiva The Vampire Diaries e in The Originals, la verbena è spesso citata in quanto capace di indebolire i vampiri e non poter essere soggiogati.
Il Canto della Verbena è un canto della città di Siena, intonato sia in ambito paliesco dai contradaioli, sia in ambito sportivo soprattutto dai tifosi della Mens Sana Siena e della Robur Siena, rispettivamente le squadre di basket e calcio della città toscana.
Verbena è il nome della principessa nella favola di Italo Calvino dal titolo La foresta-radice-labirinto edita da Emme Ed. nel 1981 (ora in Romanzi e Racconti, III). Da questa favola Roberto Andò ne ha tratto un adattamento per il teatro delle marionette (La foresta-radice-labirinto, Museo internazionale delle marionette, Palermo 1987).
Il nome Periploca deriva dal greco "peri" = intorno e "plekein" = legare e fa riferimento alla capacità del fusto di avvilupparsi intorno ai tronchi degli alberi creando delle liane[2]. L'epiteto graeca fa riferimento alla sua diffusione nella regione greco-balcanica.
Descrizione
Si tratta di una liana fanerofita caducifoglia con fusti cilindrici, legnosi, rampicanti, che possono raggiungere i 10 m di lunghezza, e che si avvolgono a spira attorno ai tronchi delle specie arboree.
Le foglie sono ovato-oblunghe, ricoperte da una sottile peluria sulla pagina inferiore.
L'infiorescenza è un corimbo che si attacca all'ascella della foglia, composto da fiori pentameri, con petali irsuti, di colore rossastro nella parte superiore, verdastro in quella inferiore.
Distribuzione e habitat
La specie è diffusa nel Mediterraneo nord-orientale.
In Italia è presente in Toscana nel Parco naturale di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli[3], in Puglia (Parco naturale regionale Bosco e paludi di Rauccio, laghi Alimini, Riserva naturale Le Cesine[4]) e in Calabria (boschi di Rosarno, non più ritrovata).[5]
I suoi habitat sono le coste sabbiose, le siepi e i boschi umidi ed ombrosi, fino a 100 m s.l.m.
Principi attivi
La corteccia del fusto contiene il glucoside periplocina.
Il vilucchio marittimo (Calystegia soldanella (L.) R.Br., 1810) è una pianta rampicante della famiglia delle Convolvulacee.[1] Presente ovunque nelle zone litoranee delle fasce temperate del pianeta, è conosciuta localmente con una serie di innumerevoli nomi comuni.
È una pianta erbacea perenne che cresce su suolo sabbioso, tipicamente sulle dune costiere che grazie al lungo rizoma stolonifero, necessario per la ricerca di tracce di umidità, rimane saldamente aggrappata al terreno nel quale è immerso. Adattata per contrastare gli effetti della sabbia trasportata dal vento, è caratterizzata da fusti striscianti, lunghi fino a 50 cm, che si ergono verso l'alto solo nella parte terminale, spesso quasi totalmente ricoperti dalla sabbia circostante, sui quali sono presenti, collegate da un lungo picciolo, foglie sviluppate in larghezza, dal margine crenulato, dalla consistenza coriacea, subcarnosa e a base reniforme, dal colore verde intenso talvolta con sfumature bluastre.[2][3]
L'antesi copre un periodo che va dalla primavera inoltrata fino ad agosto, con i singoli fiori che appassiscono dopo un solo giorno, dalla corolla imbutiforme larga dai 3 ai 5 cm, dal colore rosato sul quale sono presenti da cinque striature longitudinali più chiare. Cresciuti all'ascella delle foglie più sviluppate, solitari o in coppia, collegati da peduncoli dalla lunghezza che va dai 2 ai 6 cm. Caratteristica peculiare della specie è il calice a cinque denti parzialmente avvolto da due scaglie o bratteole papiracee ovate. Ogni apparato riproduttivo consta in un ovario supero con stigma bilobato, attorniato da cinque stami, che una volta fecondato si trasforma in un frutto secco, una capsula settifraga ovoide che a maturità si apre lungo le nervature centrali dei carpelli liberando quattro semi, neri, ricurvi e spigolosi.
Biologia
La forma biologica della pianta è emicriptofita reptante (H rept), cioè è una pianta perennante per mezzo di gemme al suolo (emicriptofita), e accrescimento aderente al suolo con carattere strisciante (reptante).
Il genere Helichrysum appartiene alla famiglia delle Asteraceae e comprende circa 600 specie di piante a fiore.
Il suo nome deriva dalle parole greche helios (sole) e chrysos (oro), sia perché ogni capolino di colore giallo brillante ricorda il sole sia perché la pianta, molto frugale, vive in luoghi assolati (dalla costa fino all'alta collina).
Si trova in Africa (con 244 specie in Sudafrica), Madagascar, Australasia ed Eurasia.
È provvisto di una modesta radice a fuso e numerose radichette da cui partono vari fusticini ramosi su cui si innestano le foglie lineari di color grigio/cinerino.
I fiori, di forma rotonda e a petali sottili, sono riuniti in capolini di vario colore dal giallo, al rosa, al rosso.
Le foglie sono oblunghe-lanceolate. Sono piatte e pubescenti su entrambe le facce.
Fiorisce in estate. È comune nelle zone pietrose e aride, sulle colline calcaree. Si raccoglie tutta la piantina. Nell'elicriso coltivato per il giardinaggio la caratteristica del fiore è che ha i petali secchi e ben si adatta alla conservazione.
L'Helichrysum angustifolium è distillato in corrente di vapore per la produzione di un olio essenziale di colore giallo-rossastro nel quale la sostanza presente in maggiore quantità e che conferisce all'essenza l'odore caratteristico è l'acetato di nerile.
L'Equiseto dei campi (Equisetum arvense L., 1753) è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia Equisetaceae.
Appartiene alla grande divisione delle Pteridophyte, gruppo di piante più primitive rispetto alle Angiosperme, senza organi sessuali distinti, che si propagano e riproducono per mezzo di spore. La famiglia di appartenenza (Equisetaceae) comprende il solo genere Equisetum con circa 20 o 30 specie (a seconda dei vari Autori) delle quali una decina appartengono alla nostra flora spontanea. Il genere è diviso in due sezioni: Hippochaete e Euequisetum. La pianta di questa scheda appartiene alla seconda sezione cui appartengono specie di luoghi temperati, con stomi superficiali e parti aeree che durante l'inverno si disseccano completamente.
Normalmente i fusti fertili sono eterotrofi (non hanno la funzione fotosintetica); in alcuni casi però si possono trovare individui con i fusti fertili provvisti di rametti verdi e quindi fotosintetici. I fusti sterili invece tendono a colorarsi diversamente secondo l'ambiente: nella zona apicale sono più arrossati in ambienti aridi, mentre se l'ambiente è umido o poco illuminato tendono ad acquistare un aspetto verdastro-gialliccio (clorosi del pigmento superficiale). Un'altra caratteristica soggetta a variabilità è il portamento che può essere eretto o prostrato con ramificazioni più o meno intense[1]. Sono piante con un elevato numero di diploidi: 216 (108 copie di cromosomi). Questo numero è 5 volte superiore al numero di diploidi umani (46).
Il nome generico (Equisetum) deriva dal latino e significa “crine di cavallo”; mentre L'epiteto specifico (“arvense”) fa riferimento al suo habitat tipico: nei campi. Dobbiamo a Dioscoride Pedanio, che fu un medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone, una delle prime descrizioni dettagliate di questa pianta[2]. Il binomio scientifico attualmente accettato (Equisetum arvense) è stato proposto da Carl von Linné (Rashult, 23 maggio 1707 – Uppsala, 10 gennaio 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
Morfologia
La forma biologica della specie è geofita rizomatosa (G rhiz), ossia sono piante perenni erbacee che portano le gemme in posizione sotterranea. Durante la stagione avversa non presentano organi aerei e le gemme si trovano in organi sotterranei detti rizomi (un fusto ipogeo dal quale, ogni anno, si dipartono radici e fusti aerei). In realtà anche durante i periodi più avversi la pianta deve continuare a vivere per cui alcuni brevi rami ipogei laterali si trasformano in tuberi rotondi contenenti sostanze di riserva per lo svernamento. Il ciclo biologico è perenne. L'altezza media varia da 10 a 60 cm (massimo 100 cm).
Radici
Le radici sono secondarie (fascicolate) da rizoma e di tipo avventizio. Generalmente sono dei ciuffi che si diramano dai nodi del rizoma e durano un anno al massimo.
Fusto
Parte ipogea: la parte ipogea del fusto consiste in un rizoma orizzontale lungamente strisciante con ingrossamenti tuberiformi (vedi sopra) e varie ramificazioni a volte anche intricate che danno luogo a germogli aerei eretti e quindi ai corrispondenti fusti epigei. I germogli hanno la caratteristica di essere provvisti di una sola cellula apicale, molto grande, a forma di tetraedro (più o meno piramidale), dalla quale si generano per divisione le cellule successive per lo sviluppo del fusto adulto[3].
Parte epigea: la parte epigea (detta anche più precisamente culmo) consiste in due tipi di fusti:
fusti sterili, ruvidi di colore verde e quindi fotosintetici. In questi fusti le foglie sono così poco significative che il fusto si sostituisce ad esse per il processo fotosintetico tramite degli stomi superficiali (ossia delle cellule clorofilliane che sono a contatto con l'epidermide per lunghi tratti). Questi fusti sono ramificati con una dozzina di rametti a quattro coste posti in verticilli alla base delle foglie a sua volta poste nei nodi del fusto; anche i rametti sono articolati in nodi e relativi internodi e quelli superiori sono progressivamente più brevi. I fusti raggiungono l'altezza massima di circa 60 cm; questi secondi fusti si sviluppano solamente dopo che quelli fertili hanno assolto alla loro funzione riproduttiva;
fusti fertili, bianchicci o bruni (a volte di colore giallastro e quindi privi di clorofilla), atti alla riproduzione; normalmente non ramificati ma con nodi e internodi con un solo strobilo apicale di sporofilli (foglia modificata che porta gli sporangi, alloggiamento delle spore - i “semi” delle Pteridophyte); anche in questo fusto ai nodi sono presenti delle foglie ma quasi mai i rami; lo strobilo termina in modo arrotondato (non mucronato).
Entrambi i fusti sono fortemente scanalati longitudinalmente (sono alati) e suddivisi in diversi nodi e relativi internodi; le striature verticali (da 6 a 19) presentano inoltre la particolarità di essere sfalsate passando per due internodi contigui. I fusti sono cavi (cavità midollare) o fistolosi, infatti all'interno è presente una sottile cavità longitudinale; questa, nel caso della specie di questa scheda, è larga almeno il doppio delle cavità laterali (in genere 2 – 5 volte quelle laterali, in tutti i casi 1/3 del diametro totale). Inoltre, sempre nell'Equistum arvense, i fusti, ma anche i rami, sono senza vistose sporgenze silicizzate. Diametro dei fusti : 1 – 5 mm. Altezza dei fusti fertili: 10 – 20 cm. Altezza dei fusti sterili: 20 – 50 cm. Lunghezza della spiga fertile (strobilo): 1,5 – 4 cm. Lunghezza media dell'internodo : 2 – 3 cm.
Sezione trasversale del fusto (figura a destra) in corrispondenza di un internodo: la parte più esterna consiste in una epidermide (e) contenente diversi granuli di silice (da qui le proprietà meccaniche tipo taglio o abrasione di queste piante). In corrispondenza delle costole longitudinali del fusto il tessuto vegetale (chiamato cordone sclerenchimatico) è ulteriormente ispessito (s). Nelle “vallecole”, avvallamenti tra una costola e l'altra dove l'ispessimento è minore, è presente il parenchima clorofilliano (pc), questo solamente nei fusti sterili. In questa zona sono presenti anche gli stomi, delle aperture stomatiche (as) la cui funzione è di consentire lo scambio gassoso fra interno ed esterno del vegetale, in particolare la fuoriuscita di vapore acqueo e l'entrata di ossigeno e di anidride carbonica. Più internamente, immersi nel parenchima (p), abbiamo i canali vallecolari (cv), probabilmente la loro funzione è di facilitare la circolazione dell'aria in tutta la pianta, e i fasci cribro-vascolari (fv), altre strutture conduttrici di sostanze liquide. Al centro è presente una grande cavità vuota (c ) che nel rizoma e nei rametti laterali serve a contenere il midollo
Foglie
Foglie di un fusto fertile
Località : Le Laste, Limana (BL), 661 m s.l.m. - 22/04/2009
Foglie di un fusto sterile
Località : Le Laste, Limana (BL), 661 m s.l.m. - 18/05/2009
Le foglie (in questo caso chiamate più precisamente microfille) sono situate in corrispondenza dei nodi del fusto. Sono erette e appressate al fusto stesso. Sono concresciute le une alle altre (formano una specie di collaretto lobato o guaina attorno al fusto) e non sono differenziate in picciolo e lamina fogliare; le loro dimensioni sono tali per cui ricoprono meno della metà dell'internodo. La forma è lanceolata, squamiforme con un unico nervo dorsale e apice acuminato di colore bruno. Sono presenti al massimo una dozzina di denti (8 - 12) e relative foglie saldate nella parte basale.
Apparato riproduttivo
Strobilo
Località : Le Laste, Limana (BL), 661 m s.l.m. - 22/04/2009
Sporofilli e sporangi
Località : Le Laste, Limana (BL), 661 m s.l.m. - 22/04/2009
Spore con elateri
Strobilo: l'apparato riproduttivo è posto nello strobilo, struttura apicale ai fusti fertili. Lo strobilo è ricoperto quasi completamente dai sporofilli a forma di foglia peltata, ossia un corto peduncolo è inserito al centro della pagina inferiore di questa foglia modificata, mentre la parte opposta del peduncolo si collega all'asse centrale del fusto e quindi allo strobilo. La forma della foglia è irregolarmente esagonale. Tutto intorno all'estremità inferiore della foglia sono inseriti da 5 a 12 sporangi (i contenitori delle spore). Questi si aprono a maturità attraverso una fessura longitudinale.
Spore: le spore sono del tipo isospore ossia sono tutte uguali (indifferenziate sessualmente); la loro superficie è stratificata in quattro livelli sovrapposti. Il più importante di tutti è il primo livello (quello più esterno chiamato esosporio) che lacerandosi lascia libere quattro appendici chiamate "apteri" (simili agli “elateri” delle Epatiche) che hanno la funzione di far muovere la spora essendo dotate di movimenti igroscopici (utili nel processo di disseminazione). Spore che in seguito secondo le condizioni ambientali produrranno un protallo maschile o femminile, dal quale poi, tramite la fecondazione di una oosfera da parte di un “spermatozoide” (o gamete maschile cigliato), potrà finalmente svilupparsi il nuovo sporofito (ossia altri fusti di “equiseto”)[2].
Periodo di maturazione: per gli strobili lo sviluppo avviene tra febbraio – marzo, mentre le spore raggiungono la maturazione nel periodo di marzo-aprile. Mentre in maggio si sviluppano i fusti sterili (quelli fertili sono già secchi).
Distribuzione e habitat
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Circumboreale, ma anche Eurasiatico – Nord Americano
Diffusione: è comune nei luoghi umidi dell'Europa e dell'Asia, mentre in Italia è comune su tutto il territorio compreso tutto l'arco alpino.
Habitat: l'appellativo arvense denota la sua presenza in habitat campestri, ed effettivamente non è infrequente trovarlo su terreni incolti umidi o lungo i fossi; ma anche lungo le scarpate, ambienti ruderali, e terreni sabbiosi e argillosi. Il substrato preferito è sia calcareo che siliceo, con terreno a pH neutro, medi valori nutrizionali e medi valori di umidità.
Diffusione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 2000 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare, montano e subalpino.
Fitosociologia
Dal punto di vista fitosociologico la specie di questa scheda appartiene alla seguente comunità vegetale[4]:
Formazione: comunità perenni nitrofile
Classe: Agropyretea intermedii-repentis
Ordine: Agropyretalia intermedii-repentis
Alleanza: Convolvulo-Agropyrion repentis
Usi
Fitoterapia
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
l'equiseto è un'erba officinale e un'erba medicinale.
Analisi chimica: acido silicico (fino al 15%), glucoside delle saponine (equisetonina), flavonoidi, piccole quantità di alcaloidi, resine e acidi organici (anche acido ascorbico), sostanze amare e altre sostanze minerali (sali di potassio, alluminio e manganese)[2].
Parti usate: a scopi omeopatici, si usa il fusto sterile (raccolto in estate), che viene essiccato, triturato e polverizzato. Si trova in commercio anche la parte aerea essiccata e sminuzzata, per preparare infusi e decotti.
L'equiseto può avere proprietà antiemorragiche, cicatrizzanti, emostatiche, diuretiche, astringenti, antitubercolari, ma soprattutto remineralizzanti: studi clinici hanno dimostrato che l'assunzione di equiseto in polvere abbrevia sensibilmente il tempo di guarigione delle fratture ossee[5]. Sembra comunque che abbia anche una certa tossicità specialmente nel bestiame (probabilmente l'elevata quantità di membrane silicizzate possono causare lesioni e quindi infezioni nel tubo intestinale degli erbivori).
In passato, presso le famiglie contadine, i germogli venivano occasionalmente impanati e fritti o conditi con aceto. Può essere aggiunto a zuppe o minestroni come integratore di sali minerali. Ancora oggi nel Giappone gli strobili sono bolliti, salati e lasciati macerare in aceto insieme ad una salsa locale; mentre le parti basali della pianta sono lessate e mangiate da alcune tribù indiane del Messico[2]. Il sapore della pianta è simile a quello del fieno.
L'acido silicico presente negli equiseti (“erba dello stagno”) veniva sfruttato nella lucidatura di oggetti in legno o metallo strofinandoli con i fusti. L'operazione risultava pratica anche per la forma e l'elasticità dei fusti stessi, sicché erano sovente adoperati anche per la pulizia dell'interno di vasi e bottiglie. Anticamente queste piante macerate si usavano come fertilizzante (sono abbastanza ricche di minerali), ma anche per combattere la ruggine.
Gli antichi romani utilizzavano l'Equiseto come sostituto del sapone (vedi il sapone degli antichi romani) e anche oggi in cosmetica entra negli ingredienti delle creme antirughe, perché sembra che rallenti l'invecchiamento della pelle. Ha inoltre proprietà anticellulitiche.
L'Equisetum arvense è una pianta molto antica; si pensa che sia comparsa circa 300 milioni di anni fa. I resti fossili di alcune specie dell'ordine delle Equisetales indicano che erano piante diffuse già alla fine dal Devoniano (395 – 345 milioni di anni fa)[3]. In certe zone è considerata pianta infestante.
Calibrachoa è un genere appartenente alla famiglia delle Solanaceae.
La Calibrachoa è una pianta simile alla Petunia, caratterizata da fiori piccoli e crescita ricadente ma compatta, conosciuta anche con il nome di “Petunia nana”. Fiorisce ininterrottamente da aprile a ottobre, con una grande quantità di fiori colorati, che creano una cascata spettacolare.
Le Calibrachoa ibride come “Million Bells” e “Superbells”, sono oggi tra le piante più utilizzate per vasi, panieri appesi e per decorare davanzali e aiuole. Si possono poi ottenere splendidi effetti combinando ibridi di diversi colori come giallo, rosso, viola, rosa e arancio.
La lunga fioritura compatta e precoce e la bassa manutenzione, fanno della Calibrachoa, la pianta ideale per arredare giardini e terrazzi, anche per chi non ha il pollice verde e a poco tempo da dedicarvi.
CALIBRACHOA: CONSIGLI PER LA COLTIVAZIONE
Resiste al caldo, alle piogge e a molte malattie, ma teme il freddo e soffre se esposta a temperatura inferiori ai 5° C. Predilige posizioni soleggiate, dove cresce rapidamente e fioritura in abbondanza.
La Calibrachoa va innaffiata regolarmente e in abbondanza, evitando il disseccamento del terriccio e i temuti ristagni d’acqua. I momenti di siccità fanno ingiallire le foglie, per questo motivo vanno evitati, con irrigazioni costati, sopratutto in estate.
Dopo una prima concimazione con un prodotto a lenta cessione, si consiglia di somministrare una volta a settimana durante tutta la stagione vegetativa un concime liquido per piante da fiore.
Al contrario delle Petunie, resiste bene al vento e si riprende velocemente dopo le piogge. Per la coltivazione in vaso si può utilizzare un comune terriccio per piante da fiore, fertile e ben drenato.
La rimozione dei fiori appassiti non è indispensabile, ma stimola una fioritura ancora più abbondante.
Il lino comune (Linum usitatissimum L., 1753) è una pianta della famiglia delle Linaceae. È stata una delle prime colture domesticate: fin dall'antichità è stato ampiamente coltivato in Etiopia e in Egitto; in una grotta, nella Repubblica della Georgia, sono state trovate fibre di lino tinte, databili al 30 000 a.C.
È una pianta erbacea annuale alta tra i 30 e i 60 cm con fusto eretto, molto fragile, ramificato nella parte finale con foglie tenere, lanceolate. I fiori sono grandi, di colore azzurro-cielo[3] con 5 sepali, 5 petali, 5 stami gialli. I frutti sono capsule contenenti semi di piccole dimensioni e di colore dal bruno scuro al giallo paglierino, a seconda delle varietà. La radice è un corto fittone.
La pianta del lino cresce con facilità in regioni a clima temperato. Nei paesi freddi si ottiene la migliore produzione di fibra: Russia, Paesi Bassi, Francia e Romania sono tra i primi produttori mondiali di fibra. Il lino è una pianta annuale, con un ciclo vegetativo di circa quattro mesi.
Nell'area mediterranea si hanno prove della coltivazione e dell'utilizzo di lino risalenti a oltre 6.000 anni fa, mentre l'introduzione nel Nord-Europa avvenne in epoche preromane.
Il lino è coltivato sia per i suoi semi sia per la sua fibra. Dalle varie parti della pianta si ricavano tessuti, carta, medicinali, cordame (anche per le reti da pesca). Dai semi di lino si ottiene sia la farina sia l'olio di lino, commestibile, che ha vari impieghi come integratore alimentare, come ingrediente in prodotti per il legno (finitura) e nell'industria delle vernici come olio siccativo e diluente. È inoltre utilizzato dall'industria cosmetica come ingrediente base di gel per capelli e sapone. Infine il lino è coltivato anche come pianta ornamentale da giardino.
I principali prodotti alimentari che si ricavano dai semi di lino sono la farina e l'olio; la farina è di colore scuro. I semi - ricchi di acidi grassi a catena lunga - possono essere consumati anche in purezza, integri e secchi, oppure ammollati in acqua e consumati appena germogliano. I semi bagnati diventano leggermente viscidi, ma ciò non ne inficia le proprietà nutritive.
I semi di lino erano conosciuti nella medicina popolare come lassativo; alcuni studi moderni sembrano confermare la validità di tale uso[4]. Oggi, in fitoterapia l'olio di lino è anche consigliato come antinfiammatorio ed emolliente. Il lino contiene Omega-3, 6 e 9 e si ritiene che possa alleviare il diabete stabilizzando il livello di zuccheri nel sangue, ma il consumo eccessivo può ostacolare l'azione di alcuni medicinali somministrati oralmente, a causa del suo contenuto di fibre[5]. I semi sono inoltre usati nella medicina popolare per realizzare impiastri contro la tosse secca[6].
Dal lino si ottiene una fibra molto pregiata, morbida, flessibile e resistente; pur essendo qualitativamente superiore, ha costi di produzione più alti di quelli del cotone. In Europa rappresentò la principale fibra tessile fino alla rivoluzione industriale quando venne sostituito dal cotone,[7] causa appunto la maggiore economicità di quest'ultimo.
Il territorio del paese di Linera, in provincia di Catania, prima della sua fondazione, fu adibito alla coltivazione del lino e da essa la contrada venne indicata, appunto, le "linerie". Con la fondazione del nucleo abitato, avvenuta agli inizi del XIX secolo, il paese ha assunto la denominazione attuale in ricordo di queste antiche coltivazioni.
Veronica officinalis
La Veronica officinalis appartiene al genere delle piante perenni, alla famiglia delle Scrofulariacee, originaria dell’Europa, dell’Asia e del Nord-America. In Italia questa pianta cresce spontaneamente nella zona submontana e in quella alpina, anche oltre i 2000 metri di altitudine.
Il portamento della pianta è prevalentemente cespuglioso, con altezza fino a 60 cm e formato da numerosi steli ricoperti di foglie lanceolate di colore verde scuro.
Gli steli sono composti da numerosi e piccoli fiori di colore blu intenso, viola o rosa raggruppati in fitti racemi. I fiori sbocciano in giugno e perdurano per tutta l’estate fino alla fine di settembre. Anche recisi, hanno una lunga persistenza.
Per la coltivazione in vaso, si consiglia di assicurare alle giovani piantine una buona esposizione alla luce diretta del sole. Tuttavia la veronica si adatta bene anche ai luoghi a mezzombra, ama i terreni sciolti, fertili e ben drenati e non ha bisogno di annaffiature troppo abbondanti.
La moltiplicazione avviene per semina o per divisione in cespi. Nel primo caso si consiglia di procedere in primavera, altrimenti in autunno.
La Veronica officinalis è reperibile in erboristeria e parafarmacia in diverse formulazioni: preparati per tisane, tintura madre, decotto, come integratore e in capsule.
La raccolta della pianta fresca deve avvenire all’inizio della fioritura, recidendo alla base gli steli fioriti ed eliminando le foglie secche e le parti di fusto indurite.
Le parti aeree così raccolte possono essere essiccate all’ombra e conservate in recipienti di vetro o porcellana, in un luogo secco e asciutto.
Le principali proprietà officinali sono imputabili al suo complesso fitoterapico, composto prevalentemente dai seguenti principi attivi:
olio essenziale
resine
tannini
acidi organici
principi amari
veronicina
glucosidi
È conosciuta e utilizzata sin dall’antichità per gli effetti aperitivi, tonici e digestivi che è in grado di promuovere nell’organismo, sopratutto in caso di inappetenza, digestione lenta, dolori gastrointestinali e malattie del fegato. Il suo consumo abituale esercita anche un’azione galattagoga, diuretica e depurativa del sangue, utile in caso di reumatismi e gotta.
Consumata sotto forma di infuso o tisana, la veronica è un valido espettorante e si presta alla cura della bronchite, del raffreddore, della tosse e del catarro.
L’uso esterno come impacco o pomata ha effetti astringenti, cicatrizzanti, antinfiammatori, lenitive ed emollienti, molto utile per il trattamento di irritazioni cutanee e infezioni delle mucose interne di bocca e gola e per il mal di gola. Si tratta insomma di un vero e proprio antibiotico naturale.
Come anticipato, la veronica trova applicazione come rimedio naturale per la cura delle principali affezioni alle vie respiratorie, tra cui:
bronchite
catarro
malattie da raffreddamento
stati influenzali
tosse
In tutti questi casi, il consiglio è di assumere a 2-3 tazze al giorno di infuso caldo o tiepido, o due cucchiai di tintura madre pura o diluita. Anche il succo fresco della pianta è molto efficace nelle dosi di 20-30 grammi, 2-3 volte il giorno.
Per i disturbo al tratto digerente, la pianta è consigliata per la cura e il trattamento di:
cattiva digestione
disturbi gastrointestinali
intestino pigro
mancanza di appetito
Stimolazione della diuresi
Stimolazione della secrezione lattea
La veronica è efficace contro le malattie più comuni di origine infiammatoria, anche croniche, tra cui:
gengivite
infiammazioni e irritazioni della bocca e della gola
afte
tonsilliti
gotta
reumatismi
In tutti questi casi, si consiglia di sfruttare la sua azione astringente ed emolliente facendo sciacqui e gargarismi 2-3 volte al giorno con il decotto tiepido. Per il suo effetto cicatrizzante e lenitivo, l’uso esterno è consigliato per la cura di:
piaghe
dermatiti squamose
ulcere
tagli
Le parti aeree della pianta, infine, sono efficaci anche per la cura della pelle arrossata e irritata. Il decotto di veronica, lasciato agire per 20-30 minuti direttamente sulle parti dolenti, si rivela efficace per calmare pruriti persistenti, bruciori e dolori.
Allo stesso modo, è utile per lenire gli occhi stanchi e affaticati. In quest’ultimo caso, si può procedere con dei lavaggi e impacchi praticati mediante un batuffolo di cotone imbevuto nel decotto e lasciato agire direttamente sugli occhi arrossati.
Dal momento che le proprietà benefiche della veronica non hanno ancora un fondamento scientifico ufficiale, ricordate di evitare il fai-da-te e di concordare l’assunzione con il medico o l’erborista di fiducia.
Papaver rhoeas (L., 1753), comunemente noto come papavero comune o rosolaccio, è una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Papaveraceae, originaria di Eurasia e Nordafrica[1].
La specie, largamente diffusa in Italia, cresce normalmente in campi e sui bordi di strade e ferrovie. È considerata una infestante dei cereali
Il rosolaccio è un'erba che cresce come pianta annuale, latifoglie e alta fino a 80 – 90 cm.
Il fusto è eretto, coperto di peli rigidi. Tagliato emette un liquido bianco.
I boccioli sono verdi a forma di oliva e penduli. Il fiore è rosso, (molto raramente bianco), dai petali delicati e caduchi, spesso macchiato di nero alla base in corrispondenza degli stami di colore nero. Fiorisce in primavera da aprile fino a metà luglio.
È visitato dalle api per il suo polline di colore nero.[3] Le foglie sono pennato partite sparse lungo il fusto.
Il frutto è una capsula che contiene molti semi piccoli, reniformi e reticolati; fuoriescono numerosi sotto lo stimma. Petali e semi possiedono leggere proprietà sedative: il papavero comune è parente stretto del papavero da oppio, da cui si estrae la morfina.
Al momento, oltre alla pianta in sé, ne è accettata una sola varietà[1]:
Papaver rhoeas var. himerense (Raimondo & Spadaro, 2007)[4]
Questa rara varietà, caratterizzata da fiori bianco-rosati e scoperta solo di recente, è endemica di una ristretta area della Sicilia nei pressi di Termini Imerese, da cui il nome della pianta[5].
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Il rosolaccio contiene degli alcaloidi, dei quali il principale è la rhoedina, dalle proprietà blandamente sedative, infatti un infuso ottenuto con 4 o 5 petali per tazza veniva tradizionalmente somministrato ai bambini prima di coricarsi in maniera da indurre loro un sonno migliore. È importante notare che gli alcaloidi presenti sono blandamente tossici, per questo motivo è sconsigliata l'assunzione abituale di estratti ed infusi ottenuti da questa pianta, in particolare a bambini ed anziani.
In Friuli il cespo di foglie che si sviluppa attorno alla radice all'inizio della primavera, quando la pianta è ancora poco sviluppata ed è lontana dalla fioritura, viene consumato lessato ed eventualmente saltato in pentola come verdura nota sotto il nome di "confenòns". Il sapore è delicato e leggermente amaro. La pianta giovane, che non abbia emesso il fusto fiorale, si può consumare cruda, soprattutto le foglie, tagliata sottile e frammista ad altre verdure, per fare delle ottime insalate, che se condite con sale, succo di limone e olio di oliva nell'ordine, sono gustosissime. Nel Veneto tale pietanza è chiamata "rosoina", "pevarel", o "batis'ciosoe"; in realtà questo ultimo nome si riferisce alla Silene, chiamata anche s-ciopèt. Anche con questa verdura si possono fare insalate, se cruda, oppure ottimi risotti con le foglie giovani. Anche nel Salento le piantine tenere sono consumate sotto il nome di "paparina fritta", sbollentate e passate in padella in un soffritto di aglio con l'aggiunta di olive nere (celline) alcuni gherigli di noce ed aromatizzate con buccia d'arancia e barbe di finocchio. In Romagna, è conosciuta con il nome di "Rosole". Si utilizzano in cucina, da crude, dopo averle triturate finemente e lasciate macerare sotto sale per 24/36 ore. Dopo averle strizzate, si utilizzano per fare da ripieno al famoso "Crescione" o "Cassone" (o Cascione).[6]
Claude Monet, I papaveri (Les Coquelicots – 1873): il maestro impressionista dipinse più volte questi fiori nei suoi quadri
Nel mondo anglosassone Papaver rhoeas è tradizionalmente dedicata alla memoria delle vittime sui campi di battaglia della prima e della seconda guerra mondiale. Ad esempio, in Regno Unito, durante il Remembrance Day, è diffusa la tradizione di appuntare un papavero rosso all'occhiello.
A questa simbologia è probabilmente collegato anche il richiamo ad un campo di papaveri rossi che fa il cantautore italiano Fabrizio de André nel testo della canzone La guerra di Piero che racconta appunto di un soldato che muore sul campo di battaglia:
Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa, non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.
Al simbolo del papavero rosso è legata la locuzione "alto papavero", che sta a indicare una personalità altolocata o di potere. Il modo di dire deriva dall'aneddoto raccontato nell'opera Ab Urbe condita libri di Tito Livio; Sesto Tarquinio chiese al padre, Tarquinio il Superbo consiglio su come impossessarsi di Gabii. Il re rispose con un'allegoria recidendo i papaveri più alti del giardino nel quale aveva accolto il messaggero inviato dal figlio.[7][8]
Un campo di papaveri rossi è un richiamo all'occhio che è impossibile ignorare. Molti pittori e fotografi hanno cercato di cogliere e riprodurre la sensazione di stupore che si prova davanti alla brillantezza del rosso del papavero. Famosi sono i verdi campi di grano dipinti dai macchiaioli, con tante macchie rosse tipiche dei papaveri.
È pianta molto visitata dalle api, che vi raccolgono abbondante polline dall'insolito colore grigio scuro.
Myosotis L., 1753 è un genere di piante della famiglia delle Borraginacee[1], comprendente circa 150 specie erbacee annuali o perenni, fra le quali il comune nontiscordardimé (o non ti scordar di me).
Il nome del genere deriva dal greco μῦς, μυός, «topo» e οὖς, ὠτός, «orecchio»[2], con allusione alle foglie a orecchio di topo.
I fiori disposti in cime di solito appaiate sono generalmente senza brattee o qualche volta portano brattee nella parte inferiore. Il calice è regolarmente diviso fino a metà o oltre, più o meno accrescente nel frutto; è ispido per la presenza di peli setolosi tutti uguali e uniformi, diritti, appressati e rivolti verso l'alto; oppure per la presenza di peli ad uncino o di due tipi, alcuni setolosi, di solito uncinati e più o meno patenti, altri più corti, esili, diritti o anche arcuati. Rispetto al peduncolo, il calice può essere articolato e caduco o non articolato e persistente. La corolla rotata o rotata-imbutiforme, ha il tubo generalmente corto, la fauce munita di cinque gibbosità glandulose, bianche o gialle e generalmente incluse; il lembo regolarmente diviso in cinque lobi, piano o leggermente concavo, di solito blu (a volte può essere bianco, giallo, rosa e blu). Gli stami sono generalmente inclusi, recanti ognuno una appendice lingulata terminale; i filamenti sono inseriti a metà del tubo. Lo stilo è incluso e porta uno stimma capitato. Le nucule sono quattro, ovoidi, erette più o meno compresse, lisce e lucide, di colore che va dal bruno al nero, spesso con un evidente margine (orlo); l'area di attacco di solito piccola può presentare a volte un'appendice spugnosa o ligulata.[senza fonte]
Questo genere ha una distribuzione cosmopolita, essendo diffuso in Europa, Africa, Asia, America e Oceania.[1]
In Italia è presente in tutte le regioni con un numero variabile di specie.[3]
Le specie di questo genere, pur essendo ben distinte dal punto di vista palinologico e cariologico, sono morfologicamente molto simili tra loro e ciò rende particolarmente complicata la loro determinazione.
Secondo la tradizione la denominazione di "non ti scordar di me" sarebbe legata a una leggenda germanica secondo la quale Dio stava dando il nome alle piante quando una piantina, ancora senza nome, gridò: "Non ti scordar di me, Dio!" e Dio replicò: "Quello sarà il tuo nome!"[5].
Secondo una più recente leggenda sarebbe invece legata ad un avvenimento occorso lungo il Danubio, in Austria: si narra che un giorno due innamorati stessero passeggiando lungo il Danubio, scambiandosi tenerezze e promesse d'amore. Rimasero affascinati dai piccoli fiori azzurri trasportati dalla corrente del fiume: il ragazzo si chinò per raccoglierne uno e donarlo alla sua amata ma scivolò e cadde in acqua, gridandole “Non ti scordar di me!” come saluto estremo prima di essere inghiottito[6]. L'evento è narrato in una cantata di Anton Bruckner.
Dagli antichi era chiamato erba sacra ed era usata nella preparazione di medicamenti per gli occhi. Plinio il Vecchio dice che il fiore era considerato un simbolo di salvezza dal dolore e da ciò che potesse incupire la vita.[senza fonte]
Nella Germania del XV secolo, chi indossava il fiore non sarebbe stato dimenticato dalla propria amata; mentre le donne lo indossavano come segno di fedeltà. Infatti questo fiore è spesso ritenuto il simbolo per eccellenza della fedeltà e dell'amore eterno.
Il "non ti scordar di me" è stato adottato a livello internazionale come fiore ufficiale della Festa dei nonni.
La Massoneria usa il "non ti scordar di me" per ricordare i massoni vittime del regime nazista. I massoni tedeschi, infatti, si riconoscevano tramite questo simbolo, al tempo segreto, dato che il Terzo Reich aveva messo al bando le associazioni massoniche e deportava i massoni quali "dissidenti politici".[7][8]
Il non ti scordar di me è individuabile nel fiore azzurro, simbolo d'ispirazione centrale e durevole del movimento letterario del Romanticismo, ideato dal poeta e filosofo romantico tedesco Novalis nel suo incompleto romanzo di formazione Heinrich von Ofterdingen. Rappresenta il desiderio, l'amore e lo sforzo metafisico di accostarsi all'infinito e all'irraggiungibile, tratti tipici della corrente romantica.
Il corniolo (Cornus mas L., 1753) è un albero da frutto, spontaneo, appartenente alla famiglia delle Cornaceae[1] e al genere Cornus.
I cornioli sono piante piccole, caducifoglie e latifoglie, alti fino a 5-6 metri e altrettanto estesi in larghezza. I rami sono di colore rosso-bruno e brevi, la corteccia è screpolata. Sono piante longeve, possono diventare plurisecolari e hanno una crescita molto lenta. Le foglie sono semplici, opposte, con un picciolo breve (5–10 mm) e peloso, la forma è ovata o arrotondata, integra e un po' ondulata ai margini, acuminata all'apice; sono ricoperte parzialmente da peluria su entrambe le pagine, e presentano un colore verde (più chiaro nella parte inferiore) e una nervatura al centro e 3-4 paia di nervature secondarie.
I fiori sono ermafroditi (cioè hanno organi per la riproduzione sia maschili sia femminili), si presentano in forma di ombrelle semplici e brevi, circondate alla base da un involucro di 4 brattee (foglia modificata che protegge il fiore) di colore verdognolo sfumato di rosso, che si sviluppano prima della fogliazione. La corolla è a 4 petali acuti, glabri (privi di pelo), di colore giallo-dorato, odoroso. Fiorisce da febbraio ad aprile.[2]
Il frutto del corniolo è una drupa (frutto carnoso) commestibile (perché edule), con la forma di una piccola oliva o ciliegia oblunga; ha un colore rosso-scarlatto, rosso corallo o anche giallo, dal sapore acidulo, contenente un unico seme osseo. I frutti maturano ad agosto. Il legno è duro e compatto, con alta resistenza, molto usato nei secoli passati.
Il corniolo è specie propria dell'Europa centro-orientale sino al Caucaso e all'Asia minore; in Italia si trova in tutta la penisola, ma è più frequente nelle regioni settentrionali. È una specie che predilige i terreni calcarei, e vive in piccoli gruppi nelle radure dei boschi di latifoglie, tra gli arbusti e nelle siepi del piano sino a 1300 (anche 1530) metri.
Il corniolo è coltivato come pianta ornamentale in orti e giardini, e per i suoi frutti commestibili. Ama terreni freschi e ombreggiati, calcarei, per cui è facile trovarlo nei boschi d'alta collina o di montagna. Esistono diverse varietà con frutti rossi o gialli, più o meno grandi. È un arbusto che non teme le gelate tardive, rustico e resistente agli attacchi di molte malattie.
I piccoli frutti rossi vengono lavorati, oltre che per la produzione di succhi di frutta e marmellate (ottime come accompagnamento al bollito di carne), anche per aromatizzare alcuni tipi di alcolici, come, ad esempio, la grappa. I prezzi di questi prodotti sono relativamente alti a causa della bassa fertilità e del piccolo contenuto di alcool.
Si possono mangiare i frutti anche freschi, ma è preferibile gustare quelli appena caduti o quelli che si staccano dallo stelo con un leggero tocco di mano, cioè quando sono a piena maturazione.
Il legno del corniolo è di colore bruno-chiaro nelle parti interne (alburno), mentre nella corteccia è rossastro, con anelli poco distinti. È il più duro presente in Europa, molto resistente, e viene utilizzato, tra l'altro, per la produzione di pipe. Nel passato era usato per la fabbricazione di pezzi di macchine soggetti a forte usura (per es. raggi e denti da ruota) e per lavori di tornio. La sarissa, picca usata dalla falange macedone, era in legno di corniolo.
Tutta la pianta ha proprietà tintorie (in giallo). Il corniolo è un'erba officinale.
Lonicera L. 1753 è un genere di piante Spermatofite Dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Caprifoliaceae, originario dell'America ed Estremo Oriente. Le piante di questo genere sono comunemente note come caprifogli. Vi appartengono, tra gli altri il caprifoglio alpino (Lonicera alpigena), il caprifoglio comune (Lonicera caprifolium), il caprifoglio mediterraneo (Lonicera implexa) e il caprifoglio peloso (Lonicera xylosteum). Il genere Lonicera comprende circa 200 specie provenienti dall'Asia, America settentrionale e Europa, di queste una decina appartengono alla flora spontanea italiana, mentre in Cina si trovano la maggioranza di specie presenti (circa 100). Nelle classificazioni più vecchie la famiglia di questo genere è anche chiamata Loniceraceae Vest. È da aggiungere inoltre che prima di Linneo questo genere era chiamato Caprifolium ma anche Peryclimenon, nomenclature talora usate anche in tempi moderni. Altri generi non più in uso, le cui specie sono passare al Lonicera, sono: Xylosteum, Nintooa e Chamaecerasus. Anche l'ordine (attualmente quello delle Dipsacales) non è sempre stato lo stesso: nelle prime classificazioni filogenetiche a opera del botanico Richard von Wettstein (1863-1931) nel suo Handbuch der Systematischen Botanik (traduzione italiana: Botanica sistematica) la famiglia delle Caprifoliaceae è assegnata all'ordine delle Rubiales, alla sottoclasse delle Sympetalae e quindi alla classe delle Dicotyledones.
La classificazione di questo genere è così organizzata:
Famiglia: Caprifoliaceae definita dal botanico francese Antoine-Laurent de Jussieu (1748-1836) in una pubblicazione del 1789.
Sottofamiglia: Loniceroideae definita da Kostel. nel 1833
Tribù: Lonicereae definita dal botanico e micologo svizzero Augustin Pyrame de Candolle (1778-1841) nel 1830.
Sottotribù: Lonicerinae definita dal botanico tedesco Bernhard Adalbert Emil Koehne (1848-1918) nel 1893.
Genere: Lonicera denominata da Carl von Linné (1753)
Il genere di questa scheda è riccamente polimorfo per cui viene suddiviso in più sezioni (o sottogeneri):
Periclymenum o Caprifolium : comprende le specie rampicanti di tipo lianoso con foglie superiori connate ossia formanti un disco o un collare attraversato dal fusto. Le specie spontanee italiane che appartengono a questa sezione sono: L. implexa, L. caprifolium, L. etrusca e L. periclymenum.
Chamaecerasus o Xylosteum : sono specie cespuglianti (a portamento arbustivo o cespuglioso); i rami sono glabri o pubescenti se giovani; i fiori sono peduncolati originati da un'ascella fogliare; la corolla può essere bilabiata o penta-labiata; i frutti sono coerenti fra di loro (non sono separati singolarmente). Nella nostra flora spontanea abbiamo: L. nigra, L. alpigena, L. xylosteum e L. coerulea.
Nintooa o Nontova : sono le specie rampicanti e sempreverdi con rami cavi e fiori ascellari e appaiati. Di questa sezione fa parte solo L. biflora (oltre naturalmente tutte le altre specie nel resto del mondo).
Altri botanici, considerando più a fondo i vari caratteri morfologici delle varie specie, hanno suddiviso il genere fino a 6 gruppi (in fondo alla presente scheda tramite il sistema delle chiavi analitiche dicotome vengono elencate le specie spontanee della nostra flora).
Sebbene il termine caprifoglio sia largamente usato per indicare genericamente ogni specie appartenente al genere Lonicera, sarebbe auspicabile limitarne l'impiego solo per designare la specie Lonicera caprifolium L., e chiamare tutte le altre indistintamente lonìcere; equivoci che comunque si possono dissipare facilmente affiancando sempre al nome comune anche la nomenclatura binomiale scientifica.
Il termine del genere (Lonicera) fu coniato da Linneo nel 1753 adattando al latino il cognome "Lonitzer", volendo ricordare il botanico Adam Lonitzer (1528-1586) - in italiano questo cognome si pronuncia Lonicer - medico condotto a Francoforte. Il nome comune (caprifolium) deriva dal latino ed è composto da due termini: “capra” e “folium” (capra e foglia). Probabilmente questa dizione deriva dal fatto che le capre usano brucare le foglie di alcune specie di questo genere.
Degli altri nomi assegnati a questo genere si può citare Dioscoride che insieme ai greci chiamava queste piante "periclymenon", che tradotto liberamente significa “accerchiamento” (termine che probabilmente deriva dal verbo “perikleio”, “io mi intreccio”). Ma un'altra etimologia fa derivare questo nome dal “polimorfo” personaggio di Periclimeno, figlio di Neleo, descritto da Omero nell'Odissea. “Madreselva”, altro nome per queste piante, si trova per la prima volta nell'opera dedicata ai medicamenti del medico romano Scribonio Largo
Gli altri nomi (Vincibosco – Ligabosco) sono di derivazione rinascimentale toscana.
Il portamento sotto il quale si presentano le varie specie del genere è assai diverso: può comprendere piante legnose e arbusti a portamento cespuglioso, sarmentoso, cespitoso (e quindi anche eretto), ma anche rampicante o lianoso (e quindi volubile); possono essere coltivate anche in diversi esemplari ibridi, sempreverdi o caducifoglia. Delle specie spontanee italiane ad esempio metà sono volubili e lianose, l'altra metà invece hanno un abito eretto-arbustivo.
Le piante di questo genere sono molto longeve, ma presentano dei cicli vegetativi intermedi caratterizzati dal fatto che dopo pochi anni di vita si essiccano quasi completamente. A questo punto dalla ceppaia vengono emessi nuovi polloni, che naturalmente dopo un certo numero di anni si atrofizzano e muoiono, ripetendo da capo il ciclo appena descritto.
L'altezza del fusto è molto variabile: da 20 cm fino a 7 m e in genere è molto ramoso. Questa ramosità quasi cespitosa è data dalla presenza di gemme multiple, soprannumerali e in serie sovrapposte nelle zone ascellari del fusto. Un'altra particolarità del fusto è che questo è caratterizzato dalla formazione di un unico strato di fibre “liberiane” (fibre a membrana ispessita che entrano nella costituzione del “libro”, all'interno della corteccia), per ciascun ciclo vegetativo annuale, facilitando così la determinazione della sua età.
Le foglie possono essere persistenti, semi-persistenti o caduche; la lamina quasi sempre è semplice di forma più o meno ovata; la disposizione delle foglie lungo il fusto è opposta a 2 a 2; possono essere picciolate (specialmente nei rami sterili – senza fiori) o sessili. Spesso sono connate ossia sono appaiate e saldate alla base tra di loro e formano quindi un'unica foglia amplessicaule attraversata nel centro dal fusto (lamina perfogliata). Le pagine fogliari possono essere glabre o vellutate. In alcuni casi sono presenti delle stipole. Le dimensioni delle foglie va 1 cm a 10 cm.
L'infiorescenza può essere ascellare o terminale. I fiori sono variamente disposti ma sempre in numero relativamente piccolo per ogni infiorescenza. A volte possono essere brevemente pedicellati su 2 brattee e 4 bratteole. Altre volte si hanno capolini sessili o infiorescenze cimose (corte o allungate).
I fiori sono zigomorfi, ermafroditi, tetraciclici (calice– corolla – androceo – gineceo) e pentameri; sono inoltre profumati da sostanze di natura benzoloide (essenze nelle quali prevalgono i composti ad anello benzoico). Questa profumazione si rileva anche spezzando i fusti della pianta.
Calice: il calice, gamosepalo con 5 sepali saldati, normalmente è breve con 5 piccoli denti.
Corolla: la corolla, gamopetala a 5 petali più o meno saldati fra di loro, è monosimmetrica (o zigomorfa) a due labbra terminali; quello posteriore è formato da quattro petali concresciuti; entrambe le labbra sono riflesse (ripiegate all'indietro). La parte iniziale della corolla può essere tubolare, campanulata o a imbuto. Il tubo può essere breve o lungo o sottile ma anche gibboso.
Androceo: gli stami sono 5 con i filamenti staminali inseriti nel tubo corollino; spesso sporgono per un buon tratto dalla fauce della corolla.
Gineceo: l'ovario è infero con 2-3 o 5 loculi. Si riscontrano anche casi di fusione di ovarii fra due fiori.
Impollinazione: sono piante a fecondazione entomogama (insetti e farfalle). I fiori delle varie specie attraggono soprattutto le sfingidi e grossi imenotteri come i Bombi che con la loro lunga proboscide riescono a raccogliere il nettare contenuto, fino a metà altezza, nel lungo tubo corollino.
Il frutto è una bacca succosa di colore rosso - violaceo o nero spesso tossica per la presenza di xilosteina, xylostosidina (glycoside iridoide e alkaloide thio C18H25NO8S) hederagenina . Contiene da pochi a numerosi semi discoidi.
Queste piante allo stato libero crescono su un vastissimo territorio che comprende oltre all'Europa, qualsiasi altra zona posta nell'Emisfero boreale come l'Asia, l'Africa e l'America, con particolare rilevanza per le regioni montuose dell'Asia centrale e orientale. Possiamo infatti considerare l'Himalaya, a una altitudine compresa tra i 3000 e 4000 m s.l.m., l'area di origine del genere Lonicera. comprese comunque anche le zone montuose della Cina occidentale.
In alcune zone dell'Himalaya si consumano le bacche zuccherine della L. angustifolia, mentre in Siberia sono ricercate quelle del L. coerulea (grande arbusto a grossi frutti). Altre specie commestibili sono due piante americane: L. involucrata e L. ciliata (questa informazione viene dal Ministero dell'Agricoltura di Washington).
Inoltre alcuni fiori delle Lonicere producono un dolce nettare commestibile che può essere utilizzato come sciroppo o sorbetto o in altri dolci.
L'impiego maggiore di queste piante si ha nel giardinaggio: sembra che almeno un terzo delle specie che si conoscono siano oggetto di coltivazione nei vari giardini d'Europa e degli altri paesi.
Sono considerati arbusti rustici o semi-rustici, a seconda del clima locale, i cui pregi di profumazione, dei fiori e di portamento assicurano a essi una larga diffusione commerciale. Le specie rampicanti sono utilizzate soprattutto per ricoprire muri o pergolati o creare galleria nel giardino. Quelle arbustive si prestano ottimamente per la formazione di macchie arbustive, per formare siepi o dividere zone diverse dei giardini.
Alcune specie fioriscono subito in Primavera (L. fragrantissima); ma la maggior parte delle specie di questo genere fiorisce nella stagione più calda (estate o anche fine dell'estate). Ci sono poi specie più delicate (L. sempervirens) alle quali vanno destinate zone più calde e protette. Altre sono striscianti (L. japonica-flexuosa) e allora saranno lasciate libere di vegetare come l'edera.
Con il legno della pianta L. tartarica vengono costruiti dei giocattoli per i gatti in quanto contiene il nepetalactone, un terpene, che è ritenuto essere un surrogato dei feromoni sessuali felini (come ad esempio le sostanze contenute nell'erba gatta).
In alcune zone (come negli Stati Uniti o nella Nuova Zelanda) alcune specie di questo genere (L. japonica e L. maackii) sono considerate erbe infestanti invasive. Infatti il taglio della pianta o anche il fuoco non eliminano la possibilità di rigenerazione dai ceppi sotterranei che rimangono ancora attivi.
Il convolvolo o vilucchio (Convolvulus arvensis Linnaeus, 1753 ) è una Convolvulacea originaria dell'Europa e dell'Asia, molto comune in tutta Italia, dalla pianura alla media montagna.
La forma biologica è G rhiz - Geofite rizomatose, cioè piante con un rizoma sotterraneo che ogni anno emette radici e fusti.
È una nota infestante del mais.
È una pianta erbacea perenne, rampicante o strisciante, che raggiunge a maturità una lunghezza di 0,5–2 m. Possiede un rizoma biancastro e fusti erbacei generalmente avvolti verso sinistra. Ha foglie spiralate, da lineari a cuoriformi, lunghe 2–5 cm, larghe 2–3 cm e con picciolo di 1–3 cm. I fiori, portati all'ascella delle foglie mediane, hanno calice e corolla entrambi campanulati: il calice, erbaceo, di 4–5 mm, la corolla da 1 a 2,5 cm di diametro, di colore bianco o rosa pallido, con cinque strisce radiali di un rosa leggermente più scuro. Il fiore ha antere violacee e stimma bianco con due lobi divergenti. Fiorisce da aprile a ottobre. Il frutto è una capsula sferica glabra.
Varietà
È presente in due varietà:
Convolvulus arvensis var. arvensis, a foglie larghe;
Convolvulus arvensis var. linearifolius, a foglie lineari.
Nonostante produca fiori attraenti e pur costituendo un ottimo foraggio per conigli[1], è spesso considerato una sgradita pianta infestante nei giardini e negli orti a causa della sua rapida crescita e del conseguente soffocamento delle piante coltivate.
In una delle leggende raccolte dai Fratelli Grimm, La tazzetta della Madonna, e attestata anche in paesi come la Toscana[2], questo fiore venne usato dalla Madonna per bere vino quando aiutò a liberare il carretto di un carrettiere. La leggenda narra che "il piccolo fiore viene ancora chiamato Tazzetta della Madonna".
Gentiana L. è un genere di piante della famiglia delle Gentianaceae, che comprende circa 400 specie.
Le sue proprietà digestive sono portentose e note
Si tratta di piante annuali, biennali e perenni. Alcune sono sempreverdi, altre no. La disposizione delle foglie è opposta. Sono anche presenti foglie che formano una rosetta basale. I fiori sono a forma di imbuto; il colore è più comunemente azzurro o blu scuro, ma può variare dal bianco, avorio e dal giallo al rosso. Le specie col fiore di colore blu predominano nell'emisfero settentrionale, quelle col fiore rosso sulle Ande; le specie a fiore bianco sono più rare, ma più frequenti in Nuova Zelanda.
Questi fiori sono più frequentemente pentameri, cioè hanno una corolla formata da 5 petali, e generalmente 5 sepali o 4-7 in alcune specie. Lo stilo è abbastanza corto oppure assente. La corolla presenta delle pieghe (pliche) tra un petalo e l'altro. L'ovario è quasi sempre sessile e presenta nettarii.
Distribuzione e habitat
Questo genere si trova un po' ovunque nell'habitat alpino delle regioni temperate dell'Europa, dell'Asia e del continente americano. Alcune specie si trovano anche nell'Africa nord-occidentale, nell'Australia orientale ed in Nuova Zelanda.
Sul versante italiano delle Alpi sono presenti diverse specie, che fioriscono durante l'estate. Sono quasi tutte specie protette. Alcune specie si ritrovano anche sugli Appennini.
Le genziane crescono su terreni acidi o neutri, ricchi di humus e ben drenati; si possono trovare in luoghi pienamente o parzialmente soleggiati. Sono utilizzate frequentemente nei giardini rocciosi.
Usi
Secondo quanto afferma Plinio il Vecchio, questo genere di piante prese il nome di genziana dopo che Genzio (180-168 a.C.), re dell'Illiria, affermò di averne scoperto le proprietà curative. Molte specie, infatti, sono usate come "piante medicinali"[senza fonte] e le loro radici sono usate per la preparazione di liquori tonici, per esempio nel francese suze e nell'acquavite di genziana, prodotto nella Val Rendena.
La genziana è utilizzata come aromatizzante negli amari e in alcuni aperitivi. Celebre è, ad esempio, l'Amaro Sibilla, prodotto nell'appennino marchigiano proprio con questa erba sin dal lontano anno 1868, ma è anche tra gli ingredienti del Fernet Branca, dello Stomatica Foletto e dell'Aperol.
In Abruzzo è famoso ed esportato in tutto il mondo l‘amaro a base di Gentiana, un infuso dalle altissime proprietà digestive, preparato secondo ricette locali che variano da località a località. Tra queste è molto ricercata (quanto difficilmente reperibile perché non ne esistono versioni commerciali) quella tipica del contado di L’Aquila che prevede, tra gli ingredienti, il vino povero di vigne montane, il cosiddetto acetello, che conferisce all’infuso un inconfondibile e pregiato retrogusto amarognolo.
La variante utilizzata per liquori e tisane è la variante Gentiana Lutea o Genziana Lutea, quella dai fiori gialli.[3]
ll pregio della Gentiana è anche dovuto al fatto che le radici migliori sono quelle naturali (non coltivate) che in molte zone è proibito raccogliere in quanto specie protetta. In particolare si sono registrati numerosi sequestri in Abruzzo dove la produzione del liquore digestivo Genziana è più rinomata.
Costituenti chimici
Tra i composti chimici responsabili del sapore amaro della genziana figura l'amarogentina, il composto naturale più amaro mai isolato.
Numismatica
Una gentiana è effigiata sulla moneta da un centesimo di euro dell'Austria.
La campanula toscana (nome scientifico Campanula medium L., 1753) è una pianta erbacea dai fiori blu a forma di campanella appartenente alla famiglia delle Campanulaceae. Il nome generico (campanula) deriva dalla forma a campana del fiore; in particolare il vocabolo deriva dal latino e significa: piccola campana.
Dalle documentazioni risulta che il primo ad usare il nome botanico di “Campanula” sia stato il naturalista belga Rembert Dodoens, vissuto fra il 1517 e il 1585. Tale nome comunque era in uso già da tempo, anche se modificato, in molte lingue europee. Infatti nel francese arcaico queste piante venivano chiamate “Campanelles” (oggi si dicono “Campanules” o “Clochettes”), mentre in tedesco vengono dette “Glockenblumen” e in inglese “Bell-flower” o “Blue-bell”. In italiano vengono chiamare “Campanelle”. Tutte forme queste che derivano ovviamente dalla lingua latina.[3] L'epiteto specifico (medium) deriva dall'omonima parola latina e indica una pianta di medie dimensioni.[4][5]
Il binomio scientifico della pianta di questa voce è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 1: 167. 1753"[6] del 1753.[7]
Queste piante possono arrivare fino a 2 - 8 dm di altezza. La forma biologica è emicriptofita bienne (H bienn), ossia in generale sono piante erbacee con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve e si distinguono dalle altre per il ciclo vitale biennale. Nel primo anno si forma una rosetta basale di foglie, mentre nel secondo si formano gli steli e i fiori. Contengono lattice lattescente e accumulano inulina.[8][9][10]
Le radici sono secondarie da rizoma.
La parte aerea del fusto è eretta, ispida, semplice o poco ramosa.
Le foglie si dividono in basali e cauline; sono fittamente setolose con bordi crenati o dentati. Quella basali sono oblanceolato-spatolate, le superiori sono lanceolate e sessili.
Le infiorescenze sono formate da pochi fiori peduncolati isolati o raccolti in racemo. Il portamento è pendulo o inclinato. Lunghezza del peduncolo: 2 – 10 cm.
Diagramma fiorale
I fiori sono tetra-ciclici, ossia sono presenti 4 verticilli: calice – corolla – androceo – gineceo (in questo caso il perianzio è ben distinto tra calice e corolla) e pentameri (ogni verticillo ha 5 elementi). I fiori sono gamopetali, ermafroditi e attinomorfi.
Formula fiorale: per questa pianta viene indicata la seguente formula fiorale:
K (5), C (5), A (5), G (5), infero, capsula
Calice: il calice è formato da 5 sepali lanceolato-cuoriformi più o meno concresciuti con appendici ripiegate. Il tubo del calice è lungo 8 – 10 mm. Dimensioni dei denti: larghezza 7 – 9 mm; lunghezza 13 – 17 mm. Lunghezza delle appendici ripiegate: 8 – 10 mm.
Corolla: la corolla campanulata è formata da 5 petali più o meno concresciuti in un tubo (spesso il tubo è a botticella); i denti della corolla, appena carenati, sono brevi e ottusi. Il colore è azzurro-violaceo. I petali sono privi di ali marginali. Dimensione della corolla: larghezza 1,5 cm; lunghezza 4 – 5 cm.
Androceo: gli stami sono 5 con antere, libere (ossia saldate solamente alla base) e filamenti sottili ma membranosi alla base. Il polline è 3-porato.
Gineceo: lo stilo è unico con 5 stigmi. L'ovario è infero, 5-loculare con placentazione assile (centrale), formato da 5 carpelli. Lo stilo possiede dei peli per raccogliere il polline.
Fioritura: da maggio a giugno (agosto).
I frutti sono delle capsule poricide 5-loculare, ossia deiscenti mediante pori laterali; i semi sono molto minuti.
Riproduzione
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti (impollinazione entomogama). In queste piante è presente un particolare meccanismo a "pistone": le antere formano un tubo nel quale viene rilasciato il polline raccolto successivamente dai peli dallo stilo che nel frattempo si accresce e porta il polline verso l'esterno.[10]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento, essendo molto minuti e leggeri – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Distribuzione della pianta
(Distribuzione regionale[11] – Distribuzione alpina[12])
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Orofita - Nord Ovest Mediterraneo.
Distribuzione: in Italia è una pianta rara e si trova nel nord ovest. Nelle Alpi, oltre confine, si trova in Francia (dipartimenti di Alpes-de-Haute-Provence, Hautes-Alpes, Alpes-Maritimes, Drôme, Isère e Savoia). Sugli altri rilievi europei collegati alle Alpi si trova nel Massiccio del Giura.[12]
Habitat: l'habitat tipico per questa specie sono i pedi cespugliosi, le pietraie e le zone franose; ma anche i margini erbacei dei boschi, le garighe basse, gli arbusteti meso-termofili, querceti e ostrieti termofili submediterranei. Il substrato preferito è calcareo con pH basico, medi valori nutrizionali del terreno che deve essere umido.[12]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 1500 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare e montano (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Dal punto di vista fitosociologico la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[12]
Formazione: delle comunità delle macro- e megaforbie terrestri
Classe: Trifolio-Geranietea sanguinei
Ordine: Origanetalia vulgaris
Alleanza: Geranion sanguinei
La famiglia di appartenenza della Campanula medium (Campanulaceae) è relativamente numerosa con 89 generi per oltre 2000 specie (sul territorio italiano si contano una dozzina di generi per un totale di circa 100 specie); comprende erbacee ma anche arbusti, distribuiti in tutto il mondo, ma soprattutto nelle zone temperate. Il genere di questa voce appartiene alla sottofamiglia Campanuloideae (una delle cinque sottofamiglie nella quale è stata suddivisa la famiglia Campanulaceae) comprendente circa 50 generi (Campanula è uno di questi). Il genere Campanula a sua volta comprende 449 specie (circa 50 nella flora italiana) a distribuzione soprattutto circumboreale.
Abutilon è un genere di piante dicotiledoni appartenente alla famiglia delle Malvaceae, al quale appartengono un centinaio di specie spontanee nelle regioni calde di entrambi gli emisferi.
Alcune specie spontanee nei paesi caldi e in particolare in Asia hanno anche un interesse agrario quali piante fornitrici di fibre tessili. Infatti con il nome di fibre di Abutilon sono noti alcuni prodotti simili alla juta ottenuti per macerazione della corteccia.
Pianta annuale con fusto alto da 30– 150 cm, le foglie possono essere lunghe fino a 15–20 cm. In Italia la possiamo trovare in: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia. Questa pianta è considerata infestante delle culture a ciclo primaverile ed estivo e deve la sua espansione all'enorme quantità di semi prodotti. I suoi habitat sono i terreni umidi ed incolti, gli orti e i campi coltivati. Abutilon è una parola di origine araba che significa "Malva indiana". La specie Abutilon theophrasti Medicus ha proprietà emollienti, antinfiammatorie, diuretiche ed antisettiche. Le radici, le foglie ed il fusto vengono usate per l'alto contenuto di mucillagine, per lenire le mucose del sistema respiratorio ed urinario, produce effetti calmanti anche su ferite ed ulcere. I semi hanno potere lassativo.
Ci sono circa 200 specie nel genere Abutilon
L'Abutilon megapotamicun è una specie di Abutilon originaria dell'Argentina, Brasile ed Uruguay. Il suo fusto cresce fino a 2,5 m con foglie lunghe d 5 ad 8 cm ovate a tre lobi. I fiori sono di color giallo-arancione con una base rossa, sono costituiti da cinque petali lunghi circa 4 cm. È una pianta ornamentale diffusa nei giardini subtropicali.
Campanula poscharskyana , la Campanula serbo o campanula finale , è un semi- sempreverde finale perenne , apprezzata per i suoi fiori di lavanda-blu a forma di stella, nativo alla Alpi Dinariche nella ex Jugoslavia.
Le foglie sono lunghe 2,5-4,0 centimetri (0,98-1,57 pollici). Sviluppa germogli lungo il terreno, lunghi circa 20-25 cm (7,9-9,8 pollici), che poi girano verso l'alto, posizionando i fiori a circa 10 cm (3,9 pollici) dal suolo. I fiori sono blu lavanda e fioriscono da metà primavera all'inizio dell'autunno.
Coltivazione e usi
Campanula poscharskyana prospera all'aperto durante le estati con notti brevi, con più luce che porta più fiori. Anche durante l'inverno sopravvive meglio con molta luce solare. Viene alimentato con fertilizzante ogni due settimane durante l'estate. Richiede molta acqua, ma non sopporta l'acqua stagnante, poiché asfissia le radici. La luce solare diretta a mezzogiorno può far trasparire la morte, perché fa troppo caldo, così come i forti venti, che seccano anche la pianta. La pianta viene coltivata nel nord Europa, sia in aiuole nei giardini che in vasi da fiori sui davanzali, anche se predilige ghiaia o sabbia, per arieggiare le radici.
Durante l'inverno, sopravvive meglio a 5-10 ° C (41-50 ° F), ma può tollerare temperature sia più fredde che più calde. Sebbene sia considerato resistente all'inverno, molti coltivatori lo portano in casa e lo tengono in un terreno leggermente umido su un davanzale o nel seminterrato sotto una lampada.
È comune tagliare la pianta durante l'autunno, per farle risparmiare energia durante l'inverno, e poi ripiantarla in primavera. Durante l'inverno, non è necessario fertilizzante, poiché la pianta non cresce affatto.
Le piante possono essere coltivate da talee o divisione delle radici. [2]
Numerose varietà e cultivar sono state sviluppate per l'uso in giardino, tra cui "Blue Gown", "Blue Waterfall", "Freya", "EH Frost", "Glandore", "Lisduggan Variety", "Senior" e "Silberregen". La cultivar 'Stella' ha guadagnato la Royal Horticultural Society 's Award of Garden Merit . [3]
Le foglie sono commestibili tutto l'anno e possono essere messe in insalata. Parassiti
Tripidi e afidi si nutrono delle foglie.
Houttuynia cordata , noto anche come la menta di pesce , foglie di pesce , piante arcobaleno , impianto camaleonte , foglia cuore , erba di pesce , o coda di lucertola cinese , è una delle due specie del genere Houttuynia (l'altro è H. emeiensis ). È una pianta da fiore originaria del sud-est asiatico . [1] Cresce in luoghi umidi e ombrosi. [2] Prende il nome da Martinus Houttuyn .
Houttuynia cordata è una pianta erbacea perenne che può crescere fino a 0,6-1 m (2 ft 0 in-3 ft 3 in), diffondendosi fino a 1 m (3 ft 3 in). [2] [1] La parte prossimale del fusto è trascinante e produce radici avventizie , mentre la parte distale del fusto cresce verticalmente. Le foglie sono alterne, largamente a forma di cuore, 4-9 cm ( 1
+
1 ⁄ 2 – 3
+
1 ⁄ 2 pollici) di lunghezza e 3-8 cm (1-3 pollici) di larghezza. I suoi fiori sono giallo-verdastri e portati su uno spuntone terminale di2-3 cm ( 3 ⁄ 4 – 1
+
1 ⁄ 4 pollici) di lunghezza con da quattro a sei grandi brattee basali bianche. [2] [1] Fiorisce normalmente in estate.
È considerata una pianta invasiva a causa della sua capacità di far ricrescere i rizomi da qualsiasi segmento del suo fogliame. [3]
Houttuynia cordata "Camaleonte"
L'Houttuynia cordata cresce in terreni da umidi a bagnati o leggermente sommersa dall'acqua, purché sia esposta parzialmente o completamente al sole. [2] [1] Può diventare invasivo nei giardini e difficile da sradicare poiché le sue radici sono profonde e si diffondono attivamente. Si propaga per divisione.
Di solito si trova in una delle sue forme coltivate nei giardini temperati. La varietà 'Chameleon' (sinonimo di H.cordata 'Court Jester', 'Tricolor' e 'Variegata') è leggermente meno vigorosa della specie parentale, con foglie più tozze screziate sia di giallo che di rosso. Un'altra varietà comune, 'Flore Pleno', ha masse di brattee bianche e conserva il vigore della specie madre.
Houttuynia cordata è stata naturalizzata in Nord America. [4]
Fiori raccolti per lo yakmomil-kkot-cha (tè ai fiori) a sokuri
Viene comunemente coltivato come ortaggio a foglia e viene utilizzato come guarnizione a base di erbe fresche . [2] La foglia ha un sapore insolito che viene spesso descritto come "di pesce" (dandosi il soprannome di "pesce alla menta"), quindi non è gustata universalmente come il basilico, la menta o altre erbe più comunemente usate. [ citazione necessaria ]
Nell'India nord-orientale, è comunemente usato in insalate, salse o cucinato con altre verdure e come guarnizione di contorni. Le radici tenere possono anche essere macinate in chutney insieme a carne o pesce secchi, peperoncini e tamarindo . Viene preso crudo come insalata e cotto insieme al pesce come pesce al curry. In Giappone e Corea, le sue foglie essiccate possono essere utilizzate come tisana , che si ritiene abbia proprietà curative. Si chiamaドクダミ茶in Giappone.
Nella cucina vietnamita si chiama giấp cá e si usa con carne alla griglia e insalata di pasta. [5] La menta di pesce può essere usata come guarnizione con diversi piatti vietnamiti, come il manzo saltato in padella gỏi cuốn con insalata di pesce alla menta, [6] [7] e bánh xèo . [8]
Zhe'ergen [ modifica ]
Zhe'ergen viene spesso servito come insalata fredda dopo essere stato lavato, tagliato a dadini e condito con salse derivate da aceto, peperoncino, coriandolo e salsa di soia.
Zhé'ěrgēn ( cinese : , "radice dell'orecchio spezzato") è il rizoma commestibile di Houttuynia cordata ( yuxingcao , "foglia odorosa di pesce") con un sapore fresco, speziato e pepato che viene utilizzato nel sud-ovest cinese cucina, ovvero quella del Guizhou , del Sichuan , dello Yunnan e del Guangxi occidentale . Tipicamente le foglie si mangiano nel Sichuan e la radice nel Guizhou. Lo Zhé'ěrgēn fritto con la rou stagionata (una carne secca che ricorda la "pancetta cinese") è uno dei piatti principali del Guizhou.
Gli usi notevoli includono:
parte della vasta cucina di riso fritto di Guizhou
come componente di salse da immersione utilizzate con la tradizione Shiping e Jianshui del tofu alla brace
consumo crudo come parte di insalate fredde, quando è più frequentemente combinato con coriandolo , aceto , peperoncino fresco e salsa di soia .
Le foglie sono anche un po' pepate e vengono consumate frequentemente nella regione.
Houttuynia cordata è stata utilizzata nella medicina tradizionale cinese , anche da scienziati cinesi nel tentativo di trattare la SARS [9] e vari altri disturbi, [10] sebbene non vi siano ricerche cliniche di alta qualità per confermare che tali usi siano sicuri o efficaci, a partire da 2018. Quando somministrato tramite iniezione, H. cordata può causare gravi reazioni allergiche.
L'ortensia arborescens , comunemente nota come ortensia liscia , ortensia selvatica , sette corteccia o, in alcuni casi, fiore di pecora , è una specie di pianta da fiore della famiglia delle ortensie. È un arbusto deciduo di piccole e medie dimensioni,alto fino a 3 m, originario degli Stati Uniti orientali.
Hydrangea arborescens Annabelle è un arbusto deciduo di medie dimensioni, a crescita rapida, con una forma arrotondata, con un periodo di interesse molto lungo. Enormi fiori di mophead, fino a 1'/30 cm di diametro bianco-verdastro aperto da luglio, diventano bianco crema, poi sbiadiscono in verde lime, poi verde brunastro e infine in un bel beige in inverno - uno dei migliori capolini da catturare gelo e poca luce in inverno. Le tipiche foglie di ortensia in un caratteristico verde piombo appaiono piuttosto più tardi della maggior parte delle ortensie; questi colorano rossastro in autunno prima di cadere. Non sovralimentare, per evitare che i capolini cadano. L'ortensia Annabelle detiene il premio RHS al merito del giardino.
Sito: Riparato Terreno: Qualsiasi terreno ragionevolmente ben drenato, umido, acido-neutro e fertile Posizione: Pieno sole o ombra parziale Stagione di interesse: Fiori in estate e autunno Resistenza: Completamente resistente Altezza: 4-5 piedi (1,2-1,5 m) Diffusione: 4-5 piedi (1,2-1,5 m)
La bocca di leone comune (nome scientifico Antirrhinum majus L., 1753 ) è una pianta dai vistosi fiori colorati appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae.[ Il nome generico (Antirrhinum) deriva da alcune parole greche il cui significato è “simile a un muso (o un naso)”, infatti “anti” = simile e “rhin” = naso e fa riferimento alla particolare forma della corolla definita anche "personata".[2][3] La prima documentazione di questo nome si ha da Joseph Pitton de Tournefort (Aix-en-Provence, 5 giugno 1656 – Parigi, 28 dicembre 1708) un botanico francese; e prima ancora da Teofrasto (371 a.C. – Atene, 287 a.C.) un filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele, autore di due ampi trattati botanici. Anche Dioscoride (Anazarbe, 40 circa – 90 circa), medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone, cita questa pianta affermando che il seme dell'Antirrino mescolato con olio di giglio rende più bella la faccia e la pelle.[4] L'epiteto specifico (majus) deriva dal latino e significa "più grande".[5]
Il nome comune (Bocca di leone) deriva dalla particolare struttura delle labbra del fiore: quello mediano inferiore aderisce al superiore a chiusura della “gola”. Se “strozzato” con le dita (comprimere lateralmente la corolla) le labbra sembrano aprirsi scoprendo la bocca (le fauci) della corolla.[4]
Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo (1707 – 1778), conosciuto anche come Carl von Linné, biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 617"[6] del 1753.[7]
Descrizione delle parti della piantaL'aspetto della pianta è suffruticoso ed è per la maggior parte pelosa. Nella parte aerea è anche glandulosa. La forma biologica è camefita suffruticosa (Ch frut): sono piante dai fusti legnosi e di dimensioni non troppo grandi che d'inverno si seccano completamente, ma alcune gemme rimangono nella parte aerea della pianta. Arrivano ad una altezza massima di 5 - 10 dm.
Radici Le radici sono del tipo a fittone.
Foglie basali: sono in genere opposte e con forme spatolate; non hanno picciolo (oppure è piccolissimo).
Foglie cauline: sono sessili, quasi sempre alterne, lanceolato–lineari (4 - 6 volte più lunghe che larghe); la forma della lamina è intera con superficie pubescente.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi e tetraciclici (ossia formati da 4 verticilli: calice– corolla – androceo – gineceo) e tetrameri (i verticilli del perianzio hanno 4 elementi). Dimensione del fiore: da 4 a 6 cm.
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X o * K (4-5), [C (4) o (2+3), A 2+2 o 2], G (2), capsula.[9]
Il calice, tuboloso-campanulato, più o meno attinomorfo e gamosepalo, è profondamente pentalobato con lobi da subuguali a ineguali (quelli adassiali sono più corti). I lobi hanno delle forme simili a lacinie ovali più piccole della corolla (lunghezza 8 mm).
La corolla, gamopetala e tubolare del tipo bilabiato con 4 - 5 lobi patenti, è rigonfia nella parte basale. Il labbro superiore è verticale e bilobato; quello inferiore è trilobato con il lobo mediano aderente al labbro superiore. Una salienza prominente sul labbro inferiore (una protuberanza sacciforme) chiude all'altezza delle fauci la gola della corolla (corolla "personata"). La corolla può avere vari colori: nelle specie spontanee sono porporini o bianchi; ma se coltivati si possono avere vari colori: giallo, violetto, rosa, ecc. Il colore si schiarisce al centro del tubo. Lunghezza della corolla: 35–45 mm.
L'androceo è formato da 4 stami didinami tutti fertili. I filamenti sono adnati alla base della corolla e sono inclusi o poco sporgenti. Le antere sono formate da due teche distinte e molto divaricate; la deiscenza è longitudinale attraverso due fessure. I granuli pollinici sono tricolpoporati.
Il gineceo è bicarpellare (sincarpico - formato dall'unione di due carpelli connati). L'ovario è supero con placentazione assile e forme da ovoidi o globose a suborbicolari. Gli ovuli per loculo sono numerosi, hanno un solo tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[12] Lo stilo ha uno stigma da capitato a fortemente bilobo. Il disco nettarifero è distinto e presente.
Fioritura: da maggio a settembre (da febbraio a novembre a latitudini più calde).
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo (dopo aver eventualmente percorso alcuni metri a causa del vento - dispersione anemocora) a terra sono dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Distribuzione della pianta
(Distribuzione regionale[15] – Distribuzione alpina[16])
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Ovest - Mediterraneo.
Distribuzione: il luogo d'origine di questa pianta è l'Europa meridionale e il Nord Africa. In particolare è nativa del Marocco, Portogallo, Francia, Turchia (parte est) e Siria. In Italia è soprattutto coltivata come pianta ornamentale; allo stato spontaneo si trova ovunque ma è rara. Nelle Alpi italiane è presente con discontinuità. Fuori dall'Italia, sempre nelle Alpi, questa specie si trova in Francia (tutti i dipartimenti alpini) e in Austria (Länder della Carinzia. Sugli altri rilievi europei collegati alle Alpi si trova nel Massiccio del Giura, Massiccio Centrale, Pirenei e Carpazi.[16] Nel resto dell'Europa e dell'areale del Mediterraneo la "bocca di leone comune" si trova soprattutto nella parte meridionale del continente, in Anatolia, nell'Asia mediterranea e nel Magreb.[17]
Habitat: l'habitat tipico sono i luoghi sassosi e aridi (pietraie e macerie), ma anche i vecchi muri soleggiati e i margini dei sentieri. Il substrato preferito è calcareo ma anche siliceo con pH neutro, medi valori nutrizionali del terreno che deve essere mediamente umido.[16]
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 800 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: montano e collinare (oltre a quello planiziale – a livello del mare).
Dal punto di vista fitosociologico alpino la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[16]
Formazione: comunità delle fessure delle rupi e dei ghiaioni
Classe: Asplenietea trichomanis
Ordine: Parietarietalia judaicae
Alleanza: Centrantho rubri-Parietarion
La famiglia di appartenenza di questa specie (Plantaginaceae) comprende 113 generi con 1 800 specie[9] (oppure secondo altri Autori 114 generi e 2 400 specie[10], o anche 117 generi e 1 904 specie[18] o 90 generi e 1 900 specie[19]) ed è suddivisa in tre sottofamiglie e oltre una dozzina di tribù. Il genere della specie di questa voce appartiene alla sottofamiglia Antirrhinoideae (tribù Antirrhineae) e si compone di una ventina di specie distribuite soprattutto nel Mediterraneo occidentale.[8]
La specie Antirrhinum majus fino a poco tempo fa era circoscritta nella famiglia Veronicaceae o Scrophulariaceae a seconda dei vari Autori.[8] L'attuale posizione tassonomica è stata realizzata con i nuovi sistemi di classificazione filogenetica (classificazione APG).[19]
Il numero cromosomico delle specie di questo genere è: 2n = 16 (32).[8]
Sul territorio italiano è presente la seguente sottospecie:[11]
Antirrhinum majus subsp. tortuosum (Bosc ex Vent.) Rouy, 1909 (Bocca di leone cespugliosa).
Si distingue dalla specie principale per i seguenti caratteri:
Altezza massima: 4–8 dm.
Portamento: il fusto è ramosissimo e glabro (compresa l'infiorescenza).
Foglie: la lamina ha delle forme lineari-lanceolate (9 - 12 volte più lunghe che larghe) con apici acuti, portamento patente o riflesso (dimensione: larghezza 4–5 mm; lunghezza 33–48 mm).
Corolla: il colore della corolla è purpureo con palato bianco o giallo; la lunghezza della corolla è di 30–35 mm.
Fioritura: da marzo a giugno.
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Steno - Ovest - Mediterraneo.
Distribuzione: in Italia è una pianta comune e si trova principalmente al Sud.[15] Nel resto dell'Europa e dell'areale del Mediterraneo la sottospecie tortuosum si trova nella Penisola Iberica, Anatolia, Asia mediterranea e Magreb.[17]
Distribuzione altitudinale: fino a 350 m s.l.m.
Per il suo bell'aspetto derivante dall'elegante forma e polimorfismo dei suoi fiori, la Bocca di leone è frequentemente coltivata nei giardini. Esistono delle varietà bicolore o a colori screziati. Spesso però riesce a propagarsi “in proprio” al di fuori delle coltivazioni umane, e quindi si naturalizza nelle zone temperate delle varie parti del mondo. In Italia la variante rustica sopravvive bene in quanto resiste a temperature anche di alcuni gradi sotto lo zero. A causa dell'intenso utilizzo come pianta decorativa si sono create moltissime varietà. Queste ultime possono dividersi in due categorie: la varietà (cultivar) “nanum” con una quarantina di sfumature diverse di colori e la varietà (cultivar) “pumila” con una ventina di sottotipi diversi.[4]
Anticamente questa pianta aveva anche delle proprietà cosmetiche;[4] mentre per l'industria è utile per ricavare coloranti (verde scuro e oro).[20] Gregor Mendel la usò per le ricerche sulle sue teorie biologiche.[21]
I semi delle bocche di leone hanno una particolare forma che ricorda quella di un teschio umano se visti da vicino.
Solanum è un genere di piante a fiore appartenente alla famiglia delle Solanaceae. Comprende circa 1400 specie, annuali o perenni, cespugliose, arbustive e rampicanti.
Spesso dotate di frutti e fiori attraenti, molte di queste specie sono velenose ma altre producono frutti, foglie o tuberi commestibili, come ad esempio la patata, il pomodoro e la melanzana.
Oltre che per l'uomo, varie specie di Solanum sono nutrimento anche per le larve di alcuni Lepidotteri, tra cui l'Endoclita malabaricus.
Le foglie delle varie specie di Solanum possono avere molte forme diverse: semplici, lobate o composte, glabre o pubescenti.
I fiori sono regolari, con 5 petali e 5 sepali, attinomorfi. Il calice è campanulato. L'ovario è supero bicarpellare e contiene molti ovuli. Gli stami sono 5, spesso inseriti nel tubo corollino.
I frutti sono bacche generalmente colorate e succose. Esempi ben noti sono il pomodoro e la melanzana - anche se le specie selvatiche generalmente producono frutti molto più piccoli.
La velenosità di molte specie è dovuta alla presenza di alcaloidi.
Il maggior numero di specie di questo genere cresce in Sudamerica - non a caso anche la patata e il pomodoro sono originari di questo continente.
Altre zone ricche di specie sono l'Australia, il Sudafrica, il Madagascar, il Messico, i Caraibi.
Peraltro, esistono specie selvatiche di Solanum anche al di fuori di queste aree, in tutto il mondo escluse le regioni artiche.
All'interno di questo areale, il genere è rappresentato in una grande varietà di habitat, compresi deserti e alte montagne.
In Italia sono spontanee due specie: Solanum nigrum e Solanum dulcamara.
Questo genere è stato da sempre diviso in un certo numero di sottogeneri.
In passato, erano stati separati come generi distinti alcuni gruppi di specie. P.es. Solanum lycopersicum (il pomodoro, specie descritta già da Linneo) era diventato per Miller Lycopersicon esculentum, appartenente al genere Lycopersicon affine ma distinto rispetto a Solanum.
Tuttavia, lo studio della filogenesi di queste specie ha condotto gli studiosi recenti a tornare indietro, riportando il pomodoro dentro il genere Solanum e mantenendo la distinzione solo eventualmente come sottogenere (sezione Lycopersicon del genere Solanum).
Il genere Solanum è considerato uno dei generi più importanti per l'alimentazione umana.
Particolarmente importanti sono:
Solanum jasminoides
Nome scientifico: Solanum jasminoides
(Solanum crispum è specie simile ma più rustica e con fiori violetti)
Famiglia: Solanaceae
Origine geografica: America centrale e meridionale, in particolare della zona brasiliana
Descrizione:
specie dal portamento rampicante e sempreverde (nel Centro-Nord Italia si comporta da semisempreverde), presenta foglie sottili e ovate, talvolta finemente lobate che strofinate emanano un odore che ricorda il peperone (solanum capsicum). Le foglie crescono su rami sottili e molto flessibili e alcune di queste all’apice presentano un cirro che consente alla pianta di arrampicarsi. (Necessita dunque di un sostegno per poter ricoprire un muro). I fiori bianchi (sfumati di azzurro o rosa), sono riuniti in mazzetti e crescono sui getti prodotti nell’anno. La pianta in vaso può raggiungere i 2,5-3,5 metri di altezza. In natura arriva anche a 5-6 metri.
Se non trova supporti per arrampicarsi si comporta da pianta strisciante o ricadente con ottimi risultati per balconi e terrazzi
Fioritura:
la fioritura può iniziare ad aprile (se la pianta è forzata, e quindi in genere quando è venduta in vivaio), più facilmente avviene da giugno a ottobre.
COLTIVAZIONE
rampicante semirustico, di recente introduzione nella categoria di piante da balcone in Italia. La crescita è molto vigorosa e la fioritura prosegue fino all’autunno, ma non sempre supera gli inverni rigidi del Nord-Centro Italia
Esposizione: pieno sole. L’esposizione troppo ombreggiata stimola la produzione di lunghi rami che fioriscono in cima e si spogliano alla base
Temperatura: il “boom” di crescita il solanum ce l’ha nel periodo caldo estivo (da giugno ad agosto). Sopporta bene le temperature fresche dei mesi primaverili e autunnali, durante i quali la crescita è comunque modesta. Non è invece garantito che la pianta superi il rigore invernale e per questo conviene provvedere a una protezione del vaso e della base della pianta
Terriccio e concimazione: è sufficiente procurarsi un terriccio universale e in primavera integrare con una buona concimazione organica. La pianta è piuttosto “vorace” e nel corso della stagione è opportuno programmare alcune concimazioni liquide o granulari ogni 3 settimane. Può essere utile una ulteriore concimazione organica nel mese di luglio.
Innaffiatura: il maggiore apporto idrico la pianta lo richiede in estate da giugno ad agosto dove talvolta è necessario irrigare anche tutti i giorni. Nel periodo primaverile e autunnale è invece possibile diminuire l’apporto idrico e “abituare” la pianta a richiedere meno acqua per l’estate.
Malattie: le malattie più frequenti sono quelle classiche da balcone e cioè attacchi di afidi, soprattutto sugli apici vegetativi, di ragnetto rosso, nella pagine inferiore delle foglie in estate, e di alcuni funghi, che fanno ingiallire le foglie nei periodi troppo piovosi e umidi. Talvolta l’ingiallimento delle foglie è dovuto a problemi ambientali e quindi carenza di elementi nutritivi, scarsa irrigazione e terriccio povero.
Potatura e moltiplicazione:
al termine della stagione vegetativa, in autunno, è consigliata una vigorosa potatura di tutti i rami di almeno un terzo. Questo consente alla pianta di superare più facilmente il periodo invernale e soprattutto di produrre, dalla primavera successiva, nuovi getti dalla base. Prima della ripresa vegetativa conviene spuntare ulteriormente tutti i rami (in particolare quelli che più hanno patito l’inverno): questa operazione consente di rendere la vegetazione più fitta e la fioritura abbondante anche nella parte bassa del rampicante.
La moltiplicazione può avvenire per talea: nel periodo estivo si possono realizzare talee apicali dai nuovi getti, in tempi relativamente rapidi la talea emette radici e cresce velocemente.
I nostri consigli:
è utile un’ulteriore potatura a maggio lasciando metà del nuovo getto prodotto. Questo ritarderà la fioritura ma consentirà di averla abbondante e …” a portata d’occhio”
se non avete una parete o una griglia per rampicanti il solanum cresce molto bene anche come ricadente e in genere la fioritura è sin più abbondante
Composizione con altre piante da balcone:
il solanum rampicante può essere abbinato con il trachelospermum, la vegetazione di entrambe le piante non si danneggia e la fioritura bianca è garantita da fine aprile a ottobre
il solanum ricadente può essere coltivato con piante preferibilmente a fiore piccolo e colorato come la Lobelia, la Sanvitalia (ricadenti).
Verbascum L. è un genere di piante della famiglia Scrophulariaceae.
Il nome Verbascum deriva dalla radice virb (proprio anche alla Verbena) che significa verga. Il nome greco invece, phlomos, ha una radice preindoeuropea che è riconducibile a bhle, che significa gonfiarsi, ma anche brillare. Questo deriva dal fatto che la pianta era usata come stoppino per le lucerne fin da tempi antichissimi; anche in accadico il nome della pianta vuole dire lucerna.[1]
Originario dell'Europa e dell'Asia, è presente con alcune specie anche in Italia.
Il genere Verbascum comprende circa 30 specie di piante erbacee perenni ed annuali:[2]
Verbascum agrimoniifolium Huber-Morath
Verbascum austriacum Schott
Verbascum barnadesii Vahl
Verbascum brevipedicellatum (Engl.) Huber-Mor.
Verbascum calycosum Hausskn. ex Murb.
Verbascum chaixii Vill.
Verbascum chinense (L.) Santapau
Verbascum densiflorum Bertol.
Verbascum drymophiloides Gritzenko
Verbascum laxum Filar. & Jav.
Verbascum megricum Huber-Morath
Verbascum nudicaule Takht.
Verbascum oreophilum C. Koch
Verbascum orientale (L.) All.
Verbascum samniticum Ten.
Verbascum schachdagense Gritzenko
Verbascum siculum Tod.
Verbascum songaricum Schrenk
Verbascum speciosum Schrad.
Verbascum suworowianum Kuntze
Verbascum varians Freyn & Sint.
Verbascum virgatum Stokes
Glucosidi, flavonidi, flavonoidi, esperidina, mucillagine, saponine, fitosteroli, verbascosaponina, esperidina, arpagoside, iridoidi, rutina, lutedina, apigenina, aucubina.
Olio essenziale che contiene: Acido fenil carbossilico, acido caffeico, acido ferulico, acido protocatechico, idrati di carbonio, alcaloidi simil-papavero.
Usi
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
In erboristeria sono utilizzati fiori e foglie che vengono utilizzate per:
Le foglie del tasso barbasso offrono gradito nutrimento alla coturnice
Il Lilium candidum L., 1753 (in italiano "giglio candido"), è una pianta bulbosa appartenente alla famiglia delle Liliaceae.
Forma i bulbi al livello del suolo, fa una rosata di foglie alla base d'inverno, che poi muoiono in estate. Il fusto ha molte foglie e di solito raggiunge il 1,2 m di altezza, anche se a volte arriva fino ai 2 m, cresce a fine primavera e fiorisce i suoi fiori (particolarmente profumati) in estate, per questo deve stare esposto al sole. I fiori sono di colore bianco che tende al giallo alla base dei petali.
È suscettibile alle malattie dei normali gigli e del Botrytis cinerea un fungo parassita.
I dipinti della Beata Vergine Maria la mostrano solitamente con questo fiore, che essendo simbolo di purezza e castità, è diventato il simbolo di Maria, a volte nei dipinti che raffigurano l'Annunciazione è l'arcangelo Gabriele che glielo porge. Appare anche nell'iconografia di Sant'Antonio da Padova, che viene raffigurato con questo giglio in mano a simboleggiare la purezza del corpo e dell'anima.
In araldica, il giglio candido era il simbolo della monarchia francese, originariamente infatti era il simbolo araldico della dinastia capetingia ma poi è stato adottato da tutte le successive case regnanti da esse discese. Viene detto infatti "giglio di San Luigi" proprio perché è presente nell'iconografia dell'unico re della dinastia capetingia proclamato santo, Luigi IX di Francia, che considerava i tre petali simbolo della fede, della saggezza e della cavalleria, tuttavia dal XIV secolo i tre petali saranno considerato in Francia il simbolo della Trinità. Come simbolo dei Borbone, è entrato anche nell'araldica di altri regni, come ad esempio nella bandiera del Regno delle Due Sicilie o nella bandiera spagnola (oltre che ovviamente nel suo stemma) dove è tutt'oggi presente.
È presente anche nello stemma della città di Firenze e nella bandiera provinciale del Québec, fondato dai francesi nell'ambito della Nuova Francia ed ora parte del Canada francese.
Hypericum calycinum
Hypericum Calycinum è un arbusto a fogliame persistente.
Raggiunge l'altezza e il diametro di 0,40 m.
Pianta dalla forma arrotondata, eccellente pianta tappezzante.
Sbocciano grandi fiori dal diametro di 7 cm di color giallo oro, da Luglio a Settembre. Rustico e senza esigenze sulla natura del terreno e sull'esposizione.
Resiste bene all'ombra. Consigliato potare regolarmente a fine inverno.
Hypericum Calycinum viene utilizzato per bordure, giardino roccioso, rivestimento di scarpate e sottobosco.UISTA QUESTA PIANTA
Origine: Bulgaria, Turchia
Portamento: arbusto nano tappezzante rustico
Foglie: ampie verde scuro
Epoca di fioritura: Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre
Terreno: secco ed ombroso
Clima: temperato
Temperatura Minima: -30/-20 °C
L'iperico (L.) (nome scientifico Hypericum perforatum ma comunemente nota anche col nome di erba di San Giovanni), è una pianta officinale perenne semisempreverde appartenente alla famiglia delle Clusiaceae (Guttiferae) e al genere Hypericum. Fa parte della medicina tradizionale per via delle sue proprietà fitoterapeutiche, in particolare quelle antidepressive e antivirali[1]. Le origini del suo uso come erba medicinale sono molto antiche e se ne trova traccia negli scritti di molti secoli fa.
L'epiteto specifico perforatum deriva dal fatto che le foglioline, controluce, appaiono bucherellate, effetto dovuto a ghiandole traslucide presenti anche nei sepali e nei petali.
I nomi comuni e volgari sono invece molti. Il più comune è Erba di San Giovanni. Questo epiteto è legato al fatto che la fioritura massima si ha verso il 24 giugno, ricorrenza di San Giovanni[2]. Il nome di erba dall'olio rosso è dovuto al colore dell'essudato rilasciato dai fiori ricco nel principio attivo ipericina; il nome "scacciadiavoli", molto usato nei secoli passati, deriverebbe dal fatto che quest'erba consacrata a San Giovanni e dalle molteplici proprietà terapeutiche, si riteneva fosse efficace contro ogni tipo di male; un'altra spiegazione si ricongiungerebbe ad una delle teorie etimologiche del nome scientifico, ossia quella dell'uso di appenderla sopra le icone per scacciare gli spiriti maligni. Infine il termine pilatro sembra derivi dal greco pylè - "meato", in riferimento alla bucherellatura delle foglie.
Il 24 giugno viene effettuata la raccolta delle sue sommità fiorite. In alcune zone è noto anche con il nome di "erba scacciadiavoli", veniva bruciata in casa proprio per allontanare spiriti maligni.
E' stata considerata un'erba magica per secoli, in generale protettiva contro i fantasmi, i fulmini e la stregoneria.
I latini lo consideravano una delle piante più solari esistenti in natura. Il suo nome infatti significa "cum-hyperione" cioè il padre dell'aurora e del sole.
Morfologia
È una pianta perenne semi-sempreverde, glabra, con fusto eretto percorso da due strisce longitudinali in rilievo. È ben riconoscibile anche quando non è in fioritura perché le sue foglie in controluce appaiono "bucherellate": si tratta in realtà di piccole vescichette oleose da cui deriva il nome perforatum; ai margini sono invece visibili dei punti neri, strutture ghiandolari contenenti Ipericina (un olio color rosso), queste strutture ghiandolari sono presenti soprattutto nei petali. Le foglie sono opposte oblunghe. I fiori giallo oro hanno 5 petali delicati e sono riuniti in corimbi.
Habitat
Preferisce boschi radi e luminosi, comunque all'aperto per tutto l'anno, poiché non teme il freddo. Originario dell'arcipelago britannico, è oggi diffuso in tutte le regioni d'Italia e nel resto del mondo. Predilige posizioni soleggiate o semiombreggiate e asciutte, come campi abbandonati ed ambienti ruderali.
Usi e farmacologia
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Benché già noto alla medicina antica (ne parlano Dioscoride, Galeno, Plinio il Vecchio e Mattioli[3]) l'uso più interessante dell'iperico è scoperta relativamente recente: ormai numerosi studi ne hanno dimostrato l'efficacia antidepressiva, specie nel caso di depressione lieve e moderata, con un effetto paragonabile ad alcuni psicofarmaci antidepressivi.
Una review degli studi al 2008 condotta dalla Crochane Collaboration, una delle istituzioni scientifiche più autorevoli al mondo, conclude che "le attuali evidenze suggeriscono che gli estratti di hypericum sono superiori al placebo nel trattamento della depressione maggiore, con una efficacia simile ai classici farmaci antidepressivi ma con significativamente meno effetti collaterali."[4] Alla stessa conclusione giunge una review degli studi pubblicata nel 2016, in cui si sottolinea però che la raccolta e segnalazione degli effetti collaterali è sottoposta ad una sorveglianza meno stringente di quella a cui sono sottoposti i comuni farmaci per cui, nonostante sia in uso da secoli, la sicurezza specie nel lungo termine, non è stata ancora studiata approfonditamente.[5]
Il suo uso è particolarmente diffuso in Germania, dove viene consigliato come trattamento nella depressione negli adolescenti, prima di tentare la via farmacologica.[6] A volte è utilizzato, associato ad altri prodotti, anche per il trattamento fitoterapico di alcune forme d'ansia. Gli studi utilizzano generalmente degli estratti standardizzati di Iperico (spesso prodotti da società svizzere e tedesche col nome di LI 160, WS 5570/2 e ZE 117) ad alta concentrazione di principi attivi (che generalmente si attestano attorno allo 0,3% in ipericina e al 3-6% in iperforina) che la European Scientific Cooperative on Phytotherapy (ESCOP, l'ente scientifico europeo sulla fitoterapia) consiglia di assumere al dosaggio di 300–1800 mg/giorno.[1]
Il meccanismo d'azione antidepressivo dei suoi principi attivi solo ora comincia ad essere delucidato ed appare essere solo parzialmente correlato a quello dei classici farmaci ad oggi più utilizzati. Il principio inizialmente ritenuto attivo era l'ipericina ma i recenti sviluppi hanno chiarito che anche gli altri composti presenti negli estratti contribuiscono sinergicamente all'efficacia. Di questi fanno parte:[7]
naftodiantroni: di cui fanno parte principalmente ipericina, pseudoipericina, isopericina e protopericina. Sono fotoreattive e sono causa probabilmente dell'azione fotosensibilizzante degli estratti. Ne contengono una concentrazione media del 0,2-0,3%.
floroglucinoli: iperforina, un altro dei maggiori componenti attivi, e suoi analoghi insieme ad altri composti lipofilici. L'iperforina è instabile sia all'ossigeno che alla luce.
flavonoidi: amentoflavone, quercitina, luteina, iperina ed altri che sono presenti negli estratti ad una concentrazione media del 7-12%.
altri composti con probabili effetti di sinergia sia farmacodinamica sia farmacocinetica (tannini, xantani, composti fenolici, polisaccaridi).
L'iperforina è in grado di inibire il reuptake (ricaptazione) della serotonina in modo diverso dagli SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitor): mentre questi bloccano l'attività del trasportatore della serotonina (SerT, che funziona grazie ad un gradiente Na+/Cl-) per inibizione competitiva, l'iperforina (e forse gli altri composti attivi) sembrano aumentare il gradiente di sodio e calcio intracellulare influenzando di conseguenza la suddetta pompa Na+/Cl- (che funziona raccogliendo Na+ dallo spazio sinaptico) e riducendo quindi l'attività del SerT. Inoltre si è dimostrata in grado di agire in maniera simile su un ampio altro numero di trasportatori, inibendo la ricaptazione di dopamina, glutammato, noradrenalina e GABA con IC50 (concentrazione di principio attivo che causa una inibizione del 50%) di 0.05-0.1 µg/mL. Tale attività si crede sia dovuta alla capacità dell'ipericina di attivare il transient receptor potential channel protein 6 (TRPC6), un canale ionico appartenente alla più ampia classe dei canali cationici non selettivi (NSCCs, delle proteine in grado di regolare il movimento cellulare di cationi come Na+ e Ca2+) che porta ad un incremento dell'uptake del sodio nel neurone, causando quindi una diminuzione della sua concentrazione nel vallo sinaptico e l'indisponibilità per le proteine trasportatrici per le monoammine.[7] Ciò però non ne spiega completamente l'attività farmacologica: uno studio del 2014 ha mostrato come l'iperforina stesa agisca da agente protonoforo inducendo una corrente di H+ che induce una acidificazione del citosol e un ulteriore incremento delle concentrazioni di sodio intracellulari.[8] Al contrario di quanto causato dagli antidepressivi serotoninergici, l'iperforina si è dimostrata in grado di incrementare il numero di recettori per la serotonina a seguito di somministrazione cronica, suggerendo un potenziale effetto benefico.[9]
L'ipericina ha dimostrato avere forte affinità per i recettori sigma, i quali regolano a loro volta i livelli di dopamina. Inoltre agisce da antagonista sui recettori per l'adenosina, GABA-A, GABA-B e inositoli trifosfati, i quali regolano i potenziali d'azione causati dai neurotrasmettitori. Altri studi hanno dimostrato come l'ipericina sia un inibitore degli enzimi Mono Ammino Ossidasi (il target farmacologico degli antidepressivi cosiddetti MAOI) anche se tale azione non sembra essere significativa alle concentrazioni normalmente raggiunte con l'uso degli estratti.[7]
Gli estratti hanno poi notevoli proprietà antiossidanti e neuroprotettive, nonché di miglioramento delle proprietà vascolari, che ne hanno suggerito l'uso in alcune patologie neurologiche.[7] Per tali proprietà, degli studiosi affermano che gli estratti di iperico dovrebbero essere un trattamento di prima scelta della depressione negli anziani con elevato stress ossidativo.[10]
Queste qualità possono però essere sfruttate solo da preparazioni farmaceutiche perché in Italia una disposizione del Ministero della Salute limita la quantità di ipericina presente in prodotti erboristici a 21 microgrammi al giorno, quindi molto inferiore ai dosaggi dimostrati utili per la cura della depressione e perciò priva di utilità pratica, essendo inoltre stato dimostrato in diversi trial che la concentrazione di iperforina è direttamente proporzionale agli effetti terapeutici.[1]
Nella medicina tradizionale l'iperico è usato come antisettico. Tali usi sono in parte dovuti alle proprietà antibatteriche e antivirali dell'iperforina che è in grado di bloccare la crescita di batteri Gram+ (ma non Gram-), in particolare di ceppi resistenti ad altri antibiotici come Methicillin-resistant (MRSA) e penicillin-resistant (PRSA) Staphylococcus aureus, e interferire in vari stadi del ciclo vita dei virus incapsulati compreso quello dell'influenza, specie quando attivata dalla luce.[7]
Nella fitoterapia tradizionale, invece, dell'iperico sono state valorizzate principalmente le qualità astringenti, antinfiammatorie e antibatteriche, anche per uso interno ma soprattutto per uso esterno nel trattamento di scottature, emorroidi, ferite, piaghe.[11]. A tal fine viene preparato sotto forma di olio di iperico, un oleolito dal caratteristico colore rosso, preparato macerando la pianta nell'olio di oliva al sole per 6-7 giorni.
Nel trattamento delle ferite, la sua capacità sembra essere dovuta alla stimolazione della produzione di collagene; gli estratti di iperico sembrano possedere attività antinfiammatorie per inibizione di geni proinfiammatori come quelli delle COX-2, interleuchine-6 e iNOS.[7]
Tutti i più recenti trial clinici e revisione di studi concludono che gli estratti di iperico sono più tollerabili dei più comuni psicofarmaci, causando minori effetti collaterali e con tassi di miglioramento spesso simili al farmaco. Tuttavia sono possibili pericolose interazioni con diversi farmaci.[1][7]
Sono stati evidenziate interazioni con altri farmaci in quanto la pianta è un forte induttore del CYP3A4, enzima che metabolizza l'80% dei farmaci in commercio. È sconsigliato pertanto assumere l'iperico insieme ad anticoncezionali, antiepilettici, warfarin. Inoltre presenta interazioni con immunosoppressori (ciclosporina), glicosidi cardiache (digossina) in caso di dosi di iperico superiori a 1 grammo/die (peso secco), inibitori non-nucleosidici della trascrittasi inversa HIV (nevirapina), altri inibitori della proteasi inversa HIV (indinavir), chemioterapici (irinotecan)[12]
Ad alte dosi provoca fotosensibilizzazione, pertanto è sconsigliato sottoporsi a trattamento solarium o UV (dopo assunzione di dosaggi estremamente elevati di estratto secco titolato in ipericina o di ipericina isolata). Non esistono rischi di fotosensibilizzazione in caso di assunzione di dosaggi normali di estratti idroalcolici di iperico ma persone appartenenti a fototipi sensibili (pelle chiara, capelli biondi, occhi azzurri) dovrebbero fare attenzione a sottoporsi a trattamenti UV in caso di assunzione regolare.
È sconsigliato l'uso contemporaneo con SSRI, a causa dei possibili effetti di addizione e superamento della dose tossica.
La macerazione in olio utilizzata per la preparazione dell'olio di iperico, invece, fa degradare l'ipericina eliminando così buona parte delle controindicazioni ma anche l'attività antidepressiva.
Lavandula L. 1753 è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Lamiaceae, dall'aspetto di piccole erbacee annuali o perenni dalla tipica infiorescenza a spiga.
Il nome comune "lavanda" con il quale siamo abituati a chiamare queste piante (ma anche quello scientifico Lavandula) è stato recepito nella lingua italiana dal gerundio latino del verbo "lavare" (lavandus, lavanda, lavandum = "che deve essere lavato") per alludere al fatto che queste specie erano molto utilizzate nell'antichità (soprattutto nel Medioevo) per detergere il corpo.[2]
Il nome scientifico del genere è stato proposto per la prima volta dal botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (Aix-en-Provence, 5 giugno 1656 – Parigi, 28 dicembre 1708)[3] e fissato definitivamente da Linneo (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2: 572. 1753"[4] del 1753.[5] Il nome scientifico della tribù è stato definito dal botanico italiano, di origine franco-inglese Théodore (italianizzato in Teodoro) Caruel (Chandernagor, 27 giugno 1830 – Firenze, 4 dicembre 1898) nella pubblicazione "Flora Italiana. Firenze - 6: 53. Sep 1884." del 1884.[6][7]
Le specie di questo genere hanno un portamento arbustivo o subarbustivo o cespitoso-arbustivo oppure raramente erbaceo di breve durata. Queste piante sono fortemente aromatiche. L'indumento può essere glabro o variamente pubescente talvolta con peli stellati. La forma biologica prevalente (almeno per le specie della flora spontanea italiana) è nano-fanerofite (NP), ossia sono piante perenni e legnose, con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 30 cm e i 2 metri.[3][8][9][10][11][12][13]
Le radici sono perlopiù legnose.
I fusti in genere sono eretti e ramificati oppure semplici; non sono rigidi con cortecce bruno-rossastre oppure sempreverdi.
Le foglie lungo il caule sono disposte in modo opposto; spesso si trovano fascicolate alla base della pianta. Le foglie sono colorate di verde cinereo. La lamina può essere intera lineare, lanceolata o pennatifida/pennatosetta.
Le infiorescenze sono terminali con i fiori raggruppati in sottili spighe tirsoidi alla fine di lunghi scapi. Nell'infiorescenza sono presenti delle brattee persistenti a volte anche colorate e disposte in modo opposto o a spirale; mentre le bratteole sono minute o assenti. Il numero dei fiori disposti a verticilli varia da 2 a 10 oppure uno solo ma in questo caso senza bratteole. I fiori sono sessili o pedicellati.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla - androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice sono a 5 parti).
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 nucule glabre e lisce. Le nucule sono provviste di areole ed hanno delle varie forme, dimensioni e colori. La deiscenza è basale o laterale.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri (impollinazione entomogama).[9][15]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria). I semi hanno una appendice oleosa (elaisomi, sostanze ricche di grassi, proteine e zuccheri) che attrae le formiche durante i loro spostamenti alla ricerca di cibo.[16]
Le specie del genere Lavandula sono diffuse nel bacino del Mediterraneo (anche nell'areale della Macaronesia), nell'Africa del Nord e nell'Asia dalla Penisola Arabica fino all'India.[8] L'habitat è quello tipico da temperato a subtropicale.
Delle 5 specie spontanee della flora italiana 2 vivono sull'arco alpino. La tabella seguente mette in evidenza alcuni dati relativi all'habitat, al substrato e alla distribuzione delle specie alpine[17].
Tassonomia
La famiglia di appartenenza del genere (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie[11], ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia. La famiglia è suddivisa in 7 sottofamiglie; il genere Lavandula è descritto nella tribù Lavanduleae (di cui è l'unico genere) che appartiene alla sottofamiglia Nepetoideae.[1]
In passato questo genere era incluso nella sottotribù Lavandulinae Endl., 1838 a sua volta descritta nella tribù Ocimae Dumort., 1829. Il genere composto da una quarantina di specie viene suddiviso in sette sezioni.[8] Di queste solamente tre (con 5 specie) interessano la flora spontanea italiana (vedere il paragrafo "Specie spontanee italiane"). All'interno della sottofamiglia, in base a ricerche filogenetiche di tipo molecolare, il genere risulta in posizione basale e quindi "gruppo fratello" del resto della sottofamiglia.[18]
Il numero cromosomico delle specie di questo genere è 2n = 18, 24, 30, 36, 42 e 54.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
La lavanda è conosciuta fin dai tempi più antichi per le sue proprietà antiemetiche, antisettiche, analgesiche, battericide, vasodilatatorie, antinevralgiche, per i dolori muscolari ed è considerata un blando sedativo. L'olio essenziale di lavanda è l'olio eterico più utilizzato in profumeria.
In aromaterapia, viene utilizzata come antidepressivo, tranquillizzante, equilibrante del sistema nervoso, come decongestionante contro i raffreddori e l'influenza. Inoltre viene ritenuta efficace per abbassare la pressione arteriosa, per ridurre i problemi digestivi ed è miscelata con altre sostanza omeopatiche per curare il mal di schiena e il mal d'orecchie.[21]
Qualche goccia di olio essenziale, aggiunta nell'acqua del bagno, aiuta a rilassare. Per uso cosmetico, se utilizzata nell'ultimo risciacquo, quando si lavano i capelli, oltre che dare un profumo delizioso, aiuta a combattere i capelli grassi.
I fiori di lavanda, contrariamente a tante altre specie, conservano a lungo il loro aroma anche se secchi. È infatti consuetudine mettere dei sacchetti di tela nei cassetti per profumare la biancheria. La pianta, che era già nota agli antichi, veniva usata anche per la preparazione di talismani e portafortuna, legati a pratiche magiche ed esoteriche.
Il rovo (Rubus ulmifolius Schott, 1818) è una pianta spinosa appartenente alla famiglia delle Rosaceae.
Si presenta come arbusto perenne, sarmentosa con fusti aerei a sezione pentagonale lunghi anche oltre 6 metri, provvisti di spine arcuate.
È una semicaducifoglia; infatti, molte foglie permangono durante l'inverno.
Le foglie sono imparipennate, variabilmente costituite da 3 a 5 foglioline a margine seghettato di colore verde scuro, ellittiche o obovate e bruscamente acuminate, pagina superiore glabra e pagina inferiore tomentosa con peli bianchi e spine nella nervatura principale.
I fiori, bianchi o rosa, sono composti da cinque petali e cinque sepali. Sono raggruppati in racemi a formare infiorescenze di forma oblunga o piramidale. Il colore dei petali varia da esemplare a esemplare con dimensioni comprese tra i 10 e 15 mm. La fioritura compare al principio dell'estate, in giugno.
Il frutto commestibile, la mora, è composto da numerose piccole drupe, verdi al principio, poi rosse e infine nerastre a maturità, derivanti ognuna da carpelli separati ma facenti parte di uno stesso gineceo. In Italia il frutto è maturo in agosto e settembre; il gusto è variabile da dolce ad acidulo.
La moltiplicazione della pianta avviene per propaggine apicale o talea.
Il suo areale comprende quasi tutta l'Europa, il Nordafrica e il sud dell'Asia. È stata introdotta anche in America e Oceania.
La pianta è indicativa di terreni profondi e leggermente umidi. La riproduzione è sessuale attraverso i semi contenuti nelle drupe, ma anche vegetativa attraverso l'interramento di rami che danno origine ad una pianta nuova.
È considerata una infestante in quanto tende a diffondere rapidamente e si eradica con difficoltà. Né il taglio né l'incendio risultano efficaci. Anche gli erbicidi danno scarsi risultati. Poiché è una pianta eliofila, tollera poco l'ombra degli altri alberi, pertanto si riscontra nel mantello dei boschi e lungo i sentieri, nelle siepi e nelle macchie.
Spesso nei boschi i rovi formano delle vere barriere intransitabili. Specialmente in associazione con la vitalba, essi possono creare dei grovigli inestricabili spesso a danno della vegetazione arborea che viene in pratica aggredita e soffocata. Tali situazioni sono quasi sempre l'espressione di un degrado boschivo.
Il nome scientifico di questa specie è composto dal nome di genere Rubus e da quello di specie ulmifolius.
Rubus (dal latino ruber, rosso) potrebbe far riferimento al colore dei frutti maturi di altre specie dello stesso genere, come il lampone, o direttamente alla forma immatura del frutto di questa specie stessa.
Ulmifolius (dal latino ulmus, olmo e folia, foglia) deriva dalla similitudine con le foglie dell'albero Ulmus minor.
La pianta è utilizzata anche per delimitare proprietà e poderi, con funzioni principalmente difensive, sia per le numerose e robuste spine che ricoprono i rami, sia per il fitto e tenace intrico che essi formano, creando una barriera pressoché invalicabile.
Altre funzioni delle siepi di rovo sono nella fornitura di nettare per la produzione del miele anche monoflorale, in Spagna e Italia, e ancora nella associazione di specie antagoniste di parassiti delle colture (ad esempio le viticole), e nella formazione di corridoi ecologici per specie animali.
Il frutto, annoverato tra i cosiddetti frutti di bosco, ha discrete proprietà nutrizionali con marcata presenza di vitamine C e A. Cento grammi di more fresche contengono infatti 52 kcal, 0,7 g di proteine, 0,4 g di lipidi, 12,8 g di glucidi, 32 mg di calcio, 0,6 mg di ferro, 6,5 er (equivalente in retinolo) di vitamina A, 21 mg di vitamina C. Presenta indicazioni in erboristeria per le sue proprietà astringenti e lassative.
Si tratta di un frutto delicato, che mal si presta a lunghe conservazioni. È commercializzato per scopi alimentari al naturale e come guarnizione di dolci, yogurt e gelati, oppure nella confezione di marmellate, gelatine, sciroppi, vino e acquavite (ratafià).
Nell'uso popolare, i giovani germogli, raccolti in primavera, sono ottimi lessati brevemente e consumati con olio, sale e limone, al pari di molte altre erbe selvatiche primaverili.
I germogli primaverili, colti quando il sole è alto, lavati e lasciati a macerare in una brocca di acqua fredda tutta la notte, producono una bevanda rinfrescante.
Le more presentano un contenuto nutrizionale significativo in termini di fibra alimentare, vitamina C, vitamina K, acido folico - una vitamina B, e il minerale essenziale manganese, come mostra la seguente tabella.
Le more rappresentano un'eccezione tra le altre bacche della specie Rubus per via dei semi grandi e numerosi, non sempre apprezzati dai consumatori. Essi contengono grandi quantità di acidi grassi omega-3 (acido alfalinolenico) e omega-6 (acido linoleico), proteine, fibra alimentare, carotenoidi, ellagitannini e acido ellagico.
Farmacognosia
Dalla parte aerea di Rubus ulmifolius sono stati isolati 3 nuovi antroni: rubantrone A, B e C. Il rubantrone A ha mostrato di possedere attività antimicrobica verso Staphylococcus aureus[3].
È un arbusto, talvolta piccolo albero alto fino a 4 m, a fogliame caduco, molto decorativo e una caratteristica e abbondante fioritura, con fiori di colore bianco, profumati e riuniti in corimbi o cime ombrelliformi, i cui fiori esterni sono più grandi, appariscenti e sterili. I frutti sono grappoli di drupe rosse che rimangono fino all'inverno.
Distribuzione e habitat
Diffuso dall'Europa al Giappone; in Italia è presente dal piano ai 1100 metri, non è segnalato nelle isole maggiori, in Puglia e in Calabria.
Vive in boschi umidi, pioppeti, siepi. Predilige suoli calcarei. È usato anche come pianta ornamentale.
Il genere Helichrysum appartiene alla famiglia delle Asteraceae e comprende circa 600 specie di piante a fiore.
Il suo nome deriva dalle parole greche helios (sole) e chrysos (oro), sia perché ogni capolino di colore giallo brillante ricorda il sole sia perché la pianta, molto frugale, vive in luoghi assolati (dalla costa fino all'alta collina).
È provvisto di una modesta radice a fuso e numerose radichette da cui partono vari fusticini ramosi su cui si innestano le foglie lineari di color grigio/cinerino.
I fiori, di forma rotonda e a petali sottili, sono riuniti in capolini di vario colore dal giallo, al rosa, al rosso.
Le foglie sono oblunghe-lanceolate. Sono piatte e pubescenti su entrambe le facce.
Fiorisce in estate. È comune nelle zone pietrose e aride, sulle colline calcaree. Si raccoglie tutta la piantina. Nell'elicriso coltivato per il giardinaggio la caratteristica del fiore è che ha i petali secchi e ben si adatta alla conservazione.
L'Helichrysum angustifolium è distillato in corrente di vapore per la produzione di un olio essenziale di colore giallo-rossastro nel quale la sostanza presente in maggiore quantità e che conferisce all'essenza l'odore caratteristico è l'acetato di nerile.
Hillard (1983) divide questo largo ed eterogeneo genere in 30 gruppi morfologici, ma molti autori lo considerano un genere di tipo artificiale. La tassonomia di questo polimorfico, e probabilmente polifiletico, genere è di fatto complessa e non ancora risolta in modo soddisfacente. Alcune specie, come H.acuminatum e H.bracteatum, sono state trasferite nel 1991 nel genere Xerochrysum, rispettivamente come X. subundulatum e X. bracteatum. Nel 1989, varie specie di Helichrysum sono state riclassificate in Syncarpha. Le specie incluse in Pseudognaphalium invece sono probabilmente congeneriche di Helichrysum.
Le piante appartenenti al genere hemerocallis sono apprezzate soprattutto per le forme e i colori straordinari dei fiori dalla bellezza fugace, effimera; infatti il nome hemerocallis (di origine greca) significa “bellezza di un giorno”, espressione che si riferisce proprio alla breve durata dei fiori dell'hemerocallis.
Le piante di Emerocallide sono erbacee perenni, con radice tuberosa, originarie dell'Asia e dell'Europa; l'apparato radicale ingrossato costituisce, a livello del terreno, una larga corona carnosa, dalla quale spuntano numerosissime foglie nastriformi, simili a grossi steli di erba, arcuate, lunghe 40-70 cm, che costituiscono ampi cespi; da giugno-luglio fino ai freddi autunnali tra le foglie si sviluppano alcuni fusti eretti, carnosi, rigidi, alti 70-100 cm, che portano numerosissimi boccioli, che sbocciano in successione; ogni singolo fiore dura soltanto un giorno, ma ogni pianta produce numerosi steli floreali, ognuno dei quali porta molti fiori, quindi la fioritura delle hemerocallis dura settimane.
I fiori sono costituiti da sei larghi petali, leggermente carnosi, arrotolati verso l'esterno, di forma triangolare; esistono fiori con forme leggermente diverse, decisamente triangolari, oppure arrotondati, a forma di imbuto. Le specie botaniche hanno fiori di colore giallo, arancio e rosso.
La diffusione di queste piante come essenze da giardino e come fiori recisi ha però portano alla produzione di numerosissimi ibridi, dai colori più disparati: generalmente hanno la gola di colore giallo o verde, il colore dei petali invece può essere il più vario, dal bianco fino al porpora scurissimo, quasi nero; esistono poi molte varietà a più calori, con il bordo contrastante o con striature di due o tre colori. Le specie sono numerose, alcune sempreverdi, altre a foglie caduche.
Caduco, persistente o semipersistente (a seconda della varietà)
In fioriere, aiuole, bordure o giardini rocciosi
Limacce, afidi, ruggine, ragno rosso
Resiste al caldo e al freddo (anche a temperature inferiori allo 00).
Emerocallidi - Hemerocallis
Pianta perenne con radici rizomatose, le specie botaniche di emerocallidi provengono dall'Asia, ma da molti decenni queste piante stanno riscuotendo un enorme successo in occidente, in particolare neg...
Eremoro - Eremurus
L'Eremurus o eremoro è una varietà di bulbosa originaria dell'Asia centrale appartenente alla famiglia delle Liliacee. Il suo bulbo si caratterizza per essere una radice tuberosa che presenta 2 o 3 ge...
Hedychium densiflorum
pianta perenne rizomatosa, originaria dell'Asia; forma ampi cespi di lunghe foglie lanceolate, di colore verde scuro o verde bluastro, a seconda della specie. I densi cespugli possono raggiungere con ...
L'emerocallide resiste sia alle temperature elevate sia a quelle basse, anche inferiori allo 0°.
La coltivazione dell'hemerocallis
Ricco di humus, leggero, drenante
Eliminazione degli steli e delle foglie appassiti
Nel periodo della fioritura: ogni 2-3 settimane
Il calendario dell'hemerocallis
Giugno-luglio (a seconda delle varietà)
Per una migliore fioritura si può utilizzare un concime ogni 2-3 settimane.
Jasminum L. è un genere di piante (che include varie specie del gelsomino) appartenente alla famiglia Oleaceae.[1]
Comprende circa 200 specie arbustive e rampicanti alte fino a 4-6 metri, tra cui le più note e coltivate come piante ornamentali sono il Gelsomino comune, il Gelsomino di Spagna, il Gelsomino trifogliato e il Gelsomino marzolino; specie più rustiche, a fiore giallo e fioritura a fine inverno sui rami nudi, sono il Gelsomino di san Giuseppe e il Gelsomino primulino.
I fiori sono comunemente piccoli e di colore bianco, però esistono anche specie i cui fiori hanno sfumature di rosa sulla pagina inferiore dei petali.
Con il termine gelsomino ci si può riferire anche a piante di altre famiglie e generi quali:
gelsomino rampicante o gelsomino sempreverde, detto anche "falso gelsomino": Trachelospermum jasminoides
gelsomino notturno (Cestrum nocturnum): della famiglia delle Solanaceae
Alcune specie
Le specie più commercializzate sono:
Jasminum officinale; originario dell'Iran, della Cina e dell'India; noto come 'gelsomino comune', pianta rampicante con piccoli fiori bianchi, con un odore caratteristico, resiste bene al gelo e in alcune zone dell'Italia, si trova rinselvatichito allo stato spontaneo.
Jasminum grandiflorum originario dal Nepal e noto come 'gelsomino di Spagna' (Catalugno) o 'gelsomino di Sicilia'[2] a foglie persistenti e fiori grandi che sbocciano dalla primavera all'autunno, e nelle regioni a clima mite anche d'inverno, è una pianta rampicante poco rustica, adatta a climi miti, dove viene utilizzata per ricoprire pergole, muri e recinzioni.
Jasminum azoricum, noto come 'gelsomino trifogliato', viene utilizzato come pianta ornamentale per ricoprire pergole, muri e recinzioni.
Jasminum polyanthum, originario della Cina, noto come 'gelsomino bianco', pianta rampicante vigorosa e rustica, alta fino a 6 m se coltivato in piena terra, che d'inverno e in primavera produce numerosi grappoli di fiori bianchi esternamente rosati, profumati.
Jasminum nudiflorum (gelsomino di San Giuseppe)[3] e il Jasminum primulinum originari della Cina, a fiori gialli non profumati, piante sarmentose, dalle lunghe ramificazioni pendule, con fiori ascellari che sbocciano a fine inverno inizio primavera.
Jasminum sambac, noto come 'gelsomino d'Arabia', può raggiungere i 3–4 m di altezza. Fiorisce dall'inizio dell'estate fino all'inizio dell'autunno (giugno-ottobre), producendo numerosissimi fiori bianchi particolarmente profumati.
Fiore
Oggi il genere Jasminum è utilizzato a scopi ornamentali, in piena terra nei giardini, come arbusti isolati o per rivestire muri, recinzioni e pergolati. Un tempo si credeva avesse innumerevoli virtù officinali. Il famoso olio di gelsomino, che i Persiani offrivano agli invitati nei banchetti, si arricchisce da Dioscoride a Linneo d'una quantità di potenzialità terapeutiche legate alla sessualità. Per quanto lo Jasminum officinalis d'origine persiana fosse noto anche agli antichi Greci e Romani, il primo a coltivarlo davvero in Italia fu Cosimo I de Medici, che naturalmente ne aveva proibito la diffusione fuori dai giardini granducali[1][4]; l'Inghilterra dovrà addirittura aspettare il 1730, quando riceverà una pianta dal Malabar.
Nel frattempo si era diffuso anche lo Jasminum sambac di più facile coltura, che resta tranquillamente all'aperto nelle zone temperate. Ecco dunque coltivazioni industriali in Calabria e Sicilia (se ne ricavano profumi) ed una discreta presenza in tanti altri giardini italiani.
Nel trapanese è tradizionalmente utilizzata in infuso per una delicata granita, chiamata Scursunera, inserita tra i prodotti agroalimentari tradizionali.
Secondo l'aromaterapia, il profumo di gelsomino sarebbe euforizzante e stimolerebbe direttamente l'ipotalamo a produrre encefaline[senza fonte], sostanze che oltre ad inibire il dolore procurano uno stato di benessere e di felicità. Il gelsomino dissolve le paure e le tensioni legate alla sessualità ed è tradizionalmente usato per curare i disturbi uterini e per facilitare il parto[senza fonte].
Le sue virtù officinali sono tuttavia state smentite dalla farmacopea moderna.
Pur essendo piante rustiche preferiscono posizioni soleggiate, clima fresco e devono essere coltivate in vaso nelle zone a clima sfavorevole; richiedono terreno di medio impasto, sciolto e ben concimato nella bella stagione fino all'autunno e la somministrazione mensile di un fertilizzante liquido[5].
Nelle regioni a clima invernale rigido le specie meno rustiche vengono coltivate in vaso con appositi sostegni circolari, assumendo la forma di piccolo cespuglio alto circa 1 m, utilizzato per decorare terrazzi o appartamenti.
Per i soggetti coltivati in vaso, bisogna rinvasare o negli esemplari più grandi interrare nuovamente in primavera, utilizzando terriccio universale; nella bella stagione si giovano dell'esposizione all'aperto.
La moltiplicazione avviene facilmente per mezzo di talea e propaggine, grazie al rapido radicamento.
Origanum L., 1753 è un genere di piante spermatofite dicotiledoni della famiglia delle Lamiaceae.
In tempi moderni, prima ancora di Carl von Linné è stato il botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (Aix-en-Provence, 5 giugno 1656 – Parigi, 28 dicembre 1708) a denominare queste piante. In realtà l'etimologia del nome del genere si può far risalire a 2000 anni prima presso i greci, forse da Teofrasto (371 a.C. – Atene, 287 a.C.) un filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele, autore di due ampi trattati botanici che per primo ha usato questo nome per un'erba aromatica[2]. Origanum è formato da due parole "òros" (= monte) e "ganào" (= io mi compiaccio) che insieme potrebbero alludere ad un concetto di "delizia della montagna"[3] o anche "bellezza, luminosità, ornamento, gioia della montagna"[4], oppure perché cresce bene in montagna o nei piani alti delle zone assolate.
Il nome scientifico del genere è stato definito da Linneo (1707 – 1778), conosciuto anche come Carl von Linné, biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione "Species Plantarum - 2. 1753" del 1753.[5]
Queste piante arrivano ad una altezza massima di 7–8 decimetri (70–80 cm). La forma biologica prevalente è emicriptofita scaposa (H scap), ossia sono piante erbacee, a ciclo biologico perenne, con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve e sono dotate di un asse fiorale eretto e spesso privo di foglie. Sono presenti anche altre forme biologiche come camefita suffruticosa (Ch suffr), ossia piante perenni e legnose alla base (subarbustive), con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 2 ed i 30 cm (le porzioni erbacee seccano annualmente e rimangono in vita soltanto le parti legnose). Tutta la pianta è aromatica.[3][6][7][8][9][10][11]
Le radici sono secondarie generate da un fittone. I fittoni possono essere obliqui e più o meno legnosi.
La parte aerea del fusto è ascendente (talvolta prostrata alla base) ed eventualmente ramosa (ma i rami inferiori sono sterili). Il fusto è pubescente, talvolta legnoso, ed ha una sezione quadrangolare a causa della presenza di fasci di collenchima posti nei quattro vertici, mentre le quattro facce sono concave.
Le foglie lungo il fusto sono disposte in modo opposto (in genere a 2 a 2). Sono picciolate con una lamina a forma lanceolata oppure ovata, spesso asimmetrica alla base; i bordi sono dentellati. Le foglie sono colorate di verde. Le stipole sono assenti.
L'infiorescenza è sia corimboso-ramosa, formata da densi glomeruli ovali, che panicolata, formata da dense spighe peduncolate con forme più o meno ovate e fiori (non molti - massimo 8-10); i fiori sono sessili. Alla base del glomerulo/spiga sono presenti due brattee violaceo-purpuree o verdi con forme ovali-rombiche cigliate sui bordi e con la superficie pelosa; possono essere (oppure no) ricoperte di ghiandole.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi, tetrameri (4-ciclici), ossia con quattro verticilli (calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (5-meri: la corolla e il calice - il perianzio - sono a 5 parti). Raramente i fiori sono poligamo-dioici (fiori ermafroditi e femminili su piante distinte come in Origanum vulgare).
Formula fiorale. Per la famiglia di queste piante viene indicata la seguente formula fiorale:
X, K (5), [C (2+3), A 2+2] G (2), (supero), 4 nucule[7][9]
Calice: il calice del fiore è del tipo gamosepalo, attinomorfo (o debolmente zigomorfo - ma non bilabiato - con forma di un cono aperto su un lato) e terminate con 5 denti triangolari-acuti più o meno uguali (sono lunghi 1/3 del tubo). La superficie del calice, pubescente, è percorsa da 10 - 13 nervature longitudinali. Le fauci sono pelose.
Corolla: la corolla, gamopetala, è a simmetria sublabiata (più o meno zigomorfa con struttura 2/3) terminante con 5 lobi patenti. Il tubo è cilindrico-campanulato e buona parte di esso è ricoperto dal calice. Il labbro superiore è retuso (bilobo) con forme ovali ed è piegato all'insù; il labbro inferiore ha tre lobi oblungo-ovati. Il colore è bianco o roseo.
Androceo: gli stami sono quattro (manca il mediano, il quinto) didinami con il paio anteriore più lungo, sono visibili e sporgenti; gli stami sono tutti fertili nei fiori ermafroditi, sono ridotti o assenti nei fiori femminili. I filamenti sono glabri e divergenti. Le antere, hanno forme da ellissoidi a ovato-oblunghe, mentre le teche sono distinte e si presentano da divergenti a divaricate. I granuli pollinici sono del tipo tricolpato o esacolpato.
Gineceo: l'ovario è supero formato da due carpelli saldati (ovario bicarpellare) ed è 4-loculare per la presenza di falsi setti divisori all'interno dei due carpelli. L'ovario è glabro. La placentazione è assile. Gli ovuli sono 4 (uno per ogni presunto loculo), hanno un tegumento e sono tenuinucellati (con la nocella, stadio primordiale dell'ovulo, ridotta a poche cellule).[12] Lo stilo (caduco) inserito alla base dell'ovario (stilo ginobasico) è del tipo filiforme e più lungo degli stami. Lo stigma è bifido con corti lobi subuguali. Il nettario è un disco più o meno simmetrico alla base dell'ovario ed è ricco di nettare.
Il frutto è uno schizocarpo composto da 4 nucule. La forma è ovoide (con apice arrotondato) con superficie glabra e liscia. Il colore è marrone.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti tipo ditteri e imenotteri, raramente lepidotteri (impollinazione entomogama).[7][13]
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (dopo essere stati trasportati per alcuni metri dal vento – disseminazione anemocora) sono successivamente dispersi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria). I semi hanno una appendice oleosa (elaisomi, sostanze ricche di grassi, proteine e zuccheri) che attrae le formiche durante i loro spostamenti alla ricerca di cibo.[14]
Le specie di questo genere (circa 40 - 50) sono originarie soprattutto del bacino del Mediterraneo (ma alcune specie sono presenti anche in Asia[15]) e prediligono habitat temperato-caldi. Circa il 60% dei taxa crescono in Anatolia, questo potrebbe indicare tale area geografica come il centro di origine delle specie di Origanum. In questa regione è inoltre alto il tasso di endemismo.[16]
Delle tre specie presenti sul territorio italiano, due si trovano nell'arco alpino. La tabella seguente mette in evidenza alcuni dati relativi all'habitat, al substrato e alla distribuzione delle specie alpine
La famiglia di appartenenza del genere (Lamiaceae), molto numerosa con circa 250 generi e quasi 7000 specie, ha il principale centro di differenziazione nel bacino del Mediterraneo e sono piante per lo più xerofile (in Brasile sono presenti anche specie arboree). Per la presenza di sostanze aromatiche, molte specie di questa famiglia sono usate in cucina come condimento, in profumeria, liquoreria e farmacia.[9] Attualmente con le moderne tecniche di analisi di tipo filogenetico del DNA la famiglia Lamiaceae è stata suddivisa in 7 sottofamiglie: il genere Origanum è descritto nella tribù Mentheae (sottotribù Menthinae) appartenente alla sottofamiglia Nepetoideae.[6][18]
Le specie del genere Origanum, tradizionalmente, nella flora spontanea italiana sono suddivise in due sezioni con i seguenti caratteri:[3]
Euoriganum: le brattee dell'infiorescenza sono poco pelose (quasi glabre) e il calice è quasi regolare (attinomorfo con i 5 denti più o meno simili). Specie presenti: O. vulgare.
Majorana: le brattee sono tomentose e il calice è zigomorfo (aperto anteriormente). Specie presenti: O. majorana e O. onites.
Il numero cromosomico delle specie di questo genere è 2n = 30 (32).
L'origano non è importante solo per il suo utilizzo in cucina ma anche per le sue numerose proprietà terapeutiche. I suoi principi attivi sono principalmente i fenoli Timolo e Carvacrolo oltre a grassi, proteine, sali minerali, vitamine e carboidrati.
Le sue proprietà terapeutiche sono: antalgico, antisettico, analgesico, antispasmodico, espettorante, stomachico e tonico. Il suo olio essenziale è molto utilizzato nell'aromaterapia. I suoi infusi sono consigliati contro la tosse, le emicranie, i disturbi digestivi e i dolori di natura reumatica svolgendo una funzione antinfiammatoria.[21]
L'origano è una delle erbe aromatiche più utilizzate nella cucina mediterranea in virtù del suo intenso e stimolante profumo. Si usa in innumerevoli preparazioni su carni e su pesce, nelle insalate e sulla pizza. Le cucine dell'Italia meridionale e della Sicilia ne fanno grande uso.
L'origano è anche un buon repellente per le formiche: basta cospargerlo nei luoghi frequentati e ricordarsi di sostituirlo spesso per tenerle lontane. Inoltre è una pianta mellifera e si può ottenere del miele in alcune zone dove l'origano è molto diffuso. vale la stessa cosa per la maggiorana, ma la pianta è più piccola e meno diffusa dell'origano, e il miele di questa si trova solo mescolato in altri.
La malva selvatica (Malva sylvestris L., 1753) è una pianta appartenente alla famiglia delle Malvaceae.[1] Il nome deriva dal latino malva significa molle, perché dai tempi più antichi se ne conoscono le proprietà emollienti.
È una pianta erbacea annuale, biennale o perenne. Ha un fusto eretto o prostrato che può crescere dai 60 agli 80 cm.
Le foglie di forma palminervia dai 5 ai 7 lobi e margine seghettato irregolarmente.
I fiori sono riuniti all'ascella delle foglie e spuntano da aprile a ottobre, di colore rosaceo con striature scure, con petali bilobati. Il frutto è un poliachenio circolare.
Distribuzione e habitat
Originaria dell'Europa e Asia temperata, è presente nei prati e nei luoghi incolti di pianura.
Proprietà e usi
I principi attivi si trovano nei fiori (Malvae flos) e nelle foglie (Malvae folia F.U.XI) che sono ricchi di mucillagini; contiene anche potassio, ossalato di calcio, vitamine e pectina. In cucina si usano i germogli, i fiori freschi o le foglioline[2]. Utilizzata come verdura, può regolare le funzioni intestinali grazie alle mucillagini che si gonfiano e premono delicatamente sulle pareti dell'intestino, stimolandone la contrazione e quindi agevolandone lo svuotamento. In erboristeria se ne commerciano le foglie e i fiori prevalentemente per le proprietà antiinfiammatorie ed emollienti, per uso sia esterno che interno. La pianta è largamente impiegata contro le infiammazioni delle mucose e le forme catarrali delle prime vie bronchiali, ed anche come lassativa, antiflogistica, emolliente e oftalmica. Per tali usi le foglie vengono preparate in decotto, affinché le mucillagini possano sciogliersi nell'acqua.[3]
È pianta visitata dalle api per il polline[4] ed il nettare.[5]
Gardenia J.Ellis, 1761 è un genere di piante della famiglia delle Rubiaceae, rappresentato in Asia, Africa e Oceania. Il nome deriva dal botanico scozzese Alexander Garden.
Il genere comprende un numero molto grande di specie, compreso, a seconda degli autori, tra 60 e 250. Molte di queste, in particolare quelle originarie di Cina, Giappone e Africa del Sud, sono conosciute in Italia nella veste di apprezzate piante ornamentali.
Le gardenie si presentano in forma di arbusti a foglie sempreverdi, alti fino a 2 m, a portamento cespuglioso, robusti, con foglie persistenti, coriacee, ovali-lanceolate, di colore verde-scuro brillante. Nei paesi tropicali possono avere anche portamento arboreo (fino a 15 m di altezza).
I fiori sono grandi, bianchi o giallo pallido, spesso molto profumati, solitari (terminali) o riuniti in infiorescenze, a fioritura estiva. I petali sono fusi alla base in un tubo e sono in numero variabile, da 5 a 12; i fiori sono spesso doppi.
I frutti sono bacche o drupe e contengono una polpa ricca di semi.
Tassonomia
Il genere comprende oltre un centinaio di specie.
Usi
Molto coltivata industrialmente in vaso per la produzione forzata primaverile del fiore reciso, nei climi miti può essere coltivata in piena terra nei giardini.
Vengono coltivate come piante ornamentali le numerose varietà ottenute da Gardenia jasminoides e da Gardenia grandiflora che mostrano una vegetazione più aperta e vigorosa delle specie originarie con fiori molto più grandi. In Francia il fiore della Gardenia viene indossato per tradizione dagli uomini come accessorio per il frac. In The Age of Innocence, Edith Wharton afferma che gli uomini i nobili newyorkesi erano soliti portare una Gardenia sulla giacca durante l'Età dell'oro.[2]
Alcune specie di Gardenia, in particolare Gardenia erubescens e Gardenia lutea, sono usate per l'alimentazione umana e in erboristeria nei paesi d'origine (in Africa).
Coltivazione e propagazione
Desidera posizione a mezz'ombra o nei climi freschi anche in pieno sole, terriccio d'erica misto a terriccio di faggio e di castagno addizionato con sabbia, fresco; nella stagione invernale proteggere le piante dal freddo (max -8 °C) con stuoie di canne, annaffiature generose nella bella stagione, mantenendo fresco il suolo con adeguata pacciamatura.
Può risultare utile la nebulizzazione con acqua tiepida per aumentare l'umidità atmosferica e prevenire la caduta di abbozzi fiorali.
Si moltiplica d'estate sotto vetro per mezzo di talea prelevata dai getti dell'anno, o con la margotta.
La Begonia corallina, o tamaya, o corallina di Lucerna (Begonia corallina, sin. B. albo-picta), appartiene alla famiglia delle Begoniacee.
Tra le tante begonie che possono popolare i nostri appartamenti, la begonia corallina è una pianta spettacolare per le infiorescenze pendule, che spesso si avvicendano per quasi tutto l’anno, se vive nell’ambiente ideale, che la porta a crescere velocemente.
Richiede una periodica legatura dei nuovi fusti e rami ai tutori, a meno di non farla crescere pendula dall’alto. Meglio trovare una collocazione non di passaggio, dove possa stare indisturbata, perché con gli urti le foglie si staccano subito e, a volte, si spezzano i rametti e i fusti.
Commercializzata sotto forma di piccolo arbusto (circa 1 m d’altezza) con lo stelo nudo e una fitta ma leggera chioma a ombrello, è caratterizzata da fusti rigidi (ma incapaci di sostenersi da soli: necessitano di alti tutori, visto che possono allungarsi sino a 2 m) che ricordano una canna di bambù con nodi e internodi.
Le foglie di forma eccentrica (il picciolo è spostato rispetto al mezzo), color verde bottiglia picchiettato di argento, sospese tra la voglia di rivolgersi verso l’alto e la forza di gravità che le attira in basso, le conferiscono un portamento diverso da ogni altra pianta.
I fiori danzanti hanno il colore del corallo (con l’eccezione della varietà ‘Fragrans’ in cui sono candidi), da cui il nome scientifico di Begonia corallina e il secondo nome comune di “Corallina di Lucerna”. Le infiorescenze appaiono dal secondo anno di vita (su rami dell’anno precedente).
Originaria della foresta tropicale del Brasile, vive bene in un vaso in plastica, di diametro minimo di 16 cm per una sola canna. Rinvasate ogni anno gli esemplari giovani, ogni 2-3 anni quelli adulti, con substrato a base di torba (2 parti), terra di foglia e sabbia (1 parte ciascuna). Serve un buon drenaggio sul fondo del vaso.
Vuole un’esposizione luminosa ma non battuta dai raggi solari, mentre a mezz’ombra fiorisce poco.
La temperatura minima è di 12 °C, quella ideale fra 20 e 26 °C. Può svernare in una stanza fresca, ma sta bene anche in casa in una stanza non troppo riscaldata. Ama invece stare all'aperto da maggio a settembre in posizione luminosa ma senza raggi diretti.
L’acqua va data una volta a settimana tutto l’anno in media quantità, senza far asciugare troppo il terriccio; ogni 15 giorni in inverno se la pianta sverna in luogo fresco.
Il concime si somministra da marzo a ottobre, sotto forma di un prodotto liquido per piante da fiore nell’acqua d’annaffiatura ogni 15 giorni; una volta al mese da novembre a febbraio se la pianta sverna in ambiente riscaldato. Se la pianta non fiorisce e produce foglie piccole, la concimazione è inadeguata.
Eliminate le canne secche e potate i rami ingombranti riutilizzandoli per talee. La moltiplicazione infatti è facilissima: si effettua in maggio-giugno per talea di ramo posta a radicare in acqua; invasate dopo un mese dalla comparsa delle prime radici.
I nuovi getti basali producono rami che rimangono eretti fino a 40 cm d’altezza e in seguito, sotto il loro stesso peso, tendono a incurvarsi, rischiando di spezzarsi; inserite nel pane di terra sino allo strato di drenaggio (meglio ancora al momento del trapianto) i tutori in metallo plasticato verde, uno ogni due fusti che vanno legati con filo di plastica morbida.
Se sulle foglie appaiono ingiallimenti che progrediscono sulla lamina a partire dalla punta e pian piano si seccano, fino alla caduta, è un eccesso di umidità o di freddo.
Se le foglie si piegano verso il basso, appaiono molli, inconsistenti, e alla fine cadono, è la mancanza d’acqua o di umidità; aumentate la frequenza delle irrigazioni (più che la quantità), non effettuate vaporizzazioni, che lasciano aloni bianchi sulle foglie.
Ipomoea L., 1753 è un genere delle Convolvulaceae che comprende circa 500 specie note col nome vernacolo di campanelle (nome comune anche per specie di altri generi). Il genere è originario dei paesi tropicali asiatici e americani. In Italia il genere è poco rappresentato essendo presenti allo stato spontaneo Ipomoea purpurea, Ipomoea sagittata e Ipomoea stolonifera[1].
Uso
Come piante ornamentali per ricoprire pergolati, recinzioni, muri.
I tuberi di alcune specie, come ad esempio Ipomoea batatas, vengono consumate come alimento.
La specie tropicale Ipomoea aquatica viene consumata in Asia come verdura.
I semi della specie Ipomoea violacea contengono LSA, una sostanza dagli effetti allucinogeni.
Le specie bulbose vogliono terreno leggero e si moltiplicano per propaggine o con la semina, le specie erbacee annuali sono di facile coltivazione, vogliono esposizione calda e soleggiata, terreno ben concimato, si moltiplicano all'inizio della primavera con la semina sul posto, per ottenere prolungate fioriture estive.
Comprende specie rampicanti annuali, perenni e anche 2 specie ornamentali con radici bulbose, l'Ipomoea bonariensis originaria dell'Argentina e l'Ipomoea pandurata pianta molto rustica originaria dell'America settentrionale, piante rampicanti con fusti volubili, che portano foglie cuoriformi, e fiori estivi campanulati, di colore lilla-purpureo nell'Ipomoea bonariensis e di colore bianco con la gola rossa nell'Ipomoea pandurata; tra le specie erbacee annuali, tutte rampicanti a crescita rapida, con fogliame cuoriforme, ricordiamo l'Ipomoea purpurea a fiori grandi campanulati-imbutiformi, di colore violetto o rosso-purpureo con la gola bianca, con numerose varietà a fiore bianco o blu-intenso; l'Ipomoea hederacea con grandi fiori di colore azzurro-cielo a gola bianca; l'Ipomoea tricolor originaria del Messico, con fiori di colore azzurro appena sbocciati, che nel tempo diventano rosa ed infine purpurei; l'Ipomoea quamoclit pianta molto decorativa, di modesto sviluppo, poco rustica originaria delle zone tropicali asiatiche, con fogliame leggero e pennato, fiori tubulosi di piccole dimensioni, di colore rosso-scarlatto; ed infine l'Ipomoea versicolor nota anche come Mina lobata con piccoli fiori di colore rosso-carminio che nel tempo vira sul giallo.
Pæonia (Peonia L., 1753)[1] è l'unico genere appartenente alla famiglia delle Peoniacee (Paeoniaceae (Raf., 1815))[2] ed costituito da diverse piante perenni a portamento erbaceo o arbustivo, molto apprezzate per le notevoli e profumate fioriture.
Le peonie sono erbe o arbusti, alte fino a circa 2 metri ed ancorate al suolo da radici tuberose. Le foglie sono sempre caduche. I fiori sono grandi e molto colorati. Gli stami sono molto numerosi (in alcune specie possono essere più di 200). I frutti contengono semi scuri molto grossi (anche più di 1 cm di diametro).
Le specie più utilizzate come piante ornamentali vengono suddivise in floricoltura in due gruppi distinti:
Peonie erbacee, comprendono le varietà derivate dalla P. officinalis di origine europea, con fiori privi di profumo, portati da steli uniflori, e della P. lactiflora originaria della Siberia, con fiori al profumo di rosa portati da steli multiflori, molto decorativi e con una vasta gamma di colori dal bianco al rosso
Peonie legnose o arboree, originarie della Cina, sono piante piuttosto rustiche, abbastanza facili da coltivare e si adattano molto bene al clima continentale sono anche molto resistenti alla siccità estiva ed esplodono con la loro generosissima fioritura ai primi tepori primaverili, purché si abbia l'accortezza di non potarle drasticamente (vale a dire che le piante non vanno recise "raso terra", cioè senza lasciare ramificazioni munite di gemme "fertili"). Più difficoltà comporta la moltiplicazione per divisione dei cespi radicali, che è sempre un'operazione estremamente delicata e va condotta con la massima cura e nel periodo giusto.
La distribuzione naturale del genere Paeonia si estende in modo frammentato all'intero emisfero boreale: Europa (essenzialmente meridionale e orientale), Nordafrica (molto localizzata), Asia (principalmente Asia Minore, Siberia, Cina, Giappone e Himalaya), Nordamerica solo sul versante Pacifico[2].
Il genere Paeonia attualmente comprende 35 specie
Utilizzate come piante ornamentali nei giardini per formare aiuole e macchie fiorite su tappeti erbosi, o in vaso sui terrazzi; le numerose varietà orticole a fiore semplice o doppio dai vari colori, vengono coltivate industrialmente per la produzione del fiore reciso.
Come pianta officinale per le proprietà medicinali.
Sono piante facili da coltivare, gradiscono esposizione in pieno sole o mezz'ombra, suolo ben concimato con sostanze organiche, neutro o leggermente acido, privo di calcare, fresco nei mesi estivi, si giovano di una pacciamatura con letame bovino ben maturo.
Si moltiplicano a fine autunno per divisione dei vecchi cespi, lasciando un occhio per ogni porzione, con fioritura piena dal secondo-terzo anno dall'impianto. L'impianto della peonia va fatto possibilmente in un luogo abbastanza lontano dalle radici di altre piante, in modo da lasciarle uno spazio di crescita sufficiente.
La semina viene poco utilizzata, in quanto richiede lunghi tempi di cure colturali.
Anguillosi fogliare - le foglie attaccate dai nematodi della specie Aphelenchoides olesistus si presentano clorotiche e traslucide, successivamente marciscono o disseccano; le piante colpite hanno fioriture stentate
Muffa grigia - dovuta ad attacchi di funghi come Botrytis paeonia (Oud.) van Beyma o Botrytis cinerea Pers., provocano il marciume dei getti, che imbruniscono e si ricoprono di muffa grigiastra
L'oleandro (Nerium oleander L., 1753) è un arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, unica specie del genere Nerium[1]. È forse originario dell'Asia ma è naturalizzato e spontaneo nelle regioni mediterranee e diffusamente coltivato a scopo ornamentale.
L'oleandro ha un portamento arbustivo, con fusti generalmente poco ramificati che partono dalla ceppaia, dapprima eretti, poi arcuati verso l'esterno. I rami giovani sono verdi e glabri. I fusti e i rami vecchi hanno una corteccia di colore grigiastro.
Le foglie, velenose come i fusti, sono glabre e coriacee, disposte a verticilli di 2-3, brevemente picciolate, con margine intero e nervatura centrale robusta e prominente. La lamina è lanceolata, acuta all'apice, larga 1–2 cm e lunga 10–14 cm.
I fiori sono grandi e vistosi, a simmetria raggiata, disposti in cime terminali. Il calice è diviso in cinque lobi lanceolati, di colore roseo o bianco nelle forme spontanee. La corolla è tubulosa e poi suddivisa in 5 lobi, di colore variabile dal bianco al rosa e al rosso carminio. Le varietà coltivate sono a fiore doppio e sono quasi tutte profumate. L'androceo è formato da 5 stami, con filamenti saldati al tubo corollino. L'ovario è supero, formato da due carpelli pluriovulari. La fioritura è abbondante e scalare, ha inizio nei mesi di aprile o maggio e si protrae per tutta l'estate fino all'autunno.
Il frutto è un follicolo fusiforme, stretto e allungato, lungo 10–15 cm. A maturità si apre longitudinalmente lasciando fuoriuscire i semi. Il seme ha dimensione variabile dai 3 ai 5 mm di lunghezza e circa 1 mm di diametro ed è sormontato da una peluria disposta ad ombrello (impropriamente detta pappo) che permette al seme di essere trasportato dal vento anche per lunghe distanze.
Esigenze e adattamento
L'oleandro è una specie termofila ed eliofila, abbastanza rustica. Trae vantaggio dall'umidità del terreno rispondendo con uno spiccato rigoglio vegetativo, tuttavia ha caratteri xerofitici dovuti alla modificazione degli stomi fogliari che gli permettono di resistere a lunghi periodi di siccità. Teme il freddo, pertanto in ambienti freddi fuori dalla sua zona fitoclimatica deve essere posto in luoghi riparati e soleggiati. Viene coltivato in tutta Italia a scopo ornamentale e spesso è usato lungo le strade perché non richiede particolari cure colturali[2].
Nonostante il portamento cespuglioso per natura, può essere allevato ad albero per realizzare viali alberati suggestivi per la fioritura abbondante, lunga e variegata nei colori. In questo caso richiede frequenti interventi di spollonatura per rimuovere i polloni basali emessi dalla ceppaia.
Ecologia
L'oleandro ha un areale piuttosto vasto che si estende nella fascia temperata calda dal Giappone al bacino del Mediterraneo. In Italia vegeta spontaneamente nella zona fitoclimatica del Lauretum presso i litorali, inoltrandosi all'interno fino ai 1000 metri d'altitudine lungo i corsi d'acqua. In effetti si tratta di un elemento comune e inconfondibile della vegetazione riparia degli ambienti mediterranei, quasi sempre associato ad altre specie riparie quali l'ontano, la tamerice, l'agnocasto. S'insedia sia sui suoli sabbiosi alla foce dei fiumi o lungo la loro riva, sia sui greti sassosi, formando spesso una fitta vegetazione.
L'associazione vegetale riparia con una marcata presenza dell'oleandro è una particolare cenosi vegetale che prende il nome di macchia ad oleandro e agnocasto, di estensione limitata. Si tratta di una naturale prosecuzione dell'oleo-ceratonion, dal momento che le due cenosi gradano l'una verso l'altra con associazioni intermedie che vedono contemporaneamente la presenza dell'oleandro e di elementi tipici della macchia termoxerofila (lentisco, carrubo, mirto, ecc.). Un caso singolare, forse unico in natura, si rinviene nella Gola di Gorropu fra il Supramonte di Orgosolo e quello di Urzulei in Sardegna: in questo caso la macchia ad oleandro e agnocasto si inoltra fino ai 1000 metri, confinando con la lecceta primaria.
Avversità
Tra le avversità tipiche di questa pianta si annovera la rogna dell'oleandro, la quale viene curata attraverso la potatura della parte malata e la successiva somministrazione di fungicidi rameici.
Farmacognosia
L'oleandrina, una tossina presente nell'oleandro
L'oleandro è una delle piante più tossiche che si conoscano. Tutta la pianta (foglie, corteccia, semi) è tossica per qualsiasi specie animale. Se ingerita porta a:
bradicardia ed aumento della frequenza respiratoria[3].
disturbi gastrici, tra cui vomito, nausea e bruciore
disturbi sul sistema nervoso centrale, tra cui assopimento.
Responsabile di questa estrema tossicità è, insieme agli alcaloidi, l'oleandrina, un glicoside cardiotossico (con struttura simile alla ouabaina) e inibitore della pompa sodio-potassio a livello di membrana cellulare.
L'oleandro contiene una serie di altri principi tossici, che si conservano anche dopo l'essiccamento.
Altre sostanze che si trovano in natura, con lo stesso meccanismo di azione, sono la digossina, la digitale purpurea ed il giglio della valle.
Le specie animali più colpite sono gli equini, i bovini e i piccoli carnivori. Nel cavallo abbiamo anche la comparsa di gravi e profonde lesioni a livello della mucosa orale. La morte sopraggiunge per collasso cardio-respiratorio solo nel caso in cui se ne ingeriscano grandi quantità.
Le sue proprietà tossiche sono state usate come "arma" per l'omicidio descritto nel film White Oleander.
Inoltre la storia ci racconta che diversi soldati delle truppe napoleoniche morirono per avvelenamento dopo aver usato rami di oleandro come spiedi nella cottura della carne alla brace, durante le campagne militari in Italia.
È una pianta a crescita rapidissima, tipica di stagni e invasi con acque stagnanti o quasi prive di corrente, profondi 5–50 cm ed oltre.
Questa specie ha foglie di colore verde-glauco, peltate, di aspetto ceroso, grandi fino a 60 cm di diametro, che emergono per oltre 1 m dal pelo dell'acqua, con un lungo peduncolo che supera in lunghezza il picciolo, i fiori di grandi dimensioni oltre 20 cm di diametro, sono colorati di rosa con un tipico profumo d'anice, con frutti molto ornamentali.
Simbologia
Il fior di loto viene considerato un fiore sacro per l'Induismo e il Buddhismo, mentre in India è uno dei simboli nazionali e appare nelle bandiere di alcuni principati indiani (prima dell'unificazione) e in due delle quattro varianti della bandiera dell'indipendenza indiana, presentata nel 1907 a Stoccarda, da Bhikaiji Cama, un'importante rappresentante del Movimento per l'indipendenza indiana.
Nel Buddhismo è il simbolo dell'essenza della vita umana (buddhità) che, pur rimanendo pulita, affonda le radici nel fango della realtà. Senza il fango il loto non può esistere, così come il Buddha si manifesta grazie agli affanni della vita quotidiana. Inoltre il loto sviluppa il frutto e il seme nello stesso periodo e quindi è il simbolo della legge buddista di causa-effetto.
Il fiore di loto, detto anche Padma, loto sacro, loto indiano o rosa del Nilo, ha un′accezione particolare, quello della purezza del corpo dell′anima. Viene considerato tale perché viene associato al Buddha e ai suoi insegnamenti. La leggenda narra che in ogni luogo dove Buddha faceva i suoi primi passi, nascevano fiori di loto. Le divinità sono solite essere rappresentate sedute su questo fiore. Nella letteratura classica asiatica, esprime grazia, eleganza, bellezza, purezza e perfezione.
I fiori di loto si differenziano in base al colore.
Loto azzurro: allude al trionfo dello spirito sui sensi, saggezza e conoscenza. È un tipo di loto quasi sempre chiuso, simbolo di chi cela il suo interno.
Loto bianco: esprime la perfezione dello spirito e della mente, la purezza e la natura incontaminata.
Loto rosso: ci parla del cuore, della sua innocenza, l′amore, la passione, la comprensione. È conosciuto anche come il fiore del Buddha della Compassione.
Loto rosa: è il fiore più importante e viene collegato alle divinità, come Buddha.
Usi
Come pianta ornamentale per decorare stagni, vasche e laghetti, o coltivata in vasche idroponiche
I particolari frutti opportunamente essiccati vengono utilizzati nelle composizioni floreali, per decorare saloni e appartamenti
Nel loto, i fiori, i semi, le foglie giovani e i rizomi sono tutti commestibili. In Asia, i petali vengono mangiati mentre le foglie sono solitamente utilizzate come piatto per il cibo. Il rizoma (pning in Cinese, ngau in Cantonese, bhe in India e Pakistan, e renkon in Giapponese) è utilizzato come condimento. I petali, le foglie e i rizomi possono essere consumati anche crudi ma per il rischio di trasmissione di parassiti è consigliata la cottura.
Nymphaea L. 1753 è un genere di piante angiosperme appartenenti alla famiglia delle Ninfeacee[1] dai fiori acquatici molto grandi e decorativi.
Il botanico Paolo Bartolomeo Clarici (1664 - 1725) nei suoi scritti afferma che il nome di questo genere (e della sua specie più conosciuta) fu voluto dal filosofo e botanico greco antico Teofrasto (in greco “Θεόφραστος”; Ereso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.) e da Dioscoride Pedanio (Anazarbe in Cilicia, 40 circa – 90 circa) medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone ”...perché ella ami e cresca nei luoghi acquatici e paludosi...”; ma, in alternativa a quando appena detto (è sempre il Clarici che scrive) Plinio riferisce che questi fiori furono nominati da una Ninfa tramutata in questo fiore perché gelosa di Ercole. In realtà sembra che il nome generico (Nymphaea) derivi dal vocabolo arabo "nenufar" (derivato a sua volta dal persiano "loto blu"). Ad introdurlo nella nomenclatura botanica è stato il medico, botanico e teologo tedesco Otto Brunfels (Magonza, 1488 – Berna, 25 novembre 1534) nel 1534[2].
Il nome scientifico attualmente accettato di questo genere (Nymphaea) è stato proposto in via definitiva da Carl von Linné (Rashult, 23 maggio 1707 –Uppsala, 10 gennaio 1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
I dati morfologici si riferiscono soprattutto alle specie europee e in particolare a quelle spontanee italiane.
Il portamento (Nymphaea alba)
Sono piante acquatiche tipicamente radicanti e perenni. Alcune specie possono essere considerate palustri in quanto riescono a sopportare facilmente abbassamenti temporanei del livello dell'acqua. L'altezza media di queste piante dipende dalla profondità del bacino idrico e comunque superano raramente i due metri. La forma biologica della specie è idrofita radicante (I rad); ossia sono piante acquatiche perenni le cui gemme si trovano sommerse o natanti e hanno un apparato radicale che le ancora al fondale. Molte caratteristiche avvicinano queste piante alle Monocotiledoni.
Le radici sono secondarie da rizoma e sono fissate sul fondo fangoso. Generalmente scaturiscono dal fusto subacqueo in posizione opposta ad ogni inserzione fogliare.
Sezione del fusto
Parte ipogea: il fusto (la parte sommersa ovviamente) è carnoso, rizomatoso quasi tuberoso. Può essere eretto-ascendente o prostrato, come anche ramificato oppure no. Questo fusto è diverso dai fusti aerei delle piante terrestri in quanto non deve sostenere nessun peso; di conseguenza le parti legnose sono minime a favore dei tessuti aeriferi. Infatti questi fusti (come anche i piccioli e i peduncoli) sono percorsi da ampi canali aeriferi (per assicurare il galleggiamento). In genere i fusti risultano flaccidi ma tenaci. La superficie è segnata dalle cicatrici dei piccioli delle annate precedenti.
Parte epigea: praticamente è assente.
Le foglie (Nymphaea alba)
Le foglie sono ampie e di consistenza più o meno coriacea e lamina piana e peltata con picciolo inserito verso il centro della lamina in una insenatura stretta e profonda. Sono galleggianti ma a volte fuoriescono dal pelo d'acqua per 10–20 cm.; la forma è più o meno rotonda (o cordata) con bordo continuo (in qualche caso può essere dentato). La lunghezza del picciolo è in funzione della profondità dell'acqua. Le due pagine (quella sopra e quella sotto) hanno ovviamente strutture anatomiche diverse interfacciando due elementi completamente differenti (aria e acqua). La lamina superiore è protetta da uno strato ceroso (questo per non essere bagnata, così l'acqua scivola via senza bloccare le aperture aerifere) e cosparsa da diversi stomi per lo scambio appunto aerifero. La lamina inferiore invece può contiene delle sostanze tipo antocianina. L'antocianina è un glucoside privo di azoto che ha la funzione di convertire i raggi luminosi del sole in calore[3][4]. In questo modo anche la parte inferiore della foglia collabora ad incrementare i processi metabolici di tutta la foglia. Le foglie hanno delle nervature che si irradiano dal nervo centrale e in corrispondenza del margine della foglia.
Lo sviluppo di queste è foglie è molto particolare: infatti crescono dritte dal fondale verso la superficie con le due semi-lamine arrotolate su se stesse dall'esterno verso la nervatura centrale della foglia; al momento opportuno si srotolano dispiegandosi completamente sulla superficie dell'acqua. Le foglie nascono dal rizoma sottostante in ordini spiralato-alterni e si possono dividere in tre tipi (dimorfismo fogliare)[5]:
(1) foglie sommerse sottili e fragili con brevi piccioli;
(2) foglie galleggianti (spesse e coriacee) con la maggioranze degli organi disposti sulla pagina superiore (stomi e cellule a palizzata assimilatrici);
(3) foglie dalla struttura normali, sempre in superficie, spesse e coriacee, e con stomi anche sulla pagina inferiore.
L'infiorescenza è formata da grandi fiori natanti generalmente solitari. La lunghezza del peduncolo, a sezione rotonda, è in funzione della profondità dell'acqua. Normalmente i fiori durano a lungo e si aprono durante il giorno solo a cielo sereno.
Il fiore (Nymphaea nouchali)
I fiori sono ermafroditi, attinomorfi, polipetali (con un numero imprecisato di petali), spirociclici (i petali sono a disposizione spiralata/ciclica[6]), in genere tutti gli altri elementi del fiore (calice e componenti riproduttivi) sono a disposizione spiralata. Il perianzio è ipogino. Il colore del fiore può essere bianco, roseo, rosso, viola, celeste e giallo o colorazioni intermedie.
Formula fiorale e diagramma fiorale:
* K 4-6, C 8-molti A molti, G 8-molti (semi-infero) [7]
Calice: il calice è formato da 4-6 sepali accrescenti e avvolgenti il ricettacolo. I sepali sono verdi all'esterno e possono essere innervati oppure no, come pure persistenti o caduchi. Questi sepali (come anche i petali) sono sempre sub-ipogini (inserzione in una posizione intermedia rispetto all'ovario[8]).
Corolla: la corolla si compone di diversi petali. La posizione dei petali sul ricettacolo non è a fossetta alla base, ma sono inseriti a diverse altezze a spirale sull'ovario (in realtà l'inserzione è sempre esterna al ricettacolo). I petali diminuiscono progressivamente di grandezza verso il centro-interno del fiore. Gli ultimi petali si presentano talmente contratti che possono essere configurati come dei filamenti staminali; in questo modo il fiore delle “ninfee” riesce a mette bene in evidenza tutta le struttura di passaggio e relative morfologie dai sepali fino all'androceo-gineceo (parte più interna e centrale del fiore). Contemporaneamente la porzione distale del petalo produce inoltre del tessuto sporigeno fertile (strato anterifero generatore del polline[9]) in modo gradualmente sempre più consistente verso il centro.
Androceo: gli stami, spesso gialli, sono numerosi e in posizione quasi epiginea. Quelli esterni sono petaloidi (vedere la descrizione della corolla), mentre quelli interni (stami veri e propri) hanno dei brevi filamenti. Vi è quindi quasi una transizione graduale e senza soluzione di continuità tra i petali e gli stami. La forma delle antere è lineare-allungata. Sono connate al filamento (organo di sostegno all'antera stessa) ed hanno due logge a deiscenza longitudinale.
Gineceo: l'ovario è semi-infero, globoso e multiloculare formato da diversi carpelli saldati oppure liberi (dipende dalle specie) con placentazione laminare[10]. Inoltre l'ovario è abbastanza connato col ricettacolo. Gli stili sono numerosi e sono disposti circolarmente a coppa con una protuberanza centrale; hanno una forma appiattita e lineare.
Fioritura: in genere tra primavera e inizio estate.
Impollinazione: impollinazione entomoga (tramite mosche).
Il frutto è una bacca globosa, coriacea e spugnosa a deiscenza irregolare. Sulla sua superficie sono presenti delle caratteristiche cicatrici dovute alla caduta dei petali e degli stami che non sono persistenti, mentre all'apice è coronato da ciò che rimane degli stili. La particolarità di questi frutti è che la loro maturazione avviene sott'acqua, immersi nel fondo fangoso. Infatti a fine fioritura i frutti cadono nell'acqua e il tessuto assiale di protezione si stacca in più parti dai carpelli liberi, in questo modo i numerosi semi, ellissoidi, lisci (in certi casi, o pubescenti e crestati in altri casi) e provvisti di albume, contenuti nel frutto hanno la via libera per la disseminazione[10].
Questo genere originario dell'Asia, ha ormai una distribuzione cosmopolita. Comprende specie rustiche perfettamente adattate ai climi temperati, e specie tropicali a fioritura profumatissima, notturna soprattutto dell'emisfero boreale, ma vi sono anche specie abitatrici dell'Africa del sud, dell'Australia e della Nuova Guinea. Nella flora spontanea italiana è presente una sola specie (Nymphaea alba)
In realtà nei tempi antichi queste piante occupavano un'area molto più vasta anche al nord. A causa della formazione delle vaste distese di ghiaccio emigrarono più a sud, questo probabilmente nell'Era quaternaria e forse ancor prima nel Pliocene (queste emigrazioni sono confermate dai ritrovamenti fossili provenienti dal Giura e dalle grandi vallate alpine del Savoia e della Svizzera)[2].
Due specie vivono spontaneamente sull'arco alpino. La tabella seguente mette in evidenza alcuni dati relativi all'habitat, al substrato e alla diffusione delle specie alpine
Pontederia L., 1753 è un genere di piante acquatiche della famiglia Pontederiaceae[1], distribuito dal Canada all'Argentina.
Il genere fu così chiamato da Linneo in onore del botanico italiano Giulio Pontedera (1688–1757).
Le Pontederia hanno foglie larghe su lunghi steli e radici a rizoma. Producono un'infiorescenza a forma di spiga in estate.
Alcune specie, come Pontederia cordata o Pontederia crassipes, sono considerate invasive in molte regioni tropicali o temperate del mondo.
Una specie di api (Dufourea novaeangliae - Halictidae) visita esclusivamente la Pontederia cordata[2]; alcune anatre mangiano i frutti della pianta.
La Pontederia è una pianta acquatica coltivata a scopo ornamentale nei bacini naturali ed artificiali, lungo i bordo dei piccoli corsi d’acqua e anche nei giardini con terreno molto umido.
La Pontederia è una pianta acquatica perenne della famiglia delle Pontederiaceae, originaria dell’America diffusa allo stato spontaneo in quasi tutte le zone temperate del mondo tanto da essere considerata una pianta invasiva.
Si tratta di una pianta perenne sempreverde provvista di una radice rizomatosa carnosa che sopravvive all’inverno se ben protetta dal ghiaccio.
La parte aerea della pianta che affiora oltre il pelo dell’acqua, è costituita da una rosetta di grandi ed eleganti foglie galleggianti lunghe 50-60 cm.
Le foglie, cordate – lanceolate, sono spesse, lucide e di colore verde scuro brillante, che crescono fino a 50-60 cm di altezza.cordate o lanceolate di colore verde lucido. In inverno il fogliame secca ma puntualmente viene ricacciato non appena la pianta si risveglia dal riposo vegetativo.
I fiori, riuniti in decorative infiorescenze a forma di spiga, hanno, a seconda della specie, petali di colore bianco o color azzurro-lilla con gola gialla. Sono portati da steli rigidi che non sono altro che estensioni fogliari.
I frutti sono piccoli semi fertili che si disperdendo nell’acqua dando vita a nuove colonie di piantine.
La Pontederia fiorisce per periodi molto lunghi, generalmente i fiori compaiono nel periodo estate-autunno, da giugno fino a settembre e talvolta, se il clima è favorevole fino ad ottobre.
E’ una pianta che per produrre una abbondante fioritura predilige i luoghi luminosi e soleggiati per molte ore del giorno. Se esposta a mezz’ombra o all’ombra totale la pianta produce foglie a discapito dei fiori. Non teme il freddo e resiste anche al gelo a patto che il rizoma non venga a contatto diretto con il ghiaccio e sia coperto da circa 15 cm terreno fangoso. Sopravvive a temperature rigide comprese tra -14/-9° C.
Come le altre varietà di piante palustri o acquatiche, la Pontederia non ha particolari esigenze per quanto riguarda il terreno. Va coltivata in acqua o lungo i bordi di laghetti in un substrato molto umido, paludoso e a pH leggermente acido. Le piante vanno piantate in larghi contenitori riempiti con terriccio universale mescolato a sabbia, che vanno sprofondati in un laghetto non troppo profondo. Il terreno ottimale deve essere ricco, torboso e sabbioso. Soffre in acqua eccessivamente calcaree e in quelle salmastre. Si coltiva anche in vaso e nei giardini con terreno umido e ricco di nutrienti.
In primavera, per stimolare la crescita e la fioritura delle piante di Calla di palude, inserire tra i rizomi un concime specifico per piante verdi e da fiori sotto forma di compresse. Per un sicuro successo si consiglia di estrarre le piante dall’acqua e inserire le compresse tra il fitto intreccio delle radici secondarie o dei rizomi. Le compresse possono essere preparate anche all’occorrenza compattando del concime granulare a lenta cessione con terriccio universale o torba umido.
La pianta si riproduce per seme in autunno e per via agamica o vegetativa viene propagata per divisione dei cespi in primavera.
La semina si effettua in autunno utilizzando i semi freschi appena raccolti.
I semi si interrano in un miscuglio composto da sabbia e torba in parti uguali, mantenuto sempre umido.
Le piante nate da seme, vanno fatte irrobustire fino alla primavera successiva e poi interrate ai bordi o sui fondali di vasche o laghetti, singolarmente o con tutto il contenitore.
Le piante di Pontederia ottenute dai semi per raggiungere il pieno sviluppo vegetativo impiegheranno più di 5 anni.
E’ la tecnica preferita per due motivi: è facile da praticare e le nuove piante fioriranno già dal secondo anno di vita.
In autunno, si estrae la pianta dal terreno;
si sceglie un rizoma grosso e carnoso e lo si divide con un coltello ben affilato e disinfettato, in più porzioni portanti almeno 2 radici secondarie ben sviluppate.
si mettono a radicare le porzioni di rizoma in un vaso contenente acqua e un po’ di concime granulare a lento rilascio arricchito di potassio (K);
nella primavera successiva, le nuove piante vanno poi interrate sul fondo di un laghetto o sui bordi, lasciando emergere le foglie dalla superficie dell’acqua.
La divisione dei cespi può essere praticata anche quando il clima è mite e le piante hanno ripreso a vegetare, per evitare che le radici, esposte ad un clima troppo freddo, marciscano.
Le piante di Pontederia si mettono a dimora ad una profondità di 40 cm in modo da tenere la radice o rizoma completamente sommersa dall’acqua. Nelle regioni in cui l’acqua tende a ghiacciare, le piante vanno impiantate con tutto il contenitore in modo da poterle agevolmente spostare in serra fredda durante l’inverno.
Per favorire l’emissione di nuovi fiori vanno recisi quelli secchi a meno che non si intenda raccogliere i semi. Si recidono alla base le foglie secche e quelle danneggiate dal freddo o dalle lumache.
Le piante di Pontederia come la Calla palustris ed altri che esemplari di piante palustri o acquatiche vengono attaccate da afidi e cocciniglia, che generalmente formano fitte colonie nelle inserzioni fogliari e sui fiori ancora in boccio.
Per consentire un rapido sviluppo delle piante di Pontederia l’acqua deve avere un pH leggermente acido e l’esposizione il più possibile soleggiata. Le infestazioni parassitarie possono essere contrastate facendo ricorso a predatori naturali come ad esempio pesci e piccoli anfibi oppure irrorando sulle foglie e sui fiori prodotti naturali non inquinanti a base di piretro, una sostanza vegetale biologica. Per limitare l’espansione delle piante è bene anche eliminare i semi che cadono nell’acqua dai frutti maturi. Per una manutenzione corretta e la periodica pulizia delle parti danneggiate (foglie ed eventuali radici marce),
E’ una pianta palustre identica alla Pontederia cordata ma,produce bellissimi fiori di colore bianco che contrastano con il verde brillante delle foglie. È una pianta che si adatta a qualunque laghetto o stagno; ha un grosso rizoma che in un tempo breve, si propaga in senso orizzontale ricoprendo ampie aree palustri. Dal rizoma si sviluppano foglie coriacee e durante il periodo della fioritura produce infiorescenze a forma di spiga composte da numerosi bianchi con macchia gialle. La fioritura avviene in estate. Non teme il gelo anche se decidua.
Le piante di Pontederia vengono impiegate come ornamentali per abbellire vasche, laghetti, stagni e bordi di piccoli corsi d’acqua e soprattutto come rimedio naturale per la fitodepurazione di acque stagnanti inquinate e biopiscine. Le foglie più tenere vengono utilizzate crude nelle insalate miste o cotte nelle minestre oppure saltate in padella con aglio e olio. Dai semi essiccati e macinati si ricava un’ottima farina.
Il genere Pontederia fu così chiamato da Linneo in onore dell’illustre botanico italiano Giulio Pontedera, prefetto dell’Orto botanico di Padova.
Il giacinto d'acqua (Pontederia crassipes Mart.) è una pianta acquatica (idrofita) galleggiante, appartenente alla famiglia delle Pontederiaceae[1], che cresce sulla superficie di fiumi, canali e laghi delle regioni tropicali. È originaria del bacino dell'Amazzonia.
Costituisce la principale fonte di cibo del lamantino amazzonico. Nelle zone in cui è stata introdotta dall'uomo, a causa del suo elevato tasso di crescita e dell'assenza di erbivori, è divenuta invasiva. È stata inserita nell'elenco delle 100 tra le specie aliene più dannose del mondo.
La pianta è costituita da cespi fogliosi non radicati al suolo, che galleggiano grazie ai piccioli delle foglie. I piccioli sono apparentemente carnosi ma sono ricchissimi di parenchima aerifero, un tessuto con ampi spazi tra le cellule dove si può accumulare aria che favorisce il galleggiamento. Le foglie sono tondeggianti e lucide.
La pianta singola è di modeste dimensioni (al massimo mezzo metro) ma possiede stoloni che favoriscono la riproduzione vegetativa con la produzione di molte altre piante che possono coprire rapidamente gli specchi d'acqua.
La pianta è completamente mobile, le radici possono estrarre dall'acqua materia organica (proprio per questo fa parte delle categoria delle piante usate per la fitodepurazione).
In primavera la pianta produce un'infiorescenza costituita da una spiga di fiori molto appariscenti di colore blu-viola, con macchie gialle sulla sommità dei petali superiori.
Il giacinto d'acqua in estate produce capsule (frutti secchi deiscenti) piene di piccoli semi che germinano in acqua. Inoltre, a parte la riproduzione sessuale, la pianta presenta un altro potente meccanismo di moltiplicazione, quello per stoloni fusti modificati che producono piante geneticamente identiche alla pianta madre e che, essendo fragili, sono facilmente spezzati facendo diventare autonome le piccole piante galleggianti.
Per la bellezza dei fiori la pianta è stata dapprima importata in Louisiana, negli Stati Uniti, nei parchi delle ville del Sud, da dove si è diffusa nei fiumi e nei laghi, trovando perfette condizioni riproduttive, e con la sua massiccia presenza nei grandi fiumi ha contribuito a determinare la fine della navigazione con battelli a vapore nel Mississippi, per i costi dovuti ai tentativi di bonifica e dragaggio, è stata definita "the million dollars weed", cioè l'erbaccia da un milione di dollari, perché tanto costava annualmente il tentativo (fallito) di eliminarla.
La pianta è originaria del bacino del Rio delle Amazzoni ma è stata introdotta in numerosi paesi delle aree tropicali e temperate del mondo, come pianta ornamentale, assumendo in molti casi atteggiamenti da specie invasiva.
In Africa la specie fu inizialmente introdotta, come specie ornamentale, in Egitto nel XIX secolo; la prima segnalazione sul Nilo risale al 1958 e da lì si è rapidamente estesa ai paesi limitrofi.[2] In Etiopia è stata segnalata a partire dal 1965 in numerosi corsi d'acqua tra cui il fiume Auasc, dove ha creato problemi alle centrali idroelettriche. Si è rapidamente espansa anche ad altri fiumi della regione di Gambela, raggiungendo il Nilo azzurro, il lago Tana e il lago Ellen.[3][4] Introdotta dai coloni belgi in Ruanda a scopo ornamentale, la pianta si è rapidamente diffusa raggiungendo il Lago Victoria dove è stata segnalata per la prima volta nel 1988. In mancanza di competitori naturali è divenuta un serio problema ecologico diminuendo lo spazio disponibile per i pesci e arrivando a creare problemi di accessibilità al porto di Kisumu.[5]
In Italia, P. crassipes è presente in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Sardegna e Sicilia[6][7][8].
È presente anche nel Gange e nel Mekong.[senza fonte]
La sua invasività è dovuta al fatto che nei fiumi dove è stata immessa non esistono erbivori che la mangino, ed inoltre mancano i parassiti (gli insetti) che ne limitavano la diffusione nei luoghi di origine. La pianta non ha malattie batteriche o da funghi, e questo aumenta la sua capacità di diffusione.
Pontederia crassipes non sopporta temperature inferiori ai 10 gradi, predilige l'esposizione al sole ma si abitua facilmente anche all'ombra, abbisogna di acqua ricca di nutrienti, e quindi non è adatta all'acqua depurata.
Il metodo di lotta più efficace contro il giacinto d'acqua può essere la lotta biologica: con l'introduzione del coleottero Neochetina eichhorniae o del lepidottero Niphograpta albiguttalis, è possibile debellare questa pianta acquatica. Non si conoscono però le implicazioni della introduzione di nuove specie di insetti in ambiente.
Il morso di rana (Hydrocharis morsus-ranae L., 1753) è una pianta acquatica della famiglia Hydrocharitaceae.
È una pianta acquatica provvista di radici fluttuanti, che, in caso di scarsità di acqua, possono ancorarsi al substrato. Produce stoloni lunghi fino a 30 cm, che in corrispondenza dei nodi sviluppano rosette foliari che si distendono sulla superficie dell'acqua, composte da foglie cuoriformi, dotate di un picciolo lungo 5–10 cm, larghe sino a 6 cm, con venature parallelinervie, e pagina inferiore ricoperta da uno spesso tessuto spugnoso, che aiuta la pianta nel galleggiamento. Agli apici dei nodi si sviluppano delle gemme svernanti (ibernacoli) che, appesantite dall'amido di riserva accumulato, cadono sul fondo e affondano nel fango, garantendo così la sopravvivenza della pianta nel periodo invernale; in primavera, alleggeriti dall'esaurimento delle scorte di amido, i germogli risalgono in superficie avviando la nuova colonizzazione dello stagno.
È una specie dioica, cioè con esemplari che presentano solo fiori femminili o fiori maschili, entrambi con tre petali bianchi e tre sepali verdi, peduncolati; fiorisce da giugno a settembre.
Il frutto è una bacca ovale, contenente minuscoli semi piriformi e tubercolati.[2]
La specie ha un ampio areale euro-asiatico; introdotta agli inizi del secolo scorso in Nord America, si è diffusa nella regione dei Grandi Laghi, ove è considerata una specie invasiva.[3]
In Italia è presente, anche se sempre più rara, in Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Lazio.[4]
Predilige acque stagnanti poco profonde, in posizione soleggiata, da 0 a 500 m di altitudine
Il ceratofillo comune (Ceratophyllum demersum L., 1753) è una pianta acquatica della famiglia Ceratophyllaceae, originaria del Nord America ma con distribuzione cosmopolita, prevalente nelle regioni temperate e tropicali.[2]
È una pianta acquatica sommersa, che cresce in filamenti che possono raggiungere anche 1–3 metri di lunghezza, con numerosi aghi morbidi che ne aumentano il volume. Le foglie, sono raggruppate a sei o dodici con una lunghezza singola variabile dagli 8 ai 40 mm di lunghezza, e possono essere semplici o biforcate. I fiori raggiungono come massima i 2 mm di lunghezza e sono difficilmente notabili in quanto i loro petali hanno una colorazione verde come il resto della pianta, per poi divenire leggermente più scuri. Il frutto consiste in una noce di 4–5 mm di lunghezza, solitamente con tre spine, due basali ed una apicale, per un totale di 1–12 mm di lunghezza.[senza fonte]
Questa specie ha una distribuzione cosmopolita: il suo areale si estende dalle Azzorre e dall'Europa, attraverso il Medio Oriente e il subcontinente Indiano, sino al sud-est asiatico e alla Cina; è inoltre presente in Africa, a nord e a sud del Sahara, in Madagascar, in Australasia e in tutto il continente americano.[1]
Cresce in prevalenza in acque immobili o poco mosse, in stagni od acquitrini con una temperatura estiva di 15-30 °C ed uno status nutriente molto ricco.
Questa specie è sovente utilizzata per ossigenare acquari e vasche con temperatura media o tropicale. La sua struttura, inoltre, le consente facilmente di convivere con la presenza dei pesci che, soprattutto nei primi mesi di vita, trovano rifugio in queste piante, che sono anche un valido riparo contro il freddo invernale. Si propaga per tagli.
il leggendario Ceratophyllum, la pianta d’acquario più citata in tutti i forum di acquariofilia del Mondo, la più consigliata, la più discussa, la più diffusa su tutto il pianeta, la più studiata…
Una delle pochissime che non ha mai subito revisioni tassonomiche dai tempi di Linneo, che la classificò nel 1763 (distinguendo il demersum dal submersum).
Disegno del 1885 – Pubblico dominio
Due secoli e mezzo sono passati da allora, Napoleone non era ancora nato, gli Stati Uniti non esistevano e l’ossigeno non era ancora stato scoperto; tuttavia, nessun botanico ha mai cambiato una virgola di quanto riportato su quegli antichi testi.
In realtà, molte ricerche sono state condotte sui Ceratophyllum, soprattutto sul demersum, e alcuni aspetti particolarmente interessanti risalgono solo a pochi anni fa; ma nessun risultato scientifico ha mai prodotto revisioni della classificazione.
Per quanto ne so, tra le piante che coltiviamo nei nostri acquari, è stata l’unica a meritare un francobollo:
I Ceratophyllum attualmente classificati sono 6 (alcuni li riducono a 5), ma a noi interessano solo il demersum e il submersum, peraltro estremamente simili.
Sono gli unici che vengono coltivati negli acquari, anzi, a dirla tutta ci sarebbe quasi solo il demersum, visto che il submersum è rarissimo da trovare perfino su ordinazione.
Ceratophyllum submersum – Licenza Creative Commons
Il termine “Ceratophyllum” deriva dal Greco: keras-atos significa “corna”, mentre phyllum sta per “foglia”.
Il motivo per cui Linneo gli diede quel nome è molto chiaro in questa immagine…
…in cui la forma cornuta delle foglie risulta evidente.
E’ invece più sottile la differenza tra le due specie.
In Latino, demersum significa “immerso”, ovvero leggermente coperto dall’acqua.
Con il termine submersum (“sommerso”), si indica invece un corpo che sta completamente sott’acqua.
Chi si intende di armi da guerra, saprà senz’altro che il primo sommergibile (intuizione della creatività italiana), si chiamava in realtà “immergibile”, ed era una nave di superficie che, all’occorrenza, poteva semplicemente nascondersi sott’acqua di pochi metri.
Ecco… la differenza tra l’immergibile ed il sommergibile è perfetta, per capire la distinzione tra i due Ceratophyllum.
Altre differenze sono visibili in questi disegni:
La massa fogliare del demersum tende ad essere più fitta, e il verde arriva a tonalita più scure, ma questi effetti si manifestano solo in caso di illuminazione molto intensa, oppure in Natura con la luce del Sole.
In condizioni normali, l’unico modo per riconoscere la specie è… leggere l’etichetta quando li compriamo!
Tra l’altro, è difficile trovare il submersum nei negozi.
Lo stelo è più delicato e si spezza con facilità. Questo rende la pianta meno gestibile commercialmente.
Ad essere pignoli, ci sarebbe anche una differenza che riguarda la temperatura.
Il demersum può scendere fino a 10° ed anche meno; per un po’, resiste addirittura sottozero, bloccando la crescita.
Questo gli ha permesso di diffondersi in tutti i continenti anche senza l’intervento umano.
Il submersum è invece una pianta tropicale, non dovrebbe mai scendere sotto i 16-18 gradi.
E’ una caratterisca che ha poca importanza, per i nostri acquari domestici; tuttavia è meglio riportarla, nel caso qualcuno decida di tenerlo in un laghetto all’esterno.
D’ora in avanti scriverò semplicemente “Ceratophyllum” o “Cerato” (come spesso viene chiamato nelle chiacchierate tra acquariofili).
Ciò che leggerete vale per entrambe le specie, a meno che non venga diversamente specificato.
Mettiamoci comodi e spegnamo il telefono, perché questa è la parte più interessante.
Se oggi si parla così tanto di allelopatia in acquario, è proprio grazie agli studi sul Ceratophyllum.
Per parecchio tempo, gli esperti hanno dibattuto su tali fenomeni.
Anche quando la Scienza ne ha dato dimostrazione, sulle piante acquatiche continuavano ad esserci dei dubbi.
Le discussioni continuano ancora oggi, a causa del fatto che alcuni studi specialistici sono molto recenti.
Com’è noto, ci vogliono parecchi anni prima che una scoperta passi dagli ambienti accademici al comune appassionato, specialmente in Italia.
La vera svolta fu nel 2003, quando 3 scienziati tedeschi idearono un metodo spettroscopico, di altissima precisione, per rilevare la presenza di nitrati e fosfati nell’acqua.
Prima di allora, tutti sapevano che alcune piante (tra cui il Cerato) contrastano lo sviluppo delle alghe, ma tali effetti venivano associati alla semplice competizione alimentare.
Anche l’azione di contrasto tra le piante stesse veniva spiegata nello stesso modo, ma su questo esistevano già delle ipotesi fin dagli anni ’70, che già chiamavano in causa l’allelopatia.
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Grazie al nuovo metodo di rilevamento degli inquinanti, nel 2005 venne condotto un esperimento che potremmo definire storico.
Presso l’Università di Nanchino, un’equipe di scienziati cinesi dimostrò gli effetti dell’allelopatia sulle alghe, usando… indovinate un po’… Il Ceratophyllum!
I loro grafici conclusivi sono molto complessi, con diverse curve sovrapposte e pieni di simboli indecifrabili.
Quelli che vedrete più avanti li ho ricopiati io, in forma semplificata, isolando le parti che ci interessano.
Quei ricercatori coltivarono alghe di tre specie diverse, in due vasche identiche con la stessa acqua e luce.
Poi riempirono una terza vasca di steli di Cerato, individuando e isolando con precisione alcuni composti allelopatici, prodotti dalle piante.
Mantenendo inalterato il livello di nitrati e fosfati, cominciarono ad introdurre tali sostanze in uno dei contenitori con alghe, simulando la presenza del Ceratophyllum senza introdurre le piante.
In questo modo, riuscirono ad isolare l’allelopatia dalla semplice competizione alimentare.
Gli effetti sulle alghe furono devastanti:
Come si vede dai grafici, non solo il loro sviluppo si bloccava, ma addirittura regredivano fino a sparire.
Nell’altra vasca, invece, la proliferazione continuava incontrastata.
Attenzione: questo effetto non riguarda solo il Ceratophyllum.
L’allelopatia si manifesta con moltissime specie, sia con le alghe che con le altre macrofite; ne abbiamo già parlato in altri articoli, ad esempio quello sull’Egeria densa.
Il Ceratophyllum è stato solo studiato per primo, per cui l’etichetta di “anti-alga” gli è rimasta appiccicata addosso.
Da sempre, queste piante vengono utilizzate per assorbire inquinanti.
Nell’Antica Roma, la Cloaca Maxima si scaricava in una palude piena di piante, che secondo le descrizioni dell’epoca erano probabilmente Ceratophyllum.
Per parecchi anni, per molti ancora oggi, è stato considerato un simbolo, tra le piante a crescita rapida.
Negli ultimi anni, la diffusione dei Myriophyllum lo ha rimosso da quel primato, ma è stata una vittoria di stretta misura.
In qualsiasi community di acquariofilia, se provate a dire “Ho i nitrati alti“, qualcuno risponderà sicuramente “Mettici un Cerato!“.
Purtroppo, non è così semplice.
L’ assorbimento di nitrati e fosfati è indubbiamente formidabile, in questa specie; anzi, si consiglia di tenerla in acque che ne sono piuttosto ricche.
Ma nemmeno il Ceratophyllum riesce ad eludere la Legge di Liebig.
I grafici qui sotto mostrano i risultati di un altro esperimento, condotto dalla stessa equìpe di cui abbiamo già parlato nel capitolo precedente:
Alcuni steli di Ceratophyllum sono stati introdotti in una vasca con 10 mg/litro di nitrati e 3.5 di fosfati.
Il rapporto è volutamente sbilanciato, generalmente si consiglia di stare tra 1:7 e 1:10, secondo le specie.
Osservate la brusca discesa iniziale: i nitrati, chiaramente insufficienti per quel “mostro”, vengono divorati in brevissimo tempo.
Anche i fosfati scendono, all’inizio, ma poi restano lì anche se ancora abbondanti.
La situazione è chiara: esaurito l’azoto, la pianta ferma tutto. E non assorbe più nemmeno i fosfati.
Se volessimo ripulire quell’acqua (questo può sembrare assurdo) dovremmo aggiungere nitrati.
Il loro valore iniziale doveva essere almeno il triplo, perché il Cerato continuasse a crescere a pieno ritmo per qualche altro giorno; a quel punto avremmo avuto una depurazione completa di entrambi gli inquinanti.
Nei primi anni ’80, in Indonesia, venne ritrovato un fossile di Ceratophyllum di oltre 2 milioni di anni.
Questo portò diverse pubblicazioni a definire “asiatica” l’origine di tale specie.
In seguito, considerando l’enorme diffusione che ha in Nord-America, si cominciò a pensare la pianta fosse partita da lì.
Quello che sappiamo con certezza è che il Ceratophyllum manca solo in Amazzonia.
E’ infatti diffuso in tutte le zone umide del pianeta, su latitudini che vanno dalla Russia all’Africa centrale, dall’India alla Nuova Zelanda, dal Canada all’Argentina.
E’ una delle pochissime piante che riesce a sopravvivere nelle acque durissime dei grandi laghi africani, a pH 8.5, anche se assume un aspetto particolare:
A differenza di altre specie, la sua diffusione sembra assolutamente naturale, ad opera del vento,degli uccelli, o di altri animali.
Non risulta alcun intervento umano nella sua propagazione globale, quantomento non volontario.
Il Ceratophyllum è una pianta prettamente acquatica, pertanto il suo utilizzo ornamentale si è diffuso soltanto nella seconda metà dell’800, con lo sviluppo dell’acquariofilia.
Eppure, era già presente dappertutto ai tempi di Linneo…
Ci sono ipotesi plausibili che riguardano la navigazione mercantile, la quale, a partire dal XVI secolo, avrebbe involontariamente trasportato steli e semi in giro per il Mondo; in realtà, nessuno conosce veramente l’origine di questa pianta.
Credo sia propro il caso di definirlo “cosmopolita“, anche se di solito questo termine viene usato a sproposito.
Bisogna spendere qualche parola sull’Amazzonia, l’ecozona di gran lunga più sfruttata in acquariofilia.
Sembra stranissimo che la pianta acquatica più diffusa nel Mondo manchi proprio lì, dove c’è una biodiversità irraggiungibile per qualunque altro territorio.
Sono state formulate diverse ipotesi su questo punto:
Il Cerato sembra diffondersi maggiormente nei territori con acque dure e piuttosto alcaline. Abbiamo già parlato della sua presenza nei laghi africani.
Appare quindi evidente l’ostacolo rappresentato dai valori estremi dell’Amazzonia.
Abbiamo già visto come i Ceratophyllum producano una forte azione di contrasto, nei confronti di alcune specie antagoniste, ma bisogna sottolineare che ne sono anche vittime.
Non ce n’è traccia, per esempio, nelle acque dove prolifera l’Hydrilla verticillata; gli allelochimici generati da tale specie sono intollerabili per il Cerato.
In Amazzonia ci sono parecchie specie fortemente allelopatiche; è dunque possibile che alcune di queste rendano impossibile la sua diffusione.E’ ampiamente dimostrato, ad esempio, che l’Eichornia crassipes (prettamente amazzonica) distrugge qualsiasi presenza di Ceratophyllum in brevissimo tempo.
Altri casi noti, segnalati proprio dall’esperienza degli acquariofili, riguardano l’Egeria (densa e najas), l’Heteranthera zosterifolia e la Mayaca fluviatilis.
Può darsi che, in condizioni favorevoli, il Ceratophyllum riesca a difendersi da agenti allelochimici ostili, ma che non ce la faccia se indebolito da particolari condizioni di acidità.
Sta di fatto che questa meraviglia, un vero capolavoro della Natura, nega i suoi preziosi servigi proprio alla più diffusa tipologia di acquario.
Uno dei maggiori vantaggi, per il successo del Ceratophyllum, è che può essere coltivato sotto qualsiasi lampada, con o senza immissione di CO2.
Si adattano senza problemi a qualsiasi condizione, alterando la loro velocità di crescita, il colore e la superficie fogliare.
L’eventuale presenza di CO2 artificiale ha una maggior efficacia sul submersum, che tende a posizionarsi su una profondità leggermente maggiore.
Il demersum si adagia pochi centimetri sotto la superficie, dove l’acqua è già più ricca di anidride carbonica per la vicinanza con l’atmosfera.
Inoltre riesce a far affiorare alcune foglie, accedendo alle 380 ppm di CO2 presenti nell’aria.
In entrambi i casi, la luce forte non è necessaria, sia per l’estrema vicinanza alle lampade, sia per la grande superficie fogliare che la posizione orizzontale consente di esporre.
Se viene fornita una potenza elevata, la pianta reagisce producendo carotenoidi.
In questo caso si assiste ad un effetto particolarmente accattivante, già visto con altre specie: il colore della pianta vira progressivamente su tonalità di verde sempre più chiaro, sconfinando nel giallo e arrivando addirittura al rosso, nei casi più estremi.
In parecchie foto siamo abituati a vedere il Cerato coltivato sul fondo; tuttavia, è noto che si tratta di una pianta galleggiante.
La sua forma non ricorda affatto le galleggianti più comuni; sembra somigliare più ad una Cabomba, una Limnophila o un Myriophyllum.
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Tuttavia, è completamente privo di radici. Inutile dire che il terreno non ha alcuna importanza.
Per ottenere i risultati estetici che siamo abituati a vedere, si adottano dei semplici trucchi per riuscire ad ancorarlo sul fondo:
– Alcuni utilizzano un cannolicchio ceramico, di quelli che si usano nel filtro.
Potete farci passare un paio di steli, tagliarli da sotto ed interrare il basamento così ottenuto.
Quando sarà ora di potare, basterà far scorrere la pianta dentro il cannolicchio, fino alla misura desiderata; poi si taglia la parte inferiore e si ripianta di nuovo.
– Altri ottengono lo stesso risultato con spezzoni di tubo di gomma, oppure corrugati da elettricista.
Il maggior diametro, rispetto al cannolicchio, consente di introdurre un maggior numero di steli.
La potatura avviene nello stesso modo.
– Si può decidere di fissare la base ad un legno decorativo, oppure ad un piccolo sasso.
In questo caso è possibile ricorrere ad una lenza da pesca.
– Infine… non c’è nessuna legge che ci obblighi a tenerlo sul fondo.
Possiamo tranquillamente coltivarlo galleggiante, come in Natura.
In tutti i casi, è sempre preferibile la potatura dal basso; la parte nuova è sempre più bella e rigogliosa.
Il Ceratophyllum è la pianta più adatta al principiante, perché perdona l’80% degli errori.
Se l’acqua contiene troppo ferro, lui assorbe più ferro (lo stelo tende al rosso).
Se c’è molto zolfo, accumula lo zolfo (internodi più corti e foglie più numerose, anche se più piccole).
Se esagerate col calcio, stelo e foglie si ingrossano e la pianta diventa più “carnosa”.
Entro certi limiti, questo fenomeno riguarda parecchie specie, ma il Ceratophyllum è tra quelle in cui si nota in modo più evidente.
In altre parole, cerca di adattarsi a quello che c’è.
È quindi difficile che l’acquario possa avere degli eccessi, mentre è piuttosto facile avere carenze.
Dato che il principiante tende spesso ad esagerare, con i fertilizzanti… sembra un matrimonio perfetto.
In qualsiasi caso la sezione fertilizzazione del nostro forum vi aspetta.
Non risultano, al momento in cui scrivo, fenomeni allelopatici significativi con le più comuni specie del Sud-Est asiatico.
Con gli acquari di Poecilidi (centro-America) bisogna stare più attenti; ci sono esperienze negative che coinvolgono l’Egeria densa e la Cabomba caroliniana, altre due “colonne” di questo nostro hobby.
In realtà, sulla Cabomba non ci sono state sufficienti conferme; probabilmente le segnalazioni riguardavano la semplice competizione alimentare, data l’altissima velocità di crescita di entrambe le specie.
Abbiamo già visto che nell’amazzonico è un fallimento quasi certo, a meno di non gestire l’acquario con cambi d’acqua frequenti e significativi.
Alcuni acquariofili utilizzano addirittura carboni attivi, per bloccare l’attività allelopatica, ma così facendo rinunciano all’effetto anti-alghe di tale fenomeno.
Consigliato negli allestimenti Malawi, visto che è una delle rarissime piante che riescono a vivere in quell’ambiente.
Viene coltivato con successo nei laghetti, dove sembra che riesca a convivere anche con i Carassi.
Probabilmente, in spazi piuttosto ampi, la crescita velocissima della pianta riesce a compensare l’attività distruttiva dei pesci rossi, anzi…
…esiste la possibilità che diventi infestante.
Tratto questo argomento in chiusura di articolo, a differenza di come si fa abitualmente, proprio per dargli la giusta sottolineatura.
Le importanti virtù del Ceratophyllum, che abbiamo visto fin qui, fanno spesso passare in secondo piano il vantaggio estetico che questa pianta conferisce all’acquario.
Le sue caratteristiche lo rendono incredibilmente versatile; è collocabile in qualunque punto della vasca.
Ci possiamo formare una piccola foresta, possiamo usarlo come sfondo, possiamo tenerlo galleggiante, possiamo posizionarlo isolato in un angolo… l’unico limite è la fantasia dell’acquariofilo
Ricordiamoci che le sue foglie segmentate lo rendono semi-trasparente, consentendo di intravedere ciò che si trova dietro di lui.
Disegno del 1893 – Pubblico dominio
Per questo motivo può essere interessante collocarne uno in primo piano, magari a centro vasca, per “spezzare” l’eccessiva regolarità di un paesaggio che vi risulta troppo “piatto”.
Vorrei aggiungere che qualsiasi pianta è bella quando è sana, rigogliosa e lussureggiante.
Questo risultato è decisamente più facile da ottenere, se si sceglie una specie particolarmente adattabile come il Ceratophyllum.
Ci sono parecchi casi in cui diventa la specie regina, nonostante stia in vasca insieme ad altre, note a tutti per il loro aspetto attraente.
In buona sostanza, possiamo dire che è senz’altro possibile gestire un acquario senza Ceratophyllum, ma con lui sarebbe sicuramente più facile, sia per l’estetica che per la biochimica.
La lattuga acquatica (Pistia stratiotes L.), è una pianta acquatica natante perenne, tropicale e invasiva, della famiglia delle Aracee, molto utilizzata come pianta ornamentale per acquari e vasche. È l'unica specie nota del genere Pistia.
Descrizione
È una pianta perenne acquatica e galleggiante; ha un colore verde chiaro e presenta nervature parallele, in rilievo e di lunghezza maggiore di 20 centimetri. Dal suo stolone centrale partono tutte le foglie, che sono spugnose e ricoperte da una folta peluria costituita da peli intrecciati formanti piccoli "canestri" per trattenere l'aria e per permettere il galleggiamento della pianta. I fiori, invece, sono disposti in infiorescenza a spadice e risultano poco visibili.
Al di sotto della superficie della lattuga si allungano dallo stolone alcune sottili radici scure (ma bianche in età giovanile), da cui partono radichette più sottili che possono raggiungere una lunghezza di 80 centimetri, e che fanno assumere all'apparato radicale un aspetto piumoso.
Tra la primavera e l'estate produce piccoli fiori, che diventano piccole bacche verdi con alcuni semi.
Biologia
Si riproduce tramite piantine figlie che si sviluppano su una radice aerea che parte sempre dallo stolone principale. La riproduzione per semi non è mai stata accertata.
La facilità riproduttiva di Pistia stratiotes permette a questa pianta di colonizzare ogni ambiente acquatico con popolamenti molto densi, che risultano dannosi sia perché ostruiscono i corsi idrici e le infrastrutture come i canali e le pompe, sia perché alterano la vita animale e vegetale dei corsi d'acqua invasi.
Distribuzione e habitat
I luoghi di origine della Pistia sono le acque dolci di stagni, fiumi e paludi dei territori tropicali e subtropicali di Africa, America, Asia e Oceania[1]. Tuttavia, grazie alle sue caratteristiche di pianta acquatica ornamentale, la lattuga acquatica è stata commercializzata in tutto il mondo come articolo per acquari, vasche e giardini acquatici. Di conseguenza, ha cominciato a crescere in maniera spontanea anche in Europa.
In Italia, la presenza della Pistia è stata registrata in Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Campania. La Campania, in particolare, è stata colonizzata in maniera particolarmente elevata da questa pianta, che si è diffusa nell'intero territorio compreso tra Napoli e Caserta[2]. In seguito a questa segnalazione, Pistia stratiotes è stata inserita nella lista di allerta dell'EPPO[3].
Lotta
Sperimentazioni svolte in Stati Uniti, Australia e Sudafrica hanno portato a tecniche di lotta contro la Pistia che oggi sono molto consolidate, e che si dividono in tre tipologie: utilizzo di erbicidi, rimozione meccanica della biomassa e controllo biologico.
Utilizzo di erbicidi: è la misura più rischiosa, in quanto l'utilizzo di elementi chimici, oltre a neutralizzare la lattuga acquatica, compromette l'equilibrio biologico dei corsi d'acqua.
Rimozione meccanica della biomassa: si tratta di un rimedio a impatto zero, ma praticabile esclusivamente in piccole superfici. Tuttavia, non risolve il problema in maniera definitiva, in quanto le lattughe acquatiche possono rinascere a partire da eventuali frammenti di stoloni o di radici rimasti nel corso d'acqua.
Lotta biologica: si tratta principalmente del coleottero curculinoide Neohydronomus affinis e del fungo Sclerotinia sclerotiorum, ovvero degli antagonisti naturali della Pistia stratiotes, che costituiscono il rimedio più efficace[2].
Acquariofilia
La Pistia viene utilizzata come pianta ornamentale per i laghetti e gli acquari tropicali d'acqua dolce aperti. In acquario raddoppia il suo areale ogni 3 o 4 settimane, il raccolto periodico di Pistia stratiotes aiuta a mantenere bassi i livelli di composti azotati nell'acquario
L'erba pesce (Salvinia natans (L.) All.,) è una piccola felce acquatica della famiglia Salviniaceae[2], che cresce sulla superficie di acque dolci stagnanti o lentamente fluenti.
È una pianta acquatica idrofita natante costituita da un sottile fusto orizzontale lungo 8-10 cm, da cui partono 6-14 foglioline ellittiche, opposte. La pagina superiore di ogni foglia è ricoperta da una fitta peluria che le conferisce un aspetto vellutato e che svolge una funzione idrofuga e protettiva. Dal nodo di ogni coppia di foglie parte verso il basso una radice con funzione assorbente. Si riproduce mediante sporocarpi (foglie modificate contenenti le spore) immersi nell'acqua e per riproduzione vegetativa mediante frammentazione.
La specie ha un areale eurasiatico, che si estende dall'Europa centrale sino alla Cina, al Giappone e al sud-est asiatico.In Europa è diffusa dalla valle del Reno sino alla Russia e a sud dall'Italia settentrionale sino alla Grecia settentrionale.[1]
Cresce in acque calme o con leggera corrente.
Il pomelo, pummelo o pampaleone (nome scientifico Citrus maxima (Burm.) Merr.) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutaceae[1] e al genere Citrus. Secondo Maisto[non chiaro] è il più antico agrume coltivato dall'uomo. È ritenuta una delle tre specie da cui derivano tutti gli agrumi oggi conosciuti, assieme al cedro Citrus medica e al mandarino Citrus reticulata[2][3]. A Shanghai (Cina) a questo frutto vengono attribuite proprietà afrodisiache.
Diversamente da ogni altro agrume, il pomelo non è sferico o leggermente schiacciato, ma si presenta spesso con aspetto piriforme. La buccia è liscia, verdina, alle volte rosata, mentre la polpa raggiunge i colori dal giallo paglierino al rosa fino al rosso. È il più grande tra i frutti dei Citrus[senza fonte], cresce fino ai 30 cm di diametro e può pesare fino a 1–2 kg.
Tipica per questa specie è l'abbondante presenza della sostanza bianca spugnosa sotto la buccia (detta albedo); di albedo è costituita addirittura tutta la parte superiore del frutto, cioè la parte stretta della forma a pera. Se il frutto è maturo il gusto è piacevole, più dolce di quello dell'arancio amaro e senza alcuna acidità. Ogni spicchio del frutto è piuttosto grande, presenta piccoli semi e una spessa buccia facile da togliere.
Il pomelo è molto grande e di conseguenza una persona sola ha difficoltà a consumarlo appena colto, ciò che probabilmente avviene in Indocina, dove il frutto può realmente arrivare a maturazione completa. Molto diffuso in Cina, dove viene consumato fresco, è impiegato anche per produrre succhi (in Israele) e per condire insalate di frutta o di verdure, oppure candito. L'industria ricava oli essenziali dalla buccia.
Il pummelo è un piccolo albero o un arbusto, ha una chioma arrotondata, è alto fino a 5-6 metri, è sempreverde e latifoglia. I rami sono spinosi, le foglie sono verde scuro ed ovali e i fiori sono grandi e bianchi, solitari.
Due parole molto simili, due frutti affini – ci si confonde facilmente. Oltretutto, il pompelmo è oggi largamente noto e sembra in qualche modo strano che un frutto sconosciuto dal nome mai sentito possa attribuirsene la paternità genetica. Eppure è stato dimostrato che sono solo tre i progenitori di tutti gli agrumi oggi conosciuti: il cedro, il mandarino e questo gigante di altri tempi che possiamo chiamare solo con nomi locali, perché la sua importanza non è mai giunta oltre tali livelli. In varie parti d'Italia lo si conosce come pampaleone, pummelo, sciadocco, in Israele semplicemente jaffa, in Spagna pomelo. E quest'ultimo sembra il nome che gli resterà. In genovese antico si chiama sciadóccu, dialettizzazione genovese dall'inglese "Shaddock" il cognome del comandante di nave inglese che, col suo veliero, lo introdusse per primo in Europa, sbarcando i frutti nel porto di Genova.
Comunque lo si voglia chiamare, è uno dei tre illustri antenati degli agrumi. Il pompelmo è dunque inevitabilmente un ibrido, tanto ben riuscito da aver quasi soppresso l'originale. E tanto ben riuscito che a tutt'oggi non è concluso il dibattito pampaleone/pompelmo. Molti esperti ritengono che il pompelmo sia solo la versione mediterranea del pomelo. Altri sono convinti che il pompelmo sia semplicemente lo sviluppo naturale della specie antica, dei pampaleoni. Rimane tuttora una questione aperta.
Storia
Il pomelo è nativo del sud dell'Asia e della Malaysia dove è conosciuto da più di quattromila anni. Fu introdotto in Cina attorno al 100 d.C., dove si è diffuso e continua a sopravvivere, anche spontaneamente in riva ai fiumi, fino ai giorni nostri. È coltivato nelle regioni meridionali (Jiangsu, Jiangxi, Fujian) e specialmente in Thailandia. Ci sono piantagioni anche in Taiwan e Giappone, nel sud dell'India, Malaysia, Indonesia, Nuova Guinea e Tahiti.
Oltre che in Asia, il pomelo è coltivato in California e soprattutto in Israele. Venne introdotto in Giamaica nel XVIII secolo dal capitano inglese Shaddock, che localmente diede anche il proprio nome al frutto. Il cognome di questo capitano è ancora ricordato anche in Liguria, dove il pomelo è noto come sciaddocco; è coltivato anche in Italia, in Sicilia.
Il pomelo ha un apporto calorico di circa 30-40 kcal per 100 gr. Presenta un basso contenuto di proteine e lipidi, le calorie sono fornite principalmente dai glucidi semplici in particolare il fruttosio[4]. Ha un elevato contenuto di vitamina C, attorno ai 60 mg, con un buon contenuto di vitamina A e tracce di B1, B2, B3 e B6[5]. La vitamina C nel Pomelo aiuta l'assimilazione e l'assorbimento del ferro. Tra i sali minerali spicca il potassio. Contiene inoltre acido folico e betacarotene. In Asia le foglie di pomelo vengono usate come decotto curativo per l'ulcera e le ferite.
Il cedro (Citrus medica) è un albero da frutto appartenente al genere Citrus (fam. delle Rutacee). È ritenuta una delle tre specie di agrumi da cui derivano tutti i membri del genere oggi conosciuti, assieme al pomelo ed al mandarino. Il nome cedro, derivato dalla volgarizzazione del termine latino citrus è, però, ambiguo in quanto coincide con la traduzione di cedrus, nome dato alla conifera (i famosi cedri del Libano che fornirono il legno per tante imbarcazioni nel mondo antico); ecco perché in alcuni testi per l'agrume viene usato anche il termine citro.
Il cedro è un arbusto di medie dimensioni che può raggiungere i 4-8 metri di altezza, è sempreverde e latifoglia. I rami giovani sono rossastri o violetti, con foglie lunghe fino a 20 cm e verde scuro. I fiori sono grandi e crescono in gruppi da tre a dodici e sono molto profumati; i boccioli sono rossastri, ma il fiore aperto è bianco. Il frutto è grande 20 – 30 cm, verde chiaro o giallino (nella sua fase matura), ovale o quasi rotondo, talvolta con una leggera protuberanza al peduncolo e un po' appuntito dalla parte opposta. La buccia è molto ruvida ed eccezionalmente spessa. Costituisce fino al 70% del frutto, per cui – tolti pure i semi e la pellicola tra gli spicchi – solo un 25-30% del cedro è normalmente utilizzabile, anche se c'è chi mangia il frutto compreso di buccia. Va detto, però, che questo frutto si consuma fresco assai di rado.
Una particolare varietà di cedro è la specie cosiddetta mano di Budda. In questa varietà gli spicchi, invece che uniti l'un l'altro, si sviluppano separati in modo da sembrare per l'appunto una mano.
Origini e diffusione
Secondo Plinio il Vecchio, il cedro è originario della Media, una vasta regione dell'Antica Persia (Asia Minore).
È giunto in Europa in tempi remoti, come indicato dall'origine dei termini in Greco antico (kedros o kitrion) e in Latino (citrus), usati per indicare il cedro, entrambi derivanti dalla stessa radice appartenente alle "lingue mediterranee" ovvero pre-indoeuropee.[2]
In Italia la conoscenza del cedro è molto antica. Fu classificato da Plinio nella Naturalis Historia col nome di "mela assira". A quei tempi ancora non si usava tale frutto come alimento; il suo utilizzo a tale scopo si sarebbe diffuso solo due secoli più tardi. Era invece usato come repellente per gli insetti nocivi come le zanzare, in maniera analoga alla citronella. Oggi il cedro è principalmente coltivato e lavorato in Calabria, nella fascia costiera dell'Alto Tirreno cosentino che va da Tortora a Sangineto, denominata Riviera dei Cedri, dove sono presenti paesi che presentano vaste coltivazioni di Cedro tra cui Santa Maria del Cedro, dove oggi si concentra maggiormente la produzione, Scalea, Belvedere Marittimo, Santa Domenica Talao, Orsomarso e Buonvicino.
Attualmente questo frutto è coltivato soprattutto nell'area mediterranea, in Medio Oriente, India e Indonesia, ma anche in Australia, Brasile e negli USA. In molte località indiane cresce pure spontaneamente.
Impieghi
Il cedro viene impiegato principalmente nell'industria alimentare, per la preparazione di pietanze dolci o salate, marmellate e canditi, liquori e bevande rinfrescanti e cocktail (come il "Green Star", cocktail al cedro ideato dal MHM G. Conte); non mancano, però, sperimentazioni nell'industria farmaceutica e cosmetica.
L'essenza ricavata dal cedro è però facilmente deteriorabile, per cui solitamente si usa corretta con l'essenza di cedrina. La cedrina (Citrus medica citrea gibocarpa) è una varietà usata esclusivamente per la produzione dell'essenza. Visto che il cedro è scarsamente utilizzabile come frutto fresco, si è cercato di sviluppare delle varietà adatte all'uso industriale. Dalla cedrina si estrae un olio essenziale con forte odore di cedro; consistente perlopiù di limonene, citrale e altri terpeni.
In medicina si utilizza per la preparazione di infusi. Gli steroli contenuti nell'albedo sono un ottimo rimedio contro il colesterolo.
Varietà
Il cedro conta un gran numero di varietà; quella più diffusa in Italia è coltivata in Calabria, sulla Riviera dei Cedri, ed è denominata "Liscia diamante", comunemente detta di Santa Maria del Cedro. In Sicilia è tipica quella bitorzoluta ("vozza vozza", a bassa acidità, buona per il consumo crudo), mentre in Campania se ne coltiva una molto acida, dall'albedo amarognolo, e una dolce e grossa ("sfusato"). Le varietà di cedro si dividono in due categorie: quelle a polpa dolce e quelle a polpa acida. Tra quelle straniere è da menzionare il cedro di Corsica a polpa dolce.
Una menzione particolare va fatta per il cedro giudaico o etrog (Citrus medica var. ethrog) che viene usata dai credenti ebrei per Succot o Festa delle capanne. È una varietà coltivata in Grecia, Etiopia e soprattutto in Israele, ma anche in Calabria nella Riviera dei Cedri, in cui ogni anno giungono i rabbini di numerose comunità ebraiche alla ricerca del cedro perfetto.
A differenza di tutti gli altri agrumi, possiede una percentuale maggiore di albedo (la parte bianca della buccia) rispetto alla polpa .
Arte
In arte, fino al XVII secolo il Citrus medica è stato spesso confuso col cedro del Libano, per cui è facile vedere dipinto un cedro (agrume) per indicare invece la conifera. Tra gli esempi noti, uno è Marco Palmezzano, pittore del XVI secolo, in cui il cedro, dipinto come agrume, ha sempre valore di simbolo religioso di origine biblica: nel dipinto dell'Immacolata (1510), ecco, in alto a destra, apparire un bel "cedro" pieno di frutti che sta al posto di un cedro del Libano.
Tradizioni popolari
A Santa Maria del Cedro, paese della provincia di Cosenza che prende il nome proprio dal cedro, si festeggiano ogni anno il Cedro Festival (agosto), la Festa della Raccolta del Cedro (ottobre) ed il Cedro Etno Festival (dicembre).
Nella città di Forlì, la festa dedicata al Santo Servita Pellegrino Laziosi, il 1º maggio, è caratterizzata dalla tradizionale fiera del cedro.
Anche a Bibbona (Livorno), nel giorno di Pasquetta, si tiene la festa del cedro, in ricordo dell'antica usanza locale di servirsi di questo frutto come dazio.
Il mandarino (Citrus reticulata Blanco, 1837) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutaceae.[1].
È uno dei tre agrumi originali del genere Citrus assieme al cedro ed al pomelo. Nel 2014, un lavoro scientifico ha chiarito la complessa sistematica degli agrumi definendo come tutti gli agrumi derivino da tre sole specie[2] (mandarino, pomelo e cedro). Il mandarino ha certo acquistato importanza storica, in quanto si tratta dell'unico frutto dolce tra i tre originali. Da incroci con il mandarino si sono sviluppati quasi tutti gli agrumi che oggi conosciamo (es. limone, lime, arance).
Con successive ibridazioni e selezioni, il mandarino ha originato moltissime cultivar di grande importanza commerciale, tra cui la clementina in cui il gusto amaro tipico delle prime specie si è stemperato in particolare incrociandolo con il pomelo[3].
Il nome mandarino si può riferire tanto alla pianta, quanto al suo frutto. Deriva dalla Cina tropicale, ed è identico al nome dato agli antichi funzionari politici imperiali (e alla relativa famiglia di lingue) in quanto questi erano vestiti con un mantello arancione. La coltivazione del frutto arrivò in Europa soprattutto in Portogallo e in Spagna, dove cominciò a diffondersi intorno al XV secolo.
Il mandarino è un arbusto poco più alto di due metri, in alcune varietà fino a quattro metri. Le foglie sono piccole e profumatissime. Il frutto è di forma sferoidale, un po' appiattito all'attaccatura, e si lascia cogliere facilmente. La polpa è di colore arancio chiaro, costituita da spicchi facilmente separabili, molto succosa e dolce, entro la quale vi sono immersi numerosi semi. La buccia è di colore arancione, sottile e profumata, con un'albedo molto rarefatta e granulosa che consente una facile pelatura del frutto. Spesso la buccia addirittura si distacca dalla polpa ancora prima che il frutto venga colto dal ramo, il che gli conferisce un aspetto "ammaccato". È particolarmente semplice rimuovere la buccia con le mani, proprio in quanto scarsamente attaccata alla polpa. Ha un profumo agrodolce e aromatico come la clementina; il gusto è molto dolce.
I mandarini sono normalmente consumati come frutta fresca o lavorati nella produzione di marmellate e frutta candita. Dalla buccia si estrae un olio essenziale che è un liquido di colore giallo oro leggermente fluorescente. Chimicamente si tratta perlopiù di d-limonene che spesso viene sofisticato con l'olio ricavato dal frutto intero non maturo.
Un albero adulto può dare da 400 a 600 frutti all'anno.
Negli Stati Uniti d'America la varietà più coltivata è la satsuma o mikan, importata nel 1876 dal Giappone. Da notare che Satsuma, oltre al nome di una regione nel Kyūshū, è anche una città dell'Alabama cresciuta con i mandarineti. Questa varietà viene coltivata anche in Sicilia, assieme all'avana e al paternò. Da non dimenticare vi è il Mandarino tardivo di Ciaculli (tutelato da Slow Food)[4], dal sapore zuccherino, che viene coltivato nell'omonima frazione di Palermo, nel cuore della pianura Conca d'oro. Viene denominato Tardivo per via di una maturazione prolungata fino ai primi giorni del mese di Marzo.
Nel Regno Unito e negli USA, oltre alla parola mandarino si usa come sinonimo anche e soprattutto il nome tangerine, dal che possiamo dedurre che il frutto veniva importato dapprima dal Mediterraneo, presso il porto marocchino di Tangeri. Ma si tratta in realtà di due distinte varietà. Il vero mandarino è di colore arancio chiaro e leggermente appiattito; il peduncolo si trova in una piccola infossatura. Il tangerino è un ibrido del mandarino con l'arancio, perciò la buccia è di colore arancio acceso; il peduncolo esce da una piccola protuberanza (come in certi limoni); le foglie sono più larghe.
Alcuni esperti, specialmente americani[chi?], includono tra i mandarini anche i clementini, ma la classificazione è molto discussa. Anche i clementini sono degli ibridi, e precisamente tra il mandarino e l'arancio amaro, per cui – come i tangerini - si potrebbero catalogare a pari diritto pure tra gli aranci. È stata fatta anche la proposta di includere in un'eventuale unica varietà comune sia i tangerini sia i clementini. I tangerini sono ritenuti una varietà di mandarini, mentre i clementini fanno specie a parte, in quanto hanno dimostrato di possedere qualità durature e ripetibili, il che li porrebbe sullo stesso piano, ad esempio, delle limette. Ma una classificazione definitiva non è stata ancora concordata.
Tenendo presente quanto sopra detto a proposito delle molteplici varietà ed ibridazioni di questo frutto, nonché della relativa incertezza sulla loro classificazione, si indicano di seguito alcune tra le più note denominazioni commerciali del mandarino.
Mandarino arena – Citrus reticulata Blanco ex Tanaka
Mandarino ponkan – Citrus reticulata Blanco ex Tanaka
Clementina - Citrus × clementina
Mandarino delizioso - Citrus × deliciosa Ten.
Mandarino satsuma - Citrus × unshiu Marcow.
Mandarino cleopatra - Citrus × reshni hort. ex Tanaka
Mandarino acido - Citrus × sunki (Hayata) hort. ex Tanaka
Mandarino tangerino - Citrus × tangerina hort. ex Tanaka
Mandarino tachibana - Citrus × tachibana (Takino) Tanaka
Mandarino calamondino - Citrus × madurensis Lour ; sinonimo × Citrofortunella microcarpa
I 10 maggiori produttori di mandarino nel 2018[5]
Paese
Produzione (tonnellate)
19.035.444
1.978.581
1.650.000
1.208.789
1.068.351
996.872
804.670
773.700
699.832
646.218
Mondo
34.393.431
Il limone (Citrus limon (L.) Osbeck) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutaceae[1]. Il nome comune limone si può riferire tanto alla pianta quanto al suo frutto.
Secondo degli studi genetici[2], il limone è un ibrido e deriva dall'incrocio tra l'arancio amaro e il cedro[3][4].
Storia
Sebbene le origini del limone siano incerte, si pensa che i primi luoghi in cui sia cresciuto siano la Cina, dove veniva coltivato già prima della dinastia Song (960-1279 d.C.),[5] la regione indiana dell'Assam e il nord della Birmania.[6]
Secondo alcuni studiosi, gli antichi romani conoscevano già i limoni. L'ipotesi è supportata dalle raffigurazioni di tali frutti in alcuni mosaici a Cartagine e affreschi a Pompei; tuttavia, secondo altri studiosi, è possibile che gli autori di quelle opere avessero importato gli agrumi o li avessero visti nei loro paesi di origine.[6] Non ci sono infatti prove in ambito paleobotanico o letterario che avvalorino tale ipotesi.[6]
Intorno al 700 d.C. il limone si diffuse in Persia, Iraq e Egitto. Dal termine persiano لیمو, che si pronuncia līmū e indica genericamente gli agrumi, deriva il termine "limone".[7]
Le prime descrizioni letterarie del limone si hanno in scritti arabi del X e XII secolo, ad opera di Qustus al-Rumi e Ibn Jami'. Gli alberi di limoni furono utilizzati inizialmente dagli arabi come piante ornamentali.[6]
Le prime coltivazioni di limoni in Europa furono quelle di Genova nella metà del XV secolo. In seguito i limoni vennero introdotti in America da Cristoforo Colombo che ne portò alcuni semi a Hispaniola.[8]
Nel 1747 il medico scozzese James Lind consigliò l'utilizzo del succo di limone come cura contro lo scorbuto.[9][10]
Nel XIX secolo il limone iniziò ad essere coltivato intensivamente in Florida e California.
Morfologia
Il limone è un albero che raggiunge dai 3 ai 6 metri di altezza. I germogli e i petali sono bianchi e violetti.
Il frutto è giallo all'esterno e quasi incolore all'interno, di forma sferica fino ad ovale, spesso con una protuberanza all'apice e appuntito all'altra estremità. La buccia può essere da molto ruvida a liscia, più o meno foderata all'interno con una massa bianca spugnosa detta albedo. Solitamente i limoni si coltivano per la produzione di frutti ma la pianta può essere coltivata in vaso a scopo ornamentale. Per le coltivazioni in vaso è consigliata terra specifica per agrumi e il rinvaso annuale prima del ricovero invernale in serra.
In clima favorevole, il limone fiorisce e fruttifica due volte l'anno. La fioritura dura almeno due mesi e il frutto maturo può attendere altri due mesi sull'albero prima di venir colto, il che favorisce una raccolta sistematica. La fioritura primaverile produce i frutti migliori, la cui raccolta dura poi tutto l'inverno, da novembre ad aprile o maggio. La seconda fioritura, a volte forzata nelle piantagioni commerciali, avviene in agosto e settembre, i frutti si possono raccogliere da maggio in poi, subito dopo quelli invernali. In condizioni favorevoli, un albero adulto può dare da 600 a 800 frutti all'anno.
Varietà
I limoni sono coltivati in tutto il mondo in innumerevoli varietà che probabilmente neanche i botanici riescono a registrare correntemente. Le differenze tra di esse sono infatti riscontrabili prevalentemente nell'aspetto esteriore, mentre rimangono praticamente invariate sia le loro qualità alimentari che la relativa importanza economica. Il limone infatti, ben raramente viene consumato come frutto fresco, per cui cambiamenti minori di gusto non sono molto importanti. Per la lavorazione industriale vanno bene tutte le varietà, con l'esclusione forse di quelle poche che per il precoce deterioramento vengono consumate sul luogo di produzione. Sono così quasi ignote le varietà del "limone rosso" e del "limone dolce" che danno frutti sempre agri, ma nel contempo abbastanza dolci da poter essere mangiati come frutta fresca. Quando questi limoni giungono a maturazione si deteriorano nel giro di due o tre giorni, per cui logicamente vengono consumati dalla popolazione locale e rimangono sconosciuti su un mercato più vasto.
Spesso si fa distinzione tra limoni gialli e verdi, ma si tratta di una distinzione meramente commerciale, in quanto i due tipi crescono sullo stesso albero. Il limone verde è il prodotto della fioritura estiva, la quale viene spesso indotta artificialmente con l'assoluta privazione di irrigazione della pianta nei mesi di giugno e luglio. In questo modo si ottengono frutti dalla sottile buccia verde e dalla polpa molto succosa. Possono rimanere immagazzinati per lungo tempo e sopportano bene trasporti e sbalzi di temperatura, per cui vengono esportati in tutto il mondo, mentre i loro "fratelli" limoni invernali, coprono il fabbisogno dei mercati interni. Questo tipo di forzatura dell'albero ne abbrevia la vita, ma si tratta di una pratica molto vantaggiosa economicamente, per cui generalmente adottata in tutte le piantagioni.
Degli esempi di varietà di limone sono: limone della Costa d'Amalfi, limone di Sorrento, limone di Siracusa, limone corso (originario della Corsica e dalla polpa dolce), mano di Buddha, limone marocchino, greco e yemenita.
Produzione e distribuzione geografica
Produzione mondiale di limoni e lime (2012).
Il limone viene coltivato in tutto il mondo nella fascia subtropicale, dove il clima è sufficientemente caldo ed umido ed è un importante prodotto di esportazione per molti paesi al di fuori dell'Unione Europea nel periodo "fuori stagione". Il produttore maggiore è l'India (~16% della produzione mondiale di limone e lime), subito seguita da Messico (~13%), Cina (~13%), Argentina (~10%) e Brasile (~8%). Altri paesi sono Turchia, Spagna e Stati Uniti dove i limoni sono coltivati prevalentemente in Florida e California. Dalla metà degli anni ottanta tuttavia l'importanza economica della coltivazione del limone è in fase di forte decremento. In Italia il limone viene coltivato a scopo produttivo nei territori del lago di Garda[12][13][14][15][16] e principalmente nel Meridione, in particolare: Sicilia, Calabria e Campania.
Principali produttori mondiali di limone e lime — 2018
Paese
Produzione (Tonnellate)
3 148 000
2 547 834
2 482 884F
1 989 400
1 481 322
1 100 000
1 087 232
812 840
474 149
445 460
378 992
353 111
316 260
Usi
In media, la buccia del limone può raggiungere il 40% del peso complessivo, un altro 3% è rappresentato dai semi. Pur trattandosi di una media il dato fa capire che il frutto non viene coltivato solo per il succo. Dalla buccia, molto apprezzata per la produzione di canditi, si estraggono anche essenze e pectina. Dai semi si estrae l'olio e gli avanzi si impiegano nell'alimentazione animale.
Con la buccia del limone si produce un liquore, il Limoncello, nato in Campania e diffuso in tutto il mondo.
La parte del frutto più comunemente utilizzata è il succo che rappresenta fino al 50% del suo peso, contiene 50-80 grammi/litro di acido citrico, che conferisce il tipico sapore aspro e diversi altri acidi organici tra cui l'acido malico, l'acido ascorbico o vitamina C (0,5 g/l). Il succo pastorizzato si mantiene senza conservanti per almeno un anno e viene usato come ingrediente di vari alimenti e bevande. Il succo concentrato viene invece sottoposto ad ulteriore lavorazione e consumato nell'industria conserviera. Dal succo del limone si produce la limonata, una bevanda a base di succo di limone, acqua e zucchero.
Anche in farmacologia il limone è molto apprezzato e le sue parti utilizzate sono il succo e il pericarpo (scorza). Il suo uso come farmaco era consolidato quando ancora non si sapeva nulla delle vitamine. Innanzi tutto ne veniva apprezzato il succo quale antiemorragico, disinfettante, diminuzione consistenza di feci (diarrea) e ipoglicemizzanti (tende a far diminuire il glucosio nel sangue)[17]. Nell'aromaterapia viene indicato come rinfrescante, tonico per la circolazione, battericida, antisettico, valido per abbassare la pressione arteriosa, utile per eliminare verruche, calli, gengive infiammate, per curare artrite e reumatismi, vene varicose, raffreddore, influenza[18]. Era reputato indispensabile nella cura dello scorbuto, cosa ben nota tra i marinai che non mancavano di approvvigionarsi di limoni prima di ogni viaggio impegnativo.
La di polpa di limone contiene: acqua, lipidi, potassio, calcio, magnesio, vitamina C.
100 g. di polpa rappresenta il 71% del fabbisogno giornaliero di vitamina C per una persona adulta, ed il 7% del fabbisogno di potassio, l'1% di calcio ed il 9% di magnesio.
In Sicilia, dove esiste da sempre il problema dell'acqua potabile, era in voga l'uso di immettere nelle riserve d'acqua vari limoni tagliati a metà. La gente sapeva per esperienza che i limoni disinfettano l'acqua e la ricerca moderna ha dato ragione a questa antica saggezza.[19]
Il limone è il frutto che vanta il più vasto impiego terapeutico, e il rapporto fra limone e salute vanta una storia millenaria: dagli impieghi degli antichi Greci fino ai giorni nostri, gli esempi di applicazione del limone in medicina sono centinaia, un lungo elenco fatto anche di alcune pagine importantissime della storia della medicina, come la scoperta dello scorbuto di James Lind nel 1747, patologia dovuta alla carenza di vitamina C e curata con il succo di limoni e arance. L'elevata concentrazione di vitamina C contenuta nel limone rende questo frutto di notevole importanza per la tutela della salute. Inoltre, l'alto contenuto di vitamina C nel limone è utile per combattere i sintomi dell'influenza.
L'arancio (Citrus sinensis (L.) Osbeck, 1765) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutacee[1], il cui frutto è l'arancia (detta nell'uso corrente anche "arancio", come l'albero)[2], talora chiamata arancia dolce per distinguerla dall'arancia amara. È un antico ibrido, risultato di un incrocio di oltre 4000 anni fa tra il pomelo e il mandarino.
Originario della Cina e del sud-est asiatico, questo frutto invernale sarebbe stato importato in Europa solo nel XV secolo da marinai portoghesi. Tuttavia alcuni testi antico-romani ne parlano già nel I secolo; veniva coltivata in Sicilia dove era chiamato melarancia, il che potrebbe significare che il frutto avesse raggiunto l'Europa via terra. Potrebbero essere corrette entrambe le teorie. Probabilmente l'arancio giunse davvero in Europa per la via della seta, ma la coltivazione prese piede solo nella calda Sicilia, dove la sua diffusione si arenò. Solo dopo secoli venne riscoperto dai marinai portoghesi.
Da notare che a Roma, nel chiostro del convento di Santa Sabina all'Aventino è presente una pianta di arancio dolce che secondo la tradizione domenicana è stata portata e piantata da San Domenico nel 1220 circa. La leggenda non specifica se il santo avesse portato la pianta dal Portogallo o dalla Sicilia, dove essa era giunta al seguito della conquista arabo-berbera.
Nella letteratura del secolo XIX a volte l'arancia viene chiamata portogallo. In greco l'arancio si chiama "πορτοκάλι" (pronuncia: portocáli), in rumeno "portocală", in albanese "portokall" e ancora oggi in arabo la parola usata per parlare delle arance è برتقال, burtuqāl, che ha soppiantato del tutto la parola persiana نارنج, nāranğ – letteralmente "(frutto) favorito degli elefanti" – da cui deriva "arancia" (e "naranja", in spagnolo) e "narancs" in ungherese. Però in arabo il burtuqāl indica l'arancia dolce, mentre nāranğ (d'origine persiana) indica l'arancia amara.
In Italia meridionale
In lingua napoletana è fortissima la diffusione della voce portogallo per arancia: in dialetto abruzzese l'arancia viene chiamata in genere purtuall, con alcune varianti a seconda della zona: ad esempio nella Valle Peligna essa viene chiamata partaall, mentre nei dialetti adriatico-meridionali e soprattutto nelle città di Lanciano e dintorni è chiamata purtijalle. Nel Salento viene indicata col termine portacallu e sul Gargano portajall. In dialetto romanesco, come attestato da Pascarella, il nome dell'arancia è, né più né meno, portogallo:
«Nonsignora, maestà. Lei si consija
Co' qualunque sia ar caso de spiegallo,
E lei vedrà ch'er monno arissomija,
Come lei me l'insegna, a un portogallo.»
(La scoperta dell'America. Alla memoria de mi' madre di Cesare Pascarella, III:5-8)
In Basilicata e in Calabria, in parti della Campania, della Puglia e dell'Abruzzo le arance sono chiamate purtualli o partajalli. In lingua siciliana sono dette partuàlli e arànciu; portugalli in certe zone della Calabria. Ad Altamura e a Gravina di Puglia, in provincia di Bari e Taranto sono, invece, chiamate "marànge".
In Italia centrale
Nella Tuscia viterbese viene ancora utilizzata la parola portogallo, che indica non solo l'arancia ma anche il mandarino, il pompelmo, il mandarancio e altri frutti affini, con varianti quali portugallo, nella zona meridionale dei monti Cimini,portigallo, più a nord. Nel Lazio meridionale è chiamato purtcagli.
In Italia settentrionale
In lingua piemontese sono detti portugaj; nel dialetto bergamasco portogàl; nel lodigiano purtügàl; in dialetto ferrarese portogàl, in dialetto parmigiano partugàl e in quello di Rimini partugàli. In lingua veneta l'arancia viene chiamata naransa; in lingua lombarda, precisamente nella variante occidentale, è detta narânz (portogall significa "mandarino", ma è stato usato anche come nome collettivo dei due frutti); in lingua friulana è narant. Questi casi farebbero intravedere una derivazione diretta dal persiano, forse grazie ai contatti culturali e commerciali veneziani con il Medio Oriente, oppure di un lascito spagnolo.
Nella lingua ligure (o almeno nelle località di confine - Ventimiglia - ) çitrùn è il nome dell'arancia amara; quella dolce viene chiamata portugalu.
Nelle lingue germaniche, la parola che indica l'arancia di solito significa letteralmente "mela cinese" (in olandese appelsien o sinaasappel, in tedesco Apfelsine). Parole derivate da appelsien si trovano anche nelle lingue slave (in russo Апельсин, apel'sin) e baltiche (es. lituano apelsinas).
Altra variante è "melarancia", diffusa in altre lingue (es. polacco pomarańcza, ceco pomeranč, slovacco pomaranč, sloveno pomaranča, serbo pomorandža/поморанџа).
L'arancio è un albero che può arrivare fino a 12 metri, dalle foglie allungate e carnose e dai fiori candidi. I germogli sono sempre verdi, mai rossastri. I frutti sono rotondi e sia la buccia sia la polpa sono del tipico colore arancione. La buccia è caratterizzata da una leggera ruvidezza che è diventata termine di paragone anche in campi totalmente diversi: parliamo per esempio di pelle a buccia d'arancia in cosmesi, o di superfici a buccia d'arancia in edilizia.
Il periodo di riposo dell'arancio è di soli tre mesi, per cui succede che l'albero fiorisca e fruttifichi contemporaneamente. I primi frutti si possono raccogliere in novembre (navelina), e gli ultimi a maggio - giugno (valencia late). Un albero adulto produce circa 500 frutti all'anno.
L'arancio è l'agrume più diffuso nel mondo e se ne coltivano centinaia di varietà. Alcuni frutti sono a polpa bionda (ovale, biondo comune, navelina, washington navel, ecc.), altri a polpa rossa per via dei pigmenti antocianici in essi contenuti (moro, tarocco, sanguinello), alcuni più grandi e più belli, altri di aspetto più modesto e dalla buccia più sottile, ma più succosi e dunque adatti per spremute. Solo in Italia più di venti varietà vengono coltivate come frutta da tavola e altrettante per spremuta. Comunque, le arance dolci non vengono consumate solo come frutta fresca ma, soprattutto nel caso di quelle a polpa bionda, vengono utilizzate per la produzione di succhi (durante la lavorazione delle quali la buccia, preventivamente separata dal resto del frutto, viene sfruttata per estrarne l'olio essenziale in essa contenuto) e, in misura minore, per la produzione di canditi e frutta essiccata.
La definizione Arancia rossa di Sicilia è usata per individuare le varietà di arance polpa rossa (moro, tarocco e sanguinello) che rispettano quanto previsto nel relativo disciplinare "Arancia rossa di Sicilia IGP" (Indicazione geografica protetta).[3]
A Ribera, in provincia di Agrigento, si coltiva l'arancia bionda della cultivar "Washington Navel"; in realtà le arance coltivate appartengono tutte al gruppo "Navel" (cioè arance ombelicate)[senza fonte]. A questo gruppo, oltre all'arancia suddetta, sono coltivate il "Brasiliano di Ribera", la cv. W.N. 3033 Frost, Navelina comune, Navelina VCR (Vecchio Clone Risanato), la Navelina ISA 315 (in piccole superfici impiantate - in corso di reinnesto con W.N. per via della pezzatura dei frutti che risulta essere media). Sembra che le sue particolari qualità organolettiche siano molto apprezzate dagli intenditori, tanto che Arancia di Ribera è diventato un marchio DOP.
Nazione
Produzione
(tonnellate)
16 713 534
9 103 908
8 367 000
4 833 480
4 737 990
3 639 853
3 246 483
2 510 442
1 900 000
1 889 252
1 775 760
1 589 856
1 522 213
Totale mondiale
75 413 375
L'arancia è utile sia per la buccia sia per l'interno. Inoltre i suoi fiori sono visitati dalle api, che ne raccolgono nettare, producendo un pregiato miele.
La buccia dell'arancia è una preziosissima fonte di essenze.
L'olio essenziale dell'arancia dolce o essenza di Portogallo è un liquido che va dal giallo-arancione al rosso scuro (varietà Tarocco e Sanguinello) che ravvisa l'odore della scorza fresca del frutto, parzialmente solubile in alcool etilico a 96° (dà infatti delle soluzioni torbide). Costituito quasi esclusivamente da limonene, viene usato nella produzione di liquori e per aromatizzare molti detersivi. Viene spesso utilizzato per sofisticare molti altri oli essenziali agrumari. La presenza del delta-3-carene, un monoterpene, naturalmente presente nell'essenza di arancia dolce, spesso è rivelatrice di questa sofisticazione.
Il terpene d'arancia è un liquido incolore ottenuto dalla distillazione dell'essenza di arancia, largamente usato come solvente naturale dall'industria delle vernici.
L'essenza deterpenata è ottenuta dalla rettificazione dell'olio tal quale. A seconda del grado di deterpenazione può presentarsi da rosso scurissimo a marrone ed è molto aromatica; esiste anche l'essenza "desesquideterpenata" che appare di colore giallo pallido e ha una nota olfattiva meno potente.
L'essenza di zagara o neroli è ottenuta da soli fiori dell'arancio amaro (la parola zagara deriva infatti dall'arabo zahra (in arabo: زهرة, zahra), che per l'appunto significa "fiore" e mai dai fiori dell'arancio dolce.
Anatra all'arancia.
Le arance, oltre al consueto consumo come frutto o sotto forma di spremuta d'arancia, vengono utilizzate anche in alcune ricette agrodolci come la famosa anatra all'arancia. Nelle tavole siciliane l'arancia si può trovare in insalata, con olio, sale e pepe, spesso con l'aggiunta di cipolle e olive. Sempre in Sicilia, la scorza è spesso usata per insaporire le creme da dolce, grattugiandola; si può anche candire, come talora insieme con la polpa tagliata a fettine. Un altro uso di ambedue le parti è nella marmellata di arance.
Nell'industria farmaceutica viene esclusivamente utilizzato l'olio essenziale ricavato dalle sacche oleifere della scorza per le sue qualità aromatizzanti.
Con i fiori d'arancio vengono costruite composizioni floreali per la decorazione di chiese in occasione di matrimoni, per significare la castità della sposa. I frutti invece possono essere utilizzati per esempio per i pot pourri.
La Conca d'Oro di Palermo costituì, per le grandi coltivazioni di arancio, una delle meraviglie dell'agricoltura araba di tutto il bacino del Mediterraneo. Nei secoli successivi registriamo gli splendori della coltivazione nelle serre del Garda, che rifornivano le tavole dei grandi signori di Venezia e Milano, e sulla costa genovese, dove i frutti erano destinati alla produzione di canditi, ricco sottoprodotto della raffinazione dello zucchero, di cui Genova è tra i primi importatori. In entrambi i casi gli aranci coltivati sono aranci amari[4].
Più di tre secoli fa, introdotti da saraceni e schiavoni, si diffondono sulle coste pugliesi coltivazioni di agrumi le cui caratteristiche si differenziano ben presto dalle altre specie italiane, come nel caso del Gargano. Grazie alla natura carsica del suo terreno e alle condizioni climatiche il Promontorio offrì allora le condizioni per il massimo sviluppo del limone femminello del Gargano e dell'arancia del Gargano che nei secoli successivi trainarono l'economia della zona grazie alla produzione dell'oasi agrumaia di Rodi Garganico e di San Menaio.
Alla metà dell'Ottocento arancio e limone incominciano una repentina diffusione anche sulle coste sicule e su quelle calabresi. Sono colture relativamente limitate, ma i loro prodotti alimentano un commercio fiorentissimo, che si dirige ai mercati di Londra, e soprattutto New York, che consuma aranci siciliani fino al trionfo della frutticoltura californiana[5]. L'agrumicoltura si sviluppa lentamente, in Sicilia e in Calabria, assicurando redditi alquanto elevati, fino ai primi anni del secondo dopoguerra, quando la sua espansione diviene tumultuosa, e si protrae nonostante i produttori non riescano a imporsi forme di organizzazione in grado di affrontare i grandi mercati di consumo, in specie quello tedesco, dove dal 1980 le importazioni divengono sempre più difficili, incalzate da quelle spagnole, di qualità non superiore, ma ordinate secondo formule commerciali molto più funzionali ed efficaci. Le difficoltà si aggravano in proporzione all'ampliamento della coltura, immensamente dilatatasi, da Lentini, dalle aree etnee del Catanese e dai rilievi siracusani di Francofonte all'interno della Sicilia, nelle province di Ragusa e Agrigento, in Calabria e insediatasi nel Metapontino, che deve la propria sopravvivenza, sempre più, alle sovvenzioni comunitarie, che non si sa quanto potranno protrarsi nel futuro.[6]
Il kumquat o cumquat[1] (Citrus japonica tobbese Thumb., 1784), detto anche comunemente mandarino cinese o kingen, è un piccolo albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutacee
Il nome comune "kumquat" deriva dalla pronuncia cantonese dei caratteri 金橘, gam1 gwat1, letteralmente "tangerino d'oro".
Questa specie fu originariamente descritta nel 1780 da Carl Peter Thunberg come Citrus japonica. Nel 1915, Walter Swingle la riclassificò in un genere a sé stante, Fortunella, così denominato in omaggio al botanico britannico Robert Fortune (1812–1880). Oltre a Fortunella japonica, all'interno del genere Fortunella sono state a lungo riconosciute diverse specie (F. margarita, F. crassifolia, F. hindsii, F. obovata). Gli ibridi tra il kumquat e le altre specie di Citrus (il più noto dei quali è il calamondino (Citrus × microcarpa) venivano attribuiti al genere × Citrofortunella.
Studi recenti hanno messo in discussione la separazione dal genere Citrus e anche le singole specie sono state declassate al rango di semplici varietà di Citrus japonica[3][4], con l'eccezione di Fortunella polyandra segregata nel genere Clymenia.
Descrizione
Si presenta come un piccolo albero sempreverde, di 2,5-4,5 m, con rami fitti, e qualche volta piccole spine. Le foglie sono di un verde scuro intenso, e i fiori bianchi, nascono singoli o in gruppo dalle gemme.
Il frutto del kumquat, che ha lo stesso nome, sembra una miniatura ovale e lunga dell'arancia, lungo 3–4 cm e largo 2–4 cm. A seconda della varietà la buccia si presenta dal giallo al rosso e il frutto può essere ovale o rotondo. Il frutto viene prodotto generalmente dal tardo novembre fino a febbraio.
Differisce dalle altre specie di Citrus per il fatto che durante l'inverno entra in un periodo di letargo in cui non mette più nuove gemme o getti.
Distribuzione e habitat
Il kumquat è originario della Cina (in letteratura le prime descrizioni risalgono al XII secolo), ed è stato a lungo coltivato in Giappone. Furono introdotte in Europa nel 1846 da Robert Fortune, collezionista della London Horticultural Society.
Richiede estati calde, dai 25 °C ai 38 °C, ma può resistere a temperature molto basse fino ai −10 °C senza problemi. Cresce molto bene nelle regioni del tè in Cina dove il clima è troppo freddo per le altre specie di Citrus.
Coltivazione
Il kumquat è coltivato in Cina, Corea, Giappone, Europa (Corfù e Grecia) e nel sud degli Stati Uniti (Florida). In Italia, il kumquat cresce e fruttifica dalla Liguria alla Sicilia lungo tutto il litorale tirrenico.
È una pianta da esterno, può resistere fino a −5 °C se viene coperto con un velo di tessuto non tessuto ed è collocato in una posizione riparata dai venti freddi. In casa va conservato solo per pochissimi giorni in luogo fresco e luminoso. I frutti vanno raccolti tagliando il picciolo con un paio di cesoie.[5]
È soggetto all'attacco da parte di fitomizi (Acari, Afidi, Aleurodidi) che ne diminuiscono anche notevolmente le proprietà ornamentali e produttive.
La fioritura prosegue tutta l'estate ed avviene in contemporanea con la crescita dei frutti, rendendo particolarmente ornamentale tale essenza.
Usi
Il frutto è commestibile ed è usato per la preparazione di marmellate e canditi. La consistenza sottile e dal gusto delicato della buccia consente di mangiare il frutto senza sbucciarlo.
È noto anche l'uso di liquori in cui il frutto intero, lasciato per un periodo di alcuni mesi nell'alcol buongusto con o senza zucchero, dona le proprietà aromatiche e gustative tipiche del frutto, marginalmente anche il colore. Presenta proprietà digestive e bene si accompagna anche a dolci e gelati.
Media
Nelle sue prime apparizioni fumettistiche, il personaggio Disney Eta Beta mangia anche frutti di kumquat in salamoia; nelle storie italiane si affermò come suo alimento preferito la naftalina (ciò fu dovuto al fatto che il kumquat era allora poco conosciuto e il termine difficilmente traducibile).
Il pompelmo (Citrus paradisi Macfad., 1830) è un albero da frutto appartenente al genere Citrus, e alla famiglia delle Rutaceae[1].
Il nome comune pompelmo si può riferire tanto al frutto quanto al suo albero.
È un antico ibrido, probabilmente tra l'arancio dolce e il pomelo, ma da secoli costituisce specie autonoma che si propaga per talea e per innesto.
È un albero sempreverde alto solitamente dai 5 ai 6 metri, ma può raggiungere i 13-15 metri. Le sue foglie sono di colore verde scuro, lunghe (oltre i 15 cm) e sottili. Produce fiori bianchi composti da quattro petali di 5 cm. Il frutto è giallo, di aspetto globoso di diametro di 10–15 cm ed è composto da spicchi incolori. È uno dei più grandi tra i frutti degli agrumi, secondo solo al pomelo, dato che può facilmente raggiungere i due kg di peso, nel qual caso però non viene consumato fresco, ma è destinato all'industria conserviera per la produzione di succo. La buccia del pompelmo è abbondantemente foderata dalla massa spugnosa detta albedo che è però leggermente meno compatta di quella del limone. Per questo motivo il frutto non ha la consistenza del limone, né l'elasticità dell'arancia, il che lo fa spesso sembrare ammaccato.
Botanicamente all'epoca non fu possibile distinguere il pompelmo dal pomelo (Citrus maxima), fino al 1830, quando gli fu assegnato il nome di Citrus paradisi. Le sue origini non furono determinate fino al 1950, quando il nome fu variato in Citrus × paradisi.[senza fonte]
Fino a poco tempo fa, infatti, il pompelmo veniva classificato come un Citrus originale, di cui si supponeva fosse una sottospecie anche la varietà dai frutti giganti coltivata perlopiù in Israele. Oggi invece è comunemente accettata la teoria secondo cui sono proprio questi frutti enormi, i pomeli, i veri Citrus originali, mentre i pompelmi ne sono antichi ibridi. L'ibridazione sarebbe tanto lontana nel tempo da aver permesso il predominio dei pompelmi nelle coltivazioni fino a causare la quasi scomparsa dei progenitori. I motivi di questa preferenza stanno certamente nelle "doti" che gli ibridi hanno ereditato dalle piante madri. Mentre il pomelo ha trasmesso il gusto e la succosità, l'arancio ha contribuito con il minor volume e la forma leggermente appiattita. Ne è risultato il pompelmo che conserva appunto tutto il gusto del pomelo, ma si presenta in frutti che non superano in media il chilogrammo di peso, mentre il pomelo può pesare oltre dieci chilogrammi. In quanto poi alla forma, l'ibrido ha assunto quella rotondeggiante dell'arancia, perdendo il "cappello" di albedo che fa assomigliare i pomeli a gigantesche pere.
Il pompelmo è l'unico agrume che si suppone non provenga dall'Asia sudorientale, ma dall'America Centrale. Si dice sia stato scoperto nel 1750, probabilmente a Barbados o alle Bahamas.[senza fonte] In realtà è plausibile che da questi luoghi sia stato portato in Florida, ma sembra alquanto strano che da lì abbia potuto raggiungere anche il Mar Mediterraneo. Non ci sono dati certi in proposito, ma esiste l'ipotesi per cui anche il pompelmo sia giunto in Europa assieme al suo progenitore, l'arancio dolce, dall'Estremo Oriente attraverso l'Asia per la Via della seta, il che collocherebbe la sua origine nella patria di tutti gli altri agrumi. È comunque vero che in Europa era stato usato a lungo solo come pianta ornamentale. Il frutto è diventato popolare solamente nel XIX secolo.
Oggi il pompelmo si coltiva in tutto il mondo. Ne sono i maggiori produttori gli USA, con piantagioni in Florida e Texas.
Nell'Italia meridionale, è coltivato oggi negli agrumeti della Piana di Catania, e della Conca d'Oro in Sicilia.
Esistono sul mercato molte varietà di pompelmo, ma una in particolare sta assumendo una certa importanza. Si tratta del pompelmo rosa, la cui colorazione deriva da una mutazione spontanea del pompelmo giallo osservata in Texas nel 1929 e stabilizzata tramite irraggiamento con neutroni lenti. Il nuovo frutto ha sollevato molto interesse tra i compratori, tanto da favorire ulteriori ibridazioni soprattutto con l'arancio moro. Sono stati raggiunti buoni risultati: il frutto sta diventando sempre più colorato e sempre più dolce, e la buccia si sta assottigliando. Al momento il pompelmo rosa è solo una varietà del pompelmo giallo, ma potrebbe succedere che in breve diventi specie autonoma di citrus. È già successo con le clementine: quando una varietà raggiunge qualità peculiari facilmente ripetibili, mantenendo invariate le nuove caratteristiche, l'ibrido assume lo status di specie. Non dobbiamo dimenticare che, storicamente, è quanto successe addirittura all'arancio e al limone.
Due nuove cultivar di pompelmo rosa, la Star Ruby (1970), e la derivata Rio Red (1984), entrambe vendute con il nome di Rio Star,[2] sono state ottenute mediante esposizione a radiazioni ionizzanti.[3][4]
I maggiori produttori di pompelmo nel 2018[5]
Paese
Produzione (tonnellate)
4.965.768
657.660
558.830
459.610
445.385
257.750
250.000
234.388
219.838
148.896
114.118
104.593
Alcuni studi evidenziano proprietà antimicotiche, antimicrobiche e antibatteriche ad ampio spettro del GSE (Grapefruit-Seed Extract)[6][7]. Con una diluizione di 1:512 è eliminata completamente la tossicità del succo, rispetto ai comuni antibiotici, svolgendo un'azione selettiva che colpisce i soli batteri non familiari all'organismo. Al microscopio elettronico si è evidenziato come in 15 minuti dal contatto vien distrutta la membrana del batterio e liberato quanto contenuto nel suo citoplasma[8]
La naringenina (così come la glicirrizina della liquirizia) inibisce nel rene (Sterward et al, anni '80) l'azione dell'enzima l'11-beta-idrossisteroido-deidrogenasi tipo 2 (11-beta-HSD-2), il quale trasforma l'ormone cortisolo nel suo metabolita inattivo cortisone, ed è fondamentale nel controllo dell'attività dei glucocorticoidi in genere.
Di contro, negli ultimi trent'anni sono state fatte delle interessanti scoperte in farmacologia a proposito del ruolo del succo di pompelmo rispetto alle terapie farmacologiche. Questi studi presero vita a partire dall'osservazione che in alcuni Stati meridionali degli Stati Uniti d'America, in particolare in Texas, diverse terapie normalmente in uso anche nel resto del Paese davano risultati inferiori o addirittura nulli in una percentuale significativa di casi[senza fonte]. Si iniziò quindi a dibattere sulle possibili cause di questa manifestazione.
Nel corso degli studi, venne notato che negli Stati interessati il consumo di succo di pompelmo come bevanda (considerata molto rinfrescante in luoghi dove il clima era spesso molto caldo) era notevolmente più alto che negli altri Stati; si registrarono addirittura casi di persone che consumavano 1-2 galloni (equivalente a 4-8 litri) al giorno di succo di pompelmo. Nel proseguire degli studi, il mistero che circondava la correlazione tra i due aspetti (consumo di succo di pompelmo e fallimenti terapeutici) venne svelato.
La bergamottina, contenuta nel pompelmo, è un potente competitore e inibitore metabolico dell'isoforma CYP3A4 del citocromo P450 epatico; questo citocromo è, in breve, un complesso di enzimi del fegato che sovrintende al metabolismo della stragrande maggioranza delle sostanze introdotte nell'organismo, dai farmaci ai nutrienti alle sostanze tossiche (tutti insieme vanno sotto il nome di xenobiotici); l'isoforma 3A4 (una forma particolare di questo complesso enzimatico), in particolare, metabolizza circa il 50%[9] di tutti i farmaci attualmente prescritti per le terapie. La bergamottina agendo da competitore rende meno disponibile il citocromo per le molecole di farmaco, mentre come inibitore diminuisce la produzione degli enzimi a livello epatico. Il farmaco viene quindi metabolizzato più lentamente, con conseguente aumento dello stesso nei livelli plasmatici.
Per questo motivo, il pompelmo ha una potenziale utilità nelle associazioni tra farmaci reciprocamente potenzianti per una generica azione sul citromo P450, diversamente pericolose.
Il citocromo P450 opera nel fegato la sintesi di acidi biliari a partire dal colesterolo. Perciò, alimenti che contengono gli inibitori del P450 (come liquirizia e succo di pompelmo) se assunti lontani dai pasti, non riducono l'assorbimento dei nutrienti.
Sono documentate le inibizioni del metabolismo di alcuni psicolettici (come alprazolam, midazolam e triazolam), statine (atorvastatina) e di ciclosporine[10].
L'uso eccessivo dei derivati del pompelmo porta all'inibizione del CYP3A4, citocromo epatico che è responsabile dell'elaborazione di molti farmaci. I farmaci elaborati da esso di conseguenza raggiungeranno valori plasmatici più elevati e questo fatto può portare a complicazioni rilevanti.[11] La funzione della pillola anticoncezionale può, per esempio, essere alterata a causa di un blocco del CYP3A4 per mezzo del succo di pompelmo.
È dunque consigliabile, per chi facesse uso di farmaci, rivolgersi per informazioni a personale qualificato e sospendere il consumo del succo di pompelmo.
La Scabiosa atropurpurea è una pianta erbacea perenne originaria dell'Europa e dell'Asia. Il nome comune con cui viene chiamata è vedovella.
Costituisce una densa rosetta basale di foglie lanceolate, ricoperte da una sottile e leggera peluria, di colore verde brillante, all'interno della rosetta si sviluppano foglie più piccole, finemente divise; da primavera inoltrata fino ai primi freddi dalla rosetta crescono fusti sottili, lunghi 20-25 cm, che portano dei fiori singoli, con centro di colore grigio-argento e corolla viola o lilla. Questa piccola perenne viene molto coltivata nelle aiuole e nei giardini rocciosi per la lunga ed abbondante fioritura; esistono numerosi ibridi con fiori di colori che vanno dal porpora scuro fino al bianco. S. africana è leggermente meno rustica e ha foglie e fiori ben più alti, che raggiungono i 40-45 cm.
È una pianta annuale strisciante verso l'alto o eretta, pilosa (con pelo lisci o ondulati di colore verde chiaro, ma soprattutto nelle porzioni tenere, con tendenza al violaceo) o con pochissimi peli. Raggiunge da 10 a 50 cm (1 m) di altezza. Ha un fusto sottile e dicotomico. Le foglie sono alterne nella parte inferiore, opposte nella parte superiore, minuscole stipole , piccioli molto sottili lunghi da 0,3 a 3 cm, lame di forma variabile, generalmente da larghe a ovate strettamente, ma talvolta da oblunghe a lanceolate, lunghe da 0,5 a 3 cm da da 0,3 a 2,5 cm di larghezza, apiceacuto o ottuso, margine quasi sempre intero, molto raramente seghettato, base da cuneo ad arrotondato, tessitura sottile, colore verde chiaro talvolta più chiaro nella pagina inferiore. Le infiorescenze sono cyatia (speciali infiorescenze del genere Euphorbia , che hanno l'aspetto di un fiore) terminali o nelle biforcazioni dei rami, solitarie o in coppia su pedicelli lunghi da 0,2 a 1,5 cm; Involuco svasato, lungo 1 mm, generalmente peloso, ghiandole 4 o 5, con intere appendici petaloidi, obovate, biancastre o talvolta alquanto porpora. Il frutto è una capsula trilobata, glabra, alta da 1,5 a 2 mm, stili piuttosto lungo e slanciato, biforcuto talvolta fin quasi alla base; semi ovoidi, lunghi e cilindrici, troncati alla base, lunghi 1,5 mm, bianchi, giallastri o bruni, con tuberi disposti in file incrociate come un reticolo e al centro di ogni quadrato è presente un foro, caruncola assente o minuscolo.
È originario dell'America tropicale . È distribuito dal Messico centrale e meridionale al Sud America e alle Antille .
È ruderale e arvense, tra i sentieri si trovano individui talvolta rachitici, cespugli, boschi alterati. Nella giungla di latifoglie, sempreverde alto foresta, foresta di pini e querce macchia xerófilo .
Nella Valle del Messico è registrato fino a 2350 metri sul livello del mare . In Nicaragua da 200 a 1500 m.
Erythrina crista-galli L., 1767 è un albero della famiglia delle Fabacee (o Leguminose)[1], originario di Argentina, Uruguay, Brasile, Bolivia e Paraguay.
In Sud America è indicato con molti nomi: in spagnolo, ceibo, seibo o bucaré (un nome più ambiguo, che si riferisce a molte specie del genere Erythrina); in portoghese, corticeira. In inglese è spesso indicato come cockspur coral tree (cockspur è il nome comunemente usato per indicare la Echinochloa crus-galli), mentre in Italia viene indicato come "albero di corallo".
L'Erythrina crista-galli è l'albero nazionale dell'Argentina e il suo fiore è l'emblema floreale di Argentina e Uruguay. È anche l'albero urbano ed ufficiale[non chiaro] di Los Angeles (California).
Questa specie cresce nelle zone calde, dove le temperature scendono di poco sotto gli zero gradi e salgono fino ai quaranta. Spesso è piantato nei parchi urbani per i suoi brillanti fiori rossi.
L'Erythrina crista-galli è un piccolo albero, che normalmente misura 5-8 metri in altezza, anche se alcuni esemplari arrivano fino a 10 metri, come nelle province argentine di Salta, Jujuy e Tucumán.
Il tronco legnoso dell'albero è provvisto di rami irregolari e spinosi e può raggiungere i 50 cm di circonferenza.
Questa pianta fiorisce in estate, tra ottobre e aprile in America Meridionale e tra aprile e ottobre nell'emisfero settentrionale. Il fiore, solitamente rosso, è riunito in infiorescenze. Il suo calice è di colore rosso vivo. La corolla, come quella di altre leguminose (come i fagioli comuni), è a forma di farfalla; il petalo più grande è infatti sistemato nella parte più bassa, mentre i due più piccoli, chiamati "ali", sono nascosti praticamente all'interno del calice. I fiori sono ricchi di nettare e, per questo, sono molto amati dagli insetti, che di solito fanno sì che avvenga l'impollinazione. È infatti molto visitata dalle api.
I frutti sono dei baccelli che al loro interno racchiudono i semi. I semi, rosso-marroni, sono di forma cilindrica e sono sistemati irregolarmente all'interno del baccello.
Propagazione
Avviene per seme o talea, generalmente in primavera. I semi vanno prima tenuti a bagno per diverse ore in acqua calda, poi interrati e, nel giro di 15/20 giorni, cominceranno a germinare.
Tagetes L. è un genere[1] di piante della famiglia delle Asteracee, originarie degli Stati Uniti d'America sud-occidentali, del Messico e del Sud America. Fu descritta come genere da Linneo nel 1753
Sono piante erbacee che hanno mediamente un'altezza che varia dai 25 agli 80 cm, ma ci sono specie che possono raggiungere anche i 3 metri[senza fonte]; il fusto è cespuglioso e ramificato, le foglie sono pennate, lucide e di colore verde scuro; i fiori sono dei capolini semplici o doppi, di colore giallo, arancio o rosso.
Un uso rituale dei fiori di Tagetes è presente in diverse culture. Nel Messico pre-ispanico i fiori di Tagetes erecta erano considerati i fiori dei morti e al giorno d'oggi sono tuttora ampiamente utilizzati nel giorno della Commemorazione dei defunti.[8] In Nepal, India e Thailandia grandi quantità di fiori sono utilizzate per la creazione di ghirlande e decorazioni in occasione di matrimoni, feste e altri eventi religiosi. A tal fine esistono estese coltivazioni in Andhra Pradesh, Tamil Nadu, West Bengal, Karnataka, etc.[9]
Le foglie, i fusti e i fiori di diverse specie di Tagetes hanno una lunga storia di utilizzo per la preparazione di bevande, decotti, e condimenti, spesso di uso rituale.[10] Tagetes erecta è usata per la preparazione di bevande in Sud Carolina[11] e in parte degli Stati Uniti meridionali.[12]. Con i fiori di Tagetes lucida si prepara una popolare bevanda in Messico e Guatemala, che è utilizzata anche in ambito rituale.[12] In Sud America Tagetes minuta è usata come condimento, e come rimedio fitoterapico
Plumbago auriculata , il leadwort del capo , [2] plumbago blu o plumbago del capo , è una specie di pianta da fiore della famiglia Plumbaginaceae, originaria del Sud Africa. [3] [4]
L' epiteto specifico auriculata significa "con le orecchie", riferito alla forma delle foglie.
Descrizione
Plumbago auriculata è un arbusto sempreverde , spesso coltivato come rampicante , che sale rapidamente fino a 6 m (20 piedi) di altezza per 3 m (10 piedi) di larghezza in natura, anche se molto più piccolo se coltivato come pianta d'appartamento . [6] Le foglie sono di un verde brillante e raggiungono i 5 cm di lunghezza. [3] [4] Gli steli sono lunghi, sottili e rampicanti. Le foglie sono alterne e sono 2-5 cm.
I cinque petali sono larghi circa 2 cm e possono essere di colore azzurro pallido, azzurro o viola. Esistono anche variazioni con fiori bianchi ( P. auriculata var. alba ) o blu intenso ( P. auriculata 'Royal Cape'). I fiori sono disposti in un'infiorescenza a corimbo e racemo. [7] Il fiore di questa pianta è completo e bisessuale . I sepali ei petali sono connati mentre il pistillo è adnato . l' ovaiodel fiore è superiore e il fiore ha una simmetria regolare. Ha placentazione basale, con 1 locule e 5 carpelli. Fiorisce principalmente in estate, ma nelle giuste condizioni può fiorire tutto l'anno. Distribuzione
Originaria del Sud Africa, si estende dalla regione del Capo Meridionale all'Eastern Cape e al KwaZulu-Natal . Si può trovare anche nel Gauteng e nelle aree adiacenti del Free State e della North West Province . C'è anche un evento isolato a Mpumalanga . Tipicamente la specie cresce in cespugli o boschetti. Come pianta ornamentale è oggi diffusa nelle zone tropicali e subtropicali (compresa la regione mediterranea).
Biologia
È visitato da varie farfalle. Le loro foglie servono da cibo per il bruco della falena colibrì . Al contrario, i sepali appiccicosi a volte catturano animali fino alle dimensioni di una mosca domestica. Si ritiene che le specie plumbago viventi oggi siano molto simili ai primi antenati della Drosera e di altre piante carnivore .
Fitochimica
Molti metaboliti secondari sono stati scoperti e isolati da Plumbago auriculata come plumbagina e acidi palmitici. Coltivazione
Nelle regioni temperate può essere coltivata all'aperto in zone prive di gelate, altrimenti sotto serra. Cresce meglio in pieno sole fino all'ombra parziale.
La specie [2] e la forma a fiore bianco P. auriculata f. alba [12] hanno entrambi guadagnato la Royal Horticultural Society 's Award of Garden Merit
Plumbago auriculata può essere propagato sessualmente per seme e asessualmente per talea in estate. Necessita di terreno ben aerato e leggero e predilige terreni acidi.
Clematis recta (L. 1753), comunemente nota come clematide eretta, è una pianta perenne, di medie dimensioni, appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, originaria di Europa e Caucaso
Il nome generico (Clematis) viene normalmente attribuito a Dioscoride e deriva dalla radice greca klema (= “viticcio” o anche =“pianta volubile” o anche ="legno flessibile"). L'epiteto specifico (recta) è derivato dal suo portamento.
Il binomio scientifico attualmente accettato (Clematis recta) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753.
Sono piante di tipo cespuglioso alte da 5 a 15 dm. La forma biologica è definita come emicriptofita scaposa (H scap), ossia sono piante erbacee perenni, con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve, dotate di un asse fiorale eretto e spesso privo di foglie. Tutti i suoi tessuti, come del resto in altre “ranuncolacee”, sono percorsi da un succo acre.
La radice è del tipo fascicolato.
Parte ipogea: praticamente assente.
Parte epigea: la parte aerea del fusto è erbacea (contrariamente ad altre specie dello stesso genere che hanno un fusto legnoso), eretta e ascendente con sezione cilindrica; la superficie è finemente pubescente.
Le foglie sono glauche, glabre e caduche: lungo il fusto sono a disposizione opposta; la lamina è del tipo composto divisa in 5 – 7 segmenti pennati; i segmenti sono interi a forma triangolare-ovata; i piccioli sono lunghi ed esili. Dimensione dei segmenti: larghezza 3 – 4 cm; lunghezza 6 – 9 cm.
L'infiorescenza è del tipo a racemo corimbiforme con fiori biancastri (o lattei). All'ascella del peduncolo del corimbo sono presenti delle piccole brattee di tipo fogliaceo, mentre ogni fiore ha un suo pedicello. Lunghezza dei pedicelli: 2 – 3 cm. Diametro dell'infiorescenza: 8 – 15 cm.
Il fiore di questa pianta, caratterizzato da una certa assenza di coesione tra i vari organi fiorali, è privo di una corolla vera e propria, mentre è il calice colorato che ha la funzione vessillifera (quindi i sepali del calice possono essere indicati come petaloidei)[2]. In questa pianta il perianzio è quindi formato da un solo verticillo di elementi più o meno indifferenziati (perianzio apoclamidato)[3]. Non sono piante nettarifere. I fiori sono inoltre attinomorfi e tetrameri (formati cioè da 4 sepali – raramente 5). Diametro dei fiori: 1,5 – 2 cm.
Formula fiorale: per questa pianta viene indicata la seguente formula fiorale:
* K 4, C 0, A molti, G molti (supero)[4]
Calice: i sepali sono quattro (raramente 5), patenti, persistenti e di aspetto petaloide; la forma dei sepali è lanceolata con apice acuto; la superficie è solcata da tre nervi longitudinali. Dimensione dei sepali: larghezza 3,5; lunghezza 10 mm.
Corolla: assente (vedi sopra).
Androceo: il numero degli stami a disposizione più o meno divergente è indefinito (fino a 50); sono glabri o al massimo debolmente pubescenti all'altezza delle antere.
Gineceo: il numero dei carpelli è indefinito (da 8 a 25) e sono monospermi (contengono un solo ovulo); gli stili, simili a setole, sono lunghi e persistenti.
Fioritura: da maggio a luglio.
I frutti sono costituiti da numerosi acheni riuniti in un capolino. Ogni achenio, fusiforme, con un breve becco è indeiscente e contiene un solo seme. Lo stilo è persistente alla fruttificazione e si trasforma in una piuma lunga e sericea per favorire la disseminazione tramite il vento (disseminazione anemocora).
La riproduzione avviene tramite l'impollinazione garantita soprattutto dal vento (vedi sopra). Anche se queste piante sono prive di nettare, diversi insetti, come api e vespe, si nutrono del suo polline per cui è probabile anche una certa fecondazione entomogama (impollinazione entomogama).
Geoelemento: il tipo corologico (area di origine) è Eurosiberiano (Steppico).
Distribuzione: in Italia del Nord Est è comune; meno comune è nelle zone occidentali dell'Italia (rarissima nel Lazio[5]), mentre è assente in Campania e nelle isole. Nelle Alpi è ovunque presente ad esclusione delle province liguri, Valle d'Aosta e Vercelli. Oltreconfine (sempre nelle Alpi) la presenza di questo fiore è segnalata in Francia (dipartimenti di Alpes-de-Haute-Provence, Hautes-Alpes, Alpes-Maritimes), in Svizzera (cantoni Vallese e Ticino), Austria (Länder di Carinzia, Stiria e Austria Inferiore) e in Slovenia. Sugli altri rilievi europei si trova nei: Pirenei, Alpi Dinariche, Monti Balcani e Carpazi.
Habitat: l'habitat tipico sono le zone a cespuglietti e boschi termofili di roverella; ma anche tagli o schiarite forestali, margini erbacei dei boschi. Il substrato preferito è sia calcareo che calcareo/siliceo con pH basico-neutro, terreno a bassi valori nutrizionali e mediamente secco.
Distribuzione altitudinale: sui rilievi queste piante si possono trovare fino a 800 m s.l.m.; frequentano quindi i seguenti piani vegetazionali: collinare e montano.
Il genere Clematis comprende oltre 200 specie (otto delle quali sono spontanee dei nostri territori) appartenenti sia dell'emisfero boreale che quello australe. La famiglia delle Ranunculaceae invece comprende oltre 1500 specie distribuite su circa 35 generi.
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco che segue indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:
Anemone recta (L.) K. Krause
Clematis chinensis Osbeck (1771)
Clematis erecta All. (1785)
Clematis lathyrifolia Besser
Clematitis recta (L.) Moench (1794)
È una pianta velenosa (contiene il glicoside ranunculina): irrita gli occhi e al contatto della pelle può produrre irritazione e vesciche. Le foglie e i fiori hanno un sapore acre che brucia, l'asprezza può essere notevolmente ridotta con l'essiccazione della pianta. Secondo la medicina popolare[10] questa pianta ha le seguenti proprietà: diaforetica (agevola la traspirazione cutanea), diuretiche (facilita il rilascio dell'urina), rubefacente (richiama il sangue in superficie, alleggerendo la pressione interna). È usata anche in medicina omeopatica.
L'unico impiego che questa pianta trova normalmente è nel giardinaggio. Va messa in un terreno abbastanza fertile con sabbia e con un buon drenaggio in zone soleggiate. Teme l'inverno lungo e umido.
Hoya carnosa
Il fiore di cera (Hoya carnosa (L.f.) R.Br., 1810) è una pianta rampicante della famiglia delle Asclepiadaceae, attribuita dalla classificazione APG alle Apocynaceae. Distribuzione e habitat[modifica | modifica wikitesto]
La specie è diffusa in Asia orientale.HomePiante E FioriDa AppartamentoCome coltivare hoya carnosa
Come coltivare hoya carnosa
Prenderti cura dell’Hoya Carnosa se vuoi stupire tutti, una pianta senza paragoni dai fiori speciali e direttamente coltivata in casa tua. I fiori estremamente particolari che si compongono in semicerchi delicati, la rendono una pianta spettacolare. Le sue origini provengono da molto lontano e questo suo alone di lontananza è contraddistinto dal delicato profumo che essa emana soprattutto verso le ore serali. Se vuoi saperne di più, non ti resta che segnarti le regole base su come coltivare questa pianta.
Hoya carnosa, il fiore di cera. La bellissima Hoya si presenta in tantissime varietà, ma la più comune è sicuramente quella Carnosa, proveniente direttamente dalle zone sud orientali e dalle foreste pluviali che l’hanno resa come è ora. È una pianta rampicante e sempreverde, molto adatta alla vita in appartamento, sebbene cresca in maniera molto rapida e possa arrivare addirittura ad altezze importanti. La caratteristica principale di questa pianta sono ovviamente i fiori, che nascono e si dispongono in semicerchi. Essi sono a forma di stella e comprendono una gamma di colori che va dal bianco al rosa pallido con al centro di essi un punto di rosso, oltre ad essere anche caratterizzati da una leggera peluria che li rende ancor più delicati al tocco.
Per le interessanti particolarità che contraddistinguono questi fiori, essi sono anche chiamati fiori di cera, o addirittura di porcellana, definizioni che ti fanno capire con più precisione quanto sia segno d’eleganza questa bellissima pianta orientale.
La fioritura di questa pianta dal fusto carnoso avviene nel periodo primaverile, ma non avviene prima di due anni, perciò puoi iniziare a coltivarla durante la fine dell’inverno e l’inizio dell’estate in modo da renderla maggiormente in sintonia con l’ambiente circostante poiché essa non ama molto gli sbalzi di temperatura troppo intensi: è anche per questo motivo che può essere definita una pianta da appartamento.
Per quanto riguarda invece le caratteristiche di terreno ed esposizione, essa ama molto rimanere alla luce, ma non a diretto contatto con i raggi solari. Perciò, se decidi di coltivarla all’esterno, cerca di adottare delle strategie affinché non rimanga sempre in esposizione alla luce e proteggila soprattutto d’estate.
Il terreno deve essere ben drenato e particolarmente acido: troverai il terriccio specifico per questo tipo di pianta dal tuo vivaista di fiducia. Ricorda poi di aggiungere sabbia o pietra pomice per rendere il terreno ancora più accogliente per le radici della pianta.
Irrigazione e concimazione
Per quanto riguarda l’irrigazione del fiore di cera, essa prevede un’attenzione quotidiana, poiché la pianta ama gli spazi umidi, ma non ama altrettanto i ristagni d’acqua, dunque bisogna che tu stia attento a procedere ad un’annaffiatura regolare ma equilibrata e non troppo intensa.
È possibile ovviamente procedere anche a concimazione. In questo caso dovrai avvalerti di concimi possibilmente ricchi di potassio, azoto e fosforo. Il periodo di concimazione inizia in primavera e poi procede durante i mesi più caldi. Dovrai aggiungere il concime ogni tre settimane diluendolo con l’acqua d’irrigazione.
La pianta fiore di cera farà vedere i suoi splendidi fiori solamente dopo due anni dall’inizio della coltivazione, a partire dal periodo primaverile per poi continuare durante anche i mesi più caldi, sempre se preservata dalle temperature eccessivamente rigide o calde. In caso non fiorisca, probabilmente ci sono problemi derivanti da questi importanti sbalzi di temperatura.
La moltiplicazione avviene in due varianti, ovvero o per seme o per talea. Se procedi per talea, cosa più immediata, ricordati di operare il taglio della stessa all’inizio del periodo estivo. Il taglio deve essere molto preciso per non compromettere la salute della pianta che potrebbe essere sottoposta ad infezioni. Preserva la talea, che è stata precedentemente piantata in un terriccio con sabbia, dagli sbalzi di temperatura con un foglio di plastica in grado di avvolgerla totalmente. Controlla in modo costante le condizioni della tua pianta per mantenerla in un ambiente umido.
Il rinvaso di questa pianta deve avvenire ogni due o tre anni, portando la pianta in un vaso dalle dimensioni sempre più grandi, in base alla crescita della stessa. Cosa importante per far sì che la pianta cresca di dimensioni e abbia sempre più fiori è di non recidere gli steli sfioriti poiché essa può rifiorire sugli stessi, mentre invece è opportuno togliere i fiori secchi.
Interessante è che la potatura per questa pianta grassa a forma di cuore non deve avvenire, ma semplicemente dovrai procedere ad eliminare le parti che nel tempo si sono seccate.
Malattie e parassiti dell’Hoya Carnosa
Sebbene siano piante molto resistenti, provenendo da terre in cui sono riuscite a sviluppare una buona resistenza, anche le piante con i fiori di cera necessitano di particolari cure e attenzioni per non essere sottoposte a pericolosi nemici.
In particolare bisogna stare attenti alle cure che vengono date a questa pianta: se ad esempio si trova in un ambiente eccessivamente annacquato e se è dunque in presenza di ristagni idrici, essa assumerà nelle foglie un colorito giallastro. Se invece è sottoposta per lungo tempo all’esposizione diretta ai raggi solati, le foglie assumeranno un colore molto scuro.
Ovviamente per questi piccoli incidenti derivanti da sviste o incuria, basteranno piccoli accorgimenti: da un lato cercare di far asciugare il terreno in cui si trova la pianta e ripulire la stessa dalle foglie gialle, dall’altro togliere immediatamente la pianta dalla luce e proteggerla dai raggi solari.
L'ibisco cinese (Hibiscus syriacus L.) è una pianta della famiglia delle Malvaceae[1][2], originaria non della Siria, come poteva pensare Linneo, ma dell'Estremo Oriente. È conosciuta anche come Rosa di Sharon o Mugunghwa
Rustiche e resistenti al freddo, a foglie decidue, dalla ricca fioritura estiva con fiori bianchi, rosa, viola e lilla, coltivate anche ad alberello, vengono utilizzate come piante ornamentali nei giardini e nei vasi sui terrazzi, come alberelli isolati o per la realizzazione di siepi fiorite.
L'arbusto è rustico e dal portamento molto ramificato, ha foglie di forma ovale e colore verde scuro, con il margine dentato o trilobate. Può crescere fino a 3 metri di altezza.
Da luglio a ottobre produce fiori larghi circa 7–8 cm dalle tonalità variabili dal bianco al porpora. I fiori durano un giorno circa, ma vengono continuamente sostituiti.
È pianta visitata dalle api sia per il nettare che per il polline.
Nativa del sudest della Cina e diffusa in gran parte dell'Estremo Oriente, fu importata dall'Asia nel XVI secolo, si diffuse in Europa, dove in un primo momento venne ritenuta pianta da serra, e solo successivamente, verso la fine del 1600, pianta da piena terra.
Dall'Inghilterra giunse alle colonie americane, dove viene spesso chiamata "Rosa di Sharon".
Il Mugunghwa (Hangul 무궁화), conosciuto anche come Rosa di Sharon, è il fiore nazionale della Corea del Sud.
Secondo le testimonianze ricavate da alcuni antichi documenti era conosciuto in queste zone anche prima dell'era Gojoseon, ma solo durante questo periodo iniziò ad avere una reale rilevanza. Fu adottato come simbolo ufficiale durante la dinastia Joseon e la sua importanza si consolidò con l'avvento del regno di Silla, che era chiamato anche Geunhwahyang, ovvero "Regno dei Mugunghwa".[3]
Gli antichi abitanti della Cina conoscevano la Corea proprio come "terra dei saggi dove fiorisce il Mugunghwa".
Durante l'arduo periodo della colonizzazione giapponese, l'ibisco divenne simbolo di forza e resistenza al punto che i coreani vollero piantarne centinaia a testimonianza della loro voglia di indipendenza. Tra le iniziative più clamorose c'è quella del patriota Namgung Eok, che cercò di dar vita alle "colline di Rose di Sharon" inviando centinaia di migliaia di fiori alle organizzazioni ed alle strutture della sua città natale. A causa di questa sua iniziativa, considerata ribelle dai colonizzatori giapponesi, fu arrestato ed imprigionato per circa otto mesi.[2][4]
L'ibisco cinese è stato ufficialmente adottato come fiore nazionale nel 1945, dopo la liberazione della Corea dal dominio giapponese. Dalla fine del XIX secolo è stato incluso all’interno dell’inno nazionale:[5]
È presente all'interno dell'emblema nazionale della Repubblica di Corea[3], che è composto dal taegeuk circondato da cinque petali (rappresentanti il Mugunghwa) e da un nastro che reca il nome in caratteri coreani dello Stato (대한민국).
Si trova anche all'interno degli emblemi di molte organizzazioni nazionali come quello del Presidente e della Corte Suprema.[5]
Il termine Mugunghwa significa “fiore eterno che non scompare mai” e deriva da “mugung”, ovvero eternità.
Durante l’era Gojoseon, era conosciuto anche come “fiore dal cielo” (“a blossom from heaven”).
L’ibisco ha la peculiarità di fiorire senza grandi difficoltà anche dopo essere stato tagliato o trapiantato e di sopravvivere anche se danneggiato, ciò lo rende rappresentazione perfetta della tenacia dei cittadini coreani e della prosperità della Corea del Sud.
Ai coreani sta molto a cuore proprio perchè onora lo spirito nobile dello Stato oltre che tutti i successi, le difficoltà e le lotte che il popolo coreano ha affrontato e vissuto nel corso dei secoli.
Tollera temperature fino a -20 °C, ma gradisce climi caldi e temperati. Non ama l'ombra, e per la fioritura migliore necessita di esposizione in pieno sole. Non richiede particolari potature. Si riproduce per semina (ma con risultati non prevedibili sul colore per via dell'ibridazione) o per talea.
Negli anni sono stati sviluppati centinaia di cultivar con colorature variatissime, a tinte monocromatiche o variegate, fiore singolo o fiore doppio. Tra le più diffuse:
Ardens, fiori doppi di colore rosa con macchie viola;
Blue Bird o Oiseau Bleu, fiori color Genziana;
Celeste, fiori azzurri;
Dorothy Crane, fiori bianchi dal centro cremisi;
Jeanne d'Arc, fiori doppi di colore bianco.
Dansim, fiori bianchi, rossi, viola o blu e centro viola intenso;
Baedal, fiori bianchi;
Asadal, fiori bianchi e centro rosso intenso che sfuma in un rosato andando verso il bordo dei petali.[3]
var. Dansim
var. Baedal
var. Asadal
L’ibisco, soprattutto nella sua varietà rossa, è molto usato anche in ambito culinario. È ingrediente tipico di alcuni tè, inizialmente diffuso principalmente in Cina e Tailandia, attualmente anche nel resto del continente asiatico; è presente anche in alcuni cibi.[2][6]
Studi scientifici hanno riscontrato che il consumo di ibisco, opportunamente preparato e dosato, dimostra effetti benefici come l’abbassamento della pressione sanguigna, in persone soggette a valori di pressione alta, e l’abbassamento della temperatura corporea.
Pavonia è un genere di piante da fiore della famiglia delle malve , Malvaceae . [1] Il nome generico onora il botanico spagnolo José Antonio Pavón Jiménez (1754–1844), [2] come scelto dal suo contemporaneo, il botanico spagnolo Antonio José Cavanilles . [3] Diverse specie sono conosciute come swampmallows .
La Pavonia hastata è una pianta ornamentale sempreverde della Famiglia delle Malvaceae originaria dell’America del sud, diffusa allo stato spontaneo in Brasile, Bolivia, Argentina, Paraguay e Uruguay.
La pianta possiede un apparato radicale abbastanza robusto e profondo. La parte aerea, caratterizzata da una crescita veloce, si sviluppa formando un cespuglio sempreverde dal tipico portamento compatto e tondeggiante, alto 1,7 – 2 metri e largo 1,5 metri.
I fusti, variamente ramificati, da legnosi alla base diventano via via erbacei, specialmente agli apici. l’alto e per tutta la loro lunghezza sono ricoperti da un fogliame molto decorativo di colore verde scuro.
Le foglie, lunghe circa 6 cm e larghe fino a 2,5 cm, sono alterne, ovato-cordate, con pagina superiore leggermente ruvida ed inferiore tomentosa per la presenza di una corta ma fitta peluria.
I fiori, numerosi e simili a quelli dell’hibiscus, hanno una corolla molto composta da 5 petali di colore rosa con gola rossa (una macchia scura al centro) di circa 5 cm di diametro. I fiori della Pavonia si schiudono al mattino e cadono la sera dopo il tramonto del sole e. anche la loro durata è di un solo giorno, la pianta non perde la sua bellezza in quanto li rimpiazza velocemente producendone altri nuovi su suoi numerosi rametti che si sviluppano continuamente durante il periodo primaverile. L’impollinazione è entomogama, avviene tramite gli insetti impollinatori.
I semi sono piccoli e dotati di una buona capacità di germinazioni. Raccolti in autunno, vanno conservati in un luogo asciutto fino al momento della semina.
La Pavonia ha una fioritura copiosa e prolungata infatti produce fiori dall’estate all’autunno. Nelle giuste condizioni di temperatura può facilmente continuare la sua fioritura fino alla primavera se coltivata come pianta d’appartamento.
E’ una pianta facile da coltivare. Cresce bene in un luogo soleggiato o al massimo all’ombra parziale. Se posta all’ombra rallenta la crescita e produce pochissimi fiori. Sopporta brevi periodi di gelo non intenso e in questo caso anche se può perdere le foglie, non bisogna preoccuparsi perchè la Pavonia le ricaccerà comunque abbondanti in primavera. Si adatta alla salsedine e ai venti salmastri, per cui si presta all’impiego in giardini litorali.
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La moltiplicazione della pavonia avviene per seme in primavera e mediante talee terminali in agosto.
La pianta di Pavonia hastata può essere utilizzata come elemento singolo o per bordure miste, in associazione con altre specie di macchia mediterranea quali Cistus, Ceanothus, Lavanda, Elicriso o Helicrisum.
Alla fine dell’inverno, alla ripresa vegetativa si potano i rami secchi e si accorciano quelli più vigorosi con lo scopo di conferire una maggiore armonia di forma alla pianta e stimolare una più ricca fioritura.
E’ una pianta abbastanza rustica che raramente soffre gli attacchi dei comuni parassiti animali ma molto sensibile al marciume delle radici e al mal bianco o oidio se le foglie vengono bagnate con l’acqua delle annaffiature-
Non tollera le erbe infestanti quindi le scerbature devono essere frequenti. Trattamenti fitosanitari vanno praticati solo in caso di necessità utilizzando antiparassitari o anticrittogamici specifici.
Il marciume delle radici va prevenuto evitando i ristagni idrici nel terreno e nel sottovaso.
Oltre oltre alla Pavonia hastata esistono molte altre specie che differiscono per portamento, dimensioni e anche colore dei fiori.
Una specie originaria del Texas e conosciuta anche Texas swamp-mallow, ossia “malva di palude o ibisco palustre del Texas. E’ un’erbacea perenne arbustiva alta circa 1,20 metri, con fusti ricoperti da foglie alterne molto lunghe con bordi dentati o lobati. I fiori hanno cinque petali rossi o rosa e fioriscono dall’estate all’autunno.
Una pianta che per la sua particolare forma dei petali viene chiamata Candela brasiliana. E’ un piccolo arbusto perenne e sempreverde da coltivare come pianta da interno alle nostre latitudini, all’esterno nei giardini mediterranei. Produce fiori dai colori vivaci: rosa, rosso, viola e anche bianco.
E’ un arbusto sempreverde, raro e originario del Sudamerica. Presenta fusti scomposti con foglie lobate verde scuro, con margini ondulati e leggermente tomentose. Nel prolungato periodo della fioritura, a partire dall’inizio della primavera fino all’autunno. produce fiori rosso arancio con petali che circondano gli stami giallo oro. Va coltivato in pieno sole in qualsiasi terreno, preferibilmente ben drenato, dal momento che non tollera ristagni. E’ perfetto per tutti i giardini mediterranei a basso consumo idrico. Si adatta bene anche alla coltivazione in vaso.
Una varietà a portamento cespuglioso, alta 2 metri e larga 1 metro. Ha fusti ricoperti da foglie di forma ovata-lanceolata di colore verde con pagina rugosa per la presenza di varie nervature. Durante il periodo della fioritura, in estate, produce fiori viola scuro con brattee rosse. L’epiteto specifico gledhillii viene dal Dr. David Gledhill, curatore nel 1989 del Giardino botanico dell’Università di Bristol.
Una specie a portamento arbustivo originaria dell’Africa. Durante il periodo della fioritura produce fiori di colore giallo brillante, per tutto l’anno se coltivata in ambiente protetto o in serra. Necessita di un terreno molto drenante; resiste al gelo solo se breve e non intenso.
Pianta arbustiva alta, 1,5 metri. Fusti, foglie e boccioli floreali ricoperti da una fitta peluria biancastra corta e morbida. Le foglie sono molto decorative e di colore grigio / verde. I fiori molto vistosi e decorativi hanno la corolla composta da 5 petali rosa con bordi leggermente orlati e gola interna bianca che circonda lunghi stami bianchi altamente sviluppati.
E’ ideale come pianta da vaso; perfetta in giardino come esemplare isolato, in gruppi per realizzare delle siepi fiorite.
La Pavonia hastata è conosciuta nei paesi anglosassoni con il soprannome di: Spearleaf swamp mallow.
Il nome generico della Pavonia onora il botanico spagnolo José Antonio Pavón Jiménez (1754–1844).
Ruellia brevifolia , la petunia selvatica tropicale [1] o orgoglio rosso del Natale , è una pianta ornamentale della famiglia delle Acanthaceae . È originario del Sud America , dalla Colombia al sud del Brasile e al nord dell'Argentina .
Tradescantia L., 1753 è un genere di piante della famiglia delle Commelinacee[1], originario della regione neotropicale. La Tradescantia è molto apprezzata perché una delle piante ornamentali più resistenti e facili da coltivare. Proprio per la sua resistenza alle avversità la si può trovare come pianta tappezzante nei giardini rocciosi ombreggiati, come pianta da esterno su davanzali e balconi e anche come pianta d’appartamento, anche in spazi contenuti e appartamenti poco luminosi.
Il genere fu fatto conoscere agli europei da John Tradescant il giovane (1608-1662). Giardiniere di corte di Carlo I d'Inghilterra, era un ugonotto di origine probabilmente olandese, arrivato nel 1637 in Virginia.[senza fonte] Si trattava di uno dei primi territori colonizzati dagli inglesi in America, continente dal quale faceva pervenire le piante in Europa.
Nella tradizione popolare, la Tradescantia è anche nota con il nome erba miseria, legato al portamento ricadente delle piante di questo genere, che sono prettamente erbacee e che vengono tra l'altro coltivate come piante pendenti. Il fiore è dotato di soli tre petali, altrettanti sepali e sei stami gialli.
Sul continente americano, la pianta viene spesso considerata come infestante e può creare seri problemi, pur non formando molto in fretta frutti e semi. Infatti qualsiasi frammento di stelo accidentalmente staccato dalla pianta può mettere radici con grande facilità.
Per quanto riguarda l'uso ornamentale di queste specie, si tratta di piante per lo più adatte ai vasi pendenti. In inverno preferiscono un posto più fresco e possono, fino ad un certo punto, superare i rigori invernali. Le piante più vecchie tendono ad imbruttirsi e vengono rinnovate da nuove ottenute per talea, anche in acqua.
Tradescantia pallida è probabilmente la specie più conosciuta in Italia. Nei luoghi più caldi, tollera bene la stagione invernale e si distingue per l'appariscente colore purpureo delle foglie, ben intonato a quello rosa pallido del fiore. La pianta, semisucculenta originaria del Messico, è conosciuta in Europa soprattutto dagli anni cinquanta.
Il successo di questo genere in Europa non si limita solo alle piante da vaso: Tradescantia virginiana, che cresce in posizione eretta, viene coltivata in giardino come pianta vivace dato che è tra le poche che sopportano senza problemi qualsiasi rigore invernale[2].
Cassia L. è un genere di piante della famiglia delle Fabacee (o Leguminose)[1], che comprende piccoli alberi e arbusti con vistose fioriture di colore bianco, giallo o rosa.
Sistematica
Il genere Cassia è collocato tipicamente all'interno della famiglia delle Leguminose e della sottofamiglia delle Cesalpinioidee. Alcuni autori elevano questa sottofamiglia al livello di famiglia (Cesalpiniee).
Molti studiosi inseriscono il genere nella tribù delle Cassiee.
Il genere Cassia è molto affine al genere Senna, tanto che l'attribuzione di diverse specie all'uno o all'altro genere è oggetto di discussione tra gli studiosi.
Le specie attribuite al genere sono per molti studiosi alcune centinaia. IPNI [1] ne elenca 1400, compresi però molti sinonimi e diverse varianti.
Altri studiosi, però, anche in seguito all'istituzione del genere Chamecrista, restringono drasticamente il numero di specie di Cassia, fino a non più di una trentina.
Usi
Le foglie della cassia esercitano un'azione lassativa, dato che stimolano la contrazione delle pareti intestinali riequilibrando i due tipi di contrazione del colon: quella propulsiva e quella non propulsiva.
La Asarina è una pianta erbacea rampicante originaria dell'America centrale; produce lunghi fusti sottili, volubili, abbastanza ramificati, che portano piccole foglie trilobate o cuoriformi, appuntite, di colore verde chiaro; dalla primavera inoltrata fino ai primi freddi producono numerosi fiori a trombetta, di colore rosato o viola, con gola chiara;
Queste piante hanno sviluppo ricadente o rampicante, quindi si utilizzano in panieri appesi, oppure vengono coltivate vicino ad un graticcio a ad una griglia; possono raggiungere in una stagione 2-3 metri di lunghezza dei fusti. Si coltivano come perenni o come annuali a seconda del clima ed ovviamente della varietà scelta. Uno degli aspetti più apprezzati in assoluto di questa specie sono i fiori. In fioritura la asarina si riempie di bellissimi fiori, molto colorati e leggeri. Le tonalità variano da specie a specie ma riescono a dare sempre un grande senso di bellezza. Grazie alla loro crescita ampia ed alla capacità di arrampicare, le piante di Asarina possono ricoprire dei graticci e formare delle ottime decorazioni intorno a porte e pergolati.
Tuttavia siccome questa pianta in inverno, se le temperature si abbassano troppo, tende a seccare e perdere la parte aerea, al Nord e nelle zone dove il clima invernale si fa rigido, la coltivazione di queste piante è sconsigliata.
La bella di notte (Mirabilis jalapa, L. 1753) è una pianta erbacea tuberosa appartenente alla famiglia delle Nyctaginaceae, originaria del Perù. L'epiteto specifico (jalapa) fa riferimento alla città di Jalapa, città del Messico, capitale dello stato di Veracruz.
La pianta è erbacea, di norma tra i 30 e gli 80 cm di altezza, con foglie opposte. I fusti sono spessi, pieni, quadrangolari con molte ramificazioni e radicanti ai nodi. Il portamento spesso è prostrato.
I fiori sono imbutiformi e pentalobati, non hanno calice (sostituito da foglie bratteali) ma sono costituiti da una corolla, che può essere di vari colori (giallo, rosso, rosa, bianco).
I fiori si schiudono all'imbrunire ed emanano un profumo molto intenso che richiama le farfalle notturne (falene).
È usata in giardinaggio a costituire cespugli, o basse siepi fiorite.
La pianta predilige la piena esposizione al sole, ma tollera esposizione a mezza ombra. Spesso al sole le foglie appassiscono, per poi ritornare vigorose alla sera, quando le temperature iniziano a scendere e il sole tramonta. Non sopporta il freddo, la parte aerea con i primi geli deperisce e può morire, ma rimane vitale la parte sotterranea che può ritornare a vegetare a primavera.
La propagazione avviene per seme, la moltiplicazione è possibile anche per tuberi oppure per talea. Semina o trapianto dei tuberi si effettuano in primavera.
I semi, neri con superficie rugosa, hanno dimensione di circa 4 mm di diametro e forma che ricorda le bombe a mano, sono tossici: se ingeriti possono generare dolori addominali, nausea e vomito; in alcuni casi anche confusione mentale, delirio e dilatazione delle pupille.
Il frutto
In Italia, in ambiente mediterraneo (temperato caldo), la pianta può facilmente divenire infestante: popola infatti estese superfici di discariche e scarpate stradali, in terreni incolti.
È la pianta tipica presa in considerazione per lo studio dell'ibridazione dei caratteri del colore dei fiori, in quanto ogni singolo fiore può risultare anche composto di settori di colore diverso, o di colore di sintesi dei colori delle piante madri. Fiorisce da luglio a settembre.
Intorno al 1900, il botanico e genetista tedesco Carl Correns (1864-1933) utilizzò la Mirabilis come organismo modello per i suoi studi di eredità citoplasmatica. Utilizzò le foglie variegate per provare che alcuni fattori esterni al nucleo influenzano il fenotipo in maniera non spiegabile con le teorie di Mendel.[1] Correns suppose che il colore delle foglie nella Mirabilis venisse trasmesso in via unigenitoriale.[1]
Ibridando, inoltre, una bella di notte omozigote dominante a fiori rossi con una omozigote recessiva a fiori bianchi, si ottengono piante eterozigote a fiori rosa. Questo fenomeno è interpretato come una eccezione alla legge di Mendel della dominanza, in quanto i due geni, rosso e bianco, hanno la stessa forza, non riuscendo l'uno a dominare completamente sull'altro. Questo fenomeno è noto come dominanza incompleta.
è un genere di piante della famiglia delle Solanaceae, originario dell'Asia e dell'America. Il nome deriva dalla parola sanscrita dhatūrā 'stramonio'.
Le specie del genere Datura vengono coltivate come piante ornamentali nei giardini delle zone a clima mite, per macchie isolate e per aiuole, le specie arbustive; per fasce fiorite le specie annuali; con clima invernale rigido si preferisce la coltivazione in vaso; alcune specie velenose vengono utilizzate come piante medicinali.
Pianta dalla tipica fioritura notturna.
Comprende specie erbacee annuali, perenni, arbustive, e più raramente arboree, piante caratteristiche dei climi temperati. Hanno una fioritura ricca con corolle grandi tubolari colorate di bianco candido, crema o violetto dal profumo intenso e persistente, altezza da 1 a 3 m.
Tra le specie più note ricordiamo:
La D. stramonium L. originaria dell'Asia, erbacea annuale, diffusa come infestante in Europa, ha fusti alti fino a 1,8 m, con le foglie dal margine profondamente dentato, i fiori grandi di colore bianco candido a forma di trombetta, lunghi meno di 10 cm, nota volgarmente come mela delle spine o noce velenosa per lo strano frutto ricoperto di aculei, con semi ricchi di atropina, tutta la pianta è estremamente velenosa per il contenuto in alcaloidi (iosciamina, atropina, scopolamina etc.), viene anche utilizzata come pianta medicinale
La D. fastuosa erbacea annuale alta fino a 1 m, ha fusto eretto e ramificato che porta grandi foglie ovali dentate, fiori tubolosi, grandi (10–15 cm), ascellari, di colore bianco-crema, profumati
La D. arborea originaria dell'America meridionale, pianta perenne a fusto parzialmente legnoso, con grosse ramificazioni alta oltre i 2 m, porta foglie, persistenti nei climi caldi, molto grandi di colore verde pallido e largamente dentate, all'estremità dei rami all'ascella delle foglie, porta fiori grandi di colore bianco-crema, penduli, tubulosi a 5 lobi, molto profumati, doppi in alcune varietà, fioritura in agosto, non sopporta il gelo, la più utilizzata come pianta ornamentale
La D. wrightii Regel originaria degli Stati Uniti meridionali, erbacea perenne poco rustica, con radici carnose, con foglie ampie dal margine irregolare, fiori semplici, profumati, imbutiformi, di colore bianco, il frutto è spinoso, curvato verso il suolo, con numerosi semi
La D. meteloides sempre di origine americana, erbacea perenne ma coltivata come annuale, dai fiori bianchi e viola
La D. ceratocaula Jacq., erbacea annuale, originaria dell'America centro-meridionale, con steli cavi macchiettati di colore porpora, biforcati alla base, alti oltre 90 cm, portanti foglie ovato-lanceolate, con il margine dentato o divise, glabre sulla pagina superiore, tomentose e bianche sulla pagina inferiore, i fiori profumati, hanno la corolla imbutiforme lunga più di 15 cm, colorata di bianco, con macchie e sfumature rosso-violaceo, fioritura estiva
La D. tatula da molti considerata una varietà della specie precedente, da cui si distingue per il fusto internamente pieno e non fibroso e per i fiori di colore porporino o violaceo.
La D. metel L. originaria della Cina, detta anche La tromba del Diavolo a causa della sua foggia e della sua alta tossicità, erbacea perenne dalle radici carnose, il fusto raggiunge i 2 m, con grandi foglie di colore grigio-verde, i fiori semplici profumati, a forma di tromba, con corolla a 10 lobi di colore bianco a volte sfumato viola, o in alcune varietà a fiore doppio di colore viola o porpora scuro, con l'interno candido
Tutte le specie (in particolare D. stramonium, D. metel e D. inoxia) contengono in percentuali variabili gli alcaloidi allucinogeni scopolamina e atropina[1]. Sono state utilizzate fin dall'antichità per rituali religiosi e sciamanici, benché ne fosse nota l'alta pericolosità[2]. Infatti la dose attiva di questi alcaloidi è molto vicina alla dose tossica[3], il che rende molto pericolose esperienze con questo genere di pianta[4]. Siti di arte rupestre sono stati collegato al consumo del pericoloso allucinogeno.[5]
Prediligono esposizione riparata dal freddo e soleggiata, terreno leggero, fertile, fresco e sabbioso. Le specie perenni, più sensibili alle gelate, devono essere ricoverate in serra fredda o in locale asciutto, prevedendo quindi la coltura in vaso o togliendo dal terreno le piante prima dell'arrivo del gelo, come per i Pelargonium, e ripiantate in Primavera dopo un'energica potatura[6].
La moltiplicazione avviene con la semina primaverile, per le specie annuali o per le perenni coltivate come annuali, per la fioritura estiva; per le specie perenni come la D. arborea si ricorre alla moltiplicazione per talea legnosa, in settembre, utilizzando i rami dell'anno.
Temono il gelo e il ristagno idrico.
Brugmansia è un genere di Angiosperme dicotiledoni appartenente alla famiglia delle Solanaceae.
Le specie di questo genere possono essere tossiche[1].
Tutte le sette specie sono elencate dalla lista rossa IUCN come estinte in natura, anche se sono piante ornamentali molto popolari e si sono ri-naturalizzate in molte aree dopo una reintroduzione.
Il genere Brugmansia comprende specie legnose (arbusti e piccoli alberelli spesso con fusti ramificati). Le foglie sono a fillotassi alterna, spesso pelose.
Linneo per primo classificò queste piante come parte del genere Datura con la sua descrizione di Datura arborea (oggi Brugmansia arborea (L.) Steud.) nel 1753. Nel 1805, Christiaan Hendrik Persoon li trasferì in un genere separato, Brugmansia, denominato in onore del naturalista olandese Sebald Justinus Brugmans
Ad oggi il genere comprende 7 specie:[2]
Brugmansia arborea (L.) Sweet (Ande - Ecuador e Cile settentrionale)
Brugmansia aurea Lagerh. (Ande - dal Venezuela all'Ecuador)
Brugmansia insignis (Barb.Rodr.) Lockwood ex R.E. R.E.Schult. (Ande pedemontane orientali - Colombia, Bolivia, e occasionalmente Brasile)
Brugmansia sanguinea (Ruiz & Pav.) D.Don (Ande - Colombia e Cile settentrionale)
Brugmansia suaveolens (Willd.) Sweet (Brasile)
Brugmansia versicolor Lagerh. (Ecuador)
Brugmansia vulcanicola (A.S.Barclay) R.E.Schult.. (Ande - dalla Colombia all'Ecuador)
Fuchsia (Plum. ex L., 1753) è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Onagraceae, originario del continente americano[1].
Le fuchsie sono così chiamate in memoria del botanico tedesco Leonhart Fuchs (1501-1566) a cui tuttavia rimasero sconosciute. Tali piante furono difatti scoperte soltanto nel 1696-97 dal missionario e botanico Charles Plumier (1646-1704), che le dedicò allo scienziato tedesco al quale tributava grande ammirazione.
È la caratteristica più importante di questa pianta, benché sia privo di profumo ma ricco di nettare.
Il fiore è "semplice" se ha 4 petali, "semidoppio" se i petali vanno da 5 a 8 e "doppio" se sono in un numero superiore. È dotato di un lungo calice dai colori vivaci, che vanno dal rosso al malva, dal rosa al viola fino al bianco e all'arancione[2].
Del centinaio di specie arbustive qui incluse la maggioranza è originaria dell'America centro-meridionale anche se, più raramente, alcune piante sono endemiche della Nuova Zelanda.
Prediligono un habitat montano (bosco) ed hanno fiori dalla caratteristica tonalità di colore con corolle tubolari e allungate.
All'interno del genere Fuchsia sono incluse 108 specie
Dal XIX secolo si è cominciato ad apprezzare alcune specie di Fuchsia come piante ornamentali, generalmente coltivate in vaso. Comunque, buona parte delle piante commercializzate come appartenenti a questo genere sono in realtà ibridi tra diverse specie o alcune delle svariate cultivar.
Il garofano (Dianthus L.) è un genere della famiglia delle Caryophyllaceae, originario delle zone temperate del Globo.
Il nome scientifico deriva dal greco antico "dianthos" e significa "fiore di Dio" (Zeus).
Il genere comprende oltre 300 specie di piante erbacee o sublegnose, annuali, biennali e perenni, originarie delle zone temperate del globo, di altezza tra i 5 e i 100 cm; hanno fusti angolosi e nodosi, foglie opposte lineari o lanceolate, molli e piane, rigide e caniculate; fiori isolati o geminati a volte a capolini, con calice tubuloso e cilindrico, corolla a 5 petali con una lunga unghia; il frutto è una capsula uniloculare portante numerosissimi semi.
Tra le specie annuali più note citiamo, oltre al garofano comune (D. caryophyllus), con innumerevoli varietà a fiore doppio coltivate come annuali o biennali nella coltivazione industriale per la produzione del fiore reciso, il D. chinensis con fiori a mazzetti all'apice degli steli, con colori bianchi, rosa e rossi. Meritano una citazione inoltre il D. barbatus noto come "garofano dei poeti", il D. superbus con i petali riccamente sfrangiati e il D. plumarius a fioritura primaverile dai colori bianchi e rosa, dall'intenso profumo.
Viene utilizzata come pianta ornamentale perenne nei giardini, o in vaso per terrazzi e appartamenti, dove se le condizioni sono ottimali, può fiorire per molti anni[1]. Talvolta il fiore reciso viene indossato come ornamento nell'occhiello delle giacche.
Il garofano esige esposizione soleggiata, terreno ricco di sostanze organiche e minerali, compatto, calcareo e asciutto.
Si moltiplicano con la semina, per mezzo di talea e per divisione dei cespi.
Le specie annuali vengono seminate in primavera o in cassone nel mese di febbraio, con fioritura dopo 6 mesi.
Le perenni coltivate industrialmente come annuali oltre che con la semina, vengono moltiplicate per talea nel periodo invernale, riparandole con stuoie dal gelo, la fioritura inizia in settembre-ottobre fino alla primavera successiva, in alcune Regioni come la Toscana la fioritura è estiva; mentre nelle zone con inverni gelidi le varietà a fiore grande e stelo rigido, vengono coltivate in vaso in serra; si deve sempre prevedere l'uso di sistemi di sostegno per i deboli steli, con le apposite reti di plastica, per evitare che si spezzino facilmente.
Canna indica L., 1753 o canna d'India (conosciuta anche come achira, achera, sagú, capacho, biri, cucuyús, juquián o papantla) è una pianta perenne appartenente alla famiglia della Cannaceae nativa dei Caraibi e delle aree centrali dell'America.
Pianta erbacea perenne, con rizoma carnoso e ramificato da 20 x 15 cm. La superficie del rizoma è incisa da solchi trasversali, che marcano la base squamosa. Dalla parte inferiore salgono piccole radici bianche, e dall'apice, dove vi sono numerose gemme, crescono le foglie, l'insieme floreale e le ramificazioni. Le ramificazioni aeree possono arrivare a 1–3 m di altezza e formano una massa compatta, essendo avvolte dalle guaine delle foglie. Le foglie sono grandi, di color verde o verde violaceo, con piccioli corti e lamine ellittiche, possono misurare da 30 a 60 cm di lunghezza e da 10 a 25 cm di larghezza, con la base larga che si restringe a cuneo. L'apice è corto, acuminato ed acuto. La nervatura centrale è prominente, da essa dipartono le nervature laterali. L'infiorescenza a grappolo terminale porta 6-20 gruppi di 1-2 fiori, fiori con peduncolo di 0,2–1 cm, di colore rosso o giallo-arancio, ad eccezione di alcune varietà di 4,5-7,5 cm con i sepali triangolari, di 1-1,7 cm e petali eretti di 4-6,5 cm. Tubo di 1,5–2 cm di dimensioni. Stami in numero di 3-4, molto ovali e a spatola, lunghi 4,5- 7,5 cm e larghi da 0,3-0,5 cm nella parte libera.
I frutti sono capsule di forma ellissoide e globosa, la superficie è verrucosa, di 1,5 a 3 cm di lunghezza, di color castagno, con una grande quantità di semi di colore nero, molto duri.
La achira si può coltivare dal livello del mare fino a 2700 metri di altezza. Tuttavia prospera in climi montagnosi-tropicali o subtropicali-temperati, tra i 1000 e 2000 metri. Gradisce temperature medie da 14 a 27 °C e precipitazioni annuali minime da 500 mm a 1200 mm. Cresce molto bene in suoli di consistenza leggera.
Si coltiva principalmente come pianta ornamentale e per i suoi rizomi, che sono importanti per l'alimentazione umana e per l'agroindustria. Inoltre, i semi si usano per comporre collane, collari, sonagli o maracas.
Il suo amido è di facile digestione e la farina si usa per produrre pane, biscotti, gallette, torte. Le cime della achira possono essere mangiate stufate o bollite. Il decotto delle radici si usa come diuretico e le foglie come cicatrizzante; il succo di queste si usa come antisettico. Le foglie appena recise si usano sopra le bruciature per rinfrescare la pelle. Il tallo e le foglie servono come foraggio per il bestiame. Le foglie si usano anche per avvolgere il mangiare tipico.
La canna d'India è una pianta ornamentale da lungo tempo usata nei giardini per il suo aspetto spettacolare, la sua resistenza e la scarsità di cure necessarie[1]. Nonostante ciò in Italia negli ultimi decenni è usata sempre meno, dandosi la preferenza a specie introdotte più recentemente nei giardini.
Tra i parchi in cui la canna d'India è ancora usata in grandi quantità si segnalano quelli delle Isole Borromee, la Villa Margherita a Trapani, il Parco dell'Ambasciata d'Italia in Addis Abeba; nella celebre Villa Taranto sono presenti 10.000 esemplari di questa specie.
Tra varietà ornamentali si ricordano:
Canna indica var. indica, con fiori di colore rosso
Canna indica var. flava, con fiori di colore giallo
Canna indica var. maculata, con fiori gialli maculati di rosso
Canna indica var. sanctae rosea, di taglia più ridotta rispetto alle precedenti
Canna indica var. warszewiczii, con foglie violaceo-bronzate
Il nome "Achira" proviene dal termine quechua Achuy, il cui significato primario è “starnutire”. Si rifà all'idea di “trasportare qualcosa tra i denti o con la bocca” e da qui al concetto di ciò che l'anima umana emette o esprime con spontaneità. Per questo il termine achira indica "la parola", il "racconto", la "storia" ed è connesso alla trasmissione di conoscenza orale. Può trovarsi in termini come Arachán una famiglia estinta nativa dell'Est dell'Uruguay e del Rio Grande del Sud in Brasile, ed anche nel nome della città di frontiera di Chuy, posta tra questi due paesi. L'achira è anche conosciuta in Colombia come sagú o chisgua, come capacho o maraca in Venezuela, come achera o atzera (o atcera) in Perù ed Ecuador e come biri in Brasile. Altre denominazioni sono chui'o arawak imocoma.
È una pianta di origine centro-sudamericana, gli etnobotanici hanno scoperto che era già coltivata in Perù 4500 anni fa.
In Colombia le chibchas si utilizzavano per l'alimentazione. Attualmente, mediante processi di agroindustria rurale, si estrae l'amido di achira, il quale a sua volta viene utilizzato per la preparazione di biscotti di achira e altri prodotti artigianali come biscotti, pane di sagú, colazioni e passate. Nei dipartimenti del Tolima, Huila y Cundinamarca, in Colombia, è sorto un gran numero di piccole aziende dedicate all'estrazione dell'amido e varie imprese artigianali e industriale dedicate alla produzione del biscotto di achira, che si sta diffondendo nei mercati urbani.
Pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Onagraceae, nativa del Texas e della Louisiana meridionale[1][2].
L'epiteto specifico è stato coniato in onore di Ferdinand Lindheimer (1801-1879), un botanico statunitense di origini tedesche che negli anni 1830-1840 aveva collezionato un gran numero di specie floreali texane per conto di Asa Gray (1810-1888), eminente botanico e docente all'Università di Harvard.
O. lindheimeri è una pianta erbacea arbustiva perenne di altezza compresa tra 50 e 150 cm, dal fusto densamente ramificato che si sviluppa da un rizoma sotterraneo. Le foglie, lanceolate, dal margine grossolanamente dentellato e ricoperte da una fine peluria, sono lunghe tra 1 e 9 cm e hanno uno spessore compreso tra 1 e 13 mm.[3][4]
Fiorisce tra la primavera e l'inizio dell'autunno producendo una infiorescenza racemosa di 10–80 cm di altezza. I fiori sono di colore rosa o bianco; hanno un diametro di 2–3 cm, quattro petali di 10–15 mm e otto stami lunghi e sottili.[3][4]
O. lindheimeri è estensivamente coltivata come pianta ornamentale. Nel tempo sono state selezione cultivar di vari colori, che vanno dal bianco più candido (come la cv. Whirling Butterflies) al rosa più scuro (p.e. 'Cherry Brandy' e 'Siskiyou Pink'); in alcune cultivar, il colore dei fiori varia da bianco a rosa con l'avvicinarsi della stagione più fredda. Predilige l'esposizione in pieno sole e può sopportare lunghi periodi di siccità.
Lycianthes rantonnetii , il cespuglio di patate blu o belladonna del Paraguay , [1] è una specie di pianta da fiore della famiglia delle solanacee , originaria del Sud America. [2] Crescendo fino a circa 1,8 m di altezza e larghezza, [1] è un arbusto sempreverde arrotondato con un portamento un po' lassista. Una profusione di fiori a forma di tromba, blu-viola brillante con un prominente occhio giallo appare in estate, seguita da bacche rosse. È ampiamente coltivato e può essere resistente in zone miti o costiere. In alternativa può essere coltivata in contenitore e portata al coperto in inverno. Richiede una posizione riparata in pieno sole. [3] Sebbene legate a piante alimentari come la patata e il pomodoro , tutte le parti della pianta sono considerate tossiche per l'uomo.
La specie prende il nome da Barthélémy Victor Rantonnet , un orticoltore francese del XIX secolo. [5]
Lycianthes rantonnetii è stato precedentemente collocato in Solanum , un genere enorme che è stato recentemente oggetto di importanti indagini, con specie trasferite da e verso diversi generi diversi. Ci sono molte specie rare e poco conosciute il cui vero posizionamento deve ancora essere determinato.
Solanum laxum , comunemente noto come vite di patate , rampicante di patate o gelsomino belladonna , è un vitigno sempreverde della famiglia delle Solanacee . [2] È originario del Sud America e comunemente coltivato come pianta da giardino ornamentale.
Descrizione
La belladonna a fiore di gelsomino è un rampicante legnoso che forma rami lunghi da 2 a 8 m e ha una base che può raggiungere più di 10 centimetri di diametro. Di rapida crescita, si arrampica avvolgendo i gambi delle foglie attorno ai sostegni. Gli assi del germoglio sono fortemente angolati a zigzag, glabri o nella fase giovanile con semplici tricomi bianchi a fila singola di lunghezza inferiore a 0,5 millimetri. La nuova crescita è glabra o da finemente a scarsamente pelosa. La corteccia dei rami più vecchi è verde o verde rossastro o, se la pianta cresce alla luce diretta del sole, spesso verde porpora. Le foglie ovate o ovato-lanceolate sono lunghe da 30 a 50 mm e larghe da 15 a 25 mm. Il simpodialele unità contengono molte foglie. Questi sono generalmente semplici, solo molto raramente divisi da uno a quattro lobi irregolari e divisi in modo pinnato.
Infiorescenze
I fiori bianchi o celesti compaiono a gruppi di circa 20 in infiorescenze ramificate, prodotte a profusione in primavera ma anche sporadicamente in altri periodi dell'anno. Le infiorescenze sono inizialmente terminali, successivamente anche lateralmente. Sono glabri, raggiungono lunghezze di 5 centimetri e oltre, di solito sono divisi due o tre volte, ma possono anche essere divisi significativamente più spesso e contengono fino a 50 fiori. Tutti i fiori sono completamente sviluppati e quintuplicati. Il gambo dell'infiorescenza diventa lungo da 0,5 a 4 centimetri, ma la sua lunghezza è molto variabile a seconda delle dimensioni dell'infiorescenza e dell'età.
Seguono bacche blu scuro o nere di circa 8 mm di diametro.
Distribuzione
L'areale di distribuzione naturale della specie si estende dagli stati brasiliani sudorientali del Minas Gerais e del Rio Grande do Sul alla foce del Río de la Plata in Argentina e Uruguay , oltre che in Paraguay . La specie è spesso naturalizzata come rifugiata culturale sia nelle aree temperate che subtropicali. Le località vanno da appena sopra il livello del mare ad altitudini superiori ai 500 metri. Nell'areale naturale, la specie si trova nella foresta pluviale atlantica, nelle foreste di Araucaria e ai margini della foresta aperta. In luoghi idonei, i rappresentanti naturalizzati sono anche resistenti alle gelate leggere.
La specie è naturalizzata a Brisbane e Sydney in Australia.
Coltivazione
Il solanum laxum è coltivato come ornamentale. Il bianco a fiore cultivar 'Album' ha ricevuto la Royal Horticultural Society 's Award of Garden Merit . [5] È resistente fino a -10 °C (14 °F), ma richiede una posizione riparata in pieno sole.
La pianta è velenosa e provoca dolore addominale se ingerita. Pertanto, i guanti dovrebbero essere indossati quando si maneggia qualsiasi parte della pianta.
Àgave L. è un genere di piante succulente monocotiledoni. Per il suo portamento e la varietà delle specie è una pianta molto apprezzata nei giardini pubblici e privati, in tutto il mondo; nei suoi luoghi d'origine (il centro America) ha rivestito una profonda importanza nella vita delle popolazioni locali.
Etimologia
Il nome le fu dato nel 1753 da Linneo (dal greco ἀγαυός, "illustre", "nobile").[1] Da prima della denominazione di Linneo vi erano già dei nomi originari della specie: metl, di origine Nahuatl, mexcatl[2], maguey, ancora usato nel Messico centrale[3], nome che aveva origine presunta nelle Antille e successivamente importato sul continente dai conquistatori spagnoli, mezcal, attribuito dai nativi americani e dai conquistadores al liquore estratto dall'agave, ed ancora in uso nel Messico nord occidentale.[4][5]
È nota per alcuni anche con il nome century plant[6] che le fu dato per la sua longevità prima della fioritura; in realtà tale periodo è di gran lunga inferiore: la maturazione prima della fioritura dipende dalla singola specie e dalle condizioni vegetative delle singole piante.
Descrizione
Genere composto da piante perenni con portamento a rosetta e con fusto breve generalmente non visibile;[7] le varie specie hanno dimensioni che variano da circa 20 cm fino a 5-6 metri in ampiezza e da 15 cm a 2,50 metri in altezza.
Le foglie sono carnose, a nervature parallele di consistenza fibrosa, larghe fino a 25 cm e lunghe fino a 2,50 metri; sono quasi sempre dotate di una spina apicale legnosa lunga fino a 5 cm; nella maggior parte delle specie sono presenti spine legnose anche lungo i margini (alcune specie presentano filamenti bianchi). Le foglie si formano attorno a un breve fusto centrale dal quale si distaccano con la crescita; la loro formazione rispetto alla rosetta segue un angolo costante,[8] che ne ottimizza l'esposizione alla radiazione solare e ne costituisce una peculiarità rispetto ad altre succulente con il medesimo portamento (Aloeacee, Yucca). Se coltivate in climi più freddi le foglie possono avere una colorazione tendente al verde-azzurro, mentre il colore verde-grigio indica climi più caldi.
Le radici hanno una conformazione fascicolata, sono filamentose, tipiche delle monocotiledoni, con uno spessore massimo circa 2,5 mm e di profondità variabile.[9] La pianta fiorisce quando raggiunge la maturità all'età di 10-50 anni, dopodiché generalmente muore. Le infiorescenze si formano su un ramo fiorifero legnoso (scapo) che si genera al centro della rosetta; i fiori hanno sei petali e sei stami.
Distribuzione
Le agavi sono originarie della porzione meridionale del Nord America, delle isole caraibiche, e della parte settentrionale del Centro America, con una maggiore concentrazione di varietà e diffusione nell'attuale Messico.
A partire dal XVIII secolo furono esportate dapprima in Europa, per motivi di studio e come piante ornamentali; successivamente furono esportate per le loro capacità produttive[10] soprattutto in colonie di paesi europei che avessero caratteriche climatiche simili a quelle dei paesi d'origine.
Attualmente sono presenti anche in tutto il bacino del Mediterraneo, in altri paesi dell'Africa (Madagascar, Kenya, Angola, ..), e in Asia (India, Sri Lanka, ..) sia come coltivazione sia come vegetazione spontanea alloctona.
Tassonomia
«Di tutte le piante coltivate nessuna è più difficile cui dare accuratamente un nome delle specie Agave, in parte a causa dell'imperfezione delle descrizioni pubblicate, e maggiormente dall'impossibilità di fissare a parole i loro caratteri.»
(Sir Joseph Hooker, Curtis Bot. Mag., 1871.)
Le agavi hanno a lungo presentato difficoltà particolari nella tassonomia; vi sono considerevoli variazioni all'interno della stessa specie per la profonda influenza sull'aspetto che possono avere le condizioni vegetative (temperatura, tipo di terreno, quantità d'acqua, ecc.); molte specie inoltre presentano pochi caratteri distintivi tra loro, rendendone difficoltosa la classificazione, soprattutto nei primi anni di vita.
L'introduzione in Europa delle prime agavi avvenne dopo la conquista del Messico (1521-25); prime tracce se ne hanno intorno alla metà del XVI secolo. Le prime agavi note ai botanici furono denominate Aloe americana per la grande somiglianza con l'aloe, originaria dell'Africa. La prima specie nota agli occidentali (A. indagatorum Trel.) fu scoperta da Cristoforo Colombo nell'isola San Salvador (Bahamas) nelle Bahamas; Pietro Martire d'Anghiera descrisse per primo fra le piante dell'isola di Hispaniola l'A. antillarum Descourt, paragonandola alle palme.[11][12]
Classificate inizialmente come Amaryllidaceae, sono attualmente catalogate nella famiglia delle Agavaceae nella classificazione Cronquist, e nelle Asparagaceae secondo la classificazione APG.
Una vera e propria popolarità si ebbe a partire dal XIX secolo, con la ricerca sistematica e l'importazione di numerose specie da parte di collezionisti. I primi studi di classificazione furono tuttavia effettuati in Europa su esemplari presenti in giardini botanici o privati, a volte su esemplari di piccole dimensioni o coltivate in vaso, o che costituivano varianti delle specie selvatiche originali.[13]
Nel XX secolo i più noti studiosi furono Alwin Berger e William Trelease[14] e soprattutto Howard S. Gentry,[15]
Attualmente The Plant List riconosce 200 specie.[16]
Moltiplicazione
Le agavi raggiungono la maturità dai 3-5 fino ai 50 anni dalla nascita (secondo le specie e soprattutto le condizioni vegetative), con una fioritura che dura diversi mesi e richiede grande dispendio di energie, dopo la quale la quasi totalità delle specie muore e si riproduce con i semi che si disperdono nelle zone circostanti.[17]
La fioritura avviene lungo uno stelo legnoso che si genera dal fusto al centro della rosetta e che produce nella metà superiore anche diverse migliaia di fiori. Lo stelo raggiunge in un periodo di 2-4 mesi un'altezza variabile da meno di 2 m (A. parviflora) agli 11 metri (A. americana) ed un diametro fino ai 25 cm.
I fiori possono formarsi direttamente sullo stelo o essere posti su rami di lunghezza variabile, che si dipartono a raggiera dallo stesso stelo.
Le agavi tuttavia presentano anche metodi alternativi di riproduzione, che sono:
formazione di polloni originanti da rizomi che emergono non molto distanti dalla pianta madre;
formazione di polloni basali, originanti direttamente alla base della pianta madre, per alcune specie alla morte di questa durante o dopo la fioritura;
formazione di piantine (impropriamente bulbilli) direttamente sullo stelo dell'infiorescenza, insieme con i fiori.
I primi tre metodi sono comuni alla maggior parte delle specie; alcune specie difficilmente formano polloni rizomatosi; il quarto metodo è meno comune (A. vilmoriniana, A. sisalana, A. angustifolia, ecc.).[18] Alcune specie (A. sisalana, A. fourcroydes, A. tequilana, ecc.) sono ibridi sterili, la cui riproduzione avviene solo tramite polloni o dalle piantine che si formano sull'infiorescenza.
Uso
La pianta di Agave, oltre ad essere apprezzata per la sua bellezza come pianta ornamentale, ha molteplici altri usi. Il suo utilizzo da parte dell'uomo avviene da migliaia di anni, ed ha costituito una componente importante nella vita delle civiltà mesoamericane. I primi particolari esatti sulla coltivazione delle agavi si devono a John Gilton che percorse l'America centrale (1568-72). Per le varie e numerose utilizzazioni il gesuita Josè de Acosta chiamò l'agave "l'albero delle meraviglie" (el árbol de las meravillas).[19]
Parti di agave variamente preparate sono state usate nell'alimentazione regolare da almeno 9.000 anni;[20] I nativi americani Cochini nella Bassa California usavano l'A. cerulata come alimento quotidiano.[21] Attualmente viene ancora utilizzata in piatti tipici. Dalle agavi si ricava uno sciroppo, denso come il miele, utilizzato come dolcificante.
In alcune regioni del Messico diverse specie sono utilizzate come foraggio per bovini.
Dalle agavi si ricavano da vari secoli bevande come l'aguamiel (bevuta fresca) e il pulque, ottenuto dalla fermentazione del precedente. Dopo l'occupazione europea del centroamerica fu introdotto il processo della distillazione, ignoto ai nativi, che permise di ottenere distillati oggi famosi come il mescal[22] e il tequila[23] (che prende il nome dalla città omonima dove per la prima volta è stato distillato).
Le fibre tessili ricavate dalle foglie di numerose specie hanno costituito il maggiore motivo di diffusione delle agavi nel mondo; sono utilizzate per corde, reti, ceste, abiti, coperte, tappeti, borse e altri oggetti di uso quotidiano.[24] Le fibre di agave presero il nome di sisal dalla città di Sisal nello Yucatán, dal cui porto avveniva l'esportazione; la specie maggiormente usata per le fibre al tempo prese il nome di Agave sisalana. Il prodotto aveva una tale importanza economica e strategica che a metà del XIX secolo il Messico pose un embargo nell'esportazione della specie. Tuttavia alcuni esemplari erano già stati esportati in Florida, e da qui portati in Africa Orientale.[25] Successivamente per la produzione su larga scala di fibre furono selezionate anche altre specie, quali A. fourcroydes (henequen, attualmente la più utilizzata in Messico e nei Caraibi), A. angustifolia, A. cantala e altre, in Africa Orientale (Kenya, Tanzania, Mozambico, Madagascar) o in Asia (Filippine, India e altre). Piccole produzioni artigianali native locali utilizzano anche A. lechuguilla e A. striata, di taglia minore. L'importanza economica delle fibre delle agavi è diminuita con l'introduzione delle fibre sintetiche.
Altri usi vari si trovano nella formazione di filari di piante utilizzati come recinzioni di terreni agricoli. I fusti delle maggiori infiorescenze vengono utilizzati come canne da pesca o pali. Le spine sono state utilizzate come ami da pesca o aghi per cucire. La pianta viene usata per guarire ustioni.
Il portamento e la spettacolarità della fioritura delle agavi ne ha favorito la piantagione di varie specie nei giardini pubblici e privati di tutto il mondo come pianta ornamentale, fatto che è diventato attualmente il maggior motivo di diffusione e conoscenza al vasto pubblico.
Chimica
La composizione chimica delle foglie di agave è articolata ed il suo approfondimento avviene ancora ai nostri giorni per i suoi usi potenziali.
I nativi americani realizzavano impacchi con la polpa di alcune specie per pruriti, ferite, piaghe o contusioni.
Diverse agavi erano impiegate dai nativi americani della popolazione Tarahumara come veleno per i pesci; il succo dell'A. lechuguilla era usato per avvelenare punte di frecce.
Le foglie di diverse specie, o il loro succo, era utilizzato fino agli anni '90 in Messico come sapone (A. difformis, A. lechuguilla, A. toumeyana, A. vilmoriniana, A. schottii, ...); porzioni di foglie di A. vilmoriniana con parte delle fibre lasciate scoperte venivano vendute nei mercati come spazzole insaponate.
Dalle sapogenine presenti in varie quantità in numerose specie sono stati prodotti estrogeni e cortisone, soprattutto dall'A. sisalana.[26]
L'interno delle foglie in alcune specie (soprattutto registrato in A. americana) contiene sostanze che a contatto con la pelle possono causare dermatiti;[27], per quanto il fatto non sia molto diffuso se non accidentalmente.[28] L'irritazione, causata da rafidi di ossalato di calcio, può essere amplificata dal taglio con l'uso di strumenti che causano la proiezione di frammenti.[29] Irritazioni simili sono state registrate nelle piantagioni di A. tequilana.[30] Le foglie secche possono essere maneggiate senza nessun effetto.
Note
^ Nella mitologia greca Agave (in greco Ἀγαυή) era anche il nome della seconda figlia di Cadmo e Armonia. Era anche il nome di una delle Nereidi.
Hylotelephium è un genere di piante da fiore della famiglia delle Crassulaceae . Comprende circa 33 specie distribuite in Asia , Europa e Nord America .
Le specie del genere, precedentemente incluse in Sedum , sono piante da giardino popolari, note come "sedum", "sedum", "vive per sempre" o "orpina". Gli orticoltori hanno ibridato molte delle specie per creare nuove cultivar. Molti di quelli più recenti sono brevettati, quindi non possono essere propagati senza una licenza.
Hylotelephium telephium e le specie correlate sono state considerate in molti modi diversi da quando sono state descritte per la prima volta da Linneo nel 1753, inclusa una sezione di Sedum da Gray nel 1821, [1] o un sottogenere. Ma questi taxa sono abbastanza distinti da Sedum morfologicamente . [2]
Hylotelephium è uno di un gruppo di generi che formano un lignaggio separato da Sedum ed è strettamente correlato a Orostachys , Meterostachys e Sinocrassula . [3] [4]
La separazione del genere non è stata adottata universalmente, ad esempio un sito web del Missouri Botanical Garden afferma che "I Sedum verticali erano a un certo punto separati nel genere Hylotelephium , ma ora sono generalmente inclusi di nuovo nel genere Sedum ". [5] Uno dei database online di Kew Garden elenca anche Hylotelephium come sinonimo di Sedum . [6]
Elsholtzia stauntonii
Elsholtzia è un genere di piante delle Lamiaceae (famiglia della menta). È diffuso in gran parte dell'Asia temperata e tropicale dalla Siberia meridionale alla Cina, all'India nordorientale, all'Indonesia, ecc. [1] [2] [3] Il genere è stato chiamato in onore del naturalista prussiano Johann Sigismund Elsholtz .
Elsholtzia Stauntonii è una pianta dalla forma arrotondata e dal fogliame caduco, fine ed aromatico.
Può raggiungere un'altezza e un diametro che variano da 1 a 1,20 m.
Abbondante fioritura a spighe di color porpora viola, da Agosto a Ottobre.
Questo piccolo arbusto ha una vegetazione simile a quella delle piante perenni. E consigliabile potare corto a fine inverno.
Rustico, poco esigente sulla natura del terreno e sull'esposizione.
Utilizzabile in gruppi di 3 o 5 piante o in associazione a macchie.
Alstroemeria ( / ˌ æ l s t r ɪ m ɪər i ə / ), comunemente chiamato il giglio peruviano o giglio incas , è un genere di piante da fiore della famiglia Alstroemeriaceae . Sono tutti originari del Sud America anche se alcuni si sono naturalizzati negli Stati Uniti , Messico , Australia , Nuova Zelanda , Madeira e Isole Canarie. Quasi tutte le specie sono limitate a uno dei due distinti centri di diversità, uno nel Cile centrale , l'altro nel Brasile orientale . Le specie di Alstroemeria del Cile sono piante a crescita invernale mentre quelle del Brasile sono a crescita estiva. Sono tutte piante perenni longeve tranne A. graminea , un diminutivo annuale del deserto di Atacama in Cile.
Le piante di questo genere crescono da un grappolo di tuberi . Inviano steli fertili e sterili, i fusti fertili di alcune specie raggiungono 1,5 metri di altezza. Le foglie sono disposte alternativamente e resupinate , attorcigliate sui piccioli in modo che le pagine inferiori siano rivolte verso l'alto. Le foglie sono di forma variabile e le lame hanno bordi lisci. I fiori sono solitari o portati in ombrelle . Il fiore ha sei petali ciascuno lungo fino a 5 centimetri. Sono disponibili in molte sfumature di rosso, arancione, viola, verde e bianco, screziate e striate e striate di colori più scuri. Ci sono sei stami ricurvi . Lo stigma ha tre lobi. Il frutto è una capsula con tre valvole. L'alstroemeria è classificata come una monocotiledone inferiore, il che significa che i petali si trovano sopra l'ovaio e le nervature delle foglie sono parallele.
L'albero di Giuda o di Giudea (conformemente alla denominazione francese arbre de Judée) o siliquastro (Cercis siliquastrum, L. 1758) è una pianta appartenente alla famiglia delle Fabaceae (o Leguminose) e al genere Cercis.
Il nome deriva dal termine greco kerkís, ad indicare la forma di una “navicella” o di una “spola”, e dal latino siliqua, ovvero “baccello”, entrambi in relazione alla forma dei suoi frutti. Anticamente poi, il frutto era spesso confuso con il comune capsicum (peperoncino), quest'ultimo invece appartenente alla famiglia delle Solanaceae.[senza fonte]
Il nome "Albero di Giuda" invece, è riferito alla regione della Giudea, nel Vicino Oriente, da dove originerebbe, e da presso la quale si diffuse in tutto il Bacino del Mediterraneo. Grazie anche alla sua zona di origine e alla intensa fioritura approssimativamente in tempo di Pasqua, antiche leggende, legate al primo Cristianesimo, nacquero per rappresentare simbolicamente alcune vicende degli ultimi giorni di Gesù nei Vangeli[1]. Il repentino apparire dei fiori di un intenso colore lilla-violaceo sulla nuda corteccia, ancor prima delle foglie, rappresenterebbe simbolicamente il tempo della Passione di Gesù, così come il colore dei paramenti liturgici cristiani relativo ad esso. Più in particolare, la pianta sarebbe legata all'episodio presso il quale, sotto questo albero, lo stesso Giuda Iscariota avrebbe dato il famoso "bacio" traditore a Gesù e, più tardi, tormentato dal rimorso, vi si impiccò.
La forte diffusione di questa credenza pare suggerire che il siliquastro avesse comunque un particolare significato, sempre di carattere passionale, anche presso alcuni culti precristiani europei[2].
Tuttavia, per lo stesso motivo, ovvero per le bacche color rosso vivido, lo stesso albero legato alla figura passionale del sangue di Giuda, per altre leggende potrebbe essere anche il sambuco[3] mentre, sempre in altre tradizioni di carattere popolare, viene proposto anche il fico comune, o anche il fico sicomoro, quest'ultimo appunto diffuso in Palestina, alberi similmente "traditori" come Giuda Iscariota poiché i loro rami appaiono robusti ma, in realtà, sono fragili, fino a spezzarsi facilmente se vi si sale sopra. Nell'ultimo caso comunque, tale simbologia negativa del sicomoro non ebbe seguito, poiché in contraddizione con il suo significato positivo nella tradizione biblica sia giudaica che cristiana.
Il siliquastro si presenta come un piccolo albero caducifoglie e latifoglie alto fino a 10 metri e più spesso come arbusto. Cresce molto lentamente.
La corteccia di colore grigio nerastro. tendente al rossiccio nei giovani rami.
Le foglie di colore verde carico e aspetto liscio e lucido; la pagina inferiore è glauca. Da giovani le foglie possono avere tonalità rossastre; esse appaiono abbastanza tardivamente, in aprile; in autunno assumono un bel colore giallo e cadono a novembre inoltrato. Hanno la tipica forma a cuore le foglie e delle nervature più chiare.
I fiori sono ermafroditi, con corolla papilionacea e di colore rosa - lilla o bianchi. Sono riuniti in racemi che compaiono prima delle foglie, in marzo - aprile; caratteristica di questa specie è la caulifloria, i fiori spuntano direttamente dalla corteccia dei rami e del tronco. Inizia a fiorire verso i sei anni di età. Ne esiste una varietà a fiore bianco (Cercis siliquastrum var. alba). L'impollinazione è entomofila. Una leggenda racconta che i fiori hanno il colore del sangue di Giuda.
Fiori
I frutti sono dei baccelli scuri, pendenti, molto numerosi, che restano attaccati alla pianta fino alla fine dell'inverno.
Il siliquastro si trova in tutta l'Europa del Sud e in Asia minore, fino ad un massimo di 500 metri circa.[senza fonte] È una pianta tipica del bosco di latifoglie, prediligendo quelli misti in associazione a quercia, orniello e altre essenze forestali. Il siliquastro cresce difficilmente in boschi umidi e ombrosi, mostrando elevata capacità di adattamento e arrivando a colonizzare sia pendii aridi e scoscesi sia addirittura luoghi sassosi, come cave e pareti rocciose naturali. Questa pianta preferisce i terreni calcarei e sassosi, senza ristagno idrico ma tollera anche quelli moderatamente acidi. È abbastanza resistente al freddo.
I fiori sono commestibili e possono essere usati in cucina nella preparazione di ricette. Come le altre leguminose, è una pianta in grado di fare azotofissazione, cioè cattura azoto dall'atmosfera e grazie a dei batteri situati nelle radici lo rilascia nel terreno, arricchendolo. È molto usato come albero ornamentale nei giardini e per le alberature stradali, grazie alla sua resistenza all'inquinamento.
Cercis racemosa è caratterizzata dai fiori rosa, riuniti in racemi penduli, che compaiono a maggio.
Cercis canadensis ha chioma larga, fiori rosa pallido e foglie più sottili e di colore più chiaro rispetto a Cercis siliquastrum.
Il corbezzolo (Arbutus unedo L., 1753), che viene chiamato anche albatro o, poeticamente, arbuto, è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Ericaceae e al genere Arbutus. È diffuso nei paesi del Mediterraneo occidentale e sulle coste meridionali dell'Irlanda. I frutti vengono chiamati corbezzole o talvolta albatre.
Uno stesso arbusto ospita contemporaneamente fiori e frutti maturi, per il particolare ciclo di maturazione. Questo, insieme al fatto di essere sempreverde, lo rende particolarmente ornamentale, per la presenza sull'albero di tre vivaci colori: il rosso dei frutti, il bianco dei fiori e il verde delle foglie. Dato che questi sono i colori della bandiera d'Italia, il corbezzolo è considerato uno dei simboli patri italiani.
Etimologia
Il nome corbezzolo deriva dal latino volgare corbitjus, incrocio del lemma mediterraneo (preindoeuropeo) corba, sopravvissuto nell'Italia settentrionale, e del nome del genere dal latino arbutus, derivato da arbuteus, anch'esso lemma di origine mediterranea (preindoeuropeo)[1].
Il nome scientifico della specie, unedo, deriva da Plinio il Vecchio che, in contrasto con l'apprezzamento che in genere riscuote il sapore del frutto, sosteneva che esso fosse insipido e che quindi dopo averne mangiato uno (unum = uno e edo = mangio) non veniva voglia di mangiarne più.[2]
Dal nome greco del corbezzolo (κόμαρος - pron. kòmaros) derivano alcuni nomi dialettali dei frutti (Marche (cocomeri)[3], Calabria (cacumbari)[4]), e anche il nome del Monte Cònero[5], il promontorio sulle cui pendici sorge Ancona, e la cui vegetazione è appunto ricca di arbusti di corbezzolo.
Descrizione
Il corbezzolo è longevo e può diventare plurisecolare, con crescita rapida. È una delle specie mediterranee che meglio si adatta agli incendi, in quanto reagisce vigorosamente al passaggio del fuoco emettendo nuovi polloni, soprattutto su terreni acidi e sub-acidi[4].
Si presenta come un cespuglio o un piccolo albero, che può raggiungere un'altezza di 10 m. È una pianta latifoglia e sempreverde; inoltre è molto ramificato, con rami giovani di colore rossastro.
Le foglie hanno le caratteristiche tipiche delle piante sclerofille. Hanno forma ovale lanceolata, sono larghe 2-4 centimetri e lunghe 10-12 centimetri, hanno margine dentellato. Si trovano addensate all'apice dei rami e dotate di un picciolo corto. La lamina è coriacea e si presenta lucida e di colore verde-scuro superiormente, mentre inferiormente è più chiara.
I fiori sono riuniti in pannocchie pendule che ne contengono tra 15 e 20. La corolla è di colore bianco-giallastro o rosea, urceolata e con 5 piccoli denti ripiegati verso l'esterno larghi 5-8 millimetri e lunghi 6-10 millimetri. Le antere sono di colore rosso scuro intenso con due cornetti gialli. I fiori sono ricchi di nettare e per questo motivo intensamente visitati dalle api, se il clima non è già diventato troppo freddo. Dai fiori di corbezzolo si ricava dunque l'ultimo miele della stagione, pregiato per il suo sapore particolare, amarognolo e aromatico. Questo miele è prezioso anche perché non sempre le api sono ancora attive al momento della fioritura e non tutti gli anni è possibile produrlo, essendo la fioritura in ottobre-novembre.
Il frutto è una bacca sferica di circa 2 centimetri, carnosa e rossa a maturità, ricoperta di tubercoli abbastanza rigidi spessi qualche millimetro; i frutti maturi hanno un buon sapore, che non tutti, però, apprezzano[6]. È possibile utilizzare i frutti per preparazioni casalinghe (confetture) e altre ricette[7].
I frutti maturano in ottobre-dicembre, nell'anno successivo rispetto alla fioritura che dà loro origine, hanno una maturazione scalare e possono essere presenti sullo stesso arbusto bacche rosse mature e più chiare ancora acerbe.
Il legno di corbezzolo è un ottimo combustibile per il riscaldamento casalingo utilizzato su camini e stufe, ma il suo utilizzo maggiore è per gli arrosti grazie alle sue caratteristiche aromatiche. Il corbezzolo è un legno molto robusto e pesante; dopo circa 60 gg dal taglio può perdere fino al 40% del suo peso.
Distribuzione e habitat
È una tipica essenza della macchia mediterranea, presente sia in Europa meridionale che nel Nordafrica; è ugualmente molto diffusa sulle coste atlantiche del Portogallo e della Spagna e nel sud dell'Irlanda. Il corbezzolo è una pianta xerofila, cresce in ambienti semiaridi, vegetando tra altri cespugli e nei boschi di leccio. Predilige terreni silicei e cresce ad altitudini comprese tra 0 e 800 metri. In Italia il suo areale è continuo su tutte le coste liguri, sarde, siciliane, tirreniche e in quelle adriatiche da sud fino ad Ancona.
La farfalla del corbezzolo (Charaxes jasius), in fase larvale, si nutre esclusivamente delle foglie della pianta del corbezzolo, mentre da adulta predilige i frutti maturi, di cui succhia i liquidi zuccherini; da
queste abitudini deriva il suo nome.
Usi
Frutti
I frutti sono eduli, dolci e molto apprezzati. Hanno una maturazione che si conclude a ottobre-dicembre dell'anno successivo, quando si hanno i nuovi fiori. Si possono consumare direttamente, conservarli sotto spirito, utilizzarli per preparare confetture e mostarde, cuocerli nello zucchero per caramellarli. Nelle Marche, e specificamente nella zona del promontorio di Monte Conero, una secolare tradizione voleva che gli abitanti della zona accorressero nel giorno dei santi Simone e Giuda (28 ottobre) nelle selve per cibarsi abbondantemente dei frutti del corbezzolo incoronandosi dei rami della pianta, perpetuando così un rito bacchico rivisitato in chiave cristiana. Oggigiorno la festa del corbezzolo non è più celebrata ufficialmente, ma gli abitanti della zona del Conero amano ancora recarsi nei boschi del promontorio per raccogliere i corbezzoli durante le belle giornate autunnali[8].
Vino di corbezzolo
Con la fermentazione dei frutti si ottiene il "vino di corbezzolo", a bassa gradazione alcolica e leggermente frizzante[9] in uso in Corsica, Algeria e nella zona del promontorio del Conero, dove è detto vinetto[10].
Acquavite
Con la distillazione dei frutti schiacciati si ottiene invece un'acquavite, in uso specialmente in Sardegna[11].
Liquore
Facendo macerare i frutti per 10-30 giorni in soluzione alcolica se ne ottiene un delicato liquore[12]. Questo liquore, di produzione prevalentemente artigianale è detto in Portogallo Aguardente de Medronhos, mentre nella zona del promontorio del Conero è chiamato arbuto del Monte[8].
Miele
È stato già citato, nel paragrafo riguardante i fiori, il pregiato miele di corbezzolo, perché è una buona pianta mellifera.
Uso ornamentale
La pianta viene utilizzata a scopo ornamentale in parchi e giardini per il colore rosso intenso dei propri frutti presenti sulla pianta contemporaneamente ai bei grappoli di fiori bianchi ed anche per il denso e lucido fogliame.
Concia delle pelli
In passato le foglie del corbezzolo, essendo ricche di tannini e arbutoside, venivano utilizzate per la concia delle pelli.
Usi erboristici
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Preparate in decotto hanno caratteristiche diuretiche, astringenti e antisettiche[13]. I frutti hanno effetto antidiarroico[13]. Essi contengono però un alcaloide che può causare, in persone particolarmente sensibili a esso, inconvenienti di solito non gravi. Tali effetti erano noti agli antichi che ne consigliano un uso moderato, il nome deriva infatti dalla contrazione di unum edo, ossia: (ne) mangio uno (solo).
Coltivazione
Il corbezzolo è un arbusto resistente alla siccità, e tollera leggermente il freddo, fino a circa -10/-15 °C, è un arbusto rustico e resistente a molti parassiti. Vegeta in terreni sub-acidi, anche rocciosi.
Il corbezzolo, fiorendo in inverno, fruttifica solo in zone a clima mite dove le api possono impollinare, ad esempio nell'Italia meridionale, sebbene la pianta tolleri anche inverni più freddi (come il nespolo del Giappone).
Riferimenti nella cultura
Lo stesso argomento in dettaglio: Corbezzolo (simbolo patrio italiano).
Un ramoscello di corbezzolo con due frutti è rappresentato nello stemma della Provincia di Ancona, che a sua volta riprende la moneta greca di Ankón (attuale Ancona) del III secolo a.C.[14], ad indicare la particolarità geografica maggiore della zona: la presenza del promontorio del Conero il cui nome, come già ricordato, deriva dal termine greco che indicava la pianta del corbezzolo[15]. Nello specifico la blasonatura dello stemma della provincia di Ancona recita[16]:
«D'azzurro al braccio destro umano di carnagione, piegato in iscaglione scorciato e rovesciato ed impugnante un ramoscello di corbezzolo al naturale in sbarra fruttato di due bacche d'oro»
La città di Madrid ha come simbolo un'orsa poggiata su un albero di corbezzolo; per questo motivo il Comune di Madrid ha piantato alberi di questa specie nel Parco del Retiro ed anche in altri giardini.
La blasonatura dello stemma madrileno recita:
«De plata, una osa de sable apoyada en un madroño de sinople o natural frutado de gules. Bordura de azur cargada de siete estrellas de plata.»
Anche i comuni spagnoli di El Madroño e di Arbúcies hanno un corbezzolo nel loro stemma.
Virgilio, in un passo dell'Eneide, narra di Pallante, figlio di Evandro re degli Arcadi, che, dopo essere stato ucciso da Turno, era stato adagiato su rami di corbezzolo, durante il tragitto per riportarne le spoglie al padre[17]
«[...] Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d'àrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferètro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato busto
composto si giacea qual di vïola,
o di giacinto un languidetto fiore
còlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie, allor che scemo
non è del tutto il suo natio colore
né la sua forma; e pur da la sua madre
punto di cibo o di vigor non ave.»
(Virgilio, Eneide, XI, vv. 64-65)
Il poeta latino Ovidio parla del corbezzolo descrivendo la vita nell'età dell'Oro[18]:
«Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri
o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine.
[...]
Libera, non toccata dal rastrello, non solcata
dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da sé
e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente,
raccoglievano corbezzoli, fragole di monte,
corniole, more nascoste tra le spine dei rovi
e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove.»
Il poeta Giovanni Pascoli dedicò al corbezzolo una poesia. Infatti nel Risorgimento il corbezzolo, proprio a causa dei colori che assume in autunno, uguali a quelli della bandiera nazionale, era considerato un simbolo del Tricolore. Lo stesso poeta dedicò al corbezzolo anche alcuni versi di un altro suo componimento, il carme Inno a Roma. In esso si fa riferimento al citato passo dell'Eneide; il poeta vide nei colori di questa pianta una prefigurazione della bandiera italiana e considerò Pallante il primo martire della causa nazionale. Infatti nel Risorgimento il corbezzolo, proprio a causa dei colori che assume in autunno, uguali a quelli della bandiera nazionale, era considerato un simbolo del tricolore[19].
«O verde albero italico, il tuo maggio
è nella bruma: s'anche tutto muora,
tu il giovanile gonfalon selvaggio
spieghi alla bora»
(Giovanni Pascoli. Al corbezzolo)
«[...] L'eroe Pallante era caduto. Offerse
l'àlbatro il bianco de' suoi fiori, il rosso
delle sue bacche e le immortali frondi.
Gli fu tessuto il letto di quei rami
de' tre colori, e furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato. [...]»
(Giovanni Pascoli, Inno a Roma)
Platanus occidentalis (L., 1753), comunemente noto come platano occidentale o platano americano, è una pianta appartenente alla famiglia delle Platanaceae, originaria del Nord America[2].
In Stati Uniti e Canada è chiamato anche sycamore, ovvero "sicomoro", un nome comune che però, in altre parti del mondo, si riferisce a un tipo diverso di piante.
Si tratta di un grande albero che raggiunge facilmente i 30–40 m di altezza. Il fusto è diritto, slanciato, cilindrico. Il diametro del tronco si aggira in genere sui 2 m, ma può superare i 4 m. Il legno è bruno-rosato a porosità diffusa, con una grana marcata e tenace.
Il ritidoma di questo albero è molto caratteristico, esso si sfalda tipicamente in grandi placche irregolari, grigio marroncine. La caduta delle placche lascia vedere la superficie sottostante, che è di un colore verde che in breve muta in un bianco intenso. Il tronco appare così chiazzato di questi quattro colori. La spiegazione a questo fenomeno sta nella rigidità dei tessuti della corteccia, che sono incapaci di assecondare la crescita del legno sottostante.[3]
Le foglie sono alterne, semplici, lunghe 12–22 cm, più larghe che lunghe, palminervie e lobate. I lobi sono da 3 o 5 e sono poco pronunciati e i seni tra di essi sono molto aperti. La base della foglia è troncata con le nervature primarie che partono dal lembo fogliare. Le foglie nascono ripiegate con i bordi laterali combacianti e leggermente tomentose. Le foglie pienamente sviluppate sono di un colore verde molto chiaro.
Il picciolo è lungo e alla base di esso sono presenti delle stipole presto caduche. La base del picciolo come in quasi tutti i platani è dilatata (mitriforme) tanto da inglobare la gemma ascellare. È una pianta caducifoglia.
I fiori sono molto piccoli, unisessuali, raccolti in un capolino globulare generalmente portato singolo su un lungo peduncolo (in alcuni casi i capolini possono essere 2). È una pianta monoica e i fiori di differente sesso sono portati su differenti peduncoli. I capolini maschili sono di colore rosso scuro, e quelli femminili verde chiaro con punti rossi. I fiori maschili hanno 4-6 stami, quelli femminili 3-8 carpelli, e uguale numero di sepali e petali. Le antere sono allungate e si aprono lateralmente. L'ovario è supero, mono o biovulare, di forma ovato-oblonga. Alla base dell'ovario sono presenti peli chiari. Lo stilo è lungo e rosso e ricurvo. L'impollinazione è ad opera del vento.[3]
I frutti sono degli acheni riuniti in infruttescenze globose e pendule. Ogni achenio ha la porzione apicale rotondeggiante e concava, sormontata da un breve stilo. La maturazione avviene nello stesso anno della fioritura.
Il platano occidentale è originario degli Stati Uniti e del Canada, con un areale che si estende dagli stati che si affacciano sull'Atlantico fino alle Grandi pianure e dall'Ontario al Texas. Si trova su terreni molto umidi o anche paludosi. Nelle vallate dei fiumi Ohio e Mississippi vi sono gli esemplari più imponenti. In America è coltivato per ricavarne legname da usare per ebanisteria e per farne mobili. È coltivato anche in Argentina e in Australia.
Fu importato in Europa nel 1636, ma non è stato mai considerato di grande interesse economico ed è poco coltivato anche come ornamentale.
Proprio in Europa però, si ritiene che abbia dato origine, tramite incrocio spontaneo con Platanus orientalis, al ben più importante Platanus x hispanica, ovvero il platano comune.
Platanus × hispanica (Mill. ex Münchh., 1770), comunemente noto come platano comune, spagnolo o londinese, è una pianta appartenente alla famiglia delle Platanaceae, di origine artificiale[1]. Difatti è anche indicato come platano ibrido in quanto si tratta di un ibrido tra il Platanus orientalis ed il Platanus occidentalis.
Il platano londinese è un grande albero deciduo che può raggiungere i 20-30 metri di altezza nella norma e che eccezionalmente raggiunge anche i 40 metri, con un tronco di 3 metri e più di circonferenza. La corteccia è di color grigio chiaro, liscia ed esfoliante, oppure più scura e non esfoliante. Le foglie sono palmate a lobi e rimandano (come suggerisce lo stesso nome) a quelle dell'acero. In primavera le giovani foglie sono ricoperte da una leggerissima peluria che viene persa poi con la crescita della foglia stessa. I fiori si concentrano in due infiorescenze dense e sferiche, separate tra maschi e femmine. I frutti maturano in sei mesi, presentano 2–3 cm di diametro e sono composti da un'achenio con numerosi peli che ne aiutano la dispersione aerea. È tra le piante che vengono più volentieri impiegate nelle città in quanto tollera abbondantemente l'inquinamento ed aiuta a ridurlo.[2]
Ha molte similitudini col Platanus occidentalis (American sycamore), da cui è derivato; ad ogni modo, le due specie sono relativamente semplici da distinguere, dal momento che il platano londinese viene perlopiù piantato in habitat urbani mentre il P. occidentalis è comune in suoli alluvionali di campagna.
Origine
La specie si è formata da una ibridazione del XVII secolo tra il P. orientalis ed il P. occidentalis, piantati uno in prossimità dell'altro. Si dice che questa ibridazione ebbe origine in Spagna, mentre secondo altre fonti essa sarebbe avvenuta nei Vauxhall Gardens di Londra dove John Tradescant il Giovane scoprì la pianta a metà del XVII secolo.[4][5]
Le caratteristiche di foglie e fiori sono intermedie infatti tra le due specie, anche se le foglie appaiono più lobate in questa specie che nel P. occidentalis ma meno che nel P. orientalis; i frutti si presentano solitamente in due per ramo, mentre il P. occidentalis ne presenta uno ed il P. orientalis un numero variabile da 3 a 6.
Coltivazione
P. × hispanica è uno dei 50 Great British Trees che il Tree Council inglese ha selezionato nel 2002 in onore del Giubileo d'oro di Elisabetta II del Regno Unito.[6] L'elenco include anche il primo albero di questa specie che si trova nella città di Ely, nel Cambridgeshire.
Il platano londinese è particolarmente resistente sia all'inquinamento che alla compressione delle radici, motivo per cui esso divenne particolarmente popolare nelle grandi città inglesi di epoca vittoriana. Tollera infatti molto meglio il freddo rispetto al P. orientalis ed è molto meno suscettibile all'antracnosi rispetto al P. occidentalis.
La pianta è anche resistente al vento, pur presentando delle problematiche nella sua piantumazione in città: i peli di cui sono ricoperti i frutti possono risultare irritanti se inalati e possono esacerbare difficoltà respiratorie per le persone con asma. Le foglie inoltre sono particolarmente resistenti e possono impiegare anche un anno intero a marcire al suolo.
Il castagno europeo (Castanea sativa Mill., 1768), in Italia più comunemente chiamato castagno, è un albero appartenente alla famiglia Fagaceae[1]. Negli ultimi decenni è stato sovente introdotto, per motivi fitopatologici, il castagno giapponese (Castanea crenata). Le popolazioni presenti in Europa sono perciò principalmente riconducibili a semenzali di castagno europeo o a castagni europei innestati sul giapponese o a ibridi delle due specie
Il castagno è una delle più importanti essenze forestali dell'Europa meridionale, in quanto ha riscosso, fin dall'antichità, l'interesse dell'uomo per i molteplici utilizzi. Oltre all'interesse intrinseco sotto l'aspetto ecologico, questa specie è stata largamente coltivata, fino ad estenderne l'areale, per la produzione del legname e del frutto. Quest'ultimo, in passato, ha rappresentato un'importante risorsa alimentare per le popolazioni rurali degli ambienti forestali montani e, nelle zone più fresche prealpine, d'alta collina, in quanto erano utilizzate soprattutto per la produzione di farina di castagne.
L'importanza economica del castagno ha attualmente subito un drastico ridimensionamento: la coltura da frutto è oggi limitata alle cultivar di particolare pregio e anche la produzione del legname da opera si è marcatamente ridotta. Del tutto marginale, infine, è l'utilizzo delle castagne per la produzione della farina, che ha un impiego secondario nell'industria dolciaria.
Si ritiene che buona parte delle superfici forestali a castagno siano derivate da una rinaturalizzazione di antiche coltivazioni abbandonate nel tempo[2], mentre la coltivazione si è ridotta alle stazioni più favorevoli, dove è possibile ottenere le migliori caratteristiche merceologiche del cacumi, in particolare il legname[2].
Il castagno è una pianta arborea, con chioma espansa e rotondeggiante ed altezza variabile, dai 10 ai 30 metri. il castagno è una specie eliofila, caducifoglie e latifoglie. I castagni sono alberi molto longevi, possono diventare plurimillenari. La fioritura avviene a giugno e la fruttificazione a settembre-ottobre a seconda delle varietà.
In condizioni normali sviluppa un grosso fusto colonnare, con corteccia liscia, lucida, di colore grigio-brunastro. La corteccia dei rami è di colore bianco ed è cosparsa di lenticelle trasverse. Con il passare degli anni, generalmente dai quarant'anni in poi, la corteccia inizia a fessurarsi longitudinalmente a partire dal colletto.
Le foglie sono alterne, provviste di un breve picciolo e, alla base di questo, di due stipole oblunghe. La lamina è grande, lunga anche fino a 20-22 cm e larga fino a 10 cm, di forma lanceolata, acuminata all'apice e seghettata nel margine, con denti acuti e regolarmente dislocati. Le foglie giovani sono tomentose, ma a sviluppo completo sono glabre, lucide e di consistenza coriacea.
I fiori sono unisessuali, presenti sulla stessa pianta. I fiori maschili sono riuniti in piccoli glomeruli a loro volta formanti amenti eretti, lunghi 5–15 cm, emessi all'ascella delle foglie. Ogni fiore è di colore biancastro, provvisto di un perigonio suddiviso in 6 lobi e un androceo di 6-15 stami. I fiori femminili sono isolati o riuniti in gruppi di 2-3. Ogni gruppo è avvolto da un involucro di brattee detto cupola.
Il frutto è un achenio, comunemente chiamato castagna, con pericarpo di consistenza cuoiosa e di colore marrone, glabro e lucido all'esterno, tomentoso all'interno. La forma è più o meno globosa, con un lato appiattito, detto pancia, e uno convesso, detto dorso. Il polo apicale termina in un piccolo prolungamento frangiato, detto torcia, mentre il polo prossimale, detto ilo, si presenta leggermente appiattito e di colore grigiastro. Questa zona di colore chiaro è comunemente detta cicatrice. Sul dorso sono presenti striature più o meno marcate, in particolare nelle varietà del gruppo dei marroni. Questi elementi morfologici sono importanti ai fini del riconoscimento varietale.
Gli acheni sono racchiusi, in numero di 1-3, all'interno di un involucro spinoso, comunemente chiamato riccio, derivato dall'accrescimento della cupola. A maturità, il riccio si apre dividendosi in quattro valve. Il seme è ricco di amido.
Il castagno è una specie mesofila e moderatamente esigente in umidità[3][4]. Sopporta abbastanza bene i freddi invernali, subendo danni solo a temperature inferiori a -25 °C[3], ma diventa esigente durante la stagione vegetativa. Per questo motivo il castagno ha una ripresa vegetativa tardiva, con schiusura delle gemme in tarda primavera e fioritura all'inizio dell'estate. Al fine di completare il ciclo di fruttificazione, la buona stagione deve durare quasi 4 mesi. In generale tali condizioni si verificano nel piano montano (600–1300 m) delle regioni mediterranee o in alta collina più a nord. In condizioni di umidità favorevoli può essere coltivato anche nelle stazioni fresche del Lauretum, spingendosi perciò a quote più basse. Condizioni di moderata siccità estiva determinano un rallentamento dell'attività vegetativa nel mezzo della stagione e una fruttificazione irregolare[3]. Le nebbie persistenti e la piovosità eccessiva nei mesi di giugno e luglio ostacolano l'impollinazione incidendo negativamente sulla fruttificazione.
Nelle prime fasi tollera un moderato ombreggiamento, fatto, questo, che favorisce una buona rinnovazione nei boschi maturi, ma in fase di produzione manifesta una maggiore eliofilia.
A fronte delle moderate esigenze climatiche, il castagno presenta notevoli esigenze pedologiche, perciò la sua distribuzione è strettamente correlata alla geologia del territorio. Sotto l'aspetto chimico e nutritivo, la specie predilige i terreni ben dotati di potassio e fosforo e di humus. Le condizioni ottimali si verificano con pH di terreni neutri o moderatamente acidi; si adatta anche ad un'acidità più spinta, mentre rifugge in genere dai suoli basici, in quanto il calcare è moderatamente tollerato solo nei climi umidi[3]. Sotto l'aspetto granulometrico predilige i suoli sciolti o tendenzialmente sciolti, mentre non sono tollerati i suoli argillosi o, comunque, facilmente soggetti ai ristagni. In generale sono preferiti i suoli derivati da rocce vulcaniche (tufi, trachiti, andesiti, ecc.), ma vegeta bene anche nei suoli prettamente silicei derivati da graniti, arenarie quarzose, ecc., purché sufficientemente dotati di humus. I suoli calcarei sono tollerati solo nelle stazioni più settentrionali, abbastanza piovose, mentre sono mal tollerate le marne.
Il castagno vegeta in un areale circumediterraneo, ad estensione frammentata, che si estende dalla penisola iberica alle regioni del Caucaso prossime al Mar Nero[5]. In Europa, la maggiore estensione si ha nelle regioni occidentali: è diffuso nel centro e nord del Portogallo e nelle regioni settentrionali della Spagna, in gran parte del territorio della Francia, fino ad estendersi nel sud dell'Inghilterra, nel versante tirrenico della penisola italiana e nell'arco alpino fino ad arrivare alla Slovenia e alla Croazia. Qui l'areale si interrompe per riprendere dalle regioni meridionali della Bosnia e del Montenegro ed estendersi in gran parte dei territori dell'Albania, della Macedonia e della Grecia. Infine riprende dalle regioni occidentali della Turchia, estendendosi a quelle settentrionali lungo il Mar Nero, giungendo fino al Caucaso.
Diffusioni sporadiche[5] si hanno in Germania, in Bulgaria, in Romania e nel Nordafrica, nelle regioni dell'Atlante. Nel Mediterraneo, infine, è presente in gran parte del territorio della Corsica, nelle regioni centrali della Sardegna, in Sicilia sui monti Peloritani, Nebrodi, Madonie, Iblei, Sicani ed Etna, infine, in quelle occidentali dell'isola d'Elba.
In Italia[5][6] vegeta nella zona fitoclimatica del Castanetum, a cui dà il nome, estendendosi anche nelle zone più fresche del Lauretum, per introduzione da parte dell'uomo. In genere si ritrova su quote variabili dai 200 metri s.l.m. fino agli 800 m nelle zone alpine, mentre nell'Appennino meridionale può spingersi fino ai 1000-1300 metri. La distribuzione è frammentata perché legata a particolari condizioni climatiche e geologiche. La maggiore diffusione si ha perciò in tutto il versante tirrenico della penisola, dalla Calabria alla Toscana e alla Liguria, e nel settore occidentale dell'arco alpino piemontese. Nel versante adriatico e nel Triveneto la sua presenza è sporadica e nella Pianura Padana è praticamente assente. Nelle isole è presente in areali frammentati nelle isole maggiori, circoscritti alle stazioni più fresche. La concentrazione di maggior rilievo si ha in Campania, (Irpinia) che contribuisce per circa il 50% all'intera produzione nazionale di castagne.
È dunque una tipica essenza degli ambienti boschivi collinari e di quelli montani di bassa quota. L'ecosistema forestale tipico del castagno è la foresta decidua temperata mesofila, dove forma associazioni in purezza o miste, affiancandosi alle Quercus (per lo più farnia e roverella), al frassino, al carpino nero, al noce, al nocciolo, ecc. Per le sue caratteristiche è una specie strettamente associata alla roverella, tipica mesofita della foresta mediterranea decidua.
Sul castagno c'è una sostanziale incertezza in merito al suo "indigenato", ovvero alla sua origine, ai processi che ne hanno determinato la sua distribuzione e alla natura delle formazioni forestali in cui è presente. In passato si riteneva che la specie fosse originaria del bacino sudorientale del Mar Nero (regioni del Ponto e del Caucaso occidentale) e che da qui fu propagato, nel corso dei secoli, dai Greci e dai Romani. Secondo più recenti teorie che si basano su studi palinologici, si ritiene che il castagno abbia trovato rifugio in alcune limitate zone durante l'ultima glaciazione (Würm), quando è avvenuta una generale contrazione delle superfici forestali in Europa. La più grande e riconosciuta zona rifugio si localizza nel Caucaso e nel nord dell'Anatolia. Altre zone rifugio si sono individuate in Italia nei versanti tirrenici dell'Appennino settentrionale e centrale dalla Liguria al Lazio e nelle zone collinari nei pressi del lago di Garda (Monti Lessini, Colli Berici e Colli Euganei), in Spagna lungo le coste della Cantabria e in Galizia, in Francia nei pressi del dipartimento di Isère, ed infine in Grecia nei rilievi del Peloponneso, della Tessaglia e della Macedonia Centrale. Dopo la glaciazione il castagno ha visto una forte espansione ad opera dell'uomo già a partire dal periodo Neolitico assieme al noce da frutto e alle colture cerealicole[7][8].
La massima diffusione in tutta l'Europa ebbe inizio con i Greci, fu ampliata dai Romani e proseguì ininterrottamente nel corso del Medioevo per opera degli ordini monastici[5][6]. Lo scopo di questa estensione era la sua duplice funzione, come risorsa amidacea (castagne) e tecnologica (legname da opera).
La crisi del castagno ebbe inizio a partire dal Rinascimento, presumibilmente in concomitanza con il progresso tecnico in agricoltura e con il crescente sviluppo della cerealicoltura[5]. Da allora e fino all'Ottocento, il castagno subì un lento e progressivo abbandono, nonostante si verificassero espansioni di portata locale che, nel corso dei secoli, fecero variare la distribuzione della castanicoltura, almeno in Italia.
Alla fine dell'Ottocento iniziò il declino vero e proprio della castanicoltura, protraendosi per decenni a causa del concorso di molteplici cause: l'evoluzione delle abitudini alimentari delle popolazioni europee, l'introduzione di materiali alternativi quali il metallo e la plastica nell'allestimento di manufatti e opere infrastrutturali, civili e agricole, la crisi dell'industria del tannino dopo gli anni trenta, il crescente interesse verso altre specie forestali da legno alternative al castagno (robinia e ciliegio), la pressione antropica sugli ambienti forestali.
Alla riduzione delle superfici forestate a castagno hanno inoltre contribuito, in modo non trascurabile, le decimazioni dovute a due patologie associate a questa specie: il mal dell'inchiostro, causato dagli oomiceti Phytophthora cambivora e, più recentemente, Phytophthora cinnamoni, ed il cancro del castagno, causato dall'ascomicete Cryphonectria parasitica. All'azione di questi parassiti si aggiungono anche gli attacchi degli insetti xilofagi, che in genere si sviluppano a spese di piante indebolite da condizioni ambientali non favorevoli.
Nel complesso, la castanicoltura si è fortemente ridimensionata, ed è circoscritta alle aree di maggiore vocazione, sia per le castagne sia per il legno, mentre i castagneti progressivamente abbandonati nel corso dei secoli sono scomparsi o si sono evoluti verso un'associazione boschiva rinaturalizzata.
Lo stesso argomento in dettaglio: Castagna.
Il frutto è utilizzato da tempi antichissimi, come si è detto, per la produzione di farina di castagne. Questo impiego ha oggi un'importanza marginale e circoscritta alla produzione di dolci tipici, come il castagnaccio e il Panmorone (dolce tipico di Campomorone). Ancora diffusa è invece la destinazione dei frutti di buon pregio al consumo diretto, concentrato nei mesi autunnali, e alla produzione industriale di confetture e marron glacé. Interesse del tutto marginale ha il possibile impiego dei frutti come alimento per gli animali domestici.
La corteccia e il legno del castagno sono particolarmente ricchi di tannini (circa il 7%) e possono essere impiegate per la sua estrazione, destinata alle concerie. Questa destinazione d'uso, in Italia, ha riscosso un particolare interesse nei primi decenni del XX secolo, epoca in cui l'industria del tannino nazionale faceva largo impiego del castagno, ma dopo il 1940 ha perso importanza sia per la contrazione di questo settore sia per il ricorso, come materia prima, al legno di scarto[5].
La ceppaia di un vecchio ceduo.
Il legno di castagno[4] è caratterizzato dalla formazione precoce del durame, perciò presenta un alburno sottile. Il durame è bruno, mentre l'alburno è grigio chiaro. Strutturalmente è un legno eteroxilo con porosità anulare e tende a sfaldarsi in corrispondenza degli anelli[9].
Fra i suoi pregi si citano la durevolezza e la resistenza all'umidità, perciò si presta per l'impiego come legno strutturale; la facilità di lavorazione lo rendono adatto ad essere impiegato per la realizzazione di vari manufatti. È inoltre un legno semiduro, adatto secondariamente anche per lavori di ebanisteria.
La precocità di formazione del durame rende inoltre possibile l'attuazione di turni di ceduazione relativamente brevi, naturalmente in funzione del tipo di assortimento mercantile richiesto. La densità è dell'ordine di 1 t/m³ nel legno fresco e di 0,58 t/m³ per quello stagionato.
Il legno lavorato presenta tonalità variabili dal giallo al rossastro, venature sottili e una spiccata nodosità.
Per le sue caratteristiche tecnologiche, il castagno è stato tradizionalmente usato per molteplici impieghi e la realizzazione di travi, pali, infissi, doghe per botti, cesti e mobili, oltre alla già citata estrazione del tannino. Attualmente la sua destinazione principale è l'industria del mobile.
L'apicoltura è un'attività accessoria che può appoggiarsi alla castanicoltura. Pur avendo impollinazione prevalentemente anemogama, i fiori maschili del castagno sono bottinati dalle api, che ne raccolgono il polline ed il nettare:[10] perciò questa pianta è considerata mellifera. Il miele di castagno[11] ha una colorazione variabile dall'ambra al bruno scuro, retrogusto amaro, resiste alla cristallizzazione per lungo tempo, è particolarmente ricco di fruttosio e polline. La sua produzione si localizza naturalmente nelle zone a maggiore vocazione per la castanicoltura e, principalmente, nella fascia submontana fra i 500 e i 1000 metri di altitudine, lungo l'arco alpino, in Emilia-Romagna, e sul versante tirrenico della fascia appenninica e nelle zone montane della Sicilia settentrionale.
L'uso del castagno a scopo medicamentoso è un aspetto marginale, tuttavia questa specie è considerata pianta officinale nella farmacopea popolare[12]: per il contenuto in tannini, la corteccia ha proprietà astringenti, impiegabile in fitocosmesi per il trattamento della pelle. Alle foglie, oltre alle proprietà astringenti, sono attribuite proprietà blandamente antisettiche e sedative della tosse.
Sempre nella farmacopea popolare di alcune regioni, la polpa delle castagne, cotta e setacciata, trova impiego in fitocosmesi per la preparazione di maschere facciali detergenti ed emollienti[12].
Innesto a spacco diametrale. A: marze; B: capitozzatura del soggetto e spacco diametrale; C: inserimento delle marze nello spacco; D: legatura; E: applicazione del mastice.
Il castagneto, sia da frutto sia da legno, si governa come ceduo o come fustaia, tuttavia quest'ultimo è meno frequente.
La propagazione del castagno è contestualizzata alla situazione operativa. Si possono verificare i seguenti casi:
Impianto di un nuovo castagneto
Recupero di un vecchio castagneto
Nel primo caso si ricorre alla propagazione per seme, seguita dall'innesto, che in genere si applica solo per i castagneti da frutto. Nel secondo caso si ricorre alla propagazione vegetativa con la ceduazione, sfruttando l'attitudine pollonifera del castagno, oppure alla propagazione mista, basata sulla matricinatura.
Innesto a corona. A: marze; B: capitozzatura del soggetto e incisione corticale; C: inserimento delle marze nelle incisioni; D: legatura; E: applicazione del mastice.
La propagazione per seme si effettua impiegando il materiale da popolazioni di selvatici. Le castagne vengono eventualmente stratificate, al fine di prevenire la pregerminazione, e seminate in primavera. La semina si effettua in vivaio, in semenzaio, in vaso o in fitocella, oppure direttamente in campo. La semina diretta offre la minore percentuale di fallanze, mentre il trapianto è aleatorio soprattutto con semina in semenzaio. Del tutto sconsigliato è il trapianto dei cosiddetti selvaggioni, ossia dei semenzali nati dalla rinnovazione naturale estirpati dalla loro sede in quanto si ottiene una percentuale molto alta di fallanze[13]. La semina diretta si effettua disponendo le castagne in numero di 2-3 in ogni buca.
La densità di semina o di impianto, secondo la tecnica, è dell'ordine di 4-5 q di seme ad ettaro e di 2000 piantine ad ettaro.
L'innesto è una pratica indispensabile per il castagno da frutto, necessaria per ottenere le varietà desiderate. L'innesto si pratica sui semenzali oppure sui polloni emessi con la ceduazione. Gli innesti a marza si praticano con marze di 1-2 anni di età e si differenziano in varie tipologie in base al rapporto di età fra portinnesto e marza: sui polloni di 3-5 anni di età si effettua in genere l'innesto a spacco diametrale, inserendo due marze agli estremi del taglio, oppure quello a corona, inserendo 2 o 3 marze in fenditure praticate sulla corteccia del portinnesto capitozzato. Su polloni o su semenzali di 1-2 anni si pratica invece l'innesto a spacco pieno; in questo caso, infatti, marza e portinnesto hanno pressoché lo stesso diametro. I migliori risultati si ottengono con l'innesto a spacco pieno[13]. L'innesto a gemma si pratica invece con la tipologia a zufolo o ad anello su semenzali o polloni di 1-2 età. Fornisce buoni risultati ma presenta più vincoli in merito al periodo utile.
Gli innesti si praticano alla fine del periodo di riposo, prima della ripresa vegetativa. Per gli innesti a corona e quelli a gemma è necessario che le piante siano in succhio. Con questo termine si indica quella fase, immediatamente precedente la ripresa vegetativa, durante la quale il cambio è già entrato in attività, favorendo il distacco della corteccia dal legno.
Il ceduo è attualmente la forma più comune di governo dei castagneti. Dato lo scopo principale che aveva il ceduo di castagno, destinato alla produzione di assortimenti da trasformare in pali per l'elettrificazione e per usi agricoli, è indicato spesso con il termine di palina di castagno[2][4]. Nei nuovi impianti si avvia tagliando le piantine dopo 2 o 3 anni mentre nei vecchi castagneti abbandonati si tagliano a raso le ceppaie. In entrambi i casi vengono emessi i polloni, sui quali si praticherà l'innesto 1 o più anni dopo.
Il ceduo semplice si governa tagliando a raso al termine del turno tutte le ceppaie. Questa pratica è consentita negli impianti artificiali, mentre nei boschi i regolamenti ammettono la matricinatura. Nel ceduo matricinato si lasciano, ad ogni taglio, un certo numero di piante, dette matricine, il cui compito è quello di consentire la rinnovazione. Poiché il castagno ha una buona capacità di rinnovazione l'intensità della matricinatura è inferiore a quella ordinaria, riducendosi a 40-60 matricine per ettaro. Il ceduo disetaneo è praticato tradizionalmente solo in alcune località della Sardegna, della Toscana e del Veneto[13].
La fustaia differisce dal ceduo per avere una minore densità di piante e un solo fusto per ogni ceppaia. Si ottiene per evoluzione dai cedui, prolungandone il turno e selezionando i fusti che presentano i requisiti. Rappresenta la forma tradizionale di governo dei castagneti da frutto, soprattutto nelle regioni settentrionali, mentre in molte zone dell'Italia meridionale ci si orientava verso il ceduo da frutto.
Le densità del castagneto, a regime, dipendono dal tipo di governo e dalle condizioni di fertilità del suolo. Nei cedui si adottano intensità molto variabili, da minimi di 2-300 ceppaie a massimi di oltre 1000 ceppaie, con riferimento all'ettaro di superficie. Nelle fustaie si hanno invece densità dell'ordine di 100-200 piante ad ettaro.
La durata del turno dipende dall'indirizzo produttivo. Per i castagneti da frutto si adottano turni piuttosto lunghi, poiché la produzione di regime ha inizio a 30-50 anni dall'innesto. Per i castagneti da legno si adottano invece turni variabili secondo il tipo di assortimento mercantile richiesto. In passato si adottavano anche turni piuttosto brevi, dell'ordine di 6 anni. Questi erano finalizzati a fornire assortimenti per usi che oggi sono di marginale importanza, come ad esempio il legno per intrecci.
Gli orientamenti attuali si attestano su turni di 16-18 anni, in grado di fornire un'alta resa in assortimenti grossi e intermedi, che sono quelli richiesti dal mercato. In condizioni ottimali di fertilità, come si verifica ad esempio nei suoli di origine vulcanica e ben dotati di sostanza organica, il ceduo di castagno manifesta le migliori prestazioni produttive, con ritmi di incremento della massa legnosa paragonabili a quelli delle essenze esotiche da legno.
L'abbandono definitivo dei pali di castagno, ancora impiegati per le linee elettriche o telefoniche, indirizza la domanda di assortimenti mercantili verso il legname da sega, destinato all'industria del mobile. Questa evoluzione del mercato richiede assortimenti di diametro e lunghezza adeguati e nel tempo porta all'abbandono della castanicoltura da legno nelle stazioni meno fertili e ad un prolungamento del turno di ceduazione, con una durata ottimale di circa 25
Il nespolo comune (Mespilus germanica) è un albero da frutto, appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere Mespilus; esso viene anche chiamato nespolo germanico o europeo, ed il suo frutto è chiamato "nespola".
Negli ultimi due secoli però, in Europa e altri paesi del mondo è stato gradualmente e commercialmente rimpiazzato dal nespolo giapponese, che appartiene ad una specie diversa, ma i suoi frutti vengono sempre chiamati "nespole". I frutti di entrambe le due specie si raccolgono acerbi, in attesa di maturazione fuori dalla pianta, tuttavia la nespola europea è a raccolta autunnale, di forma più tondeggiante e con una buccia di color verdastro-grigio-marrone chiaro, riconoscibile da una grossa apertura al fondo, mentre quella giapponese è primaverile, la bacca appare più oblunga e chiusa, e la buccia di un colore più vivo e giallastro.
Storia
Il termine nespolo deriva da nespilum - mespilum, a sua volta derivanti dal greco meso (=in mezzo) e dal latino pillum (=palla), a indicare il frutto a forma sferoidale dimezzata[1]. Pare che le origini della specie Mespilus affondino già nei tempi antichi presso le aree geografiche del Mar Caspio, in Asia Minore[2], quindi nell'Antica Grecia (VIII secolo a.C. circa), per poi diffondersi fino all'Europa Centrale, da cui prese il nome latino di germanico[2]). A causa della sua maturazione autunnale e dei frutti vagamente simili, esso veniva anche confuso, o semplicemente paragonato anche alla pianta della Sorba. Come già detto, a partire dalla fine del XVIII secolo fu gradualmente soppiantato, nell'intera Europa, dal nespolo giapponese, inizialmente importato come semplice pianta ornamentale delle Corti di Francia[3].
Il nespolo comune appare come un albero di medie dimensioni, raggiungendo i 4–5 m in altezza (a differenza del giapponese, che può raggiungere i 10 metri in altezza), e con una larghezza della chioma che spesso supera l'altezza, latifoglio e caducifoglio (= perde le foglie in inverno). È un albero longevo e può diventare anche pluricentenario, ma ha una crescita molto lenta[4]. È una pianta molto visitata dalle api[5].
I fiori, ermafroditi, di colore bianco puro, sono semplici, a cinque petali; la fioritura nel complesso è molto decorativa. Nei soggetti selvatici, i giovani rami possono essere spinosi. Le foglie sono lanceolate. La fioritura, che è piuttosto tardiva (all'incirca nel mese di maggio), avviene dopo l'emissione delle foglie.
Essendo una pianta autunnale molto resistente al freddo, con fioritura tardiva successiva alle ultime brinate, si presta soprattutto alle zone, appunto, dell'Europa Centrale, anche se esistono dei cultivar selezionati, con frutti leggermente migliorati per dimensioni e caratteristiche organolettiche, adatti alle latitudini di area mediterranea. Altre selezioni europee possono essere, ad esempio, quelle olandesi, come la nespola "Hollandia", il "Gigante di Breda", il tipico "Dutch", "Mostro" o "Gigante" olandese, con frutto, appunto, leggermente più grande, oppure il "Grande Russo" e lo scozzese "Nottingham".
Fuori dall'area del vecchio continente invece, nel 1990, furono scoperte alcune piante attribuibili al genere Mespilus in Arkansas, negli Stati Uniti. Per queste piante (circa 25 esemplari in tutto, ristretti a un unico bosco), fu descritta una specie nuova, il Mespilus canescens. Il canescens risulterebbe una specie a fortissimo rischio di estinzione, dato il suo ristrettissimo areale e le scarse capacità riproduttive manifestate in questi anni.
In Italia, grazie alla sua resistenza al freddo, si è tradizionalmente prestato alle zone del Settentrione, anche se è stato anticamente piantato anche in alcune zone dell'Italia centrale e meridionale, come il caso, ad esempio, la cosiddetta "Casa del Nespolo" di Aci Trezza (Sicilia), citata nei Malavoglia di Giovanni Verga (1881).
Nelle regioni dell'Italia settentrionale, il frutto viene dialettalmente chiamato similmente al suo nome italiano, come ad esempio gnespul in friulano, venèspula in lombardo, nespolar in veneto, nèspla in emiliano, tranne alcune eccezioni, come pomai, pomatai in dialetto solandro, o neflier, nephie in valdostano[7].
In Piemonte, la nespola germanica si diffuse maggiormente attraverso la tradizione popolare, ribattezzandola con il termine pocio (da leggersi "puciu", in piemontese), un frutto anche qui molto comune almeno fino al XX secolo, poi via via rimpiazzato dall'attuale nespola giapponese. Tuttavia, i pocio vengono ancor oggi coltivati, appunto per tradizione, in alcune zone, soprattutto nel Basso Piemonte, in particolare in provincia di Cuneo e nelle Langhe meridionali, quasi ai confini con la Liguria, anche attraverso delle esposizioni e delle fiere dedicate[8]. Le più famose sono a Farigliano, dove tra novembre e dicembre si svolge una festa dedicata alla frazione di San Nicolao abbinata alla "Fiera dei Puciu"[9], e a Trinità, dove l'ultima domenica di novembre si svolge la “fera dij pocio e dij bigat”[10], riproposta, dopo un periodo di interruzione durato 50 anni, nel 2000, dove fu associato il pocio all'antica coltivazione del baco da seta (bigat,in piemontese). Ogni anno inoltre, la seconda domenica di novembre, si tiene a Virle Piemonte una fiera dedicata alla zucca e al nespolo[11]. Sempre in queste zone vengono tradizionalmente preparate delle grappe tipiche, ma anche dolci farciti di marmellata ai "pocio". Con la trasformazione si ottengono: marmellate, gelatine, salse e varie preparazioni culinarie, fino addirittura a formaggi aromatici.
La lunga maturazione a riposo nella paglia anche oltre il periodo natalizio, associata alla graduale e crescente dolcezza del frutto, portò a coniare il proverbio italiano "Con il tempo e con la paglia maturano le nespole" (ovvero ci vuole pazienza ed occorre aspettare per vedere i risultati).
Legato a questo aspetto, fu inoltre diffuso l'antico detto piemontese stago da pocio ("sto come un puciu"), ad indicare uno stato di pace, riposo, e tranquillo tepore domestico[12]. Sempre metaforicamente, il termine dialettale piemontese pocio o pocionin indicava la forma del "piccolo pomo" di capelli lunghi delle giovani ragazze che si veniva a formare raccogliendoli dietro e fermandoli con un fermacapelli, e sempre metaforicamente, il soprannome della ragazza stessa.
Juglans L. è un genere di angiosperme eudicotiledoni appartenente alla famiglia Juglandaceae,[1] comunemente note con il nome generico di noci.
Il nome del genere deriva dal latino Iovis glans (ghianda di Giove).
La specie più conosciuta è Juglans regia, noto come noce da frutto o noce bianco. Quest'ultimo è la principale specie da cui viene prodotto l'omonimo frutto commestibile.
Le Juglans sono alberi di grande taglia, con altezze comprese tra 10 e 40 metri. Le foglie sono alterne e imparipennate. Le piante sono monoiche a sessi separati, con impollinazione anemofila. Sono alberi caducifoglie e latifoglie, con altezza compresa tra 10 e 40 metri, hanno foglie pennate lunghe 200–900 mm, con 5-25 foglioline. I fiori maschili sono raggruppati in spighe che comprendono fino a 36 stami. I fiori femminili (pistilli) sono riuniti a gruppi di 2-4, con uno stigma. Il frutto è una drupa indeiscente a endocarpo sclerificato, contenente un solo seme con cotiledoni sviluppati e ricchi in materia grassa, chiamato noce.
L'areale naturale comprende l'America Settentrionale e Meridionale, l'Asia e l'Europa centrale e meridionale.
Il noce è tra i legni più pregiati al mondo, particolarmente apprezzato per la sua resistenza e durezza, si presenta bruno con tendenza a scurirsi. Il noce europeo (Juglans regia), chiamato "noce nazionale" è assolutamente il più pregiato, in particolare la parte della radice ossia la "radica di noce".
Il noce viene principalmente impiegato in falegnameria fine, mobili di prestigio, piccola carpenteria, porte, impiallacciature di varia tipologia, battiscopa, coprifili e inoltre per piccoli oggetti e sculture in legno.
Nei legnami truciolari melaminici, il colore standard "noce" indica una stampa della copertura melaminica abbastanza scura, prossima al mogano.
Da notare che un tipo di legno comunemente trovato in commercio chiamato "noce Tanganica", (conosciuto anche come Aningre o Aniegre)[2] non ha niente a che vedere con il genere Juglans, in quanto ricavato da una pianta delle Sapotaceae del genere Pouteria chiamata Aningeria altissima (o anche Aningeria robusta o Aningeria superba) che cresce nelle foreste umide della fascia equatoriale africana dalla Costa d'Avorio al Kenya.[3] La struttura si presenta con fibratura diritta e tessitura fine, ma il colore è più biondo/rossastro rispetto al noce nazionale. Di peso e durezza medi, scarsamente elastico, risulta abbastanza agevole da lavorare a patto però che l'operatore si riveli esperto, se scurito può essere abbinato a noce nazionale.
Il cachi o kaki (Diospyros kaki L.f., 1782) (in italiano[1][2] anche diòspiro o diòspero) è un albero da frutto: una angiosperma dicotiledone, appartenente alla famiglia delle Ebenacee e al genere dei Diospyros. Il nome deriva dal termine giapponese del frutto: 柿 pronunciato appunto “kaki”.
Diospyros kaki, originario dell'Asia orientale, è una delle più antiche piante da frutta coltivate dall'uomo, conosciuta per il suo uso in Cina da più di 2000 anni. In cinese il frutto viene chiamato 柿子 shìzi[4] mentre l'albero è noto come 柿子树 shizishu. La sua prima descrizione botanica pubblicata risale al 1780[5][6]. Il nome scientifico proviene dall'unione delle parole greche Διός, Diòs, caso genitivo di «Zeus», e πυρός, pyròs, «grano»[7], letteralmente "grano di Zeus". È originario della zona centro-meridionale della Cina, ma comunque mai al di sotto dei 20° di latitudine Nord, e nelle zone più meridionali spesso in zone collinari o montane più fredde; Detto mela d'Oriente, fu definito dai cinesi l'albero delle sette virtù: vive a lungo, dà grande ombra, dà agli uccelli la possibilità di nidificare fra i suoi rami, non è attaccato da parassiti, le sue foglie giallo-rosse in autunno sono decorative fino ai geli, il legno dà un bel fuoco, la caduta dell'abbondante fogliame fornisce ricche sostanze concimanti. Dalla Cina si è esteso nei paesi limitrofi, come la Corea e il Giappone.
Intorno alla metà dell'Ottocento fu diffuso in America e Europa. In Italia fu introdotto nel 1880 e il successo fu subito straordinario. Apprezzato, fra i primi, anche da Giuseppe Verdi che nel 1888 scrisse una lettera nella quale ringraziava chi gliene aveva fatto dono[8]. I primi impianti specializzati in Italia sorsero nel Salernitano, in particolare nell'Agro Nocerino, a partire dal 1916, estendendosi poi in Sicilia, dove è stata selezionata la varietà acese (piccola e dolcissima, quasi selvatica), e in seguito in Emilia-Romagna. In Italia la produzione si è stabilizzata intorno alle 65.000 tonnellate: la coltura è sporadicamente diffusa su tutto il territorio, ma è importante solo in Campania ed Emilia con produzioni rispettive di 35.000 tonnellate e 22.000 tonnellate. In Sicilia, pur esistendo una delle varietà più antiche nell'areale di Acireale e lungo la costa etnea, è più diffuso il cachi di Misilmeri. Il cachi è oggi considerato "l'albero della pace", perché alcuni alberi sopravvissero al bombardamento atomico di Nagasaki nell'agosto 1945.
I cachi sono alberi molto longevi e possono diventare pluricentenari, ma con crescita lenta. Sopportano male i climi caldo-umidi, soprattutto se con suolo mal drenato. Gli alberi di cachi sono caducifoglie e latifoglie, con altezza fino a 15–18 metri, ma di norma mantenuti con potature a più modeste dimensioni. Le foglie sono grandi, ovali allargate, glabre e lucenti. Nelle forme allevate per il frutto si riscontrano solo fiori femminili essendo gli stami abortiti.
La fruttificazione avviene spesso per via partenocarpica o in seguito a impollinazione da parte di alberi di varietà diverse provvisti di fiori maschili. I frutti sono costituiti da una grossa bacca generalmente sferoidale, talora appiattita e appuntita di colore giallo-aranciato e astringenti, normalmente eduli (commestibili) solo dopo che hanno raggiunto la sovramaturazione e sono detti ammezziti (con polpa molle e bruna). La preponderante consuetudine di coltivare piante fruttificanti in maniera partenocarpica non esclude la possibilità della esistenza di cultivar che hanno completamente o parzialmente la proprietà di produrre frutti ottenuti da fecondazione, spesso già eduli alla raccolta; questi frutti, ovviamente provvisti di semi, hanno polpa bruna, soda. Esistono anche cachi che producono frutti partenocarpici non astringenti, quindi già pronti per il consumo fresco al momento della raccolta allo stato apparente di frutto immaturo (duro).
In Italia, per l'assonanza del termine "cachi" con parole volgari, i frutti commestibili sono detti loti, diospiri o cachi mela. Questi ultimi vengono consumati sia più acerbi (denominati commercialmente "loti vaniglia") sia a uno stato avanzato di maturazione (denominati commercialmente "loti morbidi").
È ritenuto un albero subtropicale, ma pur essendo una pianta idonea al clima mediterraneo, con la scelta di opportuni portinnesti riesce a sopportare nella pianura Padana e nel Trentino temperature di circa -10/-15 °C. Si adatta bene a qualsiasi tipo di terreno, compresi quelli argillosi, purché ben drenati, profondi e di scarso contenuto in sodio e boro; quindi non ama terreni e atmosfere saline. Per le sue caratteristiche il cachi viene perfettamente coltivato nel territorio siciliano e specialmente nelle località della Conca d'Oro o limitrofe alla cittadina di Misilmeri, nella città metropolitana di Palermo, nella quale ogni anno vengono organizzate sagre e manifestazioni nei mesi autunnali.
Solo nei frutti impollinati si hanno i semi nel frutto. La propagazione per seme ha il fine di ottenere dei semenzali da utilizzare come portinnesti, mentre per la propagazione delle cultivar si ricorre all'innesto. I semi estratti dai frutti possono essere conservati in sabbia o in apposite celle con temperatura e umidità controllate, per essere posti in semenzaio e le piantine ottenute sono trapiantate dopo un anno in vivaio, dove vengono innestate nella seguente annata vegetativa. Gli innesti a gemma mostrano scarso attecchimento e allora si opera con le marze (spacco diametrale, corona).
Si sta sviluppando anche la tecnica della micropropagazione e della talea per l'ottenimento di piantine autoradicate. Il portinnesto più usato è il loto (Diospyros lotus) che è dotato di buona resistenza a freddo e siccità; risulta disaffine con le cultivar non astringenti, mentre presenta buona affinità con quelle astringenti. L'innesto su franco o selvatico (Diospyros kaki) è poco diffuso perché non molto resistente al freddo e a eccessi d'acqua, ma è adottato negli ambienti meridionali per le cultivar non astringenti (sempre eduli).
Cachi coltivati a Cantarana
L'impianto si fa tenendo conto delle minime termiche invernali e l'adattabilità della specie ai diversi tipi di clima. La preparazione del terreno è come quella che serve per gli altri fruttiferi ma bisogna fare attenzione al drenaggio e alla presenza di nematodi (la pianta è molto sensibile). Non tollera il reimpianto. La messa a dimora avviene in autunno-inverno usando astoni, che poi sono allevati a vaso, piramide, palmetta (quest'ultima forma avvantaggia l'ingresso in campo di carri a piattaforme laterali per la raccolta e la potatura). Sesti di 5,5 m per il vaso e di 4,5 X 4 m per la palmetta.
La presenza di impollinatori è consigliata non solo per ottenere i cachi-mela (non astringenti) dalle cultivar che producono frutti fecondati eduli al momento della raccolta ma anche, in generale, per aumentare l'allegagione. È doverosa un'adeguata potatura di allevamento, mentre quella di produzione è inutile dato che le piante mantengono una buona attività vegetativa. Il diospiro si avvale di concimazioni azotate in autunno (per favorire l'accumulo di sostanze di riserva necessarie per il completamento della differenziazione delle gemme riproduttive alla ripresa vegetativa). La raccolta rappresenta l'operazione più onerosa nella coltivazione; i frutti staccati manualmente sono posti in cassette dove vengono mantenuti per la conservazione e per la commercializzazione.
Principali zone di produzione sono la Campania (in particolare il Napoletano e l'Agro Nocerino Sarnese), la Romagna (in particolare il Forlivese), la Sicilia.
Le varietà si distinguono oltre che per le caratteristiche vegetative (vigoria, produttività, forma dei frutti) anche per il loro comportamento a seguito della impollinazione. La classificazione pomologica dei frutti di diospiro è determinata dagli effetti dell'impollinazione sulle caratteristiche organolettiche dei frutti al momento della raccolta e, su tale base, le cultivar possono essere suddivise in due gruppi principali:
Costanti alla fecondazione (CF): frutti che mantengono la stessa colorazione della polpa (costantemente chiara) sia nei frutti fecondati sia in quelli partenocarpici.
Variabili alla fecondazione (VF): frutti che modificano le caratteristiche della polpa che risulta chiara e astringente nei frutti partenocarpici, mentre diviene più o meno scura e non astringente in quelli fecondati.
Sulla base di questa classificazione ci sono cultivar che producono frutti costantemente astringenti, non eduli alla raccolta (Yokono, Sajo); altre costantemente non astringenti con frutti eduli alla raccolta (Hana fuyu, Jiro, Izu, Suruga); cultivar variabili all'impollinazione, con frutti gamici (da fecondazione e con semi) eduli alla raccolta (cachi-mela) e frutti partenocarpici non eduli alla raccolta (Wase, Triumph). Varietà diffuse in Italia:
Loto di Romagna
Vaniglia della Campania[9]
Fuyu
Kawabata
Suruga
cioccolatino
Tra le malattie da funghi rivestono importanza il deperimento causato da Phomopsis e i marciumi radicali provocati da Armillaria mellea e Rosellinia necatrix. Tra gli insetti più importanti che attaccano il cachi vi sono alcune cocciniglie, tra cui la cocciniglia mezzo grano di pepe (Saissetia oleae), la cocciniglia a virgola del cachi (Mytilococcus conchyformis) e il cotonello del cachi (Pseudococcus obscurus).
Il cachi apporta circa 272 kJ (65 kcal) per 100 g, quindi è un ottimo alimento per la dieta. È composto da circa il 18% di zuccheri, l’80% di acqua, lo 0,45% di proteine, lo 0,5% di grassi, oltre a una discreta quantità di vitamina C e vitamine del gruppo B. È ricco di beta-carotene e di potassio. Ha proprietà lassative e diuretiche. È considerato dai nutrizionisti un alimento completo e nutriente, oltre a essere un indispensabile alleato per le difese immunitarie, grazie alle preziose vitamine e minerali contenuti.
Conservazione
Lo stesso argomento in dettaglio: Cachi essiccati.
Non sono in uso degli indici di maturazione in grado di indicare il momento migliore per la raccolta. L'unica indicazione viene dalla valutazione colorimetrica del contenuto in tannini attraverso l'immersione del frutto, sezionato trasversalmente, per 30 secondi in una soluzione di cloruro ferrico; altri parametri sono la completa scomparsa della clorofilla (colore verde) nel frutto, e la consistenza della polpa. Con la tecnica del freddo può anche essere conservato per 2 mesi. È finalizzato al consumo fresco. Una tecnica per accelerare la maturazione consiste nel conservare i cachi in celle frigorifere insieme con frutti che producono etilene (pero cotogno e mele cotogne) con atmosfera ricca di ossigeno e temperatura intorno ai 30 °C. Il cachi non ancora completamente maturo si presta a essere essiccato e conservato per diversi mesi. Il frutto sbucciato deve essere tagliato in 8 spicchi, denocciolato e messo a essiccare al sole o in un essiccatore ad aria calda, sino a quando la sua consistenza diventa gommosa e in superficie si forma un leggero strato bianco zuccherino; esso mantiene così tutte le sue proprietà organolettiche.
In Oriente (Giappone, Cina, Taiwan, Vietnam, Corea), i frutti delle varietà astringenti, ancora immaturi, vengono sbucciati, ed essiccati interi, appendendoli all'aria aperta, in luogo ventilato e soleggiato, per una quarantina di giorni.[10]Nella cultura di massa
Il cachi è comunemente chiamato in lingua napoletana legnasanta. L'origine del nome sta nel fatto che è possibile, una volta aperto il frutto, scorgere al suo interno una caratteristica immagine del Cristo in croce. In Toscana viene invece utilizzata la forma "diòspero" di derivazione greca.
In Sicilia, invece, si considerava sacro il seme, in quanto esso, spaccato a metà, mostra il germoglio della nuova piantina, che assomiglia a una mano bianco-diafana, ritenuta la “manuzza di Maria” o “dâ Virgini”.
Quercus L., 1753 è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Fagacee,[1] comprendente gli alberi comunemente chiamati querce.
La parola latina quercus, da cui l'omologa italiana quercia (toscano querce), risale a una forma aggettivale (arbor) quercea[2], mentre molti dialetti italiani hanno una forma *cerqua[3][4] (presente anche in vari toponimi toscani). Il francese chêne risale invece al gallico cassǎnus[3][4], l'italiano meridionale ha il tipo carrillo[4]. Il greco presenta invece δρῦς drŷs "albero" e φήγος phḗgos "tipo di quercia", applicati anche ad altre specie botaniche[5].
Descrizione
Il genere Quercus comprende molte specie di alberi spontanei in Italia. In molti casi il portamento è imponente anche se ci sono specie arbustive. Le foglie, alterne, sono talvolta lobate, talvolta dentate e sulla stessa pianta possono avere forme differenti, per la differenza del fogliame giovanile rispetto a quello adulto.
Le querce sono piante monoiche, ovvero la stessa pianta porta sia i fiori maschili che quelli femminili. I fiori maschili sono riuniti in amenti di colore giallo, quelli femminili sono di colore verde. Il frutto è la ghianda.
Una delle caratteristiche di alcune specie di querce decidue è che le foglie secche cadono alla fine dell'inverno e non in autunno
Distribuzione e habitat
L'areale del genere Quercus comprende buona parte dell'emisfero settentrionale, estendendosi dalla zona temperata a quella tropicale di America, Europa, Nord Africa e Asia.
In Europa durante l'ultima era glaciale le popolazioni di Quercus sono state confinate in tre zone rifugio situate in Spagna, in Italia e nei Balcani per poi ricolonizzare il territorio del continente europeo. Lo scienziato francese Antoine Kremer ha studiato, tramite il confronto dei dati genetici e dei dati palinologici dei pollini fossili delle due querce più diffuse in Europa, Quercus robur e Quercus petraea, le vie di colonizzazione intraprese dai vari lignaggi. I rilievi ed in particolare le Alpi hanno a volte rallentato o deviato l'avanzata ma la traiettoria sud-nord è resa costantemente visibile.
In questo modo le querce rifugiatesi nella penisola iberica e in Italia hanno colonizzato tutta la zona situata ad ovest lungo l'asse Tolosa-Colonia-Amsterdam, ed in maniera esclusiva le isole britanniche. Le querce rifugiatesi nei Balcani sono progredite verso l'Europa orientale e la Russia. Dall'analisi palinologica è emerso un dato sorprendente che riguarda la velocità di questa progressione: in media le querce sono avanzate di 380 m all'anno, con delle punte massime di 500 m all'anno in certi periodi.[6]
Tassonomia
Lo stesso argomento in dettaglio: Specie di Quercus.
L'inquadramento tassonomico delle specie del genere Quercus è assai difficoltoso, in quanto sono frequenti i fenomeni di ibridazione tra specie che condividono lo stesso territorio, dando luogo ad individui dalle caratteristiche intermedie (ma talvolta anche molto diverse), che alcuni studiosi tendono a considerare nuove specie, mentre altri li ascrivono come sottospecie o varietà di specie già esistenti.
Sottogenere Quercus, sezione Quercus
Stili corti; ghiande mature in 6 mesi, dolci o leggermente amare; interno della cupola della ghianda glabro.
Quercus ilex (leccio o elce), albero sempreverde maestoso, tipico delle zone submediterranee o mediterranee meno torride. Può raggiungere in condizioni ottimali i 20–30 m di altezza e si può trovare dalle macchie costiere fino in montagna (sull'Etna fino a 1800 m).
Quercus petraea (rovere), grande specie decidua, dal portamento regolare e chioma assai folta. Comune in tutte le regioni d'Italia (eccetto in Sardegna).
Quercus pubescens (roverella), molto diffusa in Italia. Specie molto rustica, nelle zone settentrionali preferisce comunque zone protette dal freddo. Quercia decidua (ma spesso mantiene le foglie marroni anche d'inverno) di medie dimensioni a crescita molto lenta, vive in genere 200-300 anni ed è tipica dell'Europa centroccidentale. Alcuni esemplari possono raggiungere età molto più avanzate: la roverella che vegeta a Tricarico, in località Grottone, ha un'età stimata di 614 anni, un tronco di 6,43 metri di circonferenza ed un'altezza di circa 20 metri; è inserita nell'elenco dei monumenti naturali (alberi padri) della regione Basilicata[7].
Quercus robur (farnia), grande quercia decidua, più frequente nelle zone settentrionali e più rara nel Sud, si differenzia dalla rovere soprattutto per i lunghi peduncoli delle ghiande, le foglie sessili e il portamento più irregolare. Alcuni autori consideravano Q. petraea, Q robur e Q. pubescens come tre sottospecie o varietà di un'unica specie.
Sottogenere Quercus, sezione Mesobalanus
Simile al precedente: stili lunghi, ghiande mature in 6 mesi, dolci o leggermente amare; interno della cupola della ghianda glabro.
Quercus frainetto (it.: farnetto), specie decidua a rapido accrescimento, comune al Centro-Sud, ha foglie più grandi delle altre querce italiane, lobi più profondi e margini paralleli.
Quercus pyrenaica (it: quercia dei Pirenei), specie decidua con foglie dal colore verde intenso e lobi profondi e stretti; si trova nelle zone più miti del Piemonte.
Sottogenere Quercus, sezione Cerris
Stili lunghi, ghiande mature in 18 mesi, molto amare; interno della cupola della ghianda glabro o leggermente peloso.
Quercus cerris (cerro), specie decidua a rapida crescita, originaria delle regioni sudorientali dell'Europa ma molto presente anche in Italia, grazie soprattutto alle estese foreste presenti in appennino; è una pianta maestosa dalla chioma ovoidale, molto decorativa; il legname non è particolarmente pregiato rispetto alle altre querce nostrane, per via della mancata presenza di tannini che ne determinano una scarsa resistenza alle avversità.
Quercus coccifera (quercia spinosa), diffusa solo in Liguria occidentale, in Sicilia e Sardegna, sempreverde, a portamento arbustivo (non supera i 2 m d'altezza).
Quercus gussonei (cerro di Gussone), endemico della Sicilia, diffuso sul versante tirrenico dei Nebrodi e nel bosco della Ficuzza.
Quercus suber (sughera), specie sempreverde dall'aspetto simile al leccio, è invece botanicamente più vicina al cerro. Poco tollerante verso il freddo preferisce le coste tirreniche e soprattutto la Sardegna; la corteccia è caratteristica e ricopre sia il tronco sia le maggiori ramificazioni; scortecciando periodicamente il tronco, si ricava il sughero che si riforma dopo qualche tempo.
Quercus trojana (fragno), specie semi-sempreverde e arbustiva diffusa solo nella Murgia barese, nel Salento e in Basilicata.
I legnami più pregiati di quercia sono generalmente chiamati rovere senza distinguere tra le specie botaniche. In enologia si preferiscono le seguenti varietà:
rovere di Francia (Q. petraea) con produzioni ad Allier, Argonne, Borgogna, Nevers, Alvernia (Tronçais) e sui Vosgi, con caratteristiche differenti da zona a zona ma comunque ben bilanciato in tannini e aromi;
rovere del Caucaso (Q. petraea), del tutto simile a quello di produzione francese ma dal prezzo leggermente più basso;
rovere di Slavonia (Q. robur), grana del legno media, medio livello di tannini e pochi aromi;
rovere del Limosino (Q. robur), grana del legno grossa, molti tannini e pochi aromi; usato per lo Chardonnay e il brandy;
rovere del Portogallo (Q. garryana, d'origine americana); media grana del legno, buon aroma e prezzo molto economico.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
La quercia possiede proprietà astringenti, emostatiche, antinfiammatorie, analgesiche del cavo orale. Utilizzato come decotto o infuso per lavarsi, diminuisce la sudorazione.[8]
Sono piante visitate dalle api per la produzione di miele di melata.[9]
È celebre la quercia sotto cui Torquato Tasso si riposava e leggeva durante il suo soggiorno a Roma. A questo proposito l'umorista Achille Campanile scrisse un gustoso raccontino La quercia del Tasso, nella raccolta Manuale di conversazione.[10]
Giovanni Pascoli scrisse il poemetto La quercia caduta, dove la morte della quercia è pretesto per un'allegoria dell'egoismo umano.
Lucerna romana con l'immagine di una ghianda, I secolo d.C., Pavia, Musei Civici
Il ramo di quercia era per i romani simbolo di virtù, forza, coraggio, dignità e perseveranza. Esso è sempre stato il simbolo della forza, della virilità e del valore in campo militare, come il ramo d'ulivo è simbolo della pace (entrambi compaiono nell'emblema della Repubblica Italiana).
La quercia è stato il simbolo del Partito Democratico della Sinistra e poi dei Democratici di Sinistra.
La quercia è anche il simbolo del re degli dei Zeus.
Un ramoscello di quercia è effigiato sulla moneta da un centesimo di euro della Germania.
Il leccio (Quercus ilex L., 1753), detto anche elce, è un albero appartenente alla famiglia Fagaceae, diffuso nei paesi del bacino del Mediterraneo.[2] In Italia è spontaneo nelle zone a clima più mite, dove è anche molto frequente nei giardini e nei viali cittadini.
Fusto
Il leccio è un albero sempreverde e latifoglie, con fusto raramente dritto, singolo o diviso alla base, di altezza fino a 20–24 m. Può assumere aspetto di cespuglio qualora cresca in ambienti rupestri. È molto longevo, potendo diventare plurisecolare, ma ha una crescita molto lenta.
La corteccia è liscia e grigia da giovane; col tempo diventa dura e scura quasi nerastra, finemente screpolata in piccole placche persistenti di forma quasi quadrata. I giovani rami dell'anno sono pubescenti e grigi, ma dopo poco tempo diventano glabri e grigio- verdastri. Le gemme sono piccole, tomentose, arrotondate con poche perule.
Le foglie sono semplici, a lamina coriacea a margine intero o dentato, molto variabile nella forma che va da lanceolata ad ellittica (rotondeggiante nella sottospecie rotundifolia); la base è cuneata o arrotondata. La pagina superiore è verde scuro e lucida, la inferiore grigiastra e marcatamente tomentosa. Sono lunghe 3–8 cm, e larghe 1-3,5 cm. La nervatura centrale è dritta e sono presenti 7 - 11 paia di nervature laterali.
La pubescenza sulla pagina inferiore è simile a quella della Quercus suber con tricomi che nascondono gli stomi. Questi ultimi sono rotondeggianti. Le foglie restano sulla pianta 2-3 anni. Il picciolo è breve, peloso, provvisto di stipole marroncine, lineari e presto caduche.
Sono presenti due tipi di foglie (eterofillia): quelle apicali e quelle degli esemplari giovani sono ovaleggianti, con denti mucronati o spinescenti, con pubescenza della pagina inferiore ridotta, e qualche tricoma anche sulla pagina superiore. Le foglie delle plantule sono pelosissime, quasi bianche alla germogliazione, poi diventano glabrescenti, ma il giovane fusticino continua ad essere fittamente pubescente.
La pianta inizia a produrre i fiori intorno ai 10 anni d'età, unisessuali, perciò la pianta è detta monoica. I fiori maschili sono riuniti in amenti penduli, cilindrici e pubescenti, hanno perianzio con 6 lobi e 6-8 stami. I fiori femminili sono in spighe peduncolate composte da 6-7 fiori, ogni fiore ha perianzio esalobato e 3-4 stigmi. Gli amenti maschili sono lunghi 5–7 cm e sono portati alla base dei rami dell'anno. La fioritura avviene nella tarda primavera, da aprile a giugno, periodo di intensa attività proliferativa degli insetti impollinatori, che amano particolarmente il nettare del leccio.
I frutti sono delle ghiande, dette lecce, portate singole o in gruppi di 2-5, su un peduncolo lungo circa 10–15 mm (eccezionalmente anche 40 mm). Le dimensioni variano da 1,5 a 3 cm di lunghezza, per 1-1,5 cm di diametro. Sono di colore castano scuro a maturazione, con striature più evidenti.
All'apice di ogni ghianda è presente un robusto mucrone. Le ghiande sono coperte per un terzo o metà della loro lunghezza da una cupola provvista di squame ben distinte, con punte libere ma non divergenti. Maturano nello stesso anno della fioritura, in autunno.
L'apparato radicale è robusto, fittonante, si sviluppa già dai primi anni di vita e può penetrare per diversi metri nel terreno. Questo comporta una notevole resistenza alla siccità (la pianta va a trovare l'acqua in profondità), ma anche problemi di trapianto, che questa specie sopporta male. Le radici laterali possono essere anch'esse molto robuste e spesso emettono polloni.
Il legno è a porosità diffusa, il durame è di colore rossiccio e l'alburno è di colore chiaro. Si tratta di un legno duro, compatto e pesante, soggetto ad imbarcarsi, difficile da lavorare e da stagionare. È utilizzato soprattutto come combustibile e per la produzione di carbone vegetale. Il legno del leccio è tra i più tannici che si conoscano. I tannini sono sostanze chimiche amare disinfettanti, di colore scuro. Quando nel legno fresco appena tagliato di leccio si conficca un chiodo in ferro, dopo qualche ora è possibile notare una piccola chiazza blu che circonda il chiodo. Quest'anello è un viraggio del legno dovuto alla reazione dei tannini con il ferro ed è un fenomeno tipico di questa ed altre piante tanniche.
Esistono due sottospecie:
Quercus ilex subsp. ilex. Nativa nell'area che va dall'est della penisola iberica alla Costa Azzurra fino alla Grecia. Foglie assai vicine; ghiande lunghe 2 cm, dal sapore dolciastro.
Quercus ilex subsp. rotundifolia (syn. Q. rotundifolia, Q. ballota). Nativa nell'area che va dal sud della penisola iberica al nordovest dell'Africa. Foglie rade; ghiande lunghe 2.5 cm, dal sapore amarognolo.
Il leccio cresce lungo tutto il bacino del Mediterraneo, mancando solo in Egitto (in Libia è stato probabilmente introdotto dall'uomo). La specie è comunque maggiormente diffusa nel settore occidentale, soprattutto in Algeria e Marocco, in tutta la Penisola Iberica (dove costituisce uno dei componenti principali della dehesa), nella Francia mediterranea e in Italia, dove forma boschi puri anche di notevoli dimensioni.
Nel settore orientale, a partire dai Balcani, invece, si trova in boschi misti ad altre essenze forestali, spesso ben distanti tra loro, e solo in stazioni con un'adeguata umidità. Si trova, sempre consociato, anche lungo le coste turche del Mar Nero. In Italia è diffuso soprattutto nelle isole e lungo le coste liguri, tirreniche e ioniche. Sul versante adriatico le popolazioni sono più sporadiche e disgiunte (tranne che in Puglia, Abruzzo e Marche). Piccole popolazioni sono presenti anche sulle Prealpi lungo le coste dei laghi, sui Colli Euganei, in Friuli Venezia Giulia, in Romagna fino al Bolognese-Imolese e nel Bosco della Mesola nel ferrarese.
Il leccio è uno dei rappresentanti più tipici e importanti dei querceti sempreverdi mediterranei, ed è il rappresentante caratteristico del Quercetum ilicis, la vegetazione cioè della fascia mediterranea temperata. Per quanto riguarda il terreno questa specie non ha particolari esigenze. Preferisce però terreni non troppo umidi, con un buon drenaggio. Ha una crescita maggiore in terreni vulcanici e nelle zone costiere, mentre in terreni rocciosi calcarei ha una crescita minore. In zone più umide dell'entroterra ha una crescita stentata ed è sopraffatto spesso da specie più adatte.
L'impiego quasi esclusivo dei boschi di leccio è il governo a ceduo per legna da ardere. Non presenta problemi di rinnovazione per seme, anche vista la tolleranza all'ombra degli esemplari giovani. Il miele ottenuto dalla melata presenta proprietà astringenti ed è ricco di ferro, e le api bottinano anche sui fiori per il polline.[3]
Fra gli alberi monumentali d'Italia si annoverano anche molti lecci, tutti fra i 15 e i 20 metri di altezza e con tronchi di circonferenza fra i 4 e i 5 metri[4]. Tra i maggiori e più antichi si annovera il cosiddetto Ilici di Carrinu (leccio di Carlino) nel territorio di Zafferana Etnea alto 25 metri, con una fronda che raggiunge i 30 metri di diametro, la cui età è stimata intorno ai 700 anni.[5]
La città di Lecce, secondo un'etimologia popolare prenderebbe il suo nome proprio dal leccio: nel suo stemma compare un albero assieme ad una lupa (che ricorda il nome latino della città: Lupiae). In realtà Lecce è l'esito locale di Lupiae, attraverso passaggi fonetici quali Luppia (nella Tavola Peutingeriana), Lypiae, Lyciae, Liccia, Liccem (in latino medievale), *Licce.[6]
Al contrario, è proprio l'elce che dà il nome ai paesi di Elcito[7] ed Elice in Abruzzo. Il Monte Ilice, un antico cratere laterale dell'Etna in provincia di Catania, ossequiato da Storia di una capinera, deve il nome ad un fitto bosco di lecci ("ilici" in siciliano) presente ancora all'interno della conca del cratere. Il paese di Leccio, frazione di Reggello in provincia di Firenze, prende il nome dal cospicuo bosco di Quercus ilex che vi si trova.
A Santu Lussurgiu in Sardegna, più particolarmente nella zona del Montiferru, si trova la sorgente di Eliches Buttiosos (pronuncia "èlighes uttiósos" = lecci gocciolanti). A circa 1000 metri di altitudine sgorga una sorgente perenne dalle radici di due antichi lecci.
Il leccio fu nelle civiltà greche e italiche antiche un albero dotato di rilevante valore sacro. Valore che fu positivo nel periodo arcaico di entrambe le civiltà, per poi assumerne lentamente uno sempre più negativo nello scorrere della storia di Roma fino a contornarsi di un'aura quasi funesta (così come in Grecia fu successivamente consacrato alla dea Ecate). Il suo significato simbolico è stato rivalutato solo nel medioevo.
Il greco Pausania descrive un bosco sacro a Era dove lecci e olivi crescevano dalle stesse radici. Ovidio narra invece che nell'Età dell'oro le anime immortali sotto forma di api si posavano sugli amenti del leccio da cui scendeva il miele. Secondo un mito dell'antica Roma nel lecceto alla base dell'Aventino viveva Egeria, la ninfa ispiratrice di re Numa Pompilio.
Plinio il Vecchio riporta che con i rami di leccio si facessero le prime corone civiche, sostituito poi da altre querce, come il rovere. Sempre secondo Plinio sul Vaticano si levava il leccio più antico della città, già oggetto di venerazione religiosa da tempi più antichi tanto che su quest'albero era un'iscrizione su bronzo in caratteri etruschi. Scrive inoltre Plinio che: "Anche i Tiburtini hanno un'origine molto anteriore a quella di Roma: nel loro territorio esistono tre lecci ancora più antichi di Tiburno, fondatore della città, che secondo la tradizione fu consacrato vicino ad essi."[9]
Sembra infatti che il leccio fosse albero oracolare per i fulgorales a causa della sua predisposizione ad essere colpito dai fulmini, con il tempo però assume una accezione non positiva come albero accomunato a oracoli negativi. Seneca lo considerava un albero triste, tutto scuro com'è. Anche nel cristianesimo esistono dei simbolismi per questa pianta. Nelle isole ioniche una leggenda (raccolta dal poeta Aristotelis Valaoritis nel XIX Secolo) vuole che il leccio fu l'unico albero che acconsentì a prestare il proprio legno per la costruzione della croce; per questo i boscaioli delle isole di Acarnania e di Santa Maura temevano di contaminare l'ascia toccando "l'albero maledetto". Tuttavia nei Detti del beato Egidio – il terzo compagno di San Francesco – il buon nome del leccio viene difeso quando si riferisce che il Cristo lo predilige perché fu l'unico albero a capire che il suo sacrificio era necessario, così come quello del Salvatore stesso, per contribuire alla Redenzione. E proprio sotto il leccio il Signore appariva spesso a Egidio.
Sulla sommità della Torre Guinigi a Lucca, sono presenti sette piante di leccio. Sebbene non si sappia con precisione quando siano stati piantati questi alberi, esistono testimonianze molto antiche che descrivono questo giardino pensile.
Il Bosco di Lecci, foresta fittizia presente in Pokémon Oro e Argento e negli omonimi Pokémon Oro HeartGold e Argento SoulSilver, prende il nome dal suddetto albero. Nelle versioni inglesi, questo riferimento viene reso più evidente (Ilex Forest).
Nel romanzo Il barone rampante di Italo Calvino, il protagonista Cosimo Piovasco di Rondò decide di salire su un elce, o appunto un leccio, e di non scenderne più, passando sugli alberi tutta la sua vita.
Acer rubrum (acero rosso, noto anche come acero scarlatto) è una delle specie di alberi decidui più comune e diffusa nella parte orientale e centrale dell'America del Nord. Il servizio forestale degli Stati Uniti lo riconosce come l'albero nativo più abbondante nell’area orientale dell’America del Nord.[1] L'areale dell’acero rosso si estende dal Manitoba sudorientale, nei dintorni del Lago dei Boschi, al confine con Ontario e Minnesota, ad est di Terranova, a sud della Florida e da sud-ovest ad est del Texas.[2] Molte sue caratteristiche, in particolare le foglie, sono piuttosto variabili per quanto riguarda la forma. Alla maturità raggiunge un'altezza di circa 15 m. I suoi fiori, piccioli, ramoscelli e semi posseggono un caratteristico colore rosso in misura varia. È tuttavia più conosciuto per il suo fogliame di colore rosso scarlatto che si presenta durante il periodo autunnale. L'acero rosso è adattabile ad un'ampia gamma di condizioni climatiche, forse più di qualsiasi altro albero presente nel Nord America orientale. Si può trovare su terreni paludosi, su terreni poveri e secchi e quasi in qualunque altro suolo che spazi tra di essi. Cresce bene a partire dal livello del mare fino a circa 900 m slm. A causa del suo caratteristico fogliame autunnale e della sua piacevole forma, è spesso utilizzato come albero paesaggistico. Viene usato commercialmente su piccola scala per la produzione di sciroppo d'acero e per il legname di media e di alta qualità. È anche l'albero simbolo dello Stato del Rhode Island. L'acero rosso può essere considerato come una specie infestante che si sta rapidamente espandendo negli Stati Uniti orientali, sostituendo alberi autoctoni come la quercia, il noce americano ed il pino.[3]
Benché A. rubrum sia relativamente facile da riconoscere, esso è molto variabile per quanto concerne le caratteristiche morfologiche. È un albero di dimensioni medio-grandi, che raggiunge altezze che vanno dai 18 ai 27 m, eccezionalmente oltre i 35 m. Le foglie di un albero adulto hanno una lunghezza che va dai 9 agli 11 cm. Il diametro del tronco può variare dai 46 ai 76 cm, a seconda delle condizioni di crescita. La larghezza della chioma è di circa 12 m. Un alberello di 10 anni sarà alto circa 6 m. In ambiente forestale, il fusto tenderà a rimanere privo di rami nella parte bassa, mentre gli individui coltivati singolarmente, presentano una chioma più bassa e densa, con forma più arrotondata. In generale, però, la chioma ha forma irregolare e ovoidale con rami che tendono ad assumere crescita ascendente. Quando la pianta è giovane, la corteccia è di colore grigio pallido e liscia. Crescendo, la corteccia diventa più scura e si solleva formando delle crepe sul tronco. Il più antico albero di acero rosso conosciuto, e attualmente vivente, si trova vicino ad Armada, in Michigan, e ha un'altezza di 38,1 m e una circonferenza del tronco, all'altezza del petto, di 4,95 m.[4]
La foglia dell'acero rosso è il tratto più caratteristico che permette di distinguere questa specie dai suoi simili. Come quasi tutti gli aceri nord-americani, le foglie di quest’albero sono decidue e disposte in modo opposto. Hanno una lunghezza e larghezza media di 5–10 cm con 3-5 lobi palmati e con margine dentellato. La dentellatura è tipicamente serrata, ma le foglie possono presentare notevoli variazioni. Quando sono presenti 5 lobi, i tre terminali sono più grandi degli altri due vicini alla base. Al contrario, le foglie della specie più vicina, A. saccharinum (acero saccarino), presentano 5 lobi molto più marcati, con dentellatura più netta. Il lato superiore della foglia di A. rubrum è verde chiaro, mentre la parte inferiore è biancastra e può essere sia glauca che tomentosa. Il picciolo della foglia è solitamente rosso e con lunghezza fino ai 10 cm. Inoltre, le foglie possono trasformarsi di un rosso brillante in autunno, anche se, in alcuni individui possono assumere colorazione gialla o arancione.
I giovani rami dell’acero rosso sono rossastri e lucenti e presentano piccole lenticelle. Alcuni getti risultano nanificati e appaiono frequentemente su alcuni rami. Le gemme sono solitamente arrotondate con un colore che va dal verde al rossastro, generalmente con molte perule blandamente serrate. Le gemme laterali sono leggermente allungate e presentano eventuali gemme collaterali. Le gemme si formano in autunno o in inverno e sono spesso visibili a distanza grazie alla loro caratteristica tonalità rossa. Le cicatrici fogliari presenti sul ramo hanno una forma a V e sono caratterizzate da 3 segni che si generano dalla chiusura dei vasi linfatici.
I fiori sono generalmente unisessuati, con fiori maschili e femminili che si formano in gruppi separati, anche se talvolta possono presentare entrambi i sessi. Fanno la loro comparsa in primavera, da aprile a maggio (ma anche dalla fine di gennaio nelle aree meridionali di origine), generalmente prima della comparsa delle foglie. Questa pianta è considerata poligamo-dioica, ovvero alcuni individui sono maschi, altri femmina e altri presentano fiori ermafroditi e femminili o fiori ermafroditi e maschili. In condizioni particolari, questa pianta può variare il proprio sesso da maschio a femmina, da maschio a ermafrodita e da ermafrodita a femmina. L’acero rosso comincia a fiorire a partire da un’età di circa 8 anni, anche se questo aspetto è altamente variabile da pianta a pianta, infatti alcune piante sono in grado di fiorire già a partire dai 4 anni di età. I fiori sono rossi con 5 petali di piccole dimensioni e 5 sepali lobati, portati in grappoli peduncolati, solitamente all’estremità dei rami. Essi hanno forma regolare o oblunga e presentano pubescenza. I fiori con pistillo presentano un unico pistillo formato dalla fusione di due carpelli, con ovario superiore glabro e due lunghi stili che protrudono oltre il perianzio. I fiori che posseggono stami, ne portano da 4 a 12, con una media di 8. Il frutto è una samara di lunghezza variabile tra i 15 e i 25 mm che cresce a coppie con ali divergenti e aventi un angolo che va dai 50 ai 60 gradi. Essi sono supportati da un picciolo lungo e slanciato, con colore variabile dal marrone chiaro al rossastro. Maturano nel periodo che va da aprile ai primi di giugno, prima che lo sviluppo fogliare sia completato del tutto. Dopo aver raggiunto la maturità, i semi sono dispersi per 1 o 2 settimane nel periodo aprile-giugno.[4]
L’acero rosso è una delle specie di albero più abbondanti e diffuse nella parte orientale del Nord America. Si può ritrovare a partire dal sud della provincia di Terranova, in Nuova Scozia, nel sud del Québec fino a sud-ovest dell’Ontario, nel Manitoba sud-orientale e nel nord del Minnesota. Inoltre si ritrova a sud del Wisconsin, Illinois, Missouri, nell’Oklahoma orientale, nella parte occidentale del Texas orientale e in Florida. In Nord America copre un’ampia area sulla costa dell’Oceano Atlantico, con una estensione di 2 600 km da nord a sud. Questa specie è originaria di tutte le regioni degli Stati Uniti che si pongono ad est rispetto al 95simo meridiano. La sua diffusione si interrompe nelle aree in cui la temperatura media minima raggiunge i −40 °C, ovvero nella parte sud-orientale del Canada. L’acero rosso non è presente in alcune regioni del nord degli Stati Uniti medio-occidentali caratterizzate da praterie, nella parte sud della Louisiana, nella parte sud-orientale del Texas e nelle aree paludose delle Everglades, in Florida. L’assenza di questa specie nella regione cosiddetta della Prairie Peninsula è probabilmente dovuta all’intolleranza verso i danni causati da incendi. In molte altre aree, questo albero è presente solo in piccoli gruppi. Un esempio è la regione del Bluegrass in Kentucky, dove l’acero rosso non è presente nelle vaste pianure ma lo si ritrova lungo i corsi d’acqua. L’acero rosso cresce molto bene in suoli di vario tipo, con vari gradi di tessitura, umidità, pH e altitudine, probabilmente molto meglio di altre specie forestali del Nord America. A. rubrum ha un’elevata tolleranza a valori di pH alti; ciò lo rende molto diffuso nella parte est degli Stati Uniti. È capace di crescere sia su suoli di origine glaciale che non, derivanti dalle seguenti rocce: granito, gneiss, scisto, arenaria, shale, ardesia, conglomerato, quarzite e calcare. Fenomeni di clorosi si possono verificare qualora il terreno presenti forte alcalinità, tuttavia la sua tolleranza al pH è molto alta. Un suolo minerale umido è l’ideale per la germinazione dei semi. L’acero rosso può crescere sia in climi umidi che aridi, dalle dorsali montuose aride e assolate fino a torbiere e zone di paludose. Nonostante molti alberi preferiscano una posizione settentrionale o meridionale, l’acero rosso sembra non avere preferenze in tal senso. Le condizioni ideali di crescita per questo albero sono siti moderatamente drenanti e umidi, con elevazione bassa o intermedia. È tuttavia comune nelle aree montuose su dorsali relativamente aride. Lo si può poi ritrovare in aree paludose, lungo gli argini di corsi d’acqua a lento scorrimento e in aree depresse o pianeggianti scarsamente drenanti. Nel nord del Michigan e nel New England, l’acero rosso si può ritrovare sulle cime dei crinali, sia su terreni rocciosi che sabbiosi, in suoli aridi o su terreni umidi posti in prossimità di zone paludose. Nelle zone meridionali in cui questo albero si estende, lo si ritrova quasi esclusivamente associato ad aree paludose. Inoltre, l’acero rosso è una delle specie di acero più tolleranti alla siccità presenti in Carolina. L’acero rosso è molto più abbondante oggi rispetto a quando gli europei approdarono in Nord America, dove, assieme alla specie vicina, A. saccharinum, comprendeva appena il 5% dell’area forestale, confinato principalmente alle zone ripariali. Da allora, la densità di questa specie in molte di queste aree è aumentata da 6 a 7 volte, con una tendenza in aumento che sembra essere favorita dalla presenza dell’uomo, specialmente a causa della riduzione degli incendi boschivi che tendono a uccidere alberi con un apparato radicale superficiale come l’acero rosso, lasciando invece in vita alberi con un apparato radicale più profondo, come la quercia e il noce americano. Inoltre, azioni volte alla conservazione dell’acero rosso hanno portato ad un aumento nella popolazione dei cervi della Virginia dalla metà del 20simo secolo. I cervi consumano ghiande in grande quantità, evitando però i semi di acero e riducendo in tal modo la presenza delle querce a favore degli aceri. Grazie alla possibilità di crescere su diversi substrati, all’elevata resistenza a valori di pH alti, alla possibilità di crescere sia in zone ombrose che assolate, A. rubrum è un ottimo candidato a sostituire specie che storicamente dominano la parte orientale degli Stati Uniti (quercia, noce americano, pino).[5] L’utilizzo dell’acero rosso in paesaggistica ha inoltre contribuito alla sua proliferazione negli Stati Uniti. Infine, alcuni patogeni hanno drasticamente diminuito la popolazione di olmi e noci nelle foreste statunitensi, che continuano a dominare le aree più piovose e ricche di nutrienti, al contrario delle aree più marginali, dominate dalla presenza dell’acero rosso.[4]
A. rubrum solitamente vive per un periodo non superiore ai 150 anni e raggiunge la maturità dopo 70 – 80 anni. La sua capacità di proliferare in un gran numero di habitat è in larga parte dovuta alla sua abilità di produrre radici che si adattano al sito di crescita fin dalla giovane età. In aree umide, le plantule di acero rosso producono un corto fittone sviluppando prevalentemente lunghe radici laterali. In aree caratterizzate da aridità, il fittone risulta invece più lungo con radici laterali significativamente più corte. Le radici sono principalmente orizzontali, tuttavia si formano nei primi 25 cm di suolo. Gli alberi adulti presentano radici legnose che possono avere una lunghezza fino a 25 m; esse sono molto tolleranti all’allagamento, infatti è stato dimostrato che anche dopo 60 giorni di allagamento le foglie non subiscono alcun danno. Allo stesso tempo, le radici di questa pianta sono tolleranti alla siccità grazie alla loro abilità di bloccare la crescita in condizioni siccitose, riprendendo a crescere successivamente, quando le condizioni lo permettono, anche se la loro crescita si è arrestata per un periodo di 2 settimane.
Frutti di acero rosso di un esemplare proveniente da Milford, nel New Hampshire.
L’acero nero è una delle prime piante a fiorire in primavera. I semi sono prodotti annualmente, con quantità più abbondanti ogni due anni circa. Un singolo albero di 5 – 20 cm di diametro può produrre tra i 12 000 e i 91 000 semi a stagione. Un albero di 30 cm di diametro può produrre anche un milione di semi in un solo anno. Le dimensioni del seme dell’acero rosso sono molto più piccole se comparate a quelle degli altri aceri. È stato inoltre dimostrato che la fertilizzazione aumenta significativamente il numero dei semi prodotti, fino ai due anni successivi al trattamento. I semi sono epigei e germinano all’inizio dell’estate, poco dopo il loro rilascio e in condizioni di luminosità, umidità e temperatura sufficientemente elevate. Se i semi sono molto ombreggiati, generalmente la germinazione non avviene fino all’anno successivo. Molte plantule non sopravvivono in ambienti in cui la vegetazione è molto fitta, tuttavia, plantule di 1 – 4 anni di età crescono spesso nel sottobosco, pur andando comunque incontro alla morte se nel periodo immediatamente successivo non ricevono abbastanza luce. Queste piante fungono così da sorgente di nuova biodiversità, in attesa di riempire un’area di foresta libera. Piante che crescono in aree come la Florida, tenderanno a morire per danni da freddo se trasferire in aree settentrionali come Canada, Maine, Vermont, New Hampshire e New York, anche se gli alberi provenienti dal sud sono piantati assieme a quelli provenienti dal nord. Grazie alla loro ampia distribuzione, infatti, gli alberi si sono geneticamente adattati a sopravvivere alle varie condizioni climatiche.
L’acero rosso è capace di incrementare la sua popolazione significativamente dopo che altre specie di alberi sono stati danneggiati da malattie, tagliati o incendiati. Uno studio ha rivelato che, a 6 anni dall’abbattimento di 3,4 ettari di una foresta di querce e noci americani in cui non era presente alcun acero rosso, sul territorio erano presenti più di 2200 plantule di acero rosso per ettaro, più alte di 1,4 metri. La ragione è probabilmente da ricercare nel fatto che molte piante, come per esempio il ciliegio tardivo (Prunus serotina), producono sostanze allelopatiche che inibiscono la crescita dell’acero rosso. Quest’ultimo è poi una specie che è capace di crescere più velocemente delle altre in altezza. In condizioni di luce e umidità favorevoli, le giovani piante possono crescere di 30 cm durante il loro primo anno di vita e fino a 60 cm per ogni anno successivo, rendendo questa pianta una delle più competitive in termini di velocità di crescita. L’acero rosso è usato come fonte di cibo da parte di molti animali selvatici. Il wapiti e il cervo della Virginia si nutrono della vegetazione dell’anno, rendendo l’albero un’importante fonte di cibo per l’inverno. Inoltre, molti lepidotteri (farfalle e falene) utilizzano le sue foglie come nutrimento.
Dal momento che A. rubrum risulta ampiamente distribuito su varie latitudini, la resistenza al freddo, la grandezza, la forma, la caduta delle foglie, la dormienza e altri tratti sono ampiamente variabili. Generalmente gli individui che si trovano a latitudini più settentrionali sono anche i primi a perdere le foglie, avendo anche colori rossi più accesi. Inoltre formano le gemme dell’anno seguente più precocemente degli alberi che crescono nelle zone meridionali di origine e subiscono meno danni da freddo. Le plantule che crescono al centro-nord e nelle zone centro-orientale sono più alte. Per quanto riguarda i frutti, invece, le piante che crescono al nord e sono soggette a brevi periodi di gelate producono frutti più corti e pesanti rispetto a quelli prodotti dalle piante presenti a sud. Data la grande variabilità, le potenzialità per la selezione genetica di nuovi individui è molto alta, con l’obiettivo di produrre individui adatti alla coltivazione. Ciò è specialmente importante per produrre cultivar urbane che richiedono resistenza alla verticillosi, all’inquinamento atmosferico e alla siccità. L’acero rosso forma spesso incroci con A. saccharinum; l’ibrido, noto come Acer x freemanii, ha caratteristiche intermedie tra i due genitori.[4]
Le foglie dell’acero rosso, specialmente quando sono morte o appassite, sono estremamente tossiche per i cavalli. La tossina è sconosciuta ma si crede possa essere un agente ossidante, dal momento che danneggia gli eritrociti, causando un’emolisi ossidativa acuta che inibisce il trasporto di ossigeno. Ciò non soltanto porta ad una diminuzione della quantità di ossigeno trasportata ai tessuti, ma porta anche alla produzione di metaemoglobina, che può ulteriormente danneggiare il fegato. L’ingestione di 700 g di foglie è considerata tossica e 1,4 kg sono letali. I sintomi si presentano dopo 1 o 2 giorni dall’ingestione e includono depressione, letargia, incremento nella frequenza e nella profondità dei respiri, incremento del battito cardiaco, ittero, urine marrone scuro, coliche, laminite, coma e morte. Il trattamento è limitato e include l’uso del blu di metilene o di olio minerale e carbone attivo per ridurre l’ulteriore assorbimento della tossina da parte dello stomaco; inoltre è possibile eseguire trasfusioni di sangue, apporto di fluidi, diuretici e antiossidanti come l’acido ascorbico. Dal 50 al 70% dei cavalli affetti da tale patologia muore o gli viene applicata l’eutanasia.[6]
La rapidità di accrescimento dell’acero rosso, la sua facilità di attecchimento e il suo valore per la fauna selvatica, ne ha fatto, negli USA orientali, uno degli alberi che più è stato propagato negli ultimi anni. In alcune parti del nord-ovest del Pacifico, è uno degli alberi maggiormente introdotti. In particolare, la popolarità dell’acero rosso è dovuta alla sua vigoria, ai suoi fiori rossi e, soprattutto, alla colorazione rosso fiammante che assume il fogliame in autunno. L’albero è stato introdotto nel Regno Unito nel 1656 per poi entrare, qualche anno dopo, in coltivazione. In questo Paese è spesso presente in molti parchi e giardini, così come nei cimiteri nei pressi di alcune chiese.[8] L’acero rosso è un albero adatto alla crescita urbana, dove trova abbondante spazio per la crescita dell’apparato radicale. La formazione di un’associazione con funghi micorrizici arbuscolari, aiuta l’A. rubrum a crescere nelle strade di città[9]. È poi un albero più tollerante all’inquinamento e alla salinità rispetto ad A. saccharinum, anche se, nel periodo autunnale, in ambiente cittadino, le foglie non si colorano in modo appariscente come in natura. Come molti altri aceri, il suo apparato radicale può risultare invasivo, così che il suo impianto nei pressi di pavimentazioni dovrebbe essere evitato. Questo albero attira gli scoiattoli, che si nutrono delle giovani gemme primaverili, anche se tendono a preferire le gemme più grandi di A. saccharinum[10]. Infine, l’acero rosso, grazie ai suoi vivaci colori e alle sue pregiate caratteristiche estetiche, si presta bene alla coltivazione come bonsai.[11]
Numerose cultivar sono state selezionate, spesso con lo scopo di intensificare i colori autunnali, con la cultivar 'October Glory' e 'Red Sunset' tra le più diffuse e conosciute. Anche molte cultivar di Acer x freemanii sono ampiamente coltivate.
Nell’industria del legname, A. rubrum è considerato un “acero morbido”, caratteristica che condivide con A. saccharinum. Nonostante ciò è un legno piuttosto duro ma morbido se comparato con A. saccharum (acero zuccherino). Rispetto a quest’ultimo, il legno di acero rosso è più morbido, meno denso ma esteticamente meno pregiato di quello dell’acero zuccherino; tuttavia, il legno dell’acero rosso è meno costoso. L’acero rosso è anche usato nella produzione dello sciroppo d’acero, anche se A. saccharum e A. nigrum (acero nero) sono più comunemente impiegati. Uno studio ha comparato il succo estratto dall’acero rosso con quello di altri aceri (acero zuccherino, acero americano e acero riccio), rivelando che la dolcezza, gli aromi e la qualità risulta essere identica per tutte le specie. Tuttavia le gemme dell’acero rosso germogliano prima in primavera rispetto a quelle dell’acero zuccherino; ciò impartisce un aroma indesiderato allo sciroppo estratto, così che, se si vuole estrarre lo sciroppo dall’acero rosso, lo si deve fare prima che le gemme germoglino, riducendo considerevolmente la stagione di raccolta.[4] L’acero rosso è caratterizzato da un legno di media qualità per quanto concerne la combustione, possedendo circa 5,4 MJ/m³, una quantità di energia inferiore rispetto a quella di alberi come il frassino (7 MJ/m³), la quercia (7 MJ/m³) o la betulla (5,8 MJ/m³).[13]
L'acero campestre (Acer campestre L.) è un albero diffuso in Europa e Asia. In Italiano viene anche chiamato loppio o testucchio. In Italia è molto comune nei boschi di latifoglie mesofile, insieme alle querce caducifoglie dal livello del mare fino all'inizio della faggeta.
È un albero caducifoglio di modeste dimensioni (può raggiungere i 18-20 metri di altezza come massimo), il fusto non molto alto, con tronco spesso contorto e ramificato; chioma rotondeggiante lassa. La corteccia è bruna e fessurata in placche rettangolari. I rami sono sottili e ricoperti da una peluria a differenza di quanto accade negli altri Aceri italiani.
Foglie semplici, a margine intero e ondulato, larghe circa 5–8 cm, a lamina espansa con 5 o 3 lobi ottusi, picciolate, di colore verde scuro. Sono ottime e nutrienti per gli animali.
Piccoli fiori verdi, riuniti in infiorescenze. Il calice ed il peduncolo dei fiori sono pubescenti. Fiorisce in aprile-maggio in contemporanea all'emissione delle foglie. Le infiorescenze possono essere formate sia da fiori unisessuali che ermafroditi.
I frutti sono degli acheni o più precisamente delle disamare alate. Le singole samare sono portate in modo orizzontale (carattere distintivo).Usi
L'acero è una pianta mellifera, molto visitata dalle api per il polline ed il nettare,[1] ma il miele monoflorale d'acero è raro.
Le sue foglie vengono utilizzate come foraggio.
Il legno è chiaro, duro e pesante e tende a deformarsi: viene quindi usato solo per la fabbricazione di piccoli oggetti. Essendo un albero di modeste dimensioni e sopportando bene il taglio, è stato ampiamente utilizzato come tutore per la vite. È inoltre un ottimo combustibile. Attualmente trova impiego come albero ornamentale e da siepe, per via della sua efficacia nel consolidamento dei terreni franosi. È indicato nell'arredo urbano anche a contrasto dell'inquinamento, per l'alta capacità di assorbimento dell'anidride carbonica e delle polveri sottili[2][3].
Possiede proprietà lievemente anticoagulanti, aiuta nella prevenzione delle calcolosi e nelle cure successive alle manifestazioni di Herpes zoster; il decotto di corteccia è usato anche come rinfrescante intestinale.
Antiche credenze popolari conferivano all'acero proprietà magiche contro le streghe, i pipistrelli, e la sfortuna.
Il decotto di corteccia è utilizzato negli eritemi della pelle; alcune persone usano aggiungere all'acqua del bagno, un pugno di corteccia tritata per rinfrescare la pelle.
Liquidambar (L., 1753) è un genere di piante arborifere, unico a far parte della famiglia delle Altingiacee, diffuso in Nord America ed Estremo Oriente[1][2].
Il nome significa "ambra liquida" e infatti incidendo queste piante sgorga una resina.
Comprende alberi alti da 8 a 25 m, originari del Nord America e coltivati in Italia nelle località a clima mite come piante ornamentali, dalle foglie simili agli aceri.
Fino al miocene era molto più diffusa, anche in Europa, l'ultima vestigia di questa diversità è L. orientalis, tutt'ora viventi selvatiche in Turchia sudoccidentale e, probabilmente reintrodotte in epoca protostorica, in altre aree dell'Egeo.
Tassonomia
La recente classificazione filogenetica attribuisce il genere alla famiglia delle Altingiacee, famiglia inclusa all'interno dell'ordine Saxifragales[3].
All'interno del sistema Cronquist il genere Liquidambar era invece incluso all'interno della famiglia delle Amamelidiacee, nell'ordine Hamamelidales.
Il fico comune (Ficus carica L., 1753) è un albero da frutto dei climi subtropicali temperati appartenente alla famiglia delle Moraceae e al genere Ficus, del quale rappresenta la specie più nordica; produce il frutto (più propriamente l'infruttescenza) detto fico.
L'epiteto specifico carica fa riferimento alle sue origini che vengono fatte risalire alla Caria, regione dell'Asia Minore. Testimonianze della sua coltivazione si hanno già nelle prime civiltà agricole di Palestina ed Egitto, da cui si diffuse successivamente in tutto il bacino del Mediterraneo. Se per definizione è detto "Fico Mediterraneo", si considera originario e comune delle regioni delle aree meridionali caucasiche, e del Bassopiano turanico meridionale.
Solo dopo la scoperta dell'America il fico si diffuse in quel continente, in seguito in Sudafrica, per i contatti con l'Oriente si diffuse in Cina e in Giappone; infine giunse in Australia.
Il termine fico, usato per il frutto dell'albero del fico, si rileva in quasi tutti i dialetti italiani, spesso nel meridione declinato al femminile (fica), e ha sempre avuto anche una forte connotazione sessuale parallela per l'attributo genitale femminile, e per l'azione con questo.
Innumerevoli sono i riferimenti letterari passati legati a questo.
Prima di allora il termine è annotato per il significato di attributo genitale femminile da Aristotele (350 A. C.); deriva in tale senso dal siriano (fenicio) pequ, e questo dal precedente accadico pīqu, ovvero sīqu (m.) (2300 A. C), sia come sostantivo preciso per l'attributo sessuale femminile (nel senso di varco, fessura).[2] Quindi il nome del frutto è attribuito per analogia.
Nelle regioni della Asia Minore, Turchia, Ucraina, Russia, Caucaso ed asiatiche, dal Bassopiano Turanico, fino all'Afghanistan è detto, come nome proprio. Incjir, (Ancjir, Incir, Encir).
Giovane esemplare di fico
Il fico è una pianta xerofila ed eliofila, è longevo e può diventare secolare, anche se è di legno debole e può essere soggetto ad infezioni fatali; è caducifoglia e latifoglia. È un albero dal fusto corto e ramoso che può raggiungere altezze di 6–10 m; la corteccia è finemente rugosa e di colore grigio-cenerino; la linfa è di un bianco latte; i rami sono ricchi di midollo con gemme terminali acuminate coperte da due squame verdi, o brunastre. Le foglie sono grandi, scabre, oblunghe, grossolanamente lobate a 3-5 lobi, di colore verde scuro sulla parte superiore, più chiare ed ugualmente scabre sulla parte inferiore.
Quello che comunemente viene ritenuto il frutto è in realtà una infruttescenza di medie dimensioni, carnosa, piriforme, ricca di zuccheri a maturità, detta siconio di colore variabile dal verde al rossiccio fino al bluastro-violaceo, cava, all'interno della quale sono racchiusi i fiori unisessuali, piccolissimi; una piccola apertura apicale, detta ostiolo, consente l'entrata degli imenotteri pronubi; i veri frutti, che si sviluppano all'interno dell'infiorescenza (che diventa perciò un'infruttescenza), sono numerosissimi piccoli acheni. La polpa che circonda i piccoli acheni è succulenta e dolce, e costituisce la parte edibile.
La specie ha due forme botaniche che possono essere definite come piante maschio e piante femmina, dato che la prima o caprifico costituisce l'individuo che produce il polline con frutti non eduli, mentre la seconda o fico vero pianta femmina che produce frutti eduli con i semi contenuti all'interno.
La distinzione botanica è molto più complessa, dato che in realtà il caprifico ha nel frutto parti complete sia per la parte femminile (ovari adatti a ricevere il polline) che per la parte maschile (che produce polline); la parte femminile è però modificata da una microscopica vespa (Blastophaga psenes) che vive negli ovari (modificati in galle) e quindi per questo la parte femminile è sterile. La pianta di caprifico, a causa della vespa, svolge quindi esclusivamente (o quasi) una funzione maschile, producendo polline (presso l'apertura del siconio) e facendolo trasportare dalla vespa che alleva; solo le femmine della vespa sciamano fuori dal frutto portando con sé il polline. Il frutto del caprifico non è commestibile: non è succulento e neppure dolce.
Il fico vero o fico edule riceve invece il polline e quindi matura i semi che sono botanicamente acheni, ovvero quei piccoli granellini che si trovano all'interno del frutto.
Inoltre l'uomo ha selezionato una grande varietà di fichi commestibili a possibile maturazione "partenocarpica", che avviene perciò anche se non è avvenuta la fecondazione (in tal caso i granellini dei semi sono vuoti). La maggior parte dei fichi coltivati dall'uomo sono di questo tipo, o meglio sono detti permanenti dato che permangono sulla pianta anche se non sono fecondati, questo per distinguerli dai caduchi che in assenza di fecondazione cadono al suolo immaturi. La condizione del fico vero di essere "possibilmente" partenocarpico non esclude però comunque la fecondazione che rimane sempre possibile in presenza della vespa. Nei fatti con un minimo di attenzione si può notare, all'interno della stessa fruttificazione di fichi partenocarpici, differenze sostanziali di forma, colore, struttura interna, e soprattutto presenza di semi pieni all'interno dei frutti che possono segnalare una possibile avvenuta fecondazione. Anche se gli alberi di caprifico non sono nei pressi, questi sono spesso in terreni incolti ed abbandonati, e la microscopica vespa può giungere, aiutata dal vento, anche da diversi chilometri di distanza.
La condizione di fico partenocarpico è comunque importante, dato che permette di avere frutti anche dove la vespa non esiste (la vespa infatti non sopravvive a temperature invernali inferiori ai −9 °C), la pianta di fico in ambiente caldo, secco e con buona lignificazione della vegetazione in estate può invece sopravvivere agevolmente a temperature di −17, −18 °C in inverno, in tal caso si estende notevolmente la possibilità di coltivazione del fico da frutto in climi invernali più freddi.
Alcune tra le varietà più pregiate di fico sono caduche, cioè devono essere obbligatoriamente fecondate, (come la varietà turca Smirne), e sono coltivate solo dove la presenza del ciclo vitale della Blastophaga è assicurato in maniera perfetta; per contro la fecondazione di alcune varietà partenocarpiche (sempre possibile) può non essere desiderata, dato che i frutti prodotti in tal caso (con buccia spessa ed a polpa più asciutta) possono essere meno graditi in caso di particolari utilizzi, come ad esempio per la essiccazione.
Non sono mai stati individuati i siti cromosomici deputati alla differenziazione sessuale in Ficus carica; quindi non è conosciuta una qualsiasi eterosomia sessuale. Si ritiene che la differenziazione sia dovuta alla presenza/espressione di singoli geni.
Dal punto di vista genetico si manifesta un'evidente dominanza genetica da parte del genotipo maschile per quanto riguarda la espressione della partenocarpia nella prole, cioè: solo un individuo maschile evidentemente partenocarpico, produce prole di questo tipo.
La partenocarpia è la condizione di produrre frutti senza impollinazione, ma senza semi fertili. La partenogenesi è la produzione di semi fertili partenogenetici, cioè ottenuti senza impollinazione. I semi prodotti in tal caso non sono prodotti da gamia, ma piuttosto sono semi clonali generati unilateralmente da una pianta. Questo fenomeno, pur non comune in botanica, è segnalato come possibilità anche per il fico, specie in varietà realmente selvatiche di recente reintroduzione dalle regioni originarie (bassopiano Turanico). La segnalazione proviene dalla constatazione di presenza di semi fertili in frutti di piante locate in luoghi e condizioni dove la impollinazione naturale è ritenuta impossibile.
L'insetto impollinatore è la Blastophaga psenes: le femmine gravide sciamano dal "frutto" del caprifico per deporre le proprie uova in ovari di altri frutti di fico. L'azione avviene indiscriminatamente in tutti i frutti, sia di caprifico che di fico vero, ma mentre nel caprifico gli ovari hanno stilo corto (brevistili) e quindi sono in superficie, ben accessibili per la deposizione delle uova, nel fico vero gli stili lunghissimi rendono da un lato inaccessibili (profondi) i punti di inoculazione, mentre espongono gli stigmi sui quali la vespa, finisce per deporre il polline che reca sul proprio corpo, prelevato dagli stami presso l'ostiolo del caprifico.
L'azione nei confronti dei caprifichi permette quindi solo alla vespa la perpetuazione della propria specie, quella nei confronti dei fichi veri permette solo la riproduzione (produzione dei semi) della pianta del fico.
Il binomio insetto-fico Blastophaga-Ficus carica è una simbiosi mutualmente obbligata, cioè è specie-specifica: da un lato l'insetto sopravvive solo nei frutti del caprifico, e dall'altro la pianta di fico non ha alcuna possibilità di far semi senza l'insetto.
Il termine "vespa" o "insetto impollinatore" non deve ingannare dato che l'animale in argomento, pur appartenendo biologicamente a tali categorie, non punge ed ha dimensioni esigue; ha infatti una lunghezza di due millimetri e mezzo circa, è della dimensione di un moscerino.
Al di fuori della specie Ficus carica occorre precisare che ogni specie di Ficus ha la propria specie di insetto con cui ha costituito un analogo sistema di simbiosi obbligata o quasi obbligata, dato che la condizione che una specie di insetto fecondi due specie di Ficus è piuttosto rara. Tra le eccezioni è proprio il Ficus carica, che condivide l'impollinatore con il Ficus palmata.
Nel fico commestibile, abbiamo tre tipi di siconi, che danno, annualmente, distinte fruttificazioni:
fioroni, o fichi fioroni che si formano da gemme dell'autunno precedente e maturano alla fine della primavera o all'inizio dell'estate
fichi, o fòrniti, o pedagnuoli che si formano da gemme in primavera e maturano alla fine dell'estate dello stesso anno.
cimaruoli prodotti da gemme di sommità prodotte nell'estate e maturano nel tardo autunno. La produzione di cimaruoli è limitata a regioni dove l'estate è molto lunga ed il clima particolarmente caldo; spesso è incompleta o insoddisfacente.
Esistono varietà che producono solo fioroni, e spesso anche la varietà è per estensione nominata "fiorone"; altre producono solo fòrniti; altre producono entrambe, ma di norma con una delle due fruttificazioni di maggior rilievo come qualità o quantità e una seconda di rilievo minore. Le varietà con tripla fruttificazione sono pochissime, e la terza fruttificazione è di norma irrilevante. Per ovvi motivi di clima, di norma i "fòrniti" hanno con maggiore facilità le caratteristiche di eccellente succosità e dolcezza; i fioroni per contro hanno il pregio di essere di precoce maturazione.
Il caprifico sviluppa tre tipi di siconi:
mamme o cratiri contengono solo fiori femminili brevistili, si formano in autunno e maturano a fine primavera
profichi con fiori maschili e femminili, si formano, sullo stesso ramo delle mamme, in primavera e maturano in estate
mammoni con fiori maschili e femminili longistili, si sviluppano in estate e maturano in autunno
I frutti del caprifico sono coriacei, non dolci, non succulenti e pur se non tossici, sono praticamente immangiabili. A parte ciò, molto probabilmente se colonizzati dalla Blastophaga, contengono le larve della stessa nelle galle all'interno del frutto.
Nel caprifico l'impollinazione avviene mediante l'insetto pronubo Blastophaga psenes (Hymenoptera, Agaonidae) secondo il seguente schema:
in autunno l'insetto depone le proprie uova nelle mamme all'interno dell'ovario dei fiori, dove si schiudono; la schiusa delle uova induce la trasformazione degli ovari in galle, e le larve dell'insetto svernano all'interno delle loro galle.
in aprile si sviluppano gli insetti adulti dalle galle ed i maschi fecondano le femmine, spesso ancora all'interno delle galle. Fatto ciò i maschi muoiono.
le femmine fecondate escono quindi all'esterno, attraverso l'ostiolo del siconio, ed entrano nei profichi per la deposizione delle uova.
entrando nei profichi le femmine perdono le ali, indi depositano le uova negli ovari dei fiori femminili e muoiono
in circa 2 mesi i siconi dei profichi ingrossano, la nuova generazione di insetti adulti esce e gli insetti si caricano di polline dai fiori maschili con le antere mature, posti vicino all'ostiolo.
entrano quindi in frutti di caprifico (mammoni) dove depositano le uova, ma anche nei fòrniti dei fichi commestibili, dove effettuano l'impollinazione dei fiori, nei mammoni sia ha una nuova generazione, dalla sciamatura autunnale dai "mammoni" le femmine depongono le uova nelle "mamme".
L'impollinazione del fico domestico, per le cultivar che la utilizzano, avviene sempre mediante Blastophaga psenes. Se interessa la produzione di fichi fecondati l'uomo può favorirne l'impollinazione appendendo dei siconi di caprifico (pieni di vespe) sul fico comune.
Tale pratica è detta Caprificazione; si agevola perciò la funzione del Caprifico, (fico capro, cioè fecondatore). Le femmine di vespa escono, cariche di polline, dai siconi della fioritura primaverile del caprifico e tentano di penetrare attraverso l'ostiolo dei fichi eduli, abbandonando così sugli stigmi degli stili dei fiori i granelli di polline, ma la lunghezza eccessiva dello stilo impedisce loro di portare a termine l'ovodeposizione.
La produzione dei semi, pur accelerando la maturazione e aumentando la dimensione dei siconi eduli, comporta, nelle specie partenocarpiche una colorazione rossastra della polpa con un aumento del numero e della consistenza degli acheni (ad esempio, la varietà "Dottato"); per questo motivo per alcuni usi industriali è preferito l'utilizzo di frutti non fecondati; in altri casi sono preferiti invece i frutti fecondati (esempio la varietà "Smirne") nella produzione di fichi secchi, dato che i frutti essiccati di tale varietà conservano morbidezza ed il colore chiaro, ed hanno un gradevole sapore di noce-nocciola, dato dalla polpa dei piccoli semi che sono frantumati quando si mastica il frutto.
Il Ficus carica gradisce climi caldi non umidi, si adatta a qualunque tipo di terreno purché sciolto e ben drenato, non tollera a lungo temperature inferiori ai −10, −12 °C, è peraltro da considerare che la resistenza al freddo è fortemente condizionata dalla maturazione del legno, cioè dalla trasformazione dei rami succulenti ed erbacei in legno compatto, disidratato e soprattutto ricco di resine ed amidi che sono eccellenti antigelo, (naturalmente tali accumuli, che possono essere determinanti per la resistenza al freddo, si hanno con estese insolazioni estive), enormi differenze si verificano con piante giovani, succulente ed in intensa crescita dovuta ad eccesso di umidità nel suolo, o per eccesso di concimazione, dove danni gravi si possono avere anche a −5°, −8 °C, e piante adulte in siti poveri di acqua e soleggiati, dove queste ultime hanno mostrato resistenze senza gravi problemi a temperature di −17, −18 °C, ma, in casi particolari di ottimale maturazione del legno e suolo ben disidratato, con microclima locale particolarmente favorevole, e per particolari varietà, anche a temperature inferiori.
Nelle regioni mediterranee non è raro incontrare piante di fico sorte su vecchi muri o nelle pareti dei pozzi.
Il legno di fico è particolarmente debole. Non è possibile fare affidamento nell'arrampicata a rami anche di discreta dimensione, dato che questi possono spezzarsi senza "preavviso", lungo lo stelo o alla base, cioè si schiantano di colpo senza scricchiolii. Se ci si arrampica su un albero di fico occorre considerare questa possibilità.
La coltivazione di specie necessitanti la fecondazione da Blastophaga psenes è limitata dalla temperatura di sopravvivenza della stessa, che è di circa −9 °C; in assenza di fecondazione i frutti acerbi cadono e sono detti "caduchi". In ambienti dove sia assente l'agente fecondatore è praticata la coltivazione delle sole varietà che hanno la caratteristica di maturare i frutti anche se non sono fecondati (detti permanenti o partenocarpici); pressoché la totalità delle varietà coltivate in Italia sono a frutti partenocarpici.
Per quanto riguarda il caldo a +45, +46 °C, o con aridità estrema, la pianta arresta i processi vegetativi e subisce la caduta delle foglie. Le notti calde favoriscono la produzione dei frutti mentre il ristagno di acqua la pregiudica. Dotato di un apparato radicale potente resiste bene alla siccità e ai terreni salsi e incolti, in particolare come apparato radicale di una pianta da clima semidesertico, è particolarmente efficace nella ricerca dell'acqua; le radici sono molto invasive, in un giardino possono penetrare in cisterne, condotti o scantinati. È una delle poche piante da frutta che resista senza problemi ai venti salini in tutte le fasi vegetative, condizione che l'accomuna al solo Fico d'India; nessun altro fruttifero principale dell'ambiente italiano ha tale condizione.
Per quanto concerne la potatura, o anche il superamento della stagione invernale, la rimozione delle parti sommitali dei rami, (o il loro danneggiamento da parte del gelo), mentre può non influenzare la sopravvivenza della pianta, elimina o danneggia le gemme mature che produrrebbero i fioroni la successiva estate, e quindi ne compromette la fruttificazione. La conservazione in vita della parte basale permette l'invecchiamento del legno, fatto che rende la pianta più resistente al gelo.
A margine si noti che la condizione migliore per evitare i danni da freddo per una pianta di fico (in condizione estreme per il freddo) è quella (ovvia) di porla in ambiente il più possibile soleggiato, secco, e meno esposto al freddo in modo naturale; il costituire ripari artificiali (teli, coperture, ecc) ha effetto discreto ma limitato, ed a volte controproducente, con protezione eccessiva in determinate condizioni si induce un parziale risveglio vegetativo che rende la pianta in effetti più vulnerabile.
Si concima con sovescio di leguminose, o con concime organico, e con buon apporto di potassio e fosfati; l'eccesso di concimazione è in genere molto negativa, soprattutto in caso d'eccesso di concimazione azotata che privilegia eccessivamente il rigoglio della vegetazione, a scapito della fruttificazione.
La riproduzione per semina è molto agevole, ma è complicata per il fatto che occorre prelevare semi da frutti sicuramente fecondati, cosa comune ad ogni modo nei paesi caldi; è complicata inoltre per i risultati ottenibili dato che, in via di massima, si hanno 50% di probabilità di avere alberi caprifichi e 50% fichi commestibili. Ulteriore complicazione è la presenza di altre caratteristiche indipendenti, come quella della caducità dei frutti non fecondati, ovvero della partenocarpia, maturazione anche senza fecondazione. Fatto determinante è che al di fuori di tutto il resto la riproduzione per seme semplicemente non assicura la qualità e le caratteristiche dei frutti nella nuova varietà prodotta. Ad ogni modo la riproduzione per seme è l'unica via ovvia per ottenere nuove varietà.
Avendo a disposizione sia alberi di Caprifico che di Fico è possibile praticare una sorta di fecondazione assistita (caprificazione), ponendo i frutti del caprifico, in imminenza della sciamatura degli insetti, presso il fico femmina. La procedura, fondamentalmente semplice, è ovviamente condizionata però dalla conoscenza della complessa fisiologia di fioritura dei siconi. Con la stessa conoscenza è relativamente facile la impollinazione artificiale, trasferendo il polline aprendo il frutto di caprifico ed insufflandolo nel frutto del fico femmina.
La moltiplicazione è possibile per talea di ramo maturo (invernale), prelevando gli apici lignificati dei rami (di gran lunga la più usata), per talee legnose a luglio, per innesto (meno usato) a pezza, corona e gemma; in natura il fico tende naturalmente a moltiplicarsi per polloni basali e per propaggine cioè per radicazione dai rami appoggiati al suolo ed in contatto col terriccio, soprattutto se umido. Il prelievo dei polloni basali è un'ulteriore maniera di moltiplicazione, che però non assicura la qualità della fruttificazione se l'albero è innestato. La potatura si limita ad interventi invernali di eliminazione di rami mal disposti o danneggiati.
Le Regioni italiane a maggior vocazione produttiva sono Puglia, Campania e Calabria, una produzione significativa proviene anche dall'Abruzzo, Sicilia e Lazio; la Puglia fornisce anche la maggior produzione di fichi secchi. La produttività del fico dipende dai fattori climatici, dall'umidità e dal suolo dove viene coltivato, orientativamente si può stimare che in terreni sciolti, profondi e freschi si possa arrivare a produzioni di 4-5 q per albero, mentre in terreni rocciosi marginali solo a pochi chilogrammi per albero. La produzione comincia dal quinto-ottavo anno di vita della pianta (nata da seme) ed aumenta progressivamente fino al sessantesimo anno di età, quando decresce repentinamente e la pianta muore per necrosi del tessuto legnoso; in tali condizioni la produzione di polloni basali può rendere possibile una ripresa della vegetazione. Da pianta innestata la produzione può iniziare tra il secondo e il terzo anno.
La produzione di fichi freschi è in costante decrescita, fatto dovuto all'affermazione dei sistemi di grande distribuzione alimentare che mal tollerano un frutto delicato alla raccolta, e di difficile conservazione come il fico. La coltivazione è invece in aumento in orti domestici, dove anche con scarse cure da applicare all'albero si hanno comunque disponibilità di frutti eccellenti per l'immediato consumo.
Il caprifico (ficoraccia) è stato utilizzato storicamente nel territorio laziale come segnalazione di pericolo presso le aperture dei pozzi dei cunicoli di drenaggio, tipici delle zone del parco regionale di Veio che, essendo disseminati nelle vallate allo scopo di drenare le acque meteoriche, costituiscono ancora oggi pericoli per le persone e per gli animali da allevamento. La pianta della ficoraccia è stata inoltre piantata in terreni adibiti a pascolo privi di zone d'ombra allo scopo di fornire riparo dal sole estivo alle persone ed agli animali nei pascoli.
Il fico secco è il sicono (frutto) raccolto in piena maturazione e fatto essiccare al sole con trattamenti chimici o fisici di disinfestazione.
In Italia la maggior parte della produzione viene dalle regioni meridionali, in special modo da Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia. Si segnala in Toscana la produzione dei Fichi secchi di Carmignano, in Provincia di Prato, mentre nelle Marche esiste il Lonzino di Fichi. È in evidenza la produzione del Fico bianco del Cilento su cui si estende la Denominazione di Origine Protetta. In Abruzzo è famoso il fico reale di Atessa, una varietà nera ,detta "turca"; su questa produzione addirittura Roberto d’Angiò nel 1320 impose delle gabelle sui fichi secchi prodotti ad Atessa e commercializzati via mare. Nella “Descrizione del Regno delle due Sicilie” di G. Del Re (1835), si ribadisce che gli alberi producono frutti copiosi che “…oltre il consumo interno ne vendono una parte alle genti di montagna, ne imbarcano un’altra per la Dalmazia, Fiume, Trieste, Venezia, e ne traggono circa 15000 ducati l’anno”.[4]
La raccolta avviene in più riprese, secondo la varietà e la stagione, in Italia si preferiscono le varietà partenocarpiche per la polpa chiara, con acheni in minor numero e di consistenza più morbida.
La produzione del fico secco prevede fasi successive di lavorazione, che si possono riassumere come segue:
raccolta dei frutti asciutti con il peduncolo, completamente maturi e tutti allo stesso grado di maturazione, separando i fichi bianchi da quelli colorati;
sbiancatura dei fichi bianchi con un trattamento ai vapori di zolfo per una ventina di minuti;
esposizione dei fichi al sole su cannicci puliti, evitando il contatto tra i frutti e tenendo l'occhio del sicono verso l'alto fino alla completa coagulazione del succo interno
Durante l'essiccazione i fichi vanno periodicamente rivoltati, con frequenza quotidiana, per variare l'esposizione ai fattori esterni e garantire un disseccamento omogeneo e graduale, eliminando quelli piccoli o macchiati e comprimendo quelli rigonfi per eliminare le sacche d'aria
durante l'essiccamento i fichi vanno protetti dalle impurità e dalle ovideposizioni delle femmine di Efestia (Ephestia cautella)
a essiccamento avvenuto, disinfestazione dei fichi secchi per due ore in autoclave sottovuoto usando bromuro di metile. Nelle produzioni artigianali si immergono i fichi in acqua di mare bollente (o soluzione salina di cloruro di sodio), per circa due minuti.
Per un essiccamento ottimale la perdita d'acqua deve raggiungere il 30-35%.
In Italia, per la produzione di fichi secchi vengono usate le varietà Fico dottato, Brogiotto, Pissalutto, Farà, ecc.
In Turchia, uno dei maggiori produttori mondiali di fichi secchi, viene principalmente usata la varietà Fico di Smirne, che è per definizione un fico caduco, cioè che giunge a maturazione senza cadere solo se viene fecondato.
Generalmente, i contadini usano un sistema tradizionale naturale di preparazione dei fichi secchi che non prevede il trattamento con altre sostanze per garantirne la conservazione. I fichi vengono esposti al sole così come raccolti, su graticci o tavole di legno; spesso si coprono con reticelle bianche per evitare il contatto con mosche e altri insetti; le grate e le tavole con sopra i fichi vengono ritirate e messe al coperto sotto una tettoia, ogni sera o in caso di pioggia, ciò per evitare che la pioggia o la rugiada notturna bagnino i fichi allungando il periodo di essiccazione; i fichi vengono riesposti al sole il mattino seguente. Talvolta il fico viene aperto in due metà dal lato del peduncolo per favorirne l'essiccazione e ottenere le cosiddette coppie, che non sono altro che due mezzi fichi secchi uniti. Quando i fichi sono appassiti del tutto e hanno perduto la loro umidità diventando dolcissimi, vengono passati al forno a legna non troppo caldo, disposti su graticci fatti con canne o con polloni di ulivo coperti con foglie fresche di fico; appena il colore dei fichi diventa dorato, si tolgono dal forno e si conservano in madie di legno, per essere consumati durante l'inverno. Se tutte le procedure sono state eseguite correttamente i fichi si conservano perfettamente fino a primavera, lasciando col tempo apparire in superficie una patina bianca zuccherina e diventando morbidi e succulenti. Talvolta, si mettono nel forno, insieme ai fichi, anche foglie di alloro e semi di finocchietto selvatico affinché il fico venga aromatizzato col profumo di tali piante. Le "coppie" di fichi, prima di essere infornate, possono essere farcite con mandorle, gherigli di noci, bucce d'arancia, ecc. I fichi secchi, singoli o in "coppie" (farcite o meno), possono anche essere impilati (cosiddetti fichi impaccati), a mo' di spiedini, in stecchi secchi (o coppie di stecchi) di Ampelodesmos mauritanicus, sui versanti tirrenici d'Italia su cui questa pianta estende il suo areale.
Il nocciòlo (Corylus avellana L., 1753) è un albero da frutto appartenente alla famiglia Betulaceae.
Il nome del genere deriva dal greco κόρυς = elmo, oppure da kurl, il nome celtico della pianta, mentre l'epiteto specifico deriva da Avella, comune in provincia di Avellino, zona nota fin dall'antichità per la coltivazione di noccioli[4].
Descrizione
La pianta ha portamento a cespuglio o ad albero, se coltivata è alta in genere dai 2 ai 4 m ma se lasciata in forma libera può raggiungere anche l'altezza di 7–8 m.[5][6] Ha foglie semplici, cuoriforme a margine dentato. È una specie monoica diclina, caducifoglia e latifoglia, con crescita rapida.
Le infiorescenze sono unisessuali. Le maschili in amenti penduli che si formano in autunno, le femminili somigliano ad una gemma di piccole dimensioni. Ogni cultivar di nocciolo è autosterile ed ha bisogno di essere impollinata da un'altra cultivar.
Il frutto (chiamato nocciola) è avvolto da brattee da cui si libera a maturazione e cade. Esso è commestibile e viene usato crudo, cotto o macinato in pasta, inoltre è ricco di un olio usato sia nell'alimentazione che dall'industria cosmetica.
Il legno del nocciolo è molto flessibile, elastico e leggero, fin dall'antichità veniva usato per costruire ceste e recinti[3][7]. Non è adatto come materiale da costruzione o per mobili in quanto troppo elastico e poco durevole.
Distribuzione e habitat
Il suo areale geografico naturale è europeo-caucasico, va dalla Penisola iberica e Inghilterra fino al Volga, e dalla Svezia alla Sicilia. La distribuzione altitudinale è da collinare a medio-montana. Rifugge le aree mediterranee più calde ed aride. Preferisce terreni calcarei, ben drenati, fertili e profondi e luoghi semi-ombreggiati. L'habitat naturale è costituito da boschi di latifoglie, soprattutto querceti misti mesofili, radure e margini. Può formare boschetti pionieri su terreni freschi pietrosi, in consociazione con aceri o pioppo tremulo.
Coltivazione
Vengono coltivate numerose varietà da frutto e ornamentali: tra queste ultime sono notevoli la varietà pendula, la varietà contorta, a portamento tortuoso, e la varietà fusco-rubra a foglie porporine.
È una pianta colonizzatrice che, avendo esigenze modeste in fatto di terreno e di clima, si adatta a svariate condizioni ambientali. In Italia, secondo produttore mondiale dopo la Turchia, il nocciolo è coltivato in modo intensivo principalmente in poche zone (in parentesi sono indicate le cultivar):
Piemonte, nelle Langhe (Tonda Gentile delle Langhe);
Campania, nelle province di Caserta (Tonda di Giffoni, Camponica, Mortarella, San Giovanni), Napoli, Avellino (Mortarella, San Giovanni, Camponica), Benevento (Mortarella), e Salerno (Tonda di Giffoni);
Calabria, tra i comuni di Cardinale, Simbario, Torre di Ruggiero la Tonda Calabrese, la Tonda di Giffoni e la Tonda Romana[9].
Sicilia, principalmente nella provincia di Messina, ma anche sull'Etna, sulle Madonie e nei dintorni di Piazza Armerina.
Le cultivar di riferimento in Italia per uso e caratteristiche sono:
Tonda Gentile delle Langhe, piemontese, molto richiesta dall'industria dolciaria, si ambienta con difficoltà fuori dalla sua area tipica di coltivazione e di origine;
Tonda di Giffoni, originaria della provincia di Salerno, è coltivata in varie zone della Campania e del Lazio essendo una cultivar che presenta un buonissimo ambientamento anche in zone diverse dall'area tipica di coltivazione, molto richiesta dall'industria dolciaria;
Tonda Gentile Romana, della provincia di Viterbo;
Mortarella e S. Giovanni, campane a frutto allungato;
Camponica, campana a frutto grosso, ottima per il consumo da tavola;
Nostrale o Siciliana, è la varietà più diffusa in Sicilia ed è ottima per la tostatura perché esalta il suo aroma intenso.
Avversità
Le più importanti malattie da funghi che colpiscono il nocciolo sono il mal dello stacco (causato da Cytospora corylicola), il cimiciato dei semi (causato da Nematospora coryli) e l'oidio o mal bianco (causato da Phyllactinia guttata).
Gli insetti parassiti più importanti sono la cimice angolosa (Gonocerus acuteangulatus), la cimice verde (Palomena prasina), le farfalle tortrice del nocciolo (Gypsonoma dealbana) e gemmaiola del nocciolo (Epinotia tenerana), i coleotteri aplidia del nocciolo (Haplidia etrusca), agrilo del nocciolo (Agrilus viridis) e balanino delle nocciole (Curculio nucum).
Usi terapeutici
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Le sue foglie contengono i fenoli e i flavonoidi che agiscono sia sul gonfiore sia come tonici delle vene e anche come antinfiammatori[10].
L'olio del frutto di nocciole ha un alto contenuto di lipidi insaturi, quindi penetra facilmente la cute senza ungere, per questo motivo può essere usato come cosmetico in creme o olii per la pelle.
Aspetti medici
La presenza del frutto di nocciole, anche in tracce, per obbligo di legge va indicata nelle etichette degli alimenti, ciò al fine di evitare possibili allergie alimentari.
Cycas revoluta Thunb., 1782 è una pianta della famiglia Cycadaceae, originaria del Giappone. L'aspetto ricorda la palma sia per il fusto, poco ramificato, che per la disposizione delle foglie, grandi e pennate poste a spirale alla sommità del fusto, come una corona. Il fusto raggiunge un diametro di circa 20 cm ed ha una crescita molto lenta: lungo pochi centimetri nelle piante giovani, negli esemplari molto anziani (oltre 50 anni) può raggiungere i 6–7 m di altezza.
Le foglie, di colore verde brillante e lunghe sino a 1,5 metri, sono pennate, leggermente arcuate, lucide ed appuntite. Le singole foglioline, rigide e sottili, sono lunghe 8–18 cm; quelle più vicine al fusto si modificano in forma di spine.
Le foglie giovani appaiono in primavera all'apice del fusto in gruppi numerosi; al momento dell'emergenza dal fusto sono raggomitolate e coperte da una densa peluria; nel giro di pochi giorni si dispiegano e raggiungono rapidamente l'aspetto delle foglie mature.
La propagazione può avvenire per semina o per rimozione dei polloni basali.
Come la gran parte delle cicadi è una pianta dioica: i coni maschili e quelli femminili si trovano su esemplari differenti.
Studi recenti hanno dimostrato che nella C. revoluta l'impollinazione avviene anche tramite insetti (cosiddetta impollinazione entomofila)
Distribuzione e habitat
La pianta, scoperta alla fine del Settecento, è nativa del Giappone meridionale.
Fu messa per la prima volta a dimora in Europa nel 1793, presso l'Orto botanico di Palermo.
Cresce ottimamente in terreni sabbiosi, ben drenati, in aree con estati molto calde (temperature medie di 30-35 °C) ma tollera anche climi con temperature più basse. La occasionale esposizione a temperature al di sotto dello zero può causare danni alle foglie.
Usi
Il midollo del tronco è utilizzato per la preparazione del sago, una fecola di impiego alimentare. Per l'estrazione del sago si utilizzano le piante che non sono ancora giunte alla fioritura, tagliandone i tronchi in un certo numero di pezzi, e quindi spaccandoli nel senso della lunghezza, in modo da poterne separare il tessuto interno, dal quale si ottiene la fecola mediante lavaggio. Nei luoghi di produzione il sago rappresenta un prodotto di notevole importanza alimentare e viene anche esportato. La Cycas revoluta, anche in quantità limitate, se ingerite da cani o gatti può provocare danni respiratori ed epatici, e nei casi più gravi la morte. Causa gastroenterite emorragica, coagulopatie, danni epatici, insufficienza renale.
Tra tutte le cicadi la Cycas revoluta è una delle più utilizzate a scopo ornamentale: ogni anno nel mondo ne vengono commercializzati milioni di esemplari.
Vitis L., 1753 è un genere di piante arbustive appartenenti alla famiglia Vitaceae.[1]
La specie più nota del genere è la Vitis vinifera L. (detta comunemente vite europea), il cui frutto è l'uva.
La vite più antica d'Europa è la Versoaln e si trova nel comune di Tesimo in Alto Adige[2].
La scienza che studia e descrive le varietà di viti esistenti si chiama ampelografia, il cui nome deriva da quello del giovane satiro Ampelo amato dal dio Dioniso
La vite è una pianta arborea rampicante che per crescere si attacca a dei sostegni (tutori) mediante i viticci; se la pianta non viene potata può raggiungere larghezze ed altezze notevoli attaccandosi agli alberi, su pareti rocciose, o coprendo il suolo. È dotata di un apparato radicale molto sviluppato, che può superare anche i 10 metri di lunghezza.
Ha un fusto anche di lunghezza notevole da cui si dipartono numerosi rami, detti tralci.
Le foglie, dette pampini, palminervie, alterne, sono semplici e costituite da cinque lobi principali più o meno profondi, su una forma di base a cuore.
Le foglie sono un carattere diagnostico molto importante per il riconoscimento dei vitigni delle varie specie, e all'interno della vite coltivata europea (Vitis vinifera sativa).
I frutti sono delle bacche (acini) di forma e colore variabile: gialli, viola o bluastri, raggruppati in grappoli. Presentano un esocarpo spesso pruinoso (buccia), un mesocarpo con cellule piene di succo da cui si ricava il mosto (polpa) ed un endocarpo formato da uno strato di cellule che delimita le logge contenenti i semi (vinaccioli).
Le viti americane sono poco sensibili alla fillossera, un afide parassita che attacca le radici delle viti europee, queste specie, così come i loro ibridi, vengono utilizzate sia come portinnesto (arbusto su cui innestare le gemme o le marze dei vitigni), sia come incrocio con alcune varietà di Vitis vinifera per la produzione di uva.
L'uva della Vitis labrusca, e dei suoi ibridi con Vitis vinifera, può essere vinificata e si ottengono vini come il Fragolino (dal nome dell'uva, detta uva fragola o Isabella), o il Clinton, che fino a pochi anni fa erano, ed in qualche caso sono ancora, prodotti tipici dell'autoconsumo di zone fredde ed umide del nord Italia.
Vista la concorrenza che questi vini a basso costo, ed alta produttività (e limitata qualità), procuravano al mercato dei vini di alta qualità e costo prodotti dalla vite europea (Vitis vinifera), l'Italia ne ha vietato la commercializzazione come "vino", tale divieto è stato recepito anche dalla normativa europea. Oggettivamente la produzione di fermentati da vitigni diversi dalla vinifera dà spesso prodotti di modesta qualità, sia per le diverse caratteristiche organolettiche oggettive (ad esempio, il sapore "volpino"), che per la scarsa tenuta all'invecchiamento. La correzione di queste caratteristiche si pratica da un lato con procedimenti tesi a limitarle fino a dove possibile, ed in seguito con aggiunte come la aggiunta di zuccheri grezzi (sciroppi, glucosio, o melasse) o altri correttori ed additivi, non ammessi per la vinifera. D'altra parte gli stessi Stati Uniti e l'Australia distinguono nettamente tra i loro vini quelli di alta qualità originati da vitigni di Vitis vinifera, di cui sono tra i maggiori produttori mondiali, ed i vini, prodotti marginalmente, da viti autoctone americane o da ibridi. Ciò non toglie che, in condizioni commerciali particolari, in assenza di alternative ragionevoli per il clima, i vitigni americani o gli ibridi relativi sono coltivati per la vinificazione con discreti risultati in diversi paesi, come gli Stati Uniti, il Canada, Nuova Zelanda ed in Svizzera.
In Svizzera, vista la resistenza naturale di Specie o ibridi diversi dalla vinifera agli infestanti, (soprattutto crittogame) recati dal clima, i vitigni ibridi interspecifici americani o le viti americane, sono diventate i vitigni d'elezione per l'agricoltura biologica; tra i vini ottenuti: il Marechal Foch, il Regent ed il Vidal Blanc.
Nel Nord Europa ed in Nord America (Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, Canada), hanno trovato ambiente favorevole le coltivazioni di ibridi di Vitis aestivalis e di Vitis amurensis.
Il genere Vitis ha un ampio areale: oltre a Vitis vinifera, che è stata coltivata fin dall'antichità in Europa, in Medio Oriente e nella regione caucasica, ci sono numerose specie di origine americana, asiatica e tipiche di regioni tropicali e subtropicali. Molti sono i paesi in cui sono state introdotte, come la Nuova Zelanda e parte del Nord Africa.[1]
In questo genere sono riconosciute 76 specie
I terreni possono essere di varia tessitura (da argillosa a sabbiosa).
Le varie specie di vite si adattano a diversissimi tipi di terreno, la specie V. vinifera ha una forte tolleranza a suoli calcarei a clima secco, e suoli aridi e drenati.
Le altre specie hanno diverse esigenze di terreno e clima; spesso le americane preferiscono suolo acido o neutro, in qualche caso anche con buona tolleranza al calcare, a volte con ottima resistenza a suolo e clima umido.
Per la Vitis vinifera la pratica dell'innesto su ibridi di selvatico americano rende comunque possibile la coltivazione su terreni a diversa condizione di pH.
Le forme di coltivazione più adatte per l'uva da tavola sono la spalliera, la controspalliera o la pergola, che risulta anche molto decorativa su appositi sostegni.
L'irrigazione è molto importante: per ottenere acini grossi e polposi occorre innaffiare in quantità crescenti a partire dalla fioritura. Le irrigazioni vanno sospese 15 giorni prima della raccolta per evitare la spaccatura degli acini.
Lo stesso argomento in dettaglio: Viticoltura.
Produzione di vino (vinificazione)
Produzione di derivati della vinificazione:
distillati di vinacce (grappa, acquavite)
acido tartarico (per usi agroalimentari)
olio di vinaccioli (semi dell'uva)
polpa di vinacce (per l'alimentazione animale)
Produzione di uva da tavola
Produzione di uva passa
Produzione di altre bevande a base di uva
Prodotti alimentari:
gelatine e confetture
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
L'infuso di foglie giovani raccolte da maggio ad agosto, ed essiccate al sole, ha proprietà astringenti per la presenza di tannino
Le foglie fresche per uso esterno sono curative delle malattie cutanee
L'infuso di foglie per uso esterno serve per irrigazioni, impacchi e lavaggi
I frutti raccolti quasi a maturazione hanno proprietà rinfrescante, disintossicante, diuretica, depurativa del sangue, idratante, vitaminica, energetica, contro l'acidosi, stimolante la digestione, lassativa e antireumatica
Il succo degli acini d'uva filtrato, serve per uso esterno per curare pelli grinzose e come maschera di bellezza
Il decotto di uva passa secca (uva sultanina, zibibbo, malaga, uva di Corinto) ha proprietà emollienti, bechiche ed espettoranti
Il vino d'uva bevuto con moderazione ai pasti, ha un'azione diuretica, tonica, digestiva, antianemica
L'uva ben matura consumata come frutta da mensa, viene utilizzata per la cura dell'uva o ampeloterapia, nelle persone defedate, anziani e bambini, colpiti da varie malattie.
Fitoterapia: dai semi di Vitis vinifera varietà rubra vengono estratti dei particolari flavanoli denominati OPC che hanno dimostrato ampiamente attività antiossidante, antiradicali liberi, vasoprotettiva, antiflogistica, immunostimolante. Consigliabili, a giusta titolazione, soprattutto nell'insufficienza venosa[3] e nella sindrome emorroidaria.[4]
Recente è l'isolamento di un fenolo (stilbene) composito derivato dalle bucce e dai semi, il resveratrolo che sembra avere in natura proprietà protettive ed antimicotiche (antimuffa) nell'acino. Per la salute umana il Resveratrolo ha presentato spiccate attività antinfiammatorie ed antinvecchiamento, risulta inoltre essere un potente antiossidante, (antiteratogeno), agisce come fluidificante del sangue ed ha una notevole attività a prevenire i trombi e, unica sostanza nota, a rimuovere attivamente le placche occludenti i vasi.
Il contenuto nell'uva (parte commestibile), è massimo principalmente nelle bucce. Il contenuto varia molto in funzione della varietà; nei derivati succhi e vino, è solo nelle parti che prevedono la macerazione delle bucce da cui è estratto. Data la concentrazione relativamente bassa nel vino è sconsigliato farne uso terapeutico in questo senso.
I derivati dal Resveratrolo sono prodotti farmaceutici.
Per gli antichi Greci il dio della vite, del vino, dell'ebbrezza e dell'orgia era Dioniso che poi sarà il dio Bacco per i Romani.
Pyracantha (dal greco pyr "fuoco" e akanthos "spina", quindi agazzino) [1] è un genere di grandi arbusti spinosi sempreverdi della famiglia delle Rosaceae , con nomi comuni di agazzino o pyracantha . Sono originari di un'area che si estende dall'Europa sudoccidentale a est fino al sud-est asiatico. Assomigliano e sono imparentati con il Cotoneaster , ma hanno i margini delle foglie seghettati e numerose spine (il Cotoneaster è senza spine). Le piante raggiungono un'altezza di 4,5 m (15 piedi). Le foglie sono piccole e ovali. Le sette specie hanno piccoli fiori bianchi che sono 5- meri e molti stami . I frutti sono bacche rosse, arancioni o gialle (tecnicamente pome ). [2] I fiori sono prodotti durante la tarda primavera e l'inizio dell'estate; le bacche si sviluppano dalla tarda estate e maturano nel tardo autunno.
I frutti di Pyracantha sono classificati come pomi . La polpa è sicura per il consumo umano, ma è insipida e i semi sono leggermente velenosi poiché contengono glicosidi cianogeni (come mele , prugne , ciliegie e mandorle ). [3] I semi masticati e frantumati crudi rilasceranno glicosidi cianogeni e possono causare lievi problemi gastrointestinali se mangiati in quantità sufficienti. [3] [4] [5] Il frutto può essere trasformato in gelatina. [6] I frutti persistono in modo significativo durante l'inverno, il che li rende un prezioso cibo per uccelli. [2]
Un gran numero di frutti fossili di Pyracantha acuticarpa sono stati descritti dagli strati del Miocene medio dell'area di Fasterholt vicino a Silkeborg nello Jutland centrale , in Danimarca . [7]
Pyracantha è un membro della famiglia delle Rose e comprende sette specie. Il genere è stato definito dal botanico del XIX secolo Max Joseph Roemer . [8]
Pyracantha angustifolia . Cina sudoccidentale.
Pyracantha atalantioides . Cina meridionale.
Pyracantha coccinea . Spagna nord-orientale, da est a nord dell'Iran .
Pyracantha crenatoserrata . Cina centrale.
I Pyracantha sono piante ornamentali di pregio , coltivate nei giardini per i loro fiori e frutti decorativi , spesso portati molto densamente. Le spine sono facilmente in grado di perforare la pelle umana e, quando ha successo, il piercing provoca una leggera infiammazione e un forte dolore. La loro fitta struttura spinosa li rende particolarmente apprezzati in situazioni dove è richiesta una barriera impenetrabile. Le caratteristiche estetiche dei pyracantha, insieme alle loro qualità di sicurezza domestica , li rendono un'alternativa a recinzioni e muri artificiali. Sono anche buoni arbusti per un giardino faunistico, fornendo una fitta copertura per gli uccelli appollaiati e nidificanti, fiori estivi per le api e un'abbondanza di bacche come fonte di cibo. [ citazione necessaria ]
I seguenti cultivar hanno vinto la Royal Horticultural Society 's Award of Garden Merit :
Pyracantha 'Orange Glow' [9] (bacche d'arancia)
Pyracantha Saphyr Orange = 'Cadange' [10] (bacche d'arancia)
Pyracantha Saphyr Rouge = 'Cadrou' [11] (bacche rosso-arancio)
Pyracantha 'Teton' [12] (bacche giallo-arancio)
Pyracantha rogersiana 'Flava' [13] (bacche gialle)
Le bacche di Pyracantha possono essere disperse in aree naturali, consentendo alle piante di invadere le comunità naturali. Le specie di Pyracantha sono considerate invasive in alcune parti degli Stati Uniti, compresi gli stati della California e della Georgia. [14] Agazzino arancione ( Pyracantha angustifolia ) è considerato un'erbaccia o potenziale erbaccia ("dormiente") in diversi stati o territori dell'Australia, tra cui Victoria, ACT e New South Wales. [15] Di conseguenza, l'importazione e la propagazione sono vietate in alcune parti dell'Australia.
Il genere Cotoneaster, comunemente detto cotonastro (conosciuto anche con il nome volgare di cotognastro) comprende arbusti della famiglia delle Rosacee. La maggioranza delle specie sono arbusti dal mezzo metro ai cinque. Possono avere portamento eretto o tappezzante (soprattutto specie di montagna che crescono ad alte quote sull'Himalaya). I fiori appaiono dalla tarda primavera a all'inizio dell'estate, solitari o riuniti in corimbi a seconda della specie. Non sono molto grandi, solitamente intrno 5-12mm, e vanno dal bianco al rosso intenso con tutte le sfumature. I frutti sono simili a delle piccole mele, rosa o rosse, e possono rimanere sulla pianta fino all'anno successivo.
Distribuzione
Il genere Cotoneaster è spontaneo nella regione paleartica (Europa, Asia e Nordafrica), con forte diversificazione di specie soprattutto in Cina e nella regione dell'Himalaya[1].
Sistematica
Il genere Cotoneaster è inserito nella famiglia delle Rosacee. La descrizione del genere risale al 1789 a cura del botanico Friedrich Kasimir Medikus.
Comprende, secondo gli autori, da 70 a 300 specie. La Plant List ne riconosce 74 specie[2].
Usi
Diverse specie di Cotoneaster sono apprezzate come piante ornamentali[
Erica L. è un genere della famiglia delle Ericacee, comprendente circa 850 specie sempreverdi a portamento arbustivo.
La maggior parte delle specie è frutici o suffrutici alti da 20 cm a 1,5 m. Le specie più alte sono Erica arborea ed Erica scoparia che possono raggiungere anche 6–7 m. Tutte le specie sono sempreverdi con foglie piccole ed aghifoglia lunghe 2–15 mm.
La produzione di fiori è in genere abbondante e per questo le piante di Erica sono coltivate come ornamentali. I semi sono molto piccoli e in alcune specie possono rimanere sul suolo per decenni.
Sono state riconosciute ed accettate oltre 800 specie di Erica,[1] molte delle quali sono endemiche del Sudafrica e si trovano nel fynbos, la landa tipica della Regione floristica del Capo. Le altre specie sono originarie di altre parti dell'Africa e dell'Europa (in particolar modo della regione atlantica).
Il nome generico Erica assegnato da Linneo, deriva dal latino erīcē[2], una pianta descritta da Plinio, a sua volta adattamento di un'antica parola greca, ἐρείκη eréikē,[3] usata da Eschilo e Teocrito e imparentata con l'antico irlandese froech, con il lettone virši e il lituano virži[4].
Nonostante la similitudine, il nome Erica non deriva direttamente dalla pianta (il cui appellativo è d'origine greco-latina) bensì dal nome scandinavo Erik (antico Eirikr; femminile Erika), sebbene in Italia e nei Paesi di lingua tedesca (dov'è frequente la forma maschile Erich) sia stato promosso dall'erronea associazione con il nome della pianta[5].
Il genere Calluna che comprende attualmente una sola specie, ovvero il brugo (Calluna vulgaris), faceva parte del genere ma è stato separato; si distingue dal genere affine Erica perché ha foglie più piccole (inferiori a 2–3 mm) e la corolla e il calice divisi in quattro parti (tetramero e non pentamero come l'Erica). Spesso comunque le due piante vengono confuse: infatti il brugo a volte è chiamato anche falsa erica, o erica selvatica o ancora più impropriamente erica. Spesso viene confusa con l'erica carnea, che è molto simile come portamento, dimensione e colore.
Tutte le specie di Erica e di Calluna sono piante mellifere, si può ottenere un buon miele monoflorale e sono bottinate dalle api[
Il ciclamino (nome scientifico Cyclamen L. 1753) è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Primulaceae, dall'aspetto di piccole erbacee tuberose e dai delicati fiori rosati.
Il nome del genere (Cyclamen) deriva dalla parola greca kyklos (= cerchio), forse in riferimento alle radici tuberose rotonde. Questo genere di piante era conosciuto fin dall'antichità. Plinio nei suoi scritti lo indica con diversi nomi volgari: “Rapo”, “Tubero” e “Umbilico della terra”. I greci prima ancora lo chiamarono Icthoyethoron (veniva usato come ingrediente per ammazzare i pesci). In tempi moderni è stato il botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708) a introdurre per primo il termine Cyclamen, introduzione avallata successivamente dal botanico e naturalista svedese Carl von Linné nel 1735.
Le piante di questo genere sono tutte basse erbacee a carattere cespitoso. La forma biologica prevalente è geofita bulbosa (G bulb): sono piante il cui organo perennante è un bulbo, dal quale ad ogni nuova stagione nascono foglie e fiori tutti basali.
Le radici sono secondarie fuoriuscenti tutt'attorno ad un tubero (bulbo) arrotondato.
Il fusto è diviso in due parti: una parte interrata (parte ipogea) consiste in un tubero più o meno sferico; la parte aerea (fusto epigeo) è uno scapo fiorale semplice e senza foglie.
Le foglie sono unicamente basali a forme varie (cordiformi o reniformi) ma sempre indivise e con un lungo picciolo. La pagina superiore può essere macchiata variamente di bianco, mentre quella inferiore può presentare delle screziature rosseggianti in proseguimento del picciolo rossastro pure lui. Alcuni botanici pensano che il disegno variegato della parte superiore serva a mascherare la pianta per ridurre i danni derivati dal pascolo degli animali erbivori. A seconda della zona e della specie le foglie possono essere persistenti oppure no; ad esempio le foglie delle specie situate nelle zone mediterranee possono morire durante i periodi più caldi dell'estate (o in caso di forte siccità) per conservare l'acqua al resto della pianta.
L'infiorescenza è formata da fiori singoli (profumati o no), lungamente peduncolati e nutanti.
I fiori sono zigomorfi, pentameri (calice e corolla con 5 elementi) e tetraciclici (formati da quattro elementi: calice – corolla – androceo - gineceo). Del fiore la parte persistente è il calice a sostegno del frutto.
K (5), C (5), A 5, G (5)
Calice: il calice è gamosepalo ed è formato da 5 lacinie triangolari.
Corolla: la corolla è simpetala (o gamopetala); i 5 lobi della corolla sono lunghi quanto il fiore e sono ripiegati all'indietro o comunque ritornano in direzione del peduncolo e in alcune specie possono essere auricolati. I colori della corolla possono essere lilla chiaro, violetto purpureo, bianco rosato o semplicemente bianco. Nelle specie coltivate spesso si possono avere dei fiori doppi (a doppi petali) con margini increspati, dentellati o crenulati di notevole effetto estetico.
Androceo: gli stami sono 5 a disposizione opposta ai petali della corolla.
Gineceo: l'ovario è supero formato da 5 carpelli saldati tra di loro; lo stilo è unico con uno stimma semplice e sporge dalla corolla.
Il frutto è una capsula sferica uniloculare deiscente. I semi contenuti nel frutto sono più o meno tondi con circa 1 – 2 mm di diametro; raggiungono la maturità dopo un anno dalla fioritura. I semi sono dispersi tra l'altro anche dalle formiche (dispersione mirmecoria le quali mangiano l'involucro e scartano il seme vero e proprio).
Le specie del genere Cyclamen sono localizzate nelle zone attorno al bacino del Mediterraneo: varie regioni dell'Europa soprattutto meridionale, l'Asia occidentale e l'Africa boreale. La maggior concentrazione di specie si trova in Asia minore.m L'habitat per le specie italiane dipende dalle zone in cui vivono: per le specie alpine sono i boschi ombrosi (misti a faggete), cespuglieti, luoghi erbosi su terreni leggeri, ma anche carpineti, querceti e betuleti; per le specie più a sud sono i boschi di leccete e caducifogli (come i castagneti).
Il substrato in genere è calcareo con pH basico e valori medi nutrizionali e di umidità del terreno. La tolleranza al freddo dipende da specie a specie, e anche in rapporto all'ambiente nel quale una specie vive normalmente: le specie alpine possono sopravvivere a temperature fino a -30 °C (specialmente se coperte dalla neve); altre specie come ad esempio C. somalense (del nord-est della Somalia) non tollerano il minimo gelo. Dal punto di vista fitosociologico, queste piante appartengono generalmente alle formazioni delle comunità forestali.
Mappa di distribuzione delle specie del genere Cyclamen in Europa, Asia e Africa. (fonte "cyclamen.org")
Il genere Cyclamen non è molto numeroso (circa una ventina di specie); in Italia solo tre sono presenti allo stato spontaneo di cui una sola si trova sulle Alpi italiane. Nella classificazione classica (Sistema Cronquist) questo genere viene attribuito alla famiglia delle Primulaceae; ma prima ancora il botanico francese Antoine Laurent de Jussieu (1748 - 1836) lo aveva collocato nella famiglia delle Orobancoidi. La Classificazione APG II[1] lo ha spostato a quella delle Myrsinaceae; dalla classificazione APG III[2] (e seguente classificazione APG IV del 2016) è invece classificato tra le Primulaceae.[3]
Il genere Cyclamen comprende le seguenti specie:[4]
Cyclamen africanum Boiss. & Reut.
Cyclamen alpinum Dammann ex Sprenger
Cyclamen balearicum Willk.
Cyclamen cilicium Boiss. & Heldr.
Cyclamen colchicum (Albov) Correvon
Cyclamen coum Mill.
Cyclamen creticum (Dörfl.) Hildebr.
Cyclamen cyprium Kotschy
Cyclamen graecum Link
Cyclamen hederifolium Aiton
Cyclamen intaminatum (Meikle) Grey-Wilson
Cyclamen libanoticum Hildebr.
Cyclamen mirabile Hildebr.
Cyclamen parviflorum Pobed.
Cyclamen persicum Mill.
Cyclamen pseudibericum Hildebr.
Cyclamen purpurascens Mill.
Cyclamen rohlfsianum Asch.
Cyclamen × saundersii Grey-Wilson
Cyclamen somalense Thulin & Warfa
Qui di seguito sono indicate le caratteristiche principali delle tre specie spontanee della flora italiana:
Cyclamen hederifolium Aiton (sinonimo = C. neapolitanum Ten.) – Ciclamino napoletano: le foglie terminano con un apice acuto, mentre i margini sono percorsi da denti grossolani; la lamina fogliare ricorda quella dell'edera; i fiori sono inodori di colore rosa e chiazzati di purpureo alla base dei petali e fioriscono in autunno; la corolla è auricolata. Si trova al centro – sud – isole fino a 1300 m s.l.m..
Cyclamen repandum S. & S. (sinonimi = C. vernale O.Schwarz, non Miller; = C. vernum Rchb) – Ciclamino primaverile: le foglie terminano con un apice acuto ed hanno una forma più triangolare, mentre i margini sono percorsi da denti grossolani; i fiori sono profumati, di colore purpureo e fioriscono in primavera; la corolla non è auricolata. Si trova al centro – sud – isole fino a 1200 m s.l.m..
Cyclamen purpurascens Miller (sinonimo = C. europaeum Auct.) - Ciclamino delle Alpi: l'apice delle foglie è arrotondato, mentre i margini sono regolarmente crenulati; i fiori sono notevolmente profumati e fioriscono in autunno; la corolla è purpurea senza orecchiette. Si trova solo al nord sulle Alpi fino a 1900 m s.l.m..
Coltivazione
Il ciclamino è una pianta facile da coltivare e molto generosa: con le giuste cure può fiorire abbondantemente per mesi e produrre molti semi. Può essere coltivato in vaso o in piena terra, in ambienti freschi e umidi riparati dal sole estivo, richiede terriccio di foglie e letame maturo mescolato a sabbia. Il tubero del ciclamino è molto sensibile a muffe e marcescenze che possono derivare da un terriccio fradicio per molto tempo e scarsa aerazione[5]. Per questo motivo è molto importante innaffiare il ciclamino dal basso senza bagnare il tubero: dobbiamo riempire il sottovaso con un dito d'acqua, aspettare circa un quarto d'ora e in seguito eliminare l'acqua in eccesso e far scolare bene il vaso. Un altro accorgimento importante atto a evitare marciumi è eliminare foglie e fiori vecchi dal picciolo.
La riproduzione può avvenire per seme in ambienti a temperatura e umidità controllata. La germinazione risulta semplice ma i tempi non sono brevissimi e le piantine impiegheranno almeno un anno prima di fiorire. Gli esemplari più grossi possono essere riprodotti per divisione dei tuberi vecchi dopo un periodo di riposo, ricordando che ogni porzione di tubero deve avere almeno una gemma.
Astro (nome scientifico Aster L., 1753) è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Asteraceae, dall'aspetto di piccole erbacee annuali o perenni dalla tipica infiorescenza simile alle margherite.
Il nome del genere (Aster) deriva dal greco e significa (in senso ampio) "fiore a stella". Fu introdotto da Linneo ma sicuramente tale denominazione era conosciuta fin dall'antichità. Dioscoride fa riferimento ad un Astro attico (un fiore probabilmente dello stesso genere)[1].
Il nome scientifico attualmente accettato (Aster) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753[2].
La specie tipo per questo genere è Aster amellus L. (1753).
I dati morfologici si riferiscono soprattutto alle specie europee e in particolare a quelle spontanee italiane.
Sono piante mediamente alte che al massimo superano di poco il metro (le specie nordamericane possono raggiungere anche i 3 metri[3]). La forma biologica prevalente nel genere è definita come emicriptofita scaposa (H scap): ossia sono piante perennanti per mezzo di gemme al livello del terreno e con asse fiorale di tipo cespitoso. Nel genere sono presenti altre forme biologiche come anche piante a ciclo biologico annuo.
Le radici sono secondarie da rizoma.
Parte ipogea: consiste in un rizoma portamento obliquo/orizzontale.
Parte epigea: la parte aerea è cilindrica, eretta e ramificata oppure no con capolini più o meno terminali.
Foglie basali a rosetta oblanceolate
Le foglie sono di due tipi: basali e cauline.
Foglie basali: le foglie basali sono disposte a rosetta; sono intere a forma oblanceolata (e quindi attenuate alla base); la superficie è lievemente pubescente.
Foglie cauline: le foglie lungo il fusto sono disposte in modo alterno; quelle mediane sono a forma spatolato-lanceolata; le superiori (progressivamente ridotte), sono lineare-lanceolate e sessili; i bordi sono interi o finemente seghettati; la superficie è pubescente.
Dimensione delle foglie: larghezza 6 – 17 mm; lunghezza 25 – 40 mm. Lunghezza del picciolo: 2 – 3 cm.
L'infiorescenza è del tipo corimboso se composta da diversi capolini con la forma di una margherita (sono presenti anche specie uniflore). La struttura dei capolini è quella tipica delle Asteraceae: il peduncolo sorregge un involucro conico/campanulato/cilindrico composto da diverse squame che fanno da protezione al ricettacolo nudo e piano nella parte terminale sul quale s'inseriscono due tipi di fiori: i fiori esterni ligulati, e i fiori centrali tubulosi. In particolare quelli periferici (da 14 a 55) sono femminili, sono disposti su un'unica circonferenza (o raggio o serie)[4] ed hanno una corolla ligulata con la ligula molto allargata; quelli interni, tubulosi, sono altrettanto numerosi e sono ermafroditi. Le squame (da 25 a 50) sono persistenti e disposte in modo embricato su più serie (da 2 a 4); la forma è ovato-lanceolata. Diametro dei capolini: 2,5 – 5 cm. Diametro dell'involucro: 15 – 25 mm.
I fiori sono zigomorfi (quelli periferici ligulati) e attinomorfi(quelli centrali tubolosi). Entrambi sono tetra-ciclici (formati cioè da 4 verticilli: calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (calice e corolla sono formati da 5 elementi)[5].
Il frutto è un achenio lungo 2,5 – 3 mm che matura fine estate. Si presenta sormontato da un pappo giallastro con peli disuguali disposti su due serie[4] e con la superficie pluri-solcata longitudinalmente. Lunghezza del pappo: 4 – 5 mm.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti (impollinazione entomogama).
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (prima di toccare il suolo possono percorrere diversi metri grazie al pappo spinto dal vento – fase di disseminazione anemocora) sono dispersi poi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Le specie di questo genere sono distribuite in tutto il mondo ma in prevalenza si trovano nel vecchio mondo e in America Settentrionale. Una decina di specie (o meno secondo le ultime ricerche filogenetiche) sono proprie del territorio italiano.
La famiglia di appartenenza della Aster amellus (Asteraceae o Compositae, nomen conservandum) è la più numerosa del mondo vegetale, comprende oltre 23000 specie distribuite su 1535 generi[9] (22750 specie e 1530 generi secondo altre fonti[10]). Il genere Aster comprende oltre 200 specie.
Sul territorio italiano, dopo gli ultimi trasferimenti ad altri generi, sono indicate due sole specie[13]:
Aster alpinus L. - Astro alpino: è una specie non molto alta (6 – 15 cm) con foglie raccolte in una rosetta basale e capolini uniflori; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap); il tipo corologico è Orofita – Circumboreale. L'habitat tipico sono i pascoli alpini e le rupi; la distribuzione sul territorio italiano è relativa al nord e centro fino ad una altitudine compresa fra 1500 e 2800 m s.l.m..
Aster amellus L. - Astro di Virgilio: è una specie mediamente alta (fino a 70 cm) con foglie sia basali che cauline e diversi capolini raccolti in una infiorescenza di tipo corimboso; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap); il tipo corologico è Centro-Europeo. L'habitat tipico sono i cespuglietti, i boschi cedui; la distribuzione sul territorio italiano è relativa al nord fino ad una altitudine di 800 m s.l.m..
Dahlia Cav., 1791 è un genere di piante della famiglia delle Asteraceae, originario del Messico, dove il tubero viene considerato commestibile nonostante il sapore acre. Il nome del genere è un omaggio al botanico svedese Anders Dahl (1751-1789), allievo di Linneo.
Comprende specie erbacee con radici tuberiformi oblunghe, fusto eretto, spesso legnoso alla base, di altezza variabile tra i 20 cm e i 2 m, foglie grandi composte, formate da 3-5 foglioline dentate, portano fiori semplici o doppi molto decorativi di forma e colori vari.
Sono noti innumerevoli ibridi e varietà.
Le varietà maggiormente coltivate derivano principalmente dalla D. variabilis e dalla D. juarezi; in floricoltura vengono convenzionalmente suddivise per gruppi omogenei, in base ad alcuni parametri:
In base alla taglia:
nane
intermedie
alte
In base alla conformazione del capolino:
In base alla quantità dei giri di ligule:
semplici
semidoppie
doppie
Dahlia × hortensis var. vescovo di Llandaff
D. × hortensis var. Dahlstar Sunset Pink
D. × hortensis var. Moonfire
Dahlia × hortensis
Double Dahlia
Dahlia 'Marie'
Dahlia 'Rosella'
Yellow Dahlia
Per la lunga e copiosa fioritura è molto utilizzata come pianta ornamentale nei giardini, in vaso sui terrazzi e industrialmente per la produzione del fiore reciso.
Fiore della Dahlia
Fiore della Dahlia rosso
Le Dahlia coltivate in piena terra preferiscono esposizioni soleggiate, terreno soffice e fresco, neutro, ricco e ben concimato all'impianto con stallatico. L'impianto va fatto tra metà marzo e metà maggio, a seconda del clima, ad una profondità di 10–15 cm. Bisogna distanziare le piante secondo la varietà scelta: per le più alte si lascia uno spazio di 80–120 cm, per le medie di 50–80 cm, per le nane di 30–40 cm[2]. Nel periodo vegetativo dall'inizio della fioritura, concimare frequentemente con fertilizzanti liquidi, come il nitrato, sciolti nell'acqua di irrigazione. Le annaffiature devono essere abbondanti e ben distribuite, senza eccessi che diminuirebbero le dimensioni dei fiori, e non troppo scarse pena un minor numero di fiori per pianta. Necessaria poi la sbocciolatura. Nel momento in cui avviene la formazione dei bottoni fiorali, si eliminano tutti tranne il centrale che, avvantaggiato, darà vita a fiori più grossi. È possibile anche fare il contrario, ovvero tagliare solo il centrale. Si avrà così un numero maggiore di fiori, ma saranno sicuramente più piccoli, talvolta deboli.
La moltiplicazione avviene con la semina, la divisione delle ceppaie o per mezzo di talee[3].
Si moltiplicano agamicamente per divisione delle ceppaie, tolte dal terreno prima del gelo invernale e conservate in luogo asciutto e riparato, su uno strato di sabbia o segatura, lasciando almeno una gemma del colletto per ogni porzione di tubero; la moltiplicazione in febbraio-marzo, per mezzo di talee erbacee fornite di talloncino, ottenute facendo germogliare i tuberi in serra, è destinata alla produzione del fiore reciso.
La semina viene utilizzata per produrre nuove varietà o per le varietà coltivate in vaso generalmente a fiore semplice.
Cimici - gli emitteri del genere Lygus sono causa di macchie biancastre sulle foglie che seccano e cadono, i fiori attaccati risultano deformati
Mosaico o nanismo - l'attacco virale determina l'alterazione del colore della foglia, ingiallimento delle nervature o anche della foglia intera con fenomeni di nanismo; può essere trasmesso dagli afidi.
Chrysanthemum L., 1753 è un genere di piante angiosperme dicotiledoni della famiglia delle Asteracee che comprende piante erbacee perenni o annuali, originarie di molte parti del mondo, dall'Europa alla Cina, con numerosi ibridi e varietà coltivati come piante ornamentali in floricoltura e nel giardinaggio.
Il nome generico latino (Chrysanthemum) deriva dal greco antico χρυσάνθεμον, chrysánthemon, «crisantemo, fiore dorato», a sua volta da χρυσός, chrysós, «oro» e ἄνθεμον, ánthemon, «fiore»[1]. Originariamente avrebbe indicato il ranuncolo, per poi indicare le specie asiatiche[2].
Coltivazione
Le specie annuali si seminano in primavera su terreno di medio impasto, richiedono posizione ben soleggiata[4].
Le specie perenni si moltiplicano invece per divisione dei cespi in primavera e richiedono posizione soleggiata e terreno ben concimato.
I Chrysanthemum perenni a fiore grande, vengono coltivati come annuali per la produzione del fiore reciso, moltiplicandoli a marzo per mezzo di talee erbacee ricavate dal taglio a raso terra dai suffrutici delle vecchie ceppaie, richiedono esposizione in pieno sole annaffiature regolari, concimazioni settimanali con fertilizzanti liquidi o con liquame di stalla diluito, per ottenere piante raccolte e fiori più numerosi e piccoli si cimano le varietà predisposte per questo tipo di produzione, mentre per la produzione del fiore reciso, si deve provvedere alla posa di tutori per ogni stelo e alla soppressione dei bottoni floreali non desiderati, inoltre per la commercializzazione dei fiori nel periodo autunnale, si sfrutta la sensibilità al fotoperiodo dei Chrysanthemum.
Avversità
Cimici - emitteri del genere Lygus provocano macchie bianche sulle foglie che in seguito seccano e cadono, mentre l'attacco ai fiori provoca dannose deformazioni.
Anguillosi fogliare i nematodi della specie Aphelenchoides ritzema-bosi provocano macchie bruno-giallognole sulle nervature principali delle foglie, facendo inturgidire i tessuti ed estendendosi verso il margine fogliare inscurendosi, successivamente le foglie si arricciano, avvizziscono e disseccano rimando attaccate al fusto.
Funghi:
Mal bianco - (Oidium chrysanthemi) provoca macchie biancastre e farinose sulle foglie e gli steli attaccati.
Muffa grigia - (Botrytis cinerea) provoca macchie brune marcescenti su foglie, steli e bottoni floreali che si ricoprono successivamente di una muffa grigiastra.
Ruggine - (Puccinia chrysanthemi) provoca sulla pagina inferiore delle foglie piccole macchie polverulenti color ruggine.
Tracheomicosi - (Verticillium albo-atrum) le parti aeree delle piante colpite appassiscono e disseccano rapidamente.
Vaiolo - (Septoria chrysanthemella) si manifesta inizialmente con macchie bruno-rossastre sparse, sulle foglie, piccioli e fusti, poi le parti colpite diventano grigiastre disseccano e cadono.
Marciume molle - il batterio Erwinia crysanthemi può colpire o la base del fusto provocando il Marciume pedale o il midollo con il Marciume midollare, con conseguente avvizzimento della pianta.
Virus:
Giallume - la pianta attaccata diventa giallastra, i fiori assumono un colore verdastro, si osserva la produzione di numerosi geti secondari che portano piccole foglie deformi.
Mosaico - le giovani piante colpite mostrano una maculatura a mosaico con aloni clorotici e necrotici sulle foglie e sullo stelo.
Nanismo - le piante colpite presentano foglia con macchie clorotiche, assenza di fioritura o fiori piccoli e decolorati.
In Italia (e in altri Paesi europei) il crisantemo è il fiore che tradizionalmente si porta ai propri cari defunti al cimitero ed è in generale associato a situazioni di lutto. Probabile motivazione di ciò è il fatto che la pianta fiorisca fra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, in concomitanza al giorno dei morti (2 novembre).
Lo stesso argomento in dettaglio: Emblema del Giappone e Bandiera del Giappone.
Il crisantemo costituisce un simbolo davvero importante nell'Impero del Sol Levante, essendone l'emblema ufficiale.
Venne associato al trono imperiale, detto Trono del Crisantemo, dall'imperatore Go-Toba nel XII secolo ed è inserito nello stendardo imperiale del Giappone; l'attuale stendardo dell'Imperatore del Giappone è costituito da un crisantemo dorato di sedici petali posto al centro di uno sfondo rosso; le proporzioni sono di due unità in altezza e tre di lunghezza (2:3). L'Imperatrice utilizza lo stesso simbolo, ma esso è a forma di coda di rondine. Il principe e la principessa ereditari utilizzano la medesima bandiera, le differenze consistono soltanto in un crisantemo leggermente più piccolo e un orlo bianco al centro.
Il crisantemo compare come disegno in uno scudo in bronzo all'interno dello stemma del Regno di Giordania, la cui descrizione ufficiale spiega come si tratti di un motivo comune nell'arte e nell'architettura araba.
Il calicanto (Chimonanthus praecox) è una pianta arbustiva appartenente alla famiglia botanica delle Calycanthaceae. Deve la sua fama al fatto che produce il suo fiore in inverno, tra gennaio e febbraio, e la sua fioritura è ricca e molto profumata. Si tratta di un arbusto che non raggiunge grandi dimensioni, ma che è estremamente rustico, al punto da essere in grado di resistere e fiorire al gelo. La coltivazione del calicanto, dunque, è consigliata nei giardini, come pianta ornamentale, proprio perché richiede pochissime cure, ma regala grandi soddisfazioni.
Scopriamo quindi le caratteristiche del calicanto d’inverno e gli accorgimenti colturali per allevarlo rigoglioso in giardino.
Chimonanthus praecox, il calicanto d’inverno, già nella nomenclatura botanica racconta il suo segreto. Il binomio scientifico fu assegnato nel 1821 dal botanico inglese John Lindley, che usò le parole greche χειµόν (cheimón)=inverno, e άνθος (ánzos)=fiore, ovvero fiore d’inverno, il tutto rinforzato dall’aggettivo praecox=precoce.
Fu proprio agli inizi dell’800 che questo arbusto fece la sua comparsa in Europa. La specie infatti è originaria della Cina, dove vegeta spontanea. La pianta fu molto apprezzata per la sua particolare fioritura invernale, tanto da essere sempre più coltivata nei giardini europei. Resistendo bene al gelo, non ha avuto problemi ad ambientarsi.
In Italia si coltiva la specie tipica del genere Chimonanthus, tuttora poco diffusa, ma degne di nota sono anche le altre specie C. yunnanensis, C. nitens, C. grammatus e C. campanulatus.
Il Calicanto è una pianta arbustiva, caducifoglia, con un’intensa attività pollonifera. Dall’apparato radicale espanso nascono fusti eretti, poco contorti e ben ramificati, che nella stagione vegetativa formano una chioma ricca e intricata. Non raggiunge altezze elevate, di solito si attesta tra i 2 e i 3 m. Il portamento non è eccessivamente assurgente, per cui la chioma cresce in un diametro compreso tra 1,5 e 2,5 m.
Le foglie compaiono su fusti e rami in primavera, ben dopo la fioritura. La forma è lanceolata, con una lunghezza fino a 20 cm. L’aspetto è simile alle foglie del pesco, il colore è verde mediamente intenso.
Il calicanto fiorisce tra gennaio e febbraio, quindi la sua fioritura risalta moltissimo, in quanto in pieno inverno è difficile vedere alberi con fiori così sgargianti.
In inverno l’arbusto è completamente spoglio, ma d’un tratto si riempie di fiori gialli, con delicate sfumature violacee. Sono fiori profumatissimi ma molto delicati. Vanno maneggiati con cura, perché una volta caduti a terra perdono il loro aroma.
La fioritura avviene sulle ramificazioni di un anno e più, quindi sul legno vecchio, motivo per cui gli alberi giovani non fioriscono. I fiori, singoli o riuniti in gruppo, sembrano attaccati direttamente al ramo, in quanto privi di picciolo. Per proteggersi dal freddo la superficie è cerosa. Vi sono varietà particolari che accentuano il colore purpureo della corolla.
I frutti sono delle bacche di forma ovale e schiacciata, abbastanza grandi e che contengono i semi. Attenzione perché non sono commestibili, in quanto tossici.
Il calicanto e i suoi fiori sono oggetto di leggende popolari, legate allo straordinario evento di avere dei fiori in inverno. Molto simpatica è la storia del pettirosso e del calicanto, dove il piccolo uccello, messo in fuga dagli altri alberi, trova rifugio solo in quest’ultimo. Madre natura volle premiare il gesto accogliente del calicanto facendo cadere sui rami una pioggia di fiori splendenti e profumati. Omaggiare qualcuno con i fiori del calicanto è un messaggio di protezione e affetto.
Questi fiori sono molto ricercati in profumeria e cosmetica, per ricavarne un’essenza usata per profumi e creme.
I fiori invernali e il loro olio essenziale sono usati nelle preparazioni di medicinali tradizionali cinesi per trattare colpi di calore, vomito, tosse e morbillo.
Come detto, il calicanto è una pianta rustica che non soffre le basse temperature, e la fioritura addirittura avviene finanche quando il termometro scende sotto lo zero. In estate soffre però il sole eccessivo, per cui l’esposizione ideale per coltivarlo in giardino è in mezzombra.
Il calicanto predilige un tipo di suolo fresco e sciolto, ma riesce ad adattarsi anche in terreni più compatti e argillosi, l’importante è che ci sia un buon drenaggio idrico.
All’impianto conviene ammendare al terreno fertilizzanti organici, come ad esempio del buon letame maturo.
Una pianta di calicanto può essere riprodotta in diversi modi. In primo luogo da seme, con semina da effettuare a fine inverno, in piccoli vasetti e dopo aver tenuto per una notte a bagno il seme in acqua tiepida. La pianta partita da seme, in primavere può essere piantata in terra in autunno.
Altro metodo di moltiplicazione è la margotta, da eseguire in ottobre e dividere dopo un anno.
A fine estate si possono prelevare le talee semilegnose da rami apicali, che andranno cresciute in contenitore, fino all’autunno dell’anno successivo.
Per ultimo, si può provare a prelevare a fine estate un pollone intorno al tronco con una porzione di radice e metterlo subito in terra. Questo arbusto ha eccellenti capacità di attecchimento e ripresa.
La Chimonanthus praecox si pianta in giardino in autunno. Le piante acquistate in vivaio in vaso, invece, possono essere piantate anche a inizio primavera.
Impostando un sesto fitto, il calicanto può formare una bella siepe ornamentale.
Per coltivare un singolo albero, invece, conviene lasciare almeno 3-4 metri di spazio intorno.
L’irrigazione del calicanto è necessaria solo per gli esemplari giovani e in stagioni molto siccitose. Attenzione a non esagerare con l’acqua creando ristagni, i quali provocano muffe.
Un arbusto di calicanto non richiede molte cure in termini di potatura. Come detto, la fioritura avviene sui rami vecchi che devono quindi essere preservati. Il consiglio è quello di impostare la struttura scegliendo delle branche ben distanziate e, negli anni successivi, limitarsi all’eliminazione dei nuovi polloni. Se un fusto vecchio si danneggia, magari spezzandosi in seguito a una nevicata, lo si potrà sostituire allevando un nuovo pollone. Questi semplici interventi vanno fatti dopo la fioritura, a fine inverno.
Tra i parassiti che attaccano il calicanto abbiamo gli afidi neri in primavera, che infestano i giovani germogli. Un altro parassita è la cocciniglia, che in caso di forti infestazioni può dar luogo alla formazione di fumaggine. In tutti questi casi, si consiglia d’intervenire lavando la vegetazione della pianta usando il sapone molle potassico specifico per l’agricoltura (che potete acquistare nei negozi specializzati). L’importante è fare i trattamenti in maniera tempestiva e non lasciare che la vegetazione venga rovinata.
Calycanthus L., 1759 è un genere di piante della famiglia Calycanthaceae.[1]
Nell'uso comune, Calycanthus o calicanto continua a designare anche il genere affine Chimonanthus, originariamente compreso nel primo.
Le piante del genere Calycanthus sono arbusti a foglia caduca, alti 1-4 metri.[senza fonte]
Le foglie, di colore verde brillante, sono opposte, con margine intero, lunghe 5-15 centimetri e larghe 2-6 centimetri.
La corteccia ha un forte odore di canfora che viene rilasciato quando i fusti vengono raschiati. L'odore rimane intenso sui rami che sono stati conservati per alcuni anni in ambiente asciutto.
I fiori, fortemente profumati, sono prodotti dalla tarda primavera fino all'inizio dell'autunno per Calycanthus occidentalis, e da aprile a luglio per Calycanthus floridus. Sono larghi 4-7 centimetri, con numerosi tepali di colore rosso Bordeaux. A forma di loto, possono assomigliare ad un piccolo fiore di magnolia. Essi sono impollinati dai coleotteri della famiglia Nitidulidae.
Il frutto è una capsula secca, ellittica, lunga 5–7 cm, contenente numerosi semi.
Il genere comprende le seguenti specie:[1]
Calycanthus brockianus Ferry & Ferry f.
Calycanthus chinensis (W.C. Cheng & S.Y. Chang) P.T.Li - originario della Cina orientale, con fiori bianchi
Calycanthus floridus L. - specie originaria degli Stati Uniti parte orientali, da New York e Missouri, sud attraverso i Monti Appalachi, e Mississippi Valley, in Louisiana, e da est a nord della Florida.
Calycanthus occidentalis Hook. & Arn. - originaria gli habitat umidi-palustri della California al di sotto dei 1.500 metri, compreso nella costa della California, San Joaquin Valley, e la Sierra Nevada.
Il genere Calycanthus è indigeno del Nordamerica (USA orientali, California) e della Cina centro-orientale e sud-orientale.
Diffuso in molti paesi come pianta ornamentale, in Italia e in Corea è divenuto avventizio (per l'Italia solo in Toscana).[1][2]
Le specie di Calycanthus sono state utilizzate come pianta medicinale tradizionale dai nativi americani[senza fonte]. I popoli indigeni della California utilizzarono il Calycanthus occidentalis anche per produrre cesti e per bacchette delle frecce.
Sono coltivate come piante ornamentali da vivai, negli Stati Uniti e in Inghilterra.
L'olio di Calycanthus, distillato dai fiori, è un olio essenziale utilizzato in alcuni profumi di qualità.[senza fonte] I fiori di Calycanthus occidentalis hanno un profumo dolce e speziato. I fiori di Calycanthus floridus sono stati confrontati con l’aroma della gomma da masticare.
Genere che comprende numerosi arbusti sempreverdi molto vigorosi originari della Nuova Zelanda e dell'Australia. Si presenta come un folto cespuglio tondeggiante che può raggiungere anche i due metri di altezza; le foglie sono ovali, di colore verde-grigiastro, in molte specie variegate di giallo o di bianco; a seconda della misura delle foglie le piante si possono suddividere in due grandi categorie, le specie con fogliame grande (7-10 cm) e quelle a foglia piccola (2-4 cm).
In estate produce lunghe spighe di fiorellini di colore vario, dal bianco al viola, che si innalzano dal fogliame; la maggior parte delle specie produce una seconda fioritura durante i mesi autunnali ed invernali; alcune specie di hebe hanno fioritura incospicua, e si coltivano per i compatti cuscini di foglie sempreverdi che producono. Per una crescita migliore si consiglia di potare leggermente la pianta subito dopo la fioritura.
Queste piante gradiscono le posizioni soleggiate, o anche semiombreggiate se coltivate all'ombra completa la crescita può essere scarsa e la fioritura spesso inesistente. La gran parte delle specie è rustica e non teme il freddo; alcune specie invece temono leggermente il freddo, e quindi vanno protette con agritessuto nei periodi di gelate prolungate. Può capitare che il caldo siccitoso dell'estate causi bruciature delle foglie, si consiglia quindi, nelle regioni con clima estivo molto caldo, di provvedere alle piante alcune ore di ombra durante le giornate estive.
Ulteriori informazioni su: Hebe - Hebe - Piante da Giardino - Hebe - Arbusti https://www.giardinaggio.it/giardino/singolepiante/hebe/hebe.asp#ixzz7BihjGWBG
Famiglia e genere
Scrophulariaceae, più di 100 specie e innumerevoli cultivar
Tipo di pianta
Arbusti sempreverdi
Esposizione
Sole, mezz’ombra
Rustico
Media, a seconda della varietà
Terreno
Tollerante, di preferenza subacido. No troppo compatto
Colori
Rosa, rosso, viola, bianco
Irrigazione
Regolare
Concimazione
Una-due volte all’anno
Fioritura
Giugno - novembre
Le hebe sono degli arbusti sempreverdi appartenenti alla famiglia delle Scropulaceae provenienti per la maggior parte dalla Nuova Zelanda. Fino a qualche decennio fa questo genere non esisteva perché le hebe erano considerate una sottospecie delle Veroniche, caratterizzate in particolare dalle foglie persistenti e soprattutto dall’avere un aspetto più cespuglioso e steli legnosi o semi-legnosi.
Il genere è comunque piuttosto vasto. Comprende infatti più di 100 specie e tutta una serie di incroci, ibridi e cultivar. Possono assumere le più svariate forme: da nane a ricadenti, a erette, a cespugliose e arborescenti.
Si adattano a molte tipologie di giardino. In particolare sono ottime per le aree verdi in prossimità del mare (visto che tollerano bene sia il sale sia il forte vento) e, quelle più piccole, trovano ottima collocazione nel giardino roccioso.
Parlando di annaffiature ed irrigazione va detto subito che, per quel che riguarda la Hebe, è preferibile non lasciare asciugare troppo il terreno tra un'annaffiatura e l'altra; in estate annaffiare spesso, anche ogni giorno nei periodi più caldi. Per tutta la stagione vegetativa, da marzo a ottobre, aggiungere del concime per piante da fiore all'acqua delle annaffiature una volta al mese.
Recenti studi hanno stabilito che gli antenati dell’odierno genere arrivarono in Nuova Zelanda in tempi recenti, circa 5 milioni di anni fa. I luoghi di origine erano con tutta probabilità l’Australia e l’Asia. In N.Z. però hanno trovato il loro ambiente ideale e si sono sviluppate creando moltissime nuove specie. In particolare si è visto che il primo sviluppo si ebbe sulle montagne e solo in seguito furono colonizzate anche le valli e le zone vicino alle coste.
Possiamo dire che in quel paese è il genere di piante fiorite in assoluto più diffuso e si possono trovare più di 100 specie con caratteristiche particolari adattate a diverse aree climatiche: montagnose, semi-tropicali o anche semi-desertiche. Sono diffuse in tutto il paese, dalle isole maggiori fino a quelle piccolissime.
Alcune tipologie particolari sono però anche state identificate sull’isola di Rapa (nella Polinesia Francese) a metà strada tra la Nuova Zelanda e il Sud America. Le specie Hebe elliptica e hebe salicifolia sono state rinvenute anche in America Latina.
Gradisce particolarmente i terreni sciolti, ben drenati e ricchi di materia organica, anche se si sviluppa senza problemi in qualsiasi terreno da giardino. Queste piante prediligono un suolo leggermente acido e comunque ben drenato. Bigogna assolutamente evitare i substrati pesanti, argillosi e troppo compatti. Questi infatti tendono a trattenere troppo l’acqua e possono essere causa di marciumi e asfissie radicali.
La veronica è una specie molto rustica e resistente che non ha malattie o insetti che la colpiscono in maniera particolare e specifica. Per evitare l'insorgere di qualsiasi tipo di malattia dovuto ad un indebolimento della pianta, le prime regole da rispettare sono la scelta di un terriccio adeguato e un'irrigazione correlata alla temperatura ed alle necessità di questa pianta.
Il terriccio o il terreno di coltivazione deve essere tendente all'acido e la pianta ha bisogno di terreni sciolti e ricchi di sostanza organica. Oltre a questo ,questa varietà deve essere piantata in un terreno ben drenato che non va annaffiato in maniera esagerata o meglio vanno evitati in tutti i modi i ristagni idrici. Il ristagno infatti è una delle prime cause di un possibile attacco fungino o di un inizio di marciume radicale o del colletto.
Oltre a questi aspetti più colturali, più legati alla prevenzione ed alle buone pratiche di coltivazione, chi coltiva in giardino queste piante dovrà stare attento principalmente agli afidi che possono attaccare le foglie di questa pianta.
In primavera si possono prelevare talee lunghe circa 10-15 cm, che vanno fatte radicare in un miscuglio di torba e sabbia in parti uguali; le nuove piante vanno coltivate in vaso per almeno due anni prima di essere poste a dimora.
Questa pianta è molto resistente e difficilmente viene colpita da parassiti e malattie; talvolta gli afidi neri rovinano completamente le spighe di fiori. L’aspetto più importante durante la loro messa a dimora è di predisporre un ottimo drenaggio. Si deve quindi scavare una buca grande almeno il doppio del contenitore. Sul fondo creeremo un buon strato drenante composto da ghiaia o argilla espansa.
Un ottimo aiuto per la crescita sarà dato da qualche manciata di concime organico (stallatico, cornunghia, guano o farina di ossa). Se il terreno del nostro giardino fosse troppo compatto, sarà meglio, prima di reinserirlo nella buca, mescolarlo con della sabbia fine di fiume e eventualmente un po’ di vermiculite agricola. Entrambi questi materiali aiuteranno a mantenere il suolo aerato, umido, ma non eccessivamente zuppo.
Le hebe sono piante sempreverdi, di solito cespugli. In casi più rari però possono assumere anche la forma di cespuglietti o alberi alti fino a 7 metri. Portano delle infiorescenze apicali raccolte a pannicolo o racemi. I colori possono essere molto vari e andare dal bianco al viola, al rosso al rosa.
Le foglie sono in file e risultano opposite a due a due. Se guardate dall’alto formano una croce.
In Italia quasi tutti gli esemplari sono venduti in contenitore e quindi la pianta può essere messa a dimora in ogni periodo dell’anno. Il momento migliore comunque è la primavera (nelle aree con inverni più rigidi come il Nord o le aree montane) o l’autunno (al Sud e lungo le coste).
È consigliabile in ogni caso predisporre per il primo anno una buona pacciamatura intorno alle radici, composta da stallatico, corteccia di pino o altro materiale isolante.
L’esposizione ideale è sicuramente il pieno sole. In questa collocazione potranno sicuramente dare il meglio di loro e fiorire con una piena continuità. Ad ogni modo si tratta sotto questo aspetto di piante molto tolleranti. Cresceranno molto bene anche in una posizione soltanto a mezz’ombra e riescono a tollerare piuttosto bene anche l’ombra. L’unico inconveniente sarà, in questo caso, la povera o totalmente assente fioritura. Può comunque essere una buona scelta, soprattutto nelle cultivar variegate, per illuminare delle zone poco soleggiate.
Possiamo dire che le hebe sono piante mediamente rustiche, ma che questo aspetto dipende strettamente dalla varietà e rimando quindi alla descrizione specifica (o comunque si dovranno richiedere specifiche informazioni al rivenditore).
In linea generale gli individui con grandi foglie e fiori molto appariscenti sono poco resistenti al gelo e quindi andrebbero coltivate all’esterno solo in aree dove non si scenda mai sotto a 5°C. Vanno tendenzialmente considerate come piante da appartamento o da essere ritirate in serra fredda.
Le cultivar e varietà che invece portano foglie piccole e fiori bianchi risulta generalmente più rustiche e si può provare a coltivarle esternamente. Il consiglio è in ogni caso di porle in una zona riparata (specie se viviamo nelle regioni settentrionali), magari contro un muro posto a Sud. Se non possiamo farlo sarà bene proteggere le radici con foglie, stallatico maturo, erba. Possiamo anche provare a coprirle con del telo apposito.
La potatura per queste piante è fondamentale, in particolare per alcun varietà. Può capitare infatti che la poca cura di questo aspetto possa causare un aspetto esageratamente ramificato e di conseguenza disordinato. Il periodo migliore per intervenire sono i mesi di marzo, aprile e maggio.
L’intervento più importante si ha dopo la prima fioritura. Bisogna avere cura di rimuovere solo i vecchi capolini perché ne compariranno dei nuovi sulle rami più giovani. Una potatura troppo drastica sarà di ostacolo a questo processo e non si vedranno più boccioli fino all’anno seguente.
Se la pianta è in piena terra necessita di pochi interventi. L’ideale è somministrare un concime per piante acidofile (come quello per i rododendri) alla fine dell’inverno e a metà estate. Sarà di aiuto per mantenere un bel fogliame e incoraggiare la costanza delle fioriture.
Se l’esemplare invece è in vaso si può anche distribuire un concime per piante fiorite una volta ogni due settimane, durante il periodo vegetativo.
Le hebe necessitano di un terreno fresco, ma non troppo pieno di acqua. In piena terra di solito non necessitano di interventi, se non in caso di lunghi periodi senza precipitazioni.
Se viviamo in aree particolarmente calde e aride possiamo intervenire una volta ogni 10 giorni distribuendo una buona quantità di acqua.
Se la pianta è in contenitore, invece, è bene prima di irrigare sincerarsi che il substrato risulti totalmente secco anche in profondità. Il metodo migliore è inserire un dito nel terriccio, almeno a due o tre centimetri dalla superficie. Se fosse secco distribuiamo acqua in abbondanza. Evitiamo però sempre l’utilizzo del sottovaso che è in assoluto la prima causa dei marciumi radicali.
Queste piante possono essere riprodotte facilmente tramite talea. I segmenti vanno prelevati durante il periodo vegetativo, preferibilmente durante l’estate. Il taglio deve essere fatto in corrispondenza di un nodo, su steli semilegnosi. Si deve poi rimuovere la maggior parte delle foglie e spargere sul taglio una polvere a base di ormoni radicanti. Si inseriranno in un terriccio molto leggero a base di sabbia e perlite o sabbia e torba
In linea generale si tratta di vegetali molto resistenti. Possono venire attaccati da alcuni insetti (come afidi o bruchi), ma i danni non sono mai tali da obbligare ad intervenire con insetticidi.
Si segnala invece che sono piante molto amate dagli insetti impollinatori quali le api, i bombi e le farfalle. Inseritele quindi nel vostro giardino se volete che si popoli di questi straordinari animali.
Può capitare che queste piante vengano invece colpite da problemi crittogamici quali l’oidio, la macchia nera e la peronospora. In questo caso è bene ripulire la pianta e soprattutto evitare di bagnarne la chioma durante le irrigazioni.
Queste inoltre non devono essere troppe per evitare l’insorgere di marciumi radicali.
Hebe albicans è la più diffusa nei nostri giardini perché risulta piuttosto rustica. Ha foglie semplici e opposite. I fiori, bianchi, sono racemi apicali prodotti dall’estate all’autunno. Forma un cespuglio rotondo e denso.
Hebe hulkeana una tra le più belle. Può raggiungere i 2 metri di altezza e produce lunghe infiorescenze a pannocchia, ramificate di un bel lilla lavanda.
Hebe cupressoides raggiunge anch’essa i 2 metri di altezza e ricorda l’aspetto di un cipresso in miniatura. Ha foglie piccole, piatte e lineari, molto corte e verde scuro. I fiori sono a gruppi di 3-8, piccoli, azzurro pallido. È coltivata come pianta sempreverde senza dare troppa importanza alla fioritura.
Hebe formosa raggiunge il metro di altezza e ha portamento compatto ed eretto con foglie lanceolate. Ha piccoli fiori porpora i racemi ascellari. La fioritura è molto lunga.
Hebe salicifolia raggiunge i 3 metri di altezza. Le infiorescenze sono cilindriche, rosa, lilla o bianche.
Hebe speciosa specie molto interessante per la realizzazione di siepi nelle zone a clima temperato. Hanno una densa fioritura. Una delle più decorative è la Autumn Glory con fiori blu acceso. Molto simile è la Seduisante. ma con infiorescenze cremisi.
Helleborus (Tourn. ex L., 1753), comunemente noto come elleboro, è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae diffuso prevalentemente nel bacino del Mediterraneo, ad eccezione di una specie (H. thibetanus) che è presente in Estremo Oriente[1].
I fiori dell'elleboro sono formati da 5 tepali che sono colorati in diversi modi e assumono spesso un aspetto petaloide. Questi circondano e proteggono i nettari che derivano dalla trasformazione dei veri petali. I tepali persistono dopo l'impollinazione, e studi condotti in Spagna suggeriscono che il perigonio persistente possa contribuire allo sviluppo dei semi[2]. Alcune specie hanno radici rizomatose. La fioritura è invernale o ai primi tepori primaverili.
Tassonomia
Dal genere prende il nome una delle famiglie delle Ranuncolaceae, quella delle Helleboreae.
Helleborus bocconei Ten.
Helleborus bocconei subsp. intermedius (Guss.) Greuter & Burdet
Helleborus colchicus Regel
Helleborus croaticus Martinis
Helleborus cyclophyllus (A.Braun) Boiss.
Helleborus dumetorum Waldst. & Kit. ex Willd.
Helleborus dumetorum subsp. illyricus Starm.
Helleborus lividus Aiton ex Curtis
Helleborus lividus subsp. corsicus (Briq.) P.Fourn.
Helleborus × mucheri Rottenst.
Helleborus multifidus subsp. hercegovinus (Martinis) B.Mathew
Helleborus odorus Waldst. & Kit. ex Willd.
Helleborus purpurascens Waldst. & Kit.
Helleborus × tergestinus Starm. ex Rottenst.
Helleborus thibetanus Franch.
Helleborus vesicarius Aucher ex Boiss.
Helleborus viridis subsp. abruzzicus (M.Thomsen, McLewin & B.Mathew) Bartolucci, F.Conti & Peruzzi
Helleborus viridis subsp. liguricus (M.Thomsen, McLewin & B.Mathew) Bartolucci, F.Conti & Peruzzi
In Italia sono spontanee le seguenti specie[3]:
H. foetidus: diffuso in luoghi sassosi e cespugliosi; fusto ramoso alto oltre i 50 cm; foglie lungamente picciolate, con una decina di segmenti lanceolati dal margine seghettato, le brattee sono ovali e di colore verde pallido; i fiori campanulati, pendenti, sono di colore verdastro, marginati di rosso-brunastro; la pianta emana un odore nauseabondo. È il più utilizzato per la coltivazione in vaso e nei luoghi molto ombrosi.
H. lividus: presente in Sardegna nella sua sottospecie Helleborus lividus subsp. corsicus.
H. viridis: noto anche con il nome di elleboro verde o elleboro falso, velenoso, emana un odore fetido. Spontaneo dei luoghi cespugliosi ed erbosi dalle zone collinari fino a quella alpina al margine dei boschi. Pianta erbacea perenne rizomatosa alta 20–50 cm, con grandi foglie basali, presenti fino alla cima degli scapi florali come brattee, pedate (divise cioè in 3 segmenti principali, di cui il mediano libero e intero, mentre i 2 laterali sono a loro volta divisi in segmenti lanceolati). I fiori odorosi sono grandi, di colore verde o rossiccio, con sepali patenti; fioritura invernale-primaverile. I frutti sono follicoli oblunghi, uniti alla base in gruppi di 3-8 e muniti di rostri, contengono numerosi semi di forma allungata. Ha due sottospecie: subsp. abruzzicus e subsp. liguricus.
Helleborus bocconei: sia la specie in sé che H. bocconei subsp. intermedius sono endemiche in Italia, la prima nelle regioni centrali, la seconda nel Meridione e in Sicilia.
Helleborus niger: noto anche con il nome di rosa di Natale, elleboro nero e erba rocca; pianta erbacea perenne alta 8–35 cm, velenosa, emana un odore acre; ha un rizoma corto e ingrossato di colore nerastro, ricco di radici. Le foglie sono basali, lungamente picciolate, di grandi dimensioni, da oblungo-cuneate a lanceolate, coriacee a margine seghettato, di colore verde scuro; scapi floreali di colore rossiccio, con brattee ovali, sessili. I fiori sono singoli o a coppie, grandi, apicali a forma di coppa, di colore bianco, rosa o rosso-porpora, con piccoli petali tubulosi e numerosi stami, con fioritura da gennaio ad aprile. I frutti sono follicoli rigonfi, muniti di rostri; contengono numerosi semi oblunghi. Vive nei luoghi erbosi e boscosi delle Alpi (dalla Valle d'Aosta al Friuli), incerto per l'Appennino, in pericolo per le indiscriminate raccolte in natura, soprattutto in Brianza, dove esiste il deprecabile costume di farne mazzi per i cimiteri. Spesso coltivato, da non confondere con l'elleboro bianco, che si riferisce a specie di un altro genere il Veratrum album.
Helleborus × tergestinus: specie ibrida endemica del territorio italiano.
L'anemone parviflora, l'anemone settentrionale, o anemone a fiore piccolo, è una specie di pianta erbacea da fiore della famiglia dei ranuncoli delle Ranunculaceae. Le piante crescono da 10 a 30 cm di altezza, da un sottile rizoma di 2 mm di spessore.
Foglie di stelo senza piccioli, foglie basali poche con piccioli lunghi e profondamente divise in tre parti. Le piante fioriscono tra la tarda primavera e la metà dell'estate con i fiori composti da 5 o 6 sepali normalmente bianchi o morbidi bluastri, lunghi da 8 a 13 mm. Le piante producono un peduncolo con un fiore solitario. Frutti in testa di forma ovoidale, lunghi 10 mm o meno, frutti densamente lanosi, non alati e con becchi diritti lunghi da 1 a 2,5 mm. Originali del Nord America centrale e occidentale, principalmente in Canada e Alaska ma anche a sud dell'Idaho e persino nello Utah dove si trova che cresce su sporgenze rocciose bagnate, prati e lungo rive in terreni normalmente calcarei.
Taxonomic tree:
Domain:
Kingdom: Plantae
Phylum: Magnoliophyta
Class: Magnoliopsida
Order:Ranunculales
Family:Ranunculaceae
Genus:Anemone
Il genere grevillea comprende numerose specie di piante sempreverdi appartenenti alla famiglia delle Proteaceae. Originaria di Australia e Nuova Zelanda, ha un portamento che varia in base alla specie: esistono infatti piccoli cespugli ma anche alberi enormi.
La varietà più diffusa, anche perché la più facile da coltivare, è la grevillea rosmarinifolia che ha foglie molto simili a quelle del rosmarino.
Vediamo qui di seguito le caratteristiche generiche della pianta.
Tronco: dritto e con pochi rami, si arricchisce con una splendida chioma sempreverde caratterizzata da fronde che somigliano al fogliame della felce.
Foglie: simili ad una felce, sono piccole foglioline a forma di lobo molto leggere. La pagina superiore è di un bel verde inteso mentre la parte inferiore è argentea e rivestita da una setosa peluria.
Fiori: estremamente appariscenti, sono abbondanti e dalle tinte vivaci e accese. Il periodo della fioritura varia in base alla varietà del genere. In genere, la struttura fiorale è priva di petali ma si presenta sotto forma di lunghi tubuli curvi contenenti stilo e stigma. I fiori delle varie specie di Grevillea attirano gli insetti impollinatori, attirati dall’eccessiva quantità di nettare.
Frutti: i fiori della Grevillea vengono seguiti da corti baccelli che giungono a maturazione a fine inverno e contengono semi dall’aspetto alato.
Ne esistono circa 200 specie che vengono coltivate soprattutto per le fioriture appariscenti.
Vediamo qui di seguito quali sono le specie più facili da reperire e da coltivare, e soprattutto che meglio si adattano al nostro clima.
Grevillea rosmarinifolia: somiglia tantissimo al rosmarino e può raggiungere i 2 metri di altezza. Fiorisce in inverno con fiori rossi o rosa intenso riuniti in grappoli.
Grevillea juniperina: arbusto dalla forma compatta che può crescere fino a 2 metri di altezza. I fiori sono di vario colore, dal giallo al rosso. Le foglie sono raggruppate.
Grevillea lanigera: dal tipico portamento arbustivo, può arrivare a 150 cm di altezza. Il nome si riferisce alle foglie “pelose” che ricordano appunto la lana. I fiori sono rosa ma non mancano anche varietà a fiori rossi e bianchi. E’ un arbusto rifiorente, ciò significa che i fiori sono sempre presenti sulla pianta.
Grevillea robusta: albero di grosse dimensioni che può facilmente superare i 10 metri di altezza. Nel suo habitat originario cresce addirittura ad una altezza compresa tra 18 e 35 metri. Ha foglie che ricordano le felci mentre i fiori, raccolti in racemi, sono arancioni e compaiono in primavera.
La fioritura della Grevillea è semplicemente spettacolare, caratterizzata da una grande quantità di densi fiori riuniti in racemi. Privi di petali, sono costituiti dal solo calice da cui sporge uno stilo lunghissimo e colorato. Le tinte prevalenti sono il rosso e il rosa.
Il periodo della fioritura varia da specie a specie. In genere la pianta inizia a fiorire nel periodo inverno–primavera. La Grevillea rosmarinifolia invece fiorisce in autunno-inverno, mentre la Juniperina in estate e poi, per tutto il resto dell’anno, si fa ammirare per le rustiche fronde sempreverdi.
Indipendentemente dalla specie, il colore brillante dei fiori rappresenta un forte richiamo per gli uccelli che fungono da impollinatori per le piante.
La Grevillea può essere coltivata sia a terra che in un vaso. Non ha particolari esigenze, ma è bene conoscere alcune accortezze.
Molto varia in base alle diverse specie. In linea generale, le temperature per la coltivazione sono:
primavera / estate tra i 18-21 gradi
in inverno non si deve mai scendere al di sotto dei 7 gradi centigradi
Nelle zone con clima mite possono essere coltivate tutte le varie specie di grevillea. L’importante è tenerla sempre ben esposta al sole.
Ama l’esposizione a pieno sole.
Se coltivata in piena terra richiede un terreno leggermente acido, sciolto, soffice e ben drenato. Per la coltivazione in vaso va benissimo il terriccio usato per le piante che richiedono terreno acido, con aggiunta di sabbia. Si consiglia di preferire vasi in terracotta che permettono la respirazione del terriccio.
Sopporta bene anche lunghi periodi di siccità. Durante la ripresa vegetativa e in primavera ed estate richiede irrigazioni abbondanti e frequenti. Il terreno va mantenuto sempre umido, ma non inzuppato d’acqua. Prima di procedere con l’annaffiatura, è bene controllare che la terra in superficie sia asciutta.
Quando le temperature sono davvero molto alte, si consiglia di effettuare nebulizzazioni d’acqua anche sulla chioma.
Dalla primavera all’autunno va concimata ogni 2 settimane diluendo il fertilizzante nell’acqua delle annaffiature. Per le quantità seguire le indicazioni riportate sul prodotto.
Da preferire un concime che sia ricco, oltre che dei macroelementi come azoto, potassio, e fosforo, anche di microelementi come ferro, zinco, manganese, rame, boro e molibdeno.
Va eseguita in primavera, prima dell’inizio della fase vegetativa. La potatura è fondamentale in quanto permette di poter regolare la crescita della pianta stessa dandole una forma ben curata.
Il metodo di moltiplicazione più diffuso è quello per talea.
In primavera si prelevano dai germogli laterali delle talee semi-legnose lunghe 6-8 cm. Quindi vanno messe a radicare in un miscuglio costituito da due parti di terriccio universale e una di sabbia. Annaffiare regolarmente e mantenere costantemente umide.
A radicazione avvenuta, vanno quindi trapiantate in singoli contenitori o in piena terra e allevate esattamente come le piante adulte.
È una pianta resistente a quasi tutti i tipi di parassiti o agenti patogeni. Tuttavia, è sensibile alle malattie fungine possono svilupparsi a seguito di marciumi radicali causati da un’eccessiva umidità o da ristagni idrici. Attenzione pertanto durante le annaffiature a non creare ristagni d’acqua.
Le foglie di alcune specie della Grevillea possono provocare dermatiti da contatto. Nello specifico si tratta di ibridi della specie Grevillea banksii “Robyn Gordon”. Per ogni precauzione, prima di procedere con la potatura è bene munirsi di guanti.
Il Clerodendrum trichotomum è una pianta della famiglia delle Verbenaceae, originaria del Giappone. È la specie di Clerodendrum più comune in Italia. Morfologia
È un grande arbusto che raggiunge un'altezza di 4 m, chioma larga fino a 4 m, molto ramificato. I rami sono coperti di peluria.
Ha foglie decidue, scabre, lunghe fino a 25cm, lungamente picciolate a lamina di colore verde scuro, dalla forma triangolare. La pagina inferiore ha venature pelose e ha un caratteristico odore di latte.
Fioritura tra luglio e agosto. I fiori bianchi, stellati, riuniti in grandi corimbi intensamente profumati, ricordano quelli del gelsomino.
I frutti autunnali sono bacche rotonde, delle dimensioni di un pisello, racchiuse da un calice a forma di lanterna di colore rosso-cardinalizio. Dapprima verdi, si scuriscono all'apertura del calice, diventando blu-viola. Non sono tossici.
A Pavia, in viale Matteotti, si trova un esemplare alto circa 5 metri.
Distribuzione
Originaria della Cina, Giappone e l'isola di Giava, è la specie di Clerodendrum più comune in Italia. Introdotta nel 1800 dal Giappone, la si trova nella pianura Padana.
Molto utilizzata come pianta ornamentale in parchi, viali e giardini. Le foglie hanno proprietà ipotensive.
Sopporta bene il caldo e il freddo (fino a -10C), ma vuole una buona esposizione al sole. Si riproduce per semina in primavera, per talea semilegnosa o interrando porzioni delle radici.
Amaryllis L. è un genere di piante della famiglia delle Amaryllidaceae, originario del Sudafrica.
Sono piante bulbose alte circa 70 cm, spesso confuse con il genere Hippeastrum da cui si distinguono per i fiori in numero maggiore e di dimensioni minori[2]; il nome del genere deriva dal greco e significa splendere.
I numerosi ibridi hanno fiori con colori di varia tonalità.
Il genere comprende due specie:[1]
Amaryllis paradisicola Snijman
Non ha particolari esigenze, vuole posizioni in pieno sole o mezz'ombra, nelle zone a clima invernale rigido, si coltivano al riparo di un muretto esposto a Sud, e provvedendo a ricoprire il terreno con una pacciamatura di foglie secche, non gradisce i suoli troppo compatti, la concimazione va effettuata incorporando con delicatezza del terricciato dopo la fioritura.
La moltiplicazione avviene con la piantagione dei bulbi in luglio, o raramente con la semina con fioriture dopo 3-6 anni.
Cocciniglia cotonosa adulti e larve dell'emittero Pseudococcus citri (Risso), succhiano la linfa in special modo dalla pagina inferiore, provocando un'abbondante melata su cui si sviluppa la fumaggine.
Muffa verde i funghi del genere Penicillium, provocano marciumi nei bulbi conservati in magazzini, caldo-umidi e non arieggiati.
Avvizzimento maculato l'attacco virale provoca sulle foglie macchie giallo-biancastre, cui segue il disseccamento del lembo fogliare o un seccume di colore rossiccio lungo i bordi.
Come pianta ornamentale nei giardini o in vaso, e per il fiore reciso.
Le popolazioni indigene africane utilizzavano per avvelenare le punte delle loro frecce delle misture di piante in cui rientrava il succo del bulbo di Amaryllis.
I bulbi, come altre parti della pianta sono velenosi, per il contenuto in alcaloidi, tra cui la bellamarina, che provocano vomito, diarrea, tremori e convulsioni, negli animali al pascolo o nell'uomo.
Kalanchoe (Adans., 1763) è un genere di circa 155 specie di piante succulente della famiglia delle Crassulaceae, principalmente originarie del Vecchio Mondo. In seguito all'introduzione, ora alcune specie crescono selvatiche anche nel Nuovo Mondo[1].
Il nome deriva dalla latinizzazione del Cantonese gaa laam coi, "pianta del tempio". [2][3][4], come registrato da Georg Joseph Kamel, missionario gesuita nelle Filippine intorno al 1700.[5][6]
La maggior parte sono arbusti o piante erbacee perenni, ma alcune sono annuali o biennali. La più grande, la Kalanchoe beharensis del Madagascar, può raggiungere i 6 m di altezza, ma la maggior parte delle specie restano sotto il metro.
Sono piante molto rustiche e caratterizzate da grasse foglie verdi o maculate, coltivate sia per il fogliame ornamentale che per i fiori variopinti.
I fiori si sviluppano all'apice della foglia. Come molte piante tropicali è brevidiurna e quindi la fioritura avviene alla fine dell'inverno.
Sono caratterizzate dalla gran quantità di petali ben ramificati.
Le specie del genere Kalanchoe sono diffuse in Madagascar, dove è concentrata la maggiore biodiversità, in Africa orientale e meridionale, nella penisola arabica, nel sud-est asiatico e nelle aree tropicali dell'Asia.
Lo stesso argomento in dettaglio: Specie di Kalanchoe.
Il genere è stato descritto per la prima volta dal botanico Michel Adanson nel 1763. Il genere Bryophyllum fu descritto da Salisbury nel 1806, e il genere Kitchingia fu creato da Baker nel 1881. Al giorno d'oggi, Kitchingia è usato come sinonimo di Kalanchoe, mentre alcuni botanici trattano Bryophyllum come un genere separato[4].
Il genere Kalanchoe comprende attualmente 155 specie[1]. Tra queste le più note, data la popolarità come piante ornamentali, sono:
Kalanchoe blossfeldiana: la più comune, è molto apprezzata per le notevoli e colorate infiorescenze. Ne esistono numerose varietà con fiori di diversi colori ed è una delle piante insignita del Award of Garden Merit della Royal Horticultural Society[7].
Kalanchoe daigremontiana: nota anche come "madre di milioni" presenta la particolare caratteristica di sviluppare piccole piante sui margini delle foglie le quali, staccandosi, permettono la propagazione della specie[8].
Kalanchoe thyrsiflora: tra le specie di Kalanchoe di maggiori dimensioni, K. thyrsiflora è caratterizzata dalle ampie foglie arrotondate che le sono valse il soprannome di "paddle plant"[9].
In generale queste piante sono particolarmente rustiche e di facile coltivazione sia in piena terra (per esempio nei giardini rocciosi) che in vaso come pianta ornamentale d'appartamento. Sono molto apprezzate per la robustezza, la facilità di propagazione e la bassa richiesta d'acqua.
Si caratterizzano inoltre per un tipo particolare di fotosintesi detta, in inglese, CAM (Crassulacean Acid Metabolism).
Kalanchoe pinnata ha una curiosità: presenta una moltiplicazione vegetativa in cui dei piccoli esemplari si sviluppano ai bordi delle foglie delle piante adulte, con un principio di radici. Quando la foglia si rompe e cade, i piccoli esemplari che vengono a contatto col suolo radicano direttamente. Una situazione analoga si ha nella Kalanchoe daigremontiana e in altre specie come la Kalanchoe delagoensis
Le annaffiature devono essere abbondanti d'estate, mentre il terriccio deve essere quasi asciutto d'inverno[10].
Concimazioni moderate ma regolari.
Cupressus L., 1753 è un genere di piante della famiglia Cupressaceae (cipressi in senso ampio) comprendente alberi anche di notevoli dimensioni, alti fino a 50 metri, con chioma generalmente affusolata, piramidale molto ramificata, e rametti cilindrici con numerosissime foglie.
Descrizione
I cipressi sono alberi sempreverdi con foglie ridotte a squame, strettamente addossate le une alle altre o divaricate all'apice, secondo le specie. In alcune specie, le foglie schiacciate rilasciano un caratteristico odore. Il colore delle foglie è molto scuro nel cipresso diffuso in Italia (Cupressus sempervirens), ma in altre specie è più chiaro (Cupressus macrocarpa) e persino verdazzurro (Cupressus arizonica).
I coni megasporangiati, detti galbuli, sono legnosi, tondeggianti, divisi in un certo numero di squame che si separano a maturità.
Distribuzione
Il genere è diffuso in tutte le regioni a clima caldo o temperato-caldo, anche arido, dell'emisfero settentrionale: America settentrionale e centrale, Europa meridionale, Africa settentrionale, Asia dal Vicino Oriente fino alla Cina e al Vietnam. Più di metà delle specie sono originarie del ristretto triangolo formato da California, Arizona e Messico. Esistono cipressi anche nel cuore del deserto del Sahara.
Alcune specie di cipressi hanno avuto successo a scopo ornamentale e sono state piantate nelle regioni a clima caldo o temperato di quasi tutto il mondo. Tra questi troviamo il cipresso toscano , Cupressus arizonica, e le amate cultivar Goldcrest e willma di Cupressus macrocarpa, specie endemica di una piccolissima parte della California, Monterey. Anche se diffusa in tutto il mondo a scopo ornamentale, la specie è classificata "in pericolo di estinzione" nel suo areale.
Usi
È l'albero tipico dei cimiteri perché le sue radici, scendendo a fuso nella terra in profondità invece che svilupparsi in orizzontale (come per le querce e gli altri alberi a chioma larga), non danno luogo a interferenze con le sepolture circostanti.
Avversità
Insetti:
Coleotteri
Ilobio: gli adulti di Hylobius abietis erodono la corteccia, provocando lesioni da cui fuoriesce la resina.
Ilotrupe: le larve di Hylotrupes bajulus vivono più di due anni scavando gallerie sottocorticali, in tutto il cilindro legnoso.
Lepidotteri
Rodilegno bianco: le larve di Zeuzera pyrina provocano seri danni scavando gallerie nei rami e nei tronchi sottili.
Funghi:
Cancro da Corineo: l'attacco di Coryneum cardinale provoca sulle branche e i giovani rametti, ulcerazioni da cui fuoriesce abbondante la resina e successivamente un cancro che interessa tutta la circonferenza della parte colpita, causando il disseccamento della parte superiore.
Ruggine: il tronco, le branche e i rametti attaccati da Gymnosporangium cupressi presentano dei rigonfiamenti affusolati.
Il genere Cupressus comprende una ventina di specie (il numero varia a seconda degli autori).
Specie del Vecchio mondo
Cupressus atlantica, il cipresso del Marocco
Cupressus cashmeriana, il cipresso del Bhutan
Cupressus duclouxiana, il cipresso dello Yunnan
Cupressus dupreziana, il cipresso del Sahara
Cupressus gigantea, il cipresso del Tibet
Cupressus sempervirens, il cipresso mediterraneo, frequente in Italia allo stato coltivato e sub-spontaneo
Cupressus torulosa, il cipresso dell'Himalaya
Specie del Nuovo mondo
Cupressus arizonica, il cipresso dell'Arizona
Cupressus goveniana, originario della California
Cupressus guadalupensis (tra cui la var. forbesii)
Cupressus lusitanica, il cipresso messicano
Cupressus macrocarpa, il cipresso di Monterey, originario della California e molto utilizzato come pianta ornamentale anche con la sua varietà Goldcrest
Ibridi e Cultivar
× Cupressocyparis leylandii, ibrido intergenerico fra Cupressus e Chamaecyparis utilizzato come pianta ornamentale
Aspetti culturali
Associato al culto dei morti fin dall'antichità, il cipresso è simbolo di vita eterna in alcune civiltà orientali, specialmente in Persia, nell'area della religione di Zoroastro (600 a.C.).
Per i Greci – muovendo dal mito di Ciparisso, un giovane che per errore uccise il suo cervo molto amato e che, per liberare dal dolore, Apollo, movendosi a pietà, trasformò in un cipresso – l'albero era legato al lutto (cioè al dolore che si prova a causa della morte di qualcuno particolarmente amato). I Romani e gli Etruschi riprenderanno l'eredità greca del cipresso come albero sacro, legato al lutto e al funerale, oltre che a motivi ornamentali.
In ambito cristiano, il cipresso – insieme alla palma, al cedro e all'ulivo – è ritenuto uno dei quattro legni con cui fu costruita la croce di Gesù.
Tra i cipressi di particolare rilevanza, in qualche caso anche individuale, nell'ambito del paesaggio italiano, si ricordano il cosiddetto Cipresso di Michelangelo, conservato forse fin dalla costruzione della Certosa delle Terme nel chiostro dell'edificio, situato di fronte alla Stazione Termini in Roma (oggi inglobato nel Museo Nazionale Romano); il "Cipresso di San Francesco" a Verucchio (RN), monumento vegetale di oltre 700 anni situato nel chiostro di un monastero francescano; la cipresseta di Fontegreca nel Parco Regionale del Matese (CE). Anche il viale dei Cipressi immortalato dal poeta Giosuè Carducci nell'opera Davanti San Guido, che, con uno sviluppo rettilineo di quasi 4 chilometri collega Bolgheri all'oratorio di San Guido, è soggetto a tutela nell'ambito del patrimonio storico nazionale.
La tuia (Thuja, L. 1753) è un genere appartenente alla famiglia delle Cupressaceae originario dell'Alaska, della regione dei Laghi nordamericani, della Cina e del Giappone.
Il nome del genere deriva dal greco θυία thyía ("cedro") per il caratteristico odore del legno; in America viene chiamata arborvitae (dal latino, "albero della vita").
Il genere Thuja comprende specie arboree e arbustive sempreverdi, di grandi dimensioni (possono arrivare a 60 m di altezza); hanno fusto rastremato, chioma conica, corteccia fessurata colore rosso cannella, rametti leggermente appiattiti, foglie ridotte a scaglie, galbuli legnosi , lunghi 1-2 cm.
Alcune specie vengono utilizzate come piante ornamentali come la Thuja occidentalis, originaria del Nord America, e la Thuja orientalis (= Platycladus orientalis (L.) Franco), originaria della Cina, albero o arbusto con altezza tra 1 e 8 m mentre nel paese d'origine presenta forme arboree alte fino a 20 m, con rametti leggermente appiattiti, identici su ambo le facce, disposti sullo stesso piano a formare delle strutture ventagliformi disposte verticalmente o obliquamente, i corpi fruttiferi rosso-brunastri lunghi circa 1,5 cm, hanno poche squame arricciate all'apice, la Thuja plicata originaria delle coste del Pacifico dall'Alaska alla California, grande albero sempreverde alto fino a 30 m, corteccia dei rami fibrosa di colore rosso-brunastro o grigiastro, la Thuja standishii, che presentano varie sfumature gialle, dorate, bronzee a seconda della varietà.
Vengono utilizzate nei giardini per siepi e macchie isolate.
Richiedono esposizione a medio-sole, terreno acido, sporadiche concimazioni organiche, non gradiscono interventi drastici di potatura.
Ginkgo biloba (L., 1771) è una pianta gimnosperma, unica specie ancora sopravvissuta della famiglia Ginkgoaceae, dell'intero ordine Ginkgoales (Engler 1898) e della divisione delle Ginkgophyta. È un albero antichissimo le cui origini risalgono a 250 milioni di anni fa nel Permiano[1] e per questo è considerato un fossile vivente. È una specie relitta.
Appartiene alle Gimnosperme: i semi non sono protetti dall'ovario. Le strutture a forma di albicocca che sono prodotte dagli esemplari femminili non sono frutti, ma semi ricoperti da un involucro carnoso.
La pianta, originaria della Cina, viene chiamata volgarmente ginko o ginco o albero di capelvenere. Il nome Ginkgo deriva probabilmente da un'erronea trascrizione del botanico tedesco Engelbert Kaempfer del nome giapponese ginkyō (ぎんきょう?) derivante a sua volta da quello cinese 銀杏 "yin xing " (銀, yín «argento» e 杏, xìng «albicocca»; 銀杏T, yínxìngP, «albicocca d'argento»). Questo nome è stato attribuito alla specie dal famoso botanico Carlo Linneo nel 1771 all'atto della sua prima pubblicazione botanica ove mantenne quell'erronea trascrizione del nome originale. Il nome della specie (biloba) deriva invece dal latino bis e lobus con riferimento alla divisione in due lobi delle foglie, a forma di ventaglio.
È una pianta arborea che raggiunge un'altezza di 30–40 m, chioma larga fino a 9 m, piramidale nelle giovani piante e ovale negli esemplari più vecchi. Il tronco presenta rami sparsi da giovane, più fitti in età adulta, branche principali asimmetriche inclinate di 45°, legno di colore giallo. I rami principali (macroblasti) portano numerosi rametti più corti (brachiblasti), sui quali si inseriscono le foglie e le strutture fertili.
È liscia e di color argento nelle piante giovani, diventa di colore grigio-brunastro fino a marrone scuro e di tessitura fessurata negli esemplari maturi.
Ha foglie decidue, di 5–8 cm, lungamente picciolate a lamina di colore verde chiaro. In autunno assumono una colorazione giallo vivo molto decorativa, dalla forma tipica a ventaglio (foglia labelliforme) leggermente bilobata e percorsa da un numero elevato di nervature dicotome. La morfologia fogliare varia a seconda della posizione e dell'età: le plantule hanno foglie profondamente incise, le foglie portate dai brachiblasti hanno margine interno e talvolta ondulato, le foglie portate dai macroblasti sono spesso bilobate.
La Ginkgo è una gimnosperma e per questo non presenta dei fiori come abitualmente li intendiamo. Le Gimnosperme non hanno fiori, ma portano delle strutture definite coni o strobili o, come in questo caso squame modificate. I coni da un punto di vista funzionale possono essere considerati simili a dei fiori per omologia. È una pianta dioica, cioè che porta strutture fertili maschili e femminili separate su piante diverse.[1][collegamento interrotto] Negli strobili maschili i microsporangi sono portati a coppie su microsporofilli, disposti a spirale su un asse allungato. L'impollinazione è anemofila.
Negli strobili femminili gli ovuli, inizialmente due, si riducono ad uno solo nel corso dello sviluppo e sono portati su peduncoli isolati. Dunque le piante femminili, a differenza della maggior parte delle Gimnosperme (in particolare delle Pinophyta), non producono coni propriamente detti, ma strutture analoghe a questi.
La fioritura è primaverile. Tra impollinazione e fecondazione intercorrono alcuni mesi. La fecondazione avviene a terra all'inizio dell'autunno, quando gli ovuli sono già caduti dalla pianta madre e hanno quasi raggiunto le dimensioni definitive. I gameti sono ciliati e mobili, come avviene in molti altri gruppi(Cycadophyta, muschi, felci ed alghe).
I semi, di cui è commestibile l'embrione dopo la torrefazione, sono lunghi 1,5–2 cm e sono rivestiti da un involucro carnoso definito sarcotesta, pruinoso di colore giallo, con odore sgradevole a maturità per la liberazione di acidi carbossilici, in particolare acido butirrico.[2] All'interno del sarcotesta vi è una parte legnosa chiamata sclerotesta che contiene l'embrione. La germinazione del seme avviene fuori terra (epigea).
Distribuzione
La pianta è originaria della Cina, nella quale sono stati rinvenuti fossili che risalgono all'era paleozoica. La pianta è stata ritenuta estinta per secoli, ma recentemente ne sono state scoperte almeno due stazioni relitte nella provincia dello Zhejiang nella Cina orientale. Non tutti i botanici concordano però sul fatto che queste stazioni siano davvero spontanee, perché la Ginkgo è stata estesamente coltivata per millenni dai monaci cinesi.[3]
Coltivazione
È una specie eliofila che preferisce una posizione soleggiata e un clima fresco. Non è particolarmente esigente quanto a tipo di terreno anche se vegeta meglio in terreni acidi e non asfittici. È una pianta che sopporta le basse temperature: è stato dimostrato che non subisce danni anche a -35 °C. La moltiplicazione avviene generalmente per margotta. È preferibile coltivare gli individui maschili per evitare lo sgradevole odore dei semi; tuttavia il sesso della specie è difficilmente riconoscibile in quanto la pianta non presenta caratteri sessuali secondari affidabili. Le piante mal sopportano la potatura: i rami accorciati si seccano.
Il primo Ginkgo biloba importato in Italia, nel 1750, si trova nell'Orto Botanico di Padova (Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO). È un esemplare maschile maestoso su cui, verso la metà dell'Ottocento, fu innestato a scopo didattico un ramo femminile (femminelliosi indotta). L'ultima piantumazione si fa registrare sempre a Padova in Arcella, nella varietà Lazheerfullensis (poligamica).
Propagazione
La pianta si riproduce per seme o per talee semilegnose prelevate durante l'estate.
Usi
Molto utilizzata come pianta ornamentale in parchi, viali e giardini grazie alla notevole resistenza agli agenti inquinanti non solo delle metropoli più inquinate, ma anche in cittadine più piccole. Viene inoltre usata anche per creare cortine frangivento. È presente un esemplare secolare anche a Vedano al Lambro, paese della Brianza confinante con Monza.
Diffuso il suo utilizzo per farne bonsai.
Viene coltivata industrialmente in Europa, Giappone, Corea e Stati Uniti per l'utilizzo medicinale delle sue foglie.
Il legno giallastro viene usato per la costruzione di mobili, lavori di tornio e intaglio, è però di bassa qualità data la sua fragilità.
La parte interna legnosa dei semi viene utilizzata come cibo prelibato in Asia e fa parte della tradizione culinaria cinese. Viene commercializzato sotto il nome di "White Nuts". In Giappone i semi di Ginkgo vengono aggiunti a molti piatti, per esempio il chawanmushi, e utilizzati come contorno.
Ormai numerosi e scientificamente rilevanti sono gli studi che attestano le molteplici proprietà terapeutiche e salutari degli estratti di Ginko biloba. Ciò ne ha promosso la riscoperta come integratore alimentare, tra i dieci maggiormente consumati nel mondo occidentale.[4] La maggior parte delle pubblicazioni prendono in esame degli estratti standardizzati contenenti elevate concentrazioni di principi attivi, in particolare quelli denominati "EGb-761" che hanno mostrato efficacia nel trattamento di un'ampia varietà di condizioni patologiche, anche se in alcuni casi la qualità delle evidenze raccolte non è tale da trarre conclusioni definitive sulla reale portata terapeutica.[5]
Principi attivi
I composti presenti negli estratti di Ginko biloba e che si ritiene siano responsabili dell'azione terapeutica sono[6][7][8]
Il terpene trilattone Bilobalide, che rappresenta il 2.6-3.4% del peso secco.
I Gingkolidi A, B e C (che rappresentano in totale il 3-3.6% del peso secco) così come i Ginkgolidi J e K (0.3-0.6%) e gli M, Q, P (presenti in quantità minori).
Acidi carbossilici denominati Acidi Ginkolici, che però potrebbero avere degli effetti tossici e che sono perciò presenti in basse concentrazioni negli estratti (5-10 ppm). Altri acidi carbossilici presenti sono il Ginkolo e l'acido Shikimico.
Altre molecole bioattive presenti in basse concentrazioni sono
Procianidina (fino al 10% del peso secco), Quercitina e Isoramnetina (sotto forma di glicosidi), flavonoidi e Kaempferolo
Effetti terapeutici[modifica | modifica wikitesto]
Gli estratti di Ginko sono stati sperimentati per un grandissimo numero di patologie e per alcune di esse si sono ottenuti notevoli riscontri di efficacia terapeutica. In particolare le maggiori evidenze ci sono per il trattamento del declino cognitivo, della claudicatio intermittens, nel trattamento di alcuni disordini con origini vascolari e sindromi metaboliche.[9] Tali estratti devono però essere usati con cautela in pazienti che assumono anticoagulanti, acido acetilsalicilico, ticlopidina, diuretici tiazidici, pentossifillina, trombolitici, caffeina, ergotammina; non associare a prodotti a base di aglio o derivati dal salice per aumento dei rischi di gastrolesività.
L'ipotesi che i suddetti principi attivi abbiano un'azione sulle funzioni cerebrovascolari e sui disturbi della memoria, tali da suggerirne l'uso nella malattia di Alzheimer[10] è ancora controversa a livello di sperimentazione scientifica.[11] Tuttavia, una revisione degli studi pubblicata nel 2002 dalla Crochane Collaboration (una delle istituzioni scientifiche più conosciute al mondo) ha concluso che l'attuale letteratura supporta fortemente efficacia e sicurezza delle formulazioni di Ginko nel trattamento del declino cognitivo e della perdita di memoria dovute all'età.[8]
Altri studi ne supportano l'efficacia nel miglioramento dei sintomi cognitivi e del senso di benessere dovuto ad altre patologie del sistema nervoso centrale, come quelle dovute a disordini vascolari[12][13] o nei soggetti sottoposti a terapia radiante nel contesto della terapia dei tumori cerebrali.[14] Tuttavia non sembra accelerare il recupero delle funzioni a seguito di ictus.[15] I gingkolidi prevengono il danno metabolico causato da ischemia cerebrale e riducono gli infarti causati da occlusione vasale. Il Bilobalide, più che il gingkolide B, esercita un potente effetto protettivo nei confronti del danno ischemico. Chiaramente, le proprietà antiossidanti e neuroprotettive del gingko sono importanti nei casi di ipossia, ischemia e danno neuronale.[16]
Il ginkolide B è ritenuto un antagonista del PAF (platelet activating factor), mediatore intracellulare implicato nei processi di aggregazione piastrinica, formazione del trombo, reazioni infiammatorie (iperattività bronchiale).[1] Ciò potrebbe contribuire, tra l'altro, agli effetti positivi sulla funzione vascolare, in particolare nel miglioramento del microcircolo, che sarebbero alla base di alcune sue azioni terapeutiche.[17] Ad esempio, secondo i risultati di uno studio, la somministrazione di estratti di Ginko ha provocato un incremento di oltre il 20% del flusso ematico oculare e ciò ne suggerisce l'uso nel trattamento del glaucoma, nella neuropatia ottica e nei disordini ischemici oculari.[18] Secondo i risultati di altri studi diminuirebbe significativamente il rischio di disordini vascolari periferici[19] e migliorerebbe il flusso ematico in alcuni distretti cerebrali.[19] Permetterebbe inoltre di migliorare la circolazione di sangue a livello periferico, apportando quindi un certo beneficio alla fragilità capillare e contrastando le varici.[20]
Gli estratti hanno una potente azione antiossidante che va ad eliminare i radicali liberi rallentando i fenomeni di ossidazione; proprio anche grazie a questa azione si contrastano gli effetti dello stress fisico e mentale.[21][22] La somministrazione cronica di estratti di Ginko si è inoltre mostrata in grado di incrementare le concentrazione di glutatione e superossido dismutasi, degli antiossidanti naturali,[17] nonché diminuire i livelli di cortisolo (il cosiddetto ormone dello stress).[22]
Gli estratti sarebbero anche in grado di migliorare i sintomi di alcune patologie neurologiche e psichiatriche. Ad esempio è stato visto migliorare i sintomi della schizofrenia e diminuire gli effetti collaterali extrapiramidali nei pazienti resistenti al trattamento col solo farmaco,[23] migliorare i sintomi della sindrome premestruale,[24] della discinesia tardiva,[25] contrastare gli effetti collaterali sessuali degli antidepressivi SSRI.[26]
L'utilizzo di estratti migliora i parametri patologici delle sindromi metaboliche e potrebbe perciò rappresentare una terapia di supporto per tali patologie. Ad esempio si è dimostrato in grado di migliorare il profilo lipidico,[27] ridurre la formazione di placche arterosclerotiche, i valori di interleuchina-6, di creatinina urinaria e proteina C-reattiva,[28] nonché contrastare in modelli animali l'insulino resistenza.[29]
In cosmetica viene utilizzato, applicato a livello topico, per ripristinare il giusto equilibrio lipidico nelle pelli secche e screpolate.[30]
Sei esemplari di Ginkgo, ancora esistenti, sono sopravvissuti alle radiazioni prodotte dalla bomba atomica caduta sulla città di Hiroshima. I sei alberi sono ancora in vita e si trovano, contraddistinti da una targa, nel giardino Shukkei-en, nel sito dove si trovava la scuola elementare Senda e nei pressi dei templi Hosen-ji, Myōjō-in, Jōsei-ji e Anraku-ji.[31][32]
Il Ginkgo biloba è il simbolo della città di Tokyo, capitale del Giappone.
Anche il Poeta J. W. von Goethe (1749-1832), in uno dei suoi viaggi, rimase così affascinato da un esemplare di Ginkgo biloba da dedicargli una poesia:
«La foglia di quest'albero, dall'oriente affidato al mio giardino, segreto senso fa assaporare così come al sapiente piace fare.
È una sola cosa viva, che in se stessa si è divisa? O son due, che scelto hanno, si conoscan come una?
In risposta a tal domanda, trovai forse il giusto senso. Non avverti nei miei canti ch'io son uno e doppio insieme?»
Nel 1992 Pierre Lévy e Michel Authier inventano gli "alberi delle conoscenze", strumento filosofico e tecnico per la condivisione dei saperi; il software per trattarli viene denominato Gingo, prendendo spunto dal Ginkgo biloba.
Nell'antichità il Ginkgo venne considerato nel primo importante erbario cinese una sostanza benefica per il cuore e i polmoni;[1] i medici lo utilizzavano per curare l'asma, i geloni e le tumefazioni causate dal freddo; i monaci buddisti lo piantavano accanto al tè, gli antichi cinesi e giapponesi consumavano i semi tostati come rimedio digestivo; i guaritori indiani ayurvedici lo associavano alla longevità usandolo come ingrediente del "soma", l'elisir di lunga vita. L'albero è stato introdotto in Europa nel 1730.[1]
Morus L. è un genere di piante della famiglia delle Moracee, originario dell'Asia, ma anche diffuso, allo stato naturale, in Africa e in Nord America. Comprende alberi o arbusti da frutto di taglia media, comunemente chiamati gelsi.
Le foglie sono alterne, di forma ovale o a base cordata con margine dentato. Le principali specie conosciute e rinvenibili in Italia e in Europa sono il gelso bianco (Morus alba) e il gelso nero (Morus nigra), mentre le altre sono di varie parti del mondo.
Il "frutto" del gelso è, più propriamente, una infruttescenza detta sorosio costituita da tanti piccoli frutti accostati, generati da altrettanti fiori, e quindi altrettanti ovari. Il tutto è disposto su uno stelo.
Etimologia
Il nome generico Morus viene dal latino mōrus, parola mediterranea attestata anche nel greco μόρον móron[1] "nero" per via del colore dei frutti di alcune varietà[2]. La parola latina si è poi diffusa in area germanica (antico alto tedesco mūrboum, tedesco Maulbeere) e celtica insulare (gallese mwyar)[2].
Tassonomia
Il genere comprende le seguenti specie:[3]
Morus alba L. (gelso bianco), coltivato, originario dell'Estremo Oriente
Morus australis Poir., proprio dell'Asia orientale e meridionale
Morus cathayana Hemsl., diffuso in Cina, Corea e Giappone
Morus celtidifolia Kunth (gelso texano), diffuso dagli Stati Uniti fino all'Argentina
Morus indica L. (gelso indiano), coltivato, originario della regione himalaiana
Morus insignis Bureau, diffuso nell'America centrale e meridionale
Morus japonica Audib. (gelso giapponese), endemico del Giappone
Morus liboensis S.S.Chang, esclusivo del Guizhou (Cina)
Morus macroura Miq., diffuso dal Tibet all'Indocina
Morus mesozygia Stapf (gelso africano), proprio dell'Africa a sud del Sahara
Morus mongolica (Bureau) C.K. Schneid., dell'Asia orientale
Morus nigra L. (gelso nero), coltivato, originario del Medio Oriente
Morus notabilis C.K. Schneid., endemico in Yunnan e Sichuan (Cina)
Morus rubra L. (gelso rosso), coltivato, originario del Nordamerica
Morus serrata Roxb. (gelso himalaiano), proprio della regione himalaiana e terre adiacenti
Morus trilobata (S.S. Chang) Z.Y. Cao, endemico in Guizhou (Cina)
Morus wittiorum Hand.-Mazz., presente solo in Cina
Linneo aveva inserito nel genere Morus anche altre specie, che già a partire dalla fine del '700 furono spostate nel genere affine Broussonetia. Anche queste specie sono indicate con il nome volgare di "gelso", in particolare Broussonetia papyrifera, il gelso da carta.
Le specie del genere Morus vengono coltivate per diversi scopi:
I frutti (more di gelso nere, di gelso bianche, di gelso rosso) sono edibili (famosa la granita siciliana ai gelsi). Inoltre da essi vengono estratti oli essenziali usati come aromatizzanti per cosmetici naturali e sigarette elettroniche.
Le foglie (soprattutto del gelso bianco) sono utilizzate in bachicoltura come alimento base per l'allevamento dei bachi da seta, e questo giustifica la presenza residua nelle campagne.
Come piante ornamentali.
Per ricavarne legname facilmente lavorabile, buona legna da ardere e per ricavarne pertiche flessibili e vimini per la fabbricazione di cesti; per l'ultimo uso spesso gli alberi sono drasticamente capitozzati.
Il pungitopo (Ruscus aculeatus L.) è un arbusto sempreverde con tipiche bacche rosse impiegate come ornamento natalizio, appartenente alla famiglia delle Asparagaceae.
Il pungitopo è una pianta cespugliosa sempreverde alta dai 30 agli 80 cm, provvista di cladodi, fusti trasformati che hanno assunto la funzione delle foglie, divenendo ovali, appiattiti e rigidi, con estremità pungenti. Poco sopra la base dei cladodi, in primavera, si schiudono i minuscoli fiori verdastri, e quindi i frutti, che maturano in inverno, e che sono vistose bacche scarlatte grosse come ciliegie. La pianta è dioica, cioè porta fiori, unisessuali, in due piante diverse, una con i fiori maschili e una con i fiori femminili, che producono le bacche.
È una specie dell'Eurasia ma si spinge anche nella regione mediterranea, nella regione centro-europea e anche in quella atlantica.
Costituisce una delle componenti del sottobosco delle pinete e delle leccete nel bioma mediterraneo, mentre nelle foreste decidue è riscontrabile in querceti ma, in alcuni casi, anche in faggete di bassa quota.
Il pungitopo viene coltivato come pianta ornamentale, soprattutto come decorazione durante le feste natalizie.
Il nome fa riferimento al fatto che anticamente le sue foglie, taglienti, venivano messe attorno alle provviste, per salvaguardarle dai topi[2].
I germogli di pungitopo, dal gusto amarognolo, raccolti da marzo a maggio, vengono utilizzati in cucina a mo' di asparagi, lessati per insalate, minestre e frittate.
I semi, opportunamente tostati, venivano un tempo impiegati come sostituti del caffè.
Nella medicina popolare, per le doti diuretiche che possiede, è usato nella “composizione delle cinque radici”, che comprende pungitopo, prezzemolo, sedano, finocchio e asparago.
Tra i componenti principali del rusco vanno citati i flavonoidi con il rutoside. È proprio quest'ultimo ad essere indicato e definito come vitamina P (cioè con caratteristiche simili), e quindi indicato per aumentare la resistenza delle pareti dei capillari. Quindi, il suo utilizzo principale è nella terapia delle varici venose, delle emorroidi, delle flebiti. La pianta viene indicata anche come antinfiammatorio, diuretico e antireumatico.[3] Abitualmente il rusco viene prescritto per via orale, tramite il decotto.
L'àmolo (Prunus cerasifera Ehrh., 1784), detto anche mirabolano, brombolo o marusticano, o semplicemente rusticano, è una pianta appartenente alla famiglia delle Rosaceae[1] e al genere Prunus. Il mirabolano è un albero da frutto ma spesso è anche usato come albero ornamentale.
Il mirabolano è un albero tipico dell'Europa centrale ed orientale e dell'Asia centrale e sud-occidentale. Si trova diffuso allo stato selvatico in italia.
Frutti acerbi dell'àmolo sulla pianta
Si tratta di un albero o un grosso arbusto, latifoglie e con fogliame deciduo, alto fino a 6-7 metri, con chioma globosa espansa di colore verde chiaro (rosso nella varietà 'Pissardii'). ha tronco eretto, sinuoso, presto ramificato con corteccia di colore bruno-rossiccio, fessurata e squamata negli esemplari adulti.
Le foglie sono ovate o ellittiche, fino ad una grandezza di 4x6 centimetri, con apice affusolato e margine seghettato; pagina superiore di colore verde (rosso nella varietà 'Pissardii'), pagina inferiore più chiara con peli lungo le nervature.
L'àmolo ha fiori che variano dal bianco al rosa, con un diametro compreso tra i 2 e i 2,5 centimetri, inseriti singolarmente su corti piccioli. Fiorisce in marzo-aprile prima o assieme alle foglie.
I frutti, detti àmole, sono delle drupe rotonde del diametro di 2–3 cm, di colore giallo o rosso cupo, simili alle ciliegie ma all'interno ricordano le prugne. Sono aspri quando acerbi e verdi, ma diventano dolci una volta raggiunta la maturazione, in giugno-luglio.
Il mirabolano è un albero rustico, non ha bisogno di molte annaffiature, è resistente a molti parassiti, non teme il freddo ed è adattabile a diversi suoli.
Viene apprezzato per i frutti, che maturano a giugno-luglio (a seconda delle varietà), inoltre può essere usato per preparare confetture.
È usato soprattutto come pianta portainnesti per alcune specie di Prunus coltivate.
L'àmolo è molto impiegato come pianta ornamentale per i parchi, i giardini e le siepi, nelle varietà con foglie colorate.
La pianta è mellifera, i fiori sono molto bottinati dalle api, ma del miele monoflorale non se ne riesce a produrre per la limitata diffusione della pianta.
Il prugnolo selvatico (nome scientifico Prunus spinosa L.) è un arbusto spontaneo appartenente alla famiglia delle Rosaceae[1] e al genere Prunus. viene chiamato anche prugno spinoso, strozzapreti o semplicemente prugnolo. Descrizione
Il prugnolo è un arbusto o piccolo albero folto, è caducifoglie e latifoglie, alto tra i 2,5 e i 5 metri. La corteccia è scura, talvolta i rami sono contorti. Le foglie sono ovate, verde scuro. I fiori, numerosissimi e bianchissimi, compaiono in marzo o all'inizio di aprile e ricoprono completamente le branche. Produce frutti tondi di colore blu-viola, la maturazione dei frutti si completa in settembre -ottobre. Sono delle drupe ricoperte da un patina detta pruina. È un arbusto resistente al freddo, si adatta a diversi suoli. Resistente a molti parassitati e con crescita lenta. Le bacche, che contengono un unico seme duro, sono ricercate dalla fauna selvatica.
Distribuzione e habitat
Il prugnolo è una pianta spinosa spontanea dell'Europa, Asia, e Africa settentrionale; cresce ai margini dei boschi e dei sentieri, in luoghi soleggiati.
Forma macchie spinose impenetrabili che forniscono protezione agli uccelli ed altri animali.
Usi
I frutti, chiamati prugnole, possono essere usate per fare marmellate, confetture, salse, gelatine e sciroppi. I frutti contengono molta vitamina C, tannino e acidi organici. Anche i fiori sono commestibili (tra i fiori eduli), possono essere usati in insalate o altri piatti.
Il prugnolo spinoso è un arbusto comune, adatto per formare siepi. Un tempo, in qualche parte d'Italia, veniva utilizzato come essenza costituente delle siepi interpoderali, cioè per delimitare i confini degli appezzamenti. In ragione delle spine e del fitto intreccio dei rami, la siepe di prugnolo selvatico costituiva una barriera pressoché impenetrabile.
Le bacche rimangono a lungo attaccate ai rami e la pianta talvolta può essere usata come arbusto ornamentale in giardini. I frutti del prugno spinoso sono utilizzati in alcuni paesi per produrre bevande alcoliche (in Inghilterra lo sloe gin, in Navarra, Spagna, il Pacharán, in Francia la prunelle, in Giappone l'umeshu ed in Italia il bargnolino o prunella o trignolino).
Il prugno spinoso è usato come purgante, diuretico e depurativo del sangue, per erba medicinale ed erba officinale. I principi attivi contenuti nei fiori sono cumarine, flavone e glucosidi dell'acido cianidrico. La corteccia della pianta era utilizzata in passato per colorare di rosso la lana.
Il legno, come quello di molti alberi da frutto è un apprezzato combustibile, è duro e resistente, e può essere lucidato. Se di piccole dimensioni viene usato per attrezzi agricoli, intarsi e bastoni da passeggio.
Rosa canina L., 1753 è una pianta appartenente alla famiglia delle Rosaceae.[1]
È la specie di rosa spontanea più comune in Italia, e molto frequente nelle siepi e ai margini dei boschi. Talvolta viene chiamata rosa di macchia, oppure rosa selvatica.
Nel canton Ticino, in Svizzera, viene comunemente chiamata grata cü.
Questa pianta deve il nome canina a Plinio il Vecchio, che affermava che un soldato romano fu guarito dalla rabbia con un decotto di radici. È l'antenata delle rose coltivate, quella di partenza per le varietà oggi conosciute.
Descrizione
La forma biologica di questa pianta è NP - nano-fanerofita, cioè pianta legnosa con gemme svernanti poste tra i 30 cm e i 2 metri dal suolo. la rosa selvatica è un arbusto, latifoglie e caducifoglie, spinoso e alto 100–300 cm, con fusti legnosi, privi di peli (glabri), spesso arcuati e pendenti, e radici profonde. Le spine rosse sono robuste, arcuate, a base allungata e compressa lateralmente. Le foglie, caduche, sono composte da 5-7 foglioline di 9-25 x 13–40 mm, ovali o ellittiche, con 17-22 denti sul margine. Hanno stipole lanceolate di 3 x 15 mm. I fiori, singoli o a 2-3, hanno 5 petali, un diametro di 4–7 cm, di colore di solito rosa pallido e sono poco profumati. Hanno un peduncolo di 20–25 mm e sono generalmente superati dalle foglie. I sepali laciniati, lunghi da 15 a 18 mm, dopo la fioritura si piegano all'indietro e cadono in breve tempo. La corolla è formata grandi petali bilobi, rosati soprattutto sui lobi, di 19-25 x 20–25 mm. Gli stili, lanosi e allungati, sono fusi insieme in una colonnina cilindrica.
La rosa canina fiorisce da maggio a luglio, la maturazione delle bacche si ha in ottobre-novembre.
Il falso frutto della rosa canina è caratterizzato da un colore rosso e da una consistenza carnosa; è edule ma aspro e non appetibile fresco. Esso deriva dalla modificazione del ricettacolo fiorale e contiene al suo interno degli acheni. Gli acheni sono i frutti veri e propri della rosa canina, derivano dalla modificazione dei carpelli ed ognuno di essi contiene un seme. La struttura nel suo insieme (di 1 o 2 cm) viene chiamata cinorrodo.
La specie è diffusa in una vasta area nelle zone temperate del Vecchio Mondo che include:
l'Africa del Nord e le isole Canarie e Madera;
l'Asia occidentale (Afghanistan, Iran, Iraq, Israele, Libano, Siria), la regione del Caucaso e l'Asia centrale (Tagikistan);
il sub-continente indiano;
L'Europa, dal Mediterraneo alla Scandinavia.
Il suo habitat sono le boscaglie di faggio, abete, pino e querce a foglie caduche, gli arbusteti e le siepi, fino ad una quota di 1900 m. Preferisce suoli abbastanza profondi, limosi e moderatamente aridi, è una specie pioniera. Resiste al freddo e tollera anche il caldo, inoltre è un arbusto rustico che non subisce attacchi da molti parassiti (a differenza delle rose coltivate). È stata introdotta e si è naturalizzata anche in America del Nord ed in Australia e Nuova Zelanda.
Usi
Viene largamente usata per i suoi altissimi contenuti di vitamina C : 2.250 mg per 100 g di porzione edule, e per il suo contenuto di bioflavonoidi (fitoestrogeni). La rosa canina è un'erba officinale e un'erba medicinale.
I principi attivi (oltre alla vitamina C, tannini, acidi organici, pectine, carotenoidi e polifenoli) vengono usati dalle industrie farmaceutiche, alimentari e cosmetiche; i frutti, seccati e sminuzzati, vengono usati in erboristeria per la preparazione di infusi e decotti. È indicata come astringente intestinale, antidiarroico, vasoprotettore e antinfiammatorio,[3] inoltre viene consigliata nei casi di debilitazione.[4]
I semi vengono utilizzati per la preparazione di antiparassitari ed i petali dei fiori per il miele rosato. Il suo decotto viene utilizzato in cosmetica per pelli delicate e arrossate.
Con i frutti freschi si preparano ottime confetture[5]. Si ricava una marmellata anche dai petali di rosa, come la vartanush.
Sempre con i frutti è possibile preparare un liquore chiamato gratacül, dal nome dialettale gratacü delle bacche nel nord Italia (Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna).
La rosa canina può essere usata con successo per creare siepi interpoderali o difensive, quasi impenetrabili, per le numerose spine robuste che possiede lungo tutti rami.
È una pianta mellifera, i fiori sono molto bottinati dalle api, che ne raccolgono soprattutto il polline,[6] ma produrre del miele uniflorale è molto difficoltoso perché è solo sporadica.
Il lampone (Rubus idaeus L., 1753) è un arbusto da frutto appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere Rubus; l'omonimo frutto, di colore rosso e sapore dolce-acidulo, è molto apprezzato da solo o come ingrediente nelle preparazioni alimentari.
Descrizione
La fioritura avviene normalmente tra maggio e giugno mentre il frutto, composito, matura in tarda estate o inizio autunno. Cresce tipicamente negli spazi aperti all'interno di un bosco o colonizza opportunisticamente parti di bosco che sono stati oggetto di incendi o taglio del legno. È facilmente coltivabile nelle regioni temperate e ha una tendenza a diffondersi rapidamente. Il frutto del lampone è un aggregato di drupe. È un arbusto latifoglia e caducifoglia e produce molti polloni. La pianta può raggiungere 1,8 metri di altezza.
Ci sono varietà a frutto rosso o giallo. Nero è il colore di Rubus occidentalis, arbusto americano in genere commercializzato come "lampone nero" benché sia una specie a sé stante, con verghe dal tronco rossiccio e di dimensioni maggiori, e con frutti di sapore diverso.
Habitat
Cresce anche selvatico in zone collinari e di montagna del centro Europa. Il lampone predilige i luoghi parzialmente ombrosi e terreni sub-acidi e freschi.
Coltivazione
Tra i lamponi ci sono varietà bifere, che producono frutti due volte all'anno, e unifere, che producono frutti una sola volta all'anno. Produce annualmente molti polloni dalle radici, ma ognuno vive due anni, è cioè biennale. I polloni producono frutti al secondo anno in luglio-agosto, dopodiché seccano e vanno tagliati. Nel caso di biferi producono frutti già al primo anno in settembre-ottobre.
Usi
Il lampone è una pianta mellifera e bottinata dalle api; è usato per ricavarne del miele, ma si produce quello monoflorale solo in certe zone dove è sufficientemente diffuso. I frutti sono normalmente utilizzati nella preparazione di confetture, sciroppi e gelatine. È da notare che la maggior parte delle cultivar di lampone commerciale non sono costituiti da Rubus idaeus puri, bensì da ibridi tra rubus idaeus e rubus strigosus,[1] per quanto quest'ultimo in passato era comunque considerato una sottospecie di Rubus idaeus.
I principi attivi contenuti nella pianta sono i tannini, la vitamina C, il flavone e acidi organici. Come erba medicinale ed erba officinale il lampone può essere usato come diuretico e colagogo. L'infuso di foglie è utile contro la diarrea. L'estratto di foglie e gemme è consigliato negli ultimi mesi di gravidanza per tonificare i muscoli dell'utero e migliorare le contrazioni.
Il biancospino (Crataegus monogyna Jacq., 1775) è un arbusto o un piccolo albero molto ramificato, contorto e spinoso, appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere dei Crataegus. Talvolta è usato il sinonimo Crataegus oxyacantha.
Il biancospino è una caducifoglia e latifoglia, l'arbusto può raggiungere altezze comprese tra i 50 centimetri ed i 6 metri. Il fusto è ricoperto da una corteccia compatta, di colore grigio. I rami giovani sono dotati di spine che si sviluppano alla base dei rametti brevi. Sono i rametti spinosi (brocche) che in primavera si rivestono di gemme e fiori. Questa specie è longeva e può diventare pluricentenaria, ma con crescita lenta. Un esemplare monumentale è il Biancospino di Vallonica che si trova nel Parco del Monte Subasio in Umbria.
Le foglie sono lunghe 2-6 centimetri, dotate di picciolo, di forma romboidale ed incise profondamente. L'apice dei lobi è dentellato.
I fiori sono raggruppati in corimbi, che ne contengono circa 5-25. I petali sono di colore bianco-rosato e lunghi 5 o 6 millimetri.
I frutti sono ovali, rossi a maturazione, delle dimensioni di circa 1 cm e con un nocciolo che contiene il seme. La fioritura avviene tipicamente tra aprile e maggio, mentre i frutti maturano fra settembre e ottobre. I frutti del biancospino sono edibili, ma solitamente non vengono mangiati freschi, perché piccoli e con un grosso nocciolo, bensì lavorati per ottenere marmellate, gelatine o sciroppi. I frutti sono decorativi perché rimangono a lungo sull'arbusto, anche durante tutto l'inverno.
Si trova in Europa, Nordafrica, Asia occidentale e America settentrionale. Il suo habitat naturale è rappresentato dalle aree di boscaglia e tra i cespugli, in terreni prevalentemente calcarei. Vegeta a quote comprese tra 0 e 1.500 metri.
il biancospino è una pianta mellifera e viene bottinata dalle api ma solo raramente se ne può ricavare un miele monoflorale, perché di solito si trova in minoranza rispetto alle altre piante del territorio.
Il legno, denso e pesante, è un apprezzato combustibile.
Un tempo, in diverse regioni italiane, veniva utilizzato come essenza costituente delle siepi interpoderali, cioè per delimitare i confini degli appezzamenti. In ragione delle spine e del fitto intreccio dei rami la siepe di biancospino costituiva una barriera pressoché impenetrabile. Attualmente l'esigenza di non rendere difficoltosa la circolazione dei mezzi agricoli meccanici ha determinato la quasi totale scomparsa delle siepi di biancospino con questa funzione.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Testimonianze sull'uso medicinale del biancospino si trovano già in Teofrasto, Dioscoride e poi in età volgare nel Mattioli. L'uso principale è di antispasmodico e sedativo, particolarmente nei casi di disturbi cardiaci di origine nervosa.[1] Alcuni autori gli riconoscono anche utilizzo di ricostituente e antidiarroico.[2]
I principi attivi contenuti nella pianta sono:
flavonoidi tra cui l'iperoside e la vitexina;
composti triterpenici tra i quali l'acido ursolico;
Ha un'azione coronariadilatatrice, vasodilatatrice dei vasi sanguigni addominali e coronarici, azione inotropa positiva, risparmio del consumo di ossigeno da parte del muscolo cardiaco, modulazione della concentrazione intracellulare di calcio, sedativa sul sistema nervoso centrale, diminuzione della frequenza cardiaca.
È indicato nelle nevrosi cardiache: negli stati di ipereccitabilità e nell'ipertensione arteriosa[3].
È utilizzato anche come ansiolitico e nel trattamento dei casi di insonnia[4]. Il biancospino è un'erba medicinale e un'erba officinale.
Sono i fiori e i rametti che hanno ispirato Giovanni Pascoli nella poesia Valentino del 1903 ("come le brocche del biancospino"). Usato anche da Guglielmo d'Aquitania in "come il ramo del biancospino".
Citato da Fabrizio De André nella canzone "Inverno": "L'amore ancora ci passerà vicino/ nella stagione del biancospino".
Restrizioni
In alcune regioni del nord Italia, è stata vietata la commercializzazione e messa a dimora di nuove piante di Biancospino, poiché è ritenuto un vettore di diffusione del batterio Erwinia amylovora, che è responsabile di una malattia che colpisce soprattutto i frutteti conosciuta col nome di "Colpo di fuoco batterico".
Fagus L., 1753 è un genere di piante angiosperme eudicotiledoni appartenente alla famiglia delle Fagaceae che comprende specie arboree e arbustive originarie dell'Europa, delle Americhe, del Giappone e della Cina,[1] con altezza dai 15–20 m fino ai 30–35 m.
In Italia il genere è rappresentato dall'unica specie Fagus sylvatica L. diffusa sulle Alpi e sugli Appennini, dove forma boschi puri (faggete) o misti (di solito con Abies alba Mill. o Picea abies Karst.), nelle stazioni oltre i 500 m sulle Alpi e oltre i 900 m s.l.m. sugli Appennini. Localmente, quando le condizioni climatiche lo consentono, il faggio lo si può trovare molto più in basso: sul Gargano, nei pressi della Foresta Umbra, e precisamente nel comune di Ischitella sono presenti faggete depresse a 300 metri s.l.m. Ancora più bassa è la faggeta relitta abissale della valle del Carfalo presso Montaione, con esemplari sotto i 200 m s.l.m.[5]
Il faggio è la specie forestale più presente nei boschi italiani con un'area complessiva, tra fustaie e cedui, di oltre un milione di ettari. Tra le faggete più celebri c'è quella di Monte Cimino nel comune di Soriano nel Cimino, e quella del "Gran bosco da Reme" del Cansiglio, uno dei primi esempi di gestione del bosco, utilizzato per fare remi dalla Serenissima Repubblica di Venezia.
Altre faggete si trovano nel Parco delle Foreste Casentinesi e degna di nota è la faggeta della Foresta Demaniale della Barbottina, tra il Colle del Melogno e Bardineto in Liguria, attraversata dall'Alta Via dei Monti Liguri, dove l'area protetta della Barbottina è annoverata tra le faggete più belle d'Italia e grandi in Europa.
La foglia del faggio fu scelta come simbolo nel logo dei XVI Giochi olimpici invernali di Albertville.
Uso
Per decorare parchi e giardini
In selvicoltura per la forestazione di montagne a clima fresco e nebbioso, con frequenti precipitazioni estive
Il legno di faggio, omogeneo e pesante, privo di elasticità ma resistente, inizialmente di colore bianco o, col tempo, rossastro, è ottimo per lavori di tornitura e mobileria, ed era un tempo utilizzato per le traversine ferroviarie e come ottimo combustibile. Usato per molti strumenti musicali (violini, pianoforti), la sua resistenza a scheggiarsi lo rendeva il materiale ideale per fabbricare i calci dei fucili.
I frutti sono acheni. Se privati del pericarpo velenoso, si consumano arrostiti come succedanei di castagne, nocciole o mandorle, tostati sono un surrogato del caffè. I frutti sono detti “faggiole” e somigliano a delle piccole castagne triangolari, racchiuse a due a due in un involucro legnoso ricoperto da aculei morbidi. Ne sono ghiotte alcune specie di fauna selvatica compreso il cinghiale.
L'olio estratto dai semi, di colore pallido e sapore dolciastro viene utilizzato come condimento e un tempo come combustibile.
Le foglie sono ovali, hanno una sottile peluria sulle nervature, sono lucide su entrambe le facce, ma sono più chiare nella pagina inferiore, hanno margine ondulato, ciliato quando sono giovani. Sul ramo si dispongono in modo alterno. In autunno assumono colori dal giallo-arancio al rosso-bruno. Vengono anche usate come foraggio dove i pascoli sono scarsi.
Avversità
Afide bianco – l'attacco del rincotero Phyllaphis fagi L. provoca l'ingiallimento fogliare ed una sofferenza generale della pianta
Cecidomia – le larve del dittero Mikiola fagi Hart. provocano galle piriformi sulle foglie danneggiando le giovani piante utilizzate in silvicoltura nei rimboschimenti
Agrilo verde – le larve di Agrilus viridis attaccano le giovani piante scavando gallerie dapprima nella corteccia e successivamente nel legno
Maggiolino – l'adulto di Melolontha melolontha L. erode le foglie ed i rametti teneri, le larve si nutrono delle radici
Bombice dispari – le larve di Lymantria dispar L. si nutrono del lembo fogliare
Bombice gallonato – le larve pelose di Malacosoma neustrium L. lunghe fino a 5 cm, si nutrono del lembo fogliare
Carie del legno – il legno attaccato da Schizophyllum commune (L.) Fr., Fomes igniarius (L. ex Fr.) Kic. e Fomes fomentarius (L.) Gill., viene alterato perdendo consistenza e assumendo una consistenza spugnosa di aspetto biancastro per la distruzione della lignina; all'esterno dei tronchi colpiti si notano i corpi fruttiferi dei patogeni a forma di orecchiette grigie per il Schizophyllum commune, a forma di mensola o zoccolo per il Fomes igniarius e il Fomes fomentarius
Marciume delle piantine – la Phytophthora omnivora De By. provoca lesioni necrotiche al colletto delle giovani piantine coltivate in semenzaio
Oidio – l'attacco delle Erisifaceae Microsphaera omnivora (Wallr.) Wint. e Phyllactinia suffulta (Reb.) Sacc. provoca sulle foglie delle tacche dapprima traslucide, successivamente ricoperte da micelio biancastro
L'agrifoglio (Ilex aquifolium L.), detto anche aquifoglio, alloro spinoso o pungitopo maggiore, è una pianta appartenente alla famiglia delle Aquifoliaceae.
Albero o arbusto sempreverde dioico alto fino a 10 m, ha la chioma piramidale, corteccia liscia grigia e rami verdastri, spontaneo in Italia, dal fogliame che ai profani può sembrare persistente: in realtà le foglie vivono per un intero anno e non si rinnovano tutte contemporaneamente. Le foglie sono di colore verde scuro lucente, decorative, con varietà variegate di bianco, crema o giallo, e frutti che offrono un decorativo contrasto con il colore delle foglie, che sono alterne o sparse, ovali o ellittiche, coriacee, a margine spinoso nei rami più bassi delle giovani piante, intero nelle piante adulte, fiori piccoli riuniti in fascetti ascellari, con 4 petali di colore bianco o rosato, unisessuali, quelli maschili hanno 4 stami quelli femminili un pistillo con ovario supero sormontato da 4 stimmi quasi sessili, durante l'inverno portano drupe globose di colore rosso vivo lucente a maturazione, contenenti 2-4 semi triangolari.
Esemplari monumentali
A Piano Pomo, sul versante nord orientale del Massiccio del Carbonara (nelle Madonie in Sicilia) una cinquantina di annose piante di agrifoglio formano un boschetto puro. Secondo i botanici il bosco di agrifogli doveva essere diffuso in Europa nel Terziario, prima delle glaciazioni pleistoceniche. A 1400 metri di altitudine in una valle dal suolo siliceo e profondo questi esemplari hanno trovato il loro optimum climatico raggiungendo dimensioni ragguardevoli. La pianta più vecchia ha circa 900 anni.
Metodi di coltivazione
Gradiscono posizioni ombreggiate o di sottobosco, terreno acido o semi-acido, fertile e ricco di humus.
La moltiplicazione avviene con la semina dei semi freschi, per mezzo di talea semilegnosa, per margotta o per innesto
Pianta di Natale
L'agrifoglio è una pianta magica fin da prima dell'avvento del Natale cristiano, si dice che proteggesse dai demoni e portasse fortuna. I suoi primi utilizzi risalgono all'Irlanda dove anche le famiglie più povere potevano permettersi di utilizzarlo per decorare le proprie abitazioni.
I pagani (principalmente la tradizione germanica della festa di Yule), celebravano la rinascita del sole al solstizio d'inverno (analogamente ai Saturnali e al Sol Invictus dei Romani). La rinnovata ascesa del sole in cielo che iniziava al solstizio era simbolicamente inscenata come una battaglia tra la quercia estiva e, appunto, l'agrifoglio invernale.
Le rosse bacche dell'agrifoglio rappresentavano la fertilità durante la profonda oscurità invernale, una promessa di ritorno di luce e calore.
Successivamente, i cristiani, nel tentativo di soppiantare le festività pagane sovrapponendo a queste dei nuovi significati, posero il Natale proprio il 25 dicembre, semplicemente sovrapponendosi (e in realtà mantenendo) la precedente antica tradizione.
Visto che molti simboli della tradizione precedente, come l'agrifoglio, persistevano alla tentata cancellazione cristiana (essendo simboli non legati al cristianesimo il primo approccio provato fu l'eliminazione), la nuova religione cercò di ridefinire nel tempo il loro significato originale.[2][3][4][5]
Secondo la nuova tradizione cristiana, la struttura della foglia infatti ricorderebbe la corona di spine di Gesù Cristo e i frutti rossi il suo sangue. Inoltre i boccioli bianchi sarebbero immagine della purezza della Madonna. Tra le tradizioni cristiane si dice che le bacche dell'agrifoglio derivassero dal sangue coagulato di un pastore che nel recare doni a Gesù si era ferito con le foglie pungenti della pianta.
Usi medicinali
Contiene saponine, la xantina teobromina e un pigmento giallo, l'ilexantina[6]. Oggigiorno l'agrifoglio viene usato raramente in fitoterapia per via della sua tossicità, ma presenta proprietà diuretiche, febbrifughe e lassative[7]. Ha inoltre un effetto simile a quello della serotonina.
Il decotto delle giovani radici raccolte in autunno è diuretico
Il decotto e il vino medicato della corteccia raccolta in qualunque periodo dell'anno vantano proprietà febbrifughe
L'infuso delle foglie raccolte prima della fioritura e fatte essiccare all'ombra ha proprietà calmanti, febbrifughe e curative dell'itterizia, contiene tra le altre sostanze la ilicina
bacche dell'agrifoglio
I frutti raccolti a maturazione da ottobre a dicembre e fatti essiccare al calore hanno azione purgativa
Tossicità
Il contenuto di ilicina come meccanismo di difesa da parte delle piante contribuisce a rendere l'agrifoglio tossico per gli esseri umani poiché irrita lo stomaco e l'intestino, e altri componenti lo rendono dannoso per il sistema nervoso e per il cuore. L'ingestione di appena venti bacche può essere mortale per un adulto.
Curiosità
L'agrifoglio è uno dei componenti della bacchetta magica acquistata da Harry Potter prima di entrare a far parte della scuola di magia di Hogwarts.
Betula L., 1753 è un genere di piante della famiglia delle Betulacee,[1] genericamente note come betulle.
Il genere comprende oltre 40 specie originarie dell'emisfero boreale.
Etimologia
Il nome del genere è un latinismo, dal latino betulla, a sua volta d'origine gallica (cfr. *betw[2], bed-wen, "betulla"[3]), collegata con bitūmen[3]. Esiste una voce di tradizione popolare bidolla che non ha raggiunto la Toscana[2]. Le piante del genere sono conosciute nei Paesi germanici con il nome di Birke (tedesco), birch (inglese) ecc., da una radice indoeuropea *bherəg-, "splendente, bianco" (cfr. sanscrito bhūrjah e latino fraxinus)[4].
Descrizione
Si tratta di alberi e arbusti a fogliame caduco che possono raggiungere i 15–30 m di altezza, foglie variamente formate e sfumate di giallo a seconda della specie o varietà. La specie più diffusa è la Betula pendula (sinonimo Betula verrucosa), da alcuni autori considerata una sottospecie o varietà di B. alba e chiamata volgarmente betulla bianca, betulla pendula o betulla d'argento, e predilige terreni acidi, poveri, sabbiosi o ciottolosi. Mentre la Betula pubescens, nota con il nome di betulla pelosa o betulla delle torbiere, dalle foglie pelose, predilige terreni paludosi o torbosi ed è di dimensioni analoghe alla B. pendula, anche se si presenta più frequentemente come alberetto o cespuglio.
Le betulle si caratterizzano per la corteccia bianca sporca dovuta alla presenza di granuli di betulina. Sono dotate di una notevole rusticità, resistenti a condizioni ambientali avverse, quali geli improvvisi e prolungati e lunghi periodi di siccità; sono diffuse nelle regioni del Picetum, Fagetum e Castanetum, ma si spingono anche nelle zone superiori e inferiori.
Simbiosi radicale
Come altri generi appartenenti alla famiglia, per esempio alcune specie di alnus (ontano), le betulle sono interessate a una simbiosi radicale, realizzate da attinomiceti del genere Frankia, a funzione azotofissatrice. Tale simbiosi fornisce un enorme vantaggio per la pianta, che quindi riesce a vivere in luoghi molto poveri di risorse.
Distribuzione e habitat
Il genere Betula è distribuito prevalentemente nelle zone temperate e boreali dell'emisfero nord. Sono piante eliofile e pioniere che rapidamente occupano aree scoperte dopo gli incendi o il taglio. Possono formare boschi puri o presentarsi in gruppi ed elementi isolati.
Avversità
Nonostante sia attaccata da innumerevoli parassiti animali e vegetali subisce danni limitati; subisce attacchi di una certa gravità solo in condizioni particolari .Riproduzione
Si moltiplica naturalmente per seme, per talea dei polloni.
Usi
Fin dal Paleolitico medio la pece di betulla fu largamente utilizzata dagli Uomini di Neanderthal come adesivo. Uno studio del 2019 ha dimostrato come queste prime produzioni di pece fossero realizzate attraverso una tecnica relativamente semplice, utilizzando dei focolari a cielo aperto[5].
Le betulle vengono coltivate come piante ornamentali per l'eleganza del fogliame e il fusto dalla corteccia bianca-opaca maculata di nero, in parchi o giardini, su terreni sciolti e freschi. In silvicoltura vengono utilizzate per consolidare frane, detriti di falda o per il rimboschimento di pascoli e cedui.
Nell'arboricoltura da legno viene coltivata a fustaia con turni di 40-50 anni, o più raramente a ceduo per la produzione del legname usato nell'industria del mobile. Viene anche coltivata per le proprietà officinali e medicinali.
In erboristeria l'estratto idro-alcolico di betulla è dotato di potente azione diuretica, drenante linfatica, antisettica delle vie urinarie e anti-infiammatoria. Questo grazie al suo contenuto di saponine triterpeniche (fino al 3-4%), di glucosidi flavonici (iperoside, quercitrina, rutina) e di polisaccaridi (metilpentosani), che cooperano globalmente a un effetto drenante dei liquidi in eccesso, delle scorie azotate (specie acido urico) e di abbassamento del colesterolo ematico. Per tale motivo trova impiego in preparazioni erboristiche e cosmetiche contro la cellulite.
L'acido betulinico, estratto dalla corteccia della betulla e da molti altri vegetali, e alcuni suoi derivati maggiormente idrosolubili in vitro sono citotossici per cellule di neuroblastoma, melanoma, medulloblastoma e sarcoma di Ewing.
Gli abeti (Abies Mill., 1754) sono un genere comprendente 48 specie di conifere sempreverdi della famiglia delle Pinaceae.
Etimologia
Il nome generico Abies, utilizzato già dai latini, potrebbe, secondo un'interpretazione etimologica, derivare dalla parola greca ἄβιος, ovvero longevo.[2]
Il genere comprende diverse specie di alberi che raggiungono altezze di 10-80 m e un diametro del tronco di 0,5-4 m da adulti. Si distinguono da altre Pinacee in quanto:
hanno le foglie (vale a dire, gli "aghi") inserite singolarmente, mentre gli aghi dei pini (Pinus), larici (Larix) e cedri (Cedrus) sono riuniti a gruppi (di 2-5 ma anche 10-40) su particolari rametti detti brachiblasti;
hanno gli aghi appiattiti, mentre i pecci (Picea) hanno aghi con sezione rombica;
gli strobili crescono eretti, mentre nelle specie di Picea, Tsuga e Pseudotsuga crescono inclinati o penduli;
gli strobili si disintegrano a maturità per rilasciare i semi alati.
Come la maggior parte degli altri generi di Pinaceae, gli abeti sono alberi sempreverdi monoici con chioma conica o a forma di guglia, spesso appiattita o arrotondata negli esemplari anziani. Alle alte quote, vicino al limite della vegetazione arborea, raggiungono in genere dimensioni più contenute e forme più irregolari e contorte. Il loro portamento si distingue all'interno delle altre Pinaceae per la particolare uniformità: tipicamente presentano un fusto monopodiale, ovvero un unico tronco diritto, con i rami che crescono secondo uno schema a spirale, con ogni spirale che rappresenta un anno di età, così che è talvolta possibile determinare l'età di un abete semplicemente contando le spirali. I rami sono estremamente regolari, con un virgulto terminale, e due virgulti laterali che crescono ogni anno sulla punta dei rami più attivi. La regolarità della forma degli abeti si riscontra parzialmente solo nei pecci e nei larici, mentre è molto meno comune nei pini e assolutamente assente nelle tuie.
Si presenta liscia e sottile, con vesciche resinose, negli esemplari giovani, mentre negli esemplari maturi è spessa, rugosa e solcata, a volte sfaldata in placche.[3]
Sono verticillati, diffusi e disposti su un piano orizzontale, con rami internodali irregolari occasionalmente sviluppatisi da germogli dormienti.[3]
Sono ramoscelli o rametti legnosi rugosi o lisci. Le gemme fogliari lasciano delle cicatrici prominenti, circolari o ellittiche, rossastre.[3]
Sono aghi generati singolarmente e persistenti per 5 o più anni (fino a 53 anni in A. amabilis), disposti a spirale o a pettine, sessili, con guaina assente; sono lineari o lanceolati, piatti, con due bande biancastre di stomi inferiormente, arrotondati o dentellati in punta, con due canali resinali. Siccome in molte specie si seccano velocemente, vi sono grosse differenze tra il fogliame profondo e quello esposto alla luce solare, vicino alle punte dei rami superiori: il fogliame esposto è più o meno eretto, incurvato o quasi falcato, inspessito o quadrangolare. Per questo nell'identificazione morfologica delle specie si fa riferimento generalmente al fogliame maturo, se non specificato altrimenti. Le gemme vegetative sono di forma ovata o oblunga con apice arrotondato o appuntito, quelle terminali circondate da 4-5 gemme secondarie. I cotiledoni sono 4-10.[3]
Sono strobili maschili, disposti a gruppi lungo la parte inferiore dei rametti annuali. Appaiono in primavera e hanno forma globulare o conica, portamento pendente, e colore variabile dal giallo al rosso, verde o porpora, lasciando protuberanze color bile dopo la loro caduta.[3]
Sono coni femminili che crescono sui rametti annuali e che maturano in una stagione, a portamento eretto e di forma da ovoidale a cilindrica; sono generalmente resinosi e deiscenti, con la parte centrale che rimane eretta come una spina sul rametto. Le scaglie, quasi prive di apofisi e umboni, sono arrotondate con brattee lobate, nascoste o talvolta protruse[3]
Hanno una parte alata, con una sacca resinosa alla giuntura tra corpo e ala.
Non contiene canali resinali.[3]
Gli abeti si trovano in Europa, Africa settentrionale, Asia, America settentrionale e America centrale, ovvero nelle regioni temperate e boreali dell'emisfero settentrionale, in prevalenza montane, a parte A. balsamea e A. sibirica che hanno areale nordico. La distribuzione è molto articolata, in base ai requisiti ecologici e alla storia paleobotanica delle varie specie.[3]
In Italia, la specie più diffusa è l'abete bianco (Abies alba), sulle Alpi e sugli Appennini, dove è l'unico abete spontaneo (con rarissime eccezioni).
Nel Nord della Sicilia è presente una specie rarissima di abete: l'abete dei Nebrodi (Abies nebrodensis), limitato peraltro oggi alle Madonie e non ai Nebrodi, monti che gli hanno dato il nome.
Inizialmente (1753) inseriti da Linneo nel genere Pinus, insieme ai pini e ai pecci, gli abeti vennero assegnati un anno dopo al genere Abies da Miller (specie-tipo: A. alba). Nel tempo diversi autori hanno provato ad assegnarli a taxa superiori al livello di famiglia: ordine Abietales da Koehne nel 1893, famiglia Abietaceae da Bercht. e J.Presl nel 1820, sottofamiglia Abietoideae da Rich. ex Sweet nel 1826, tribù Abieteae da Rich. ex Dumort. nel 1827, sottotribù Abietinae da Eichler nel 1887.
L'abete rosso o peccio[2] (Picea abies (L.) H.Karst., 1881) è un albero appartenente alla famiglia Pinaceae, ampiamente diffuso sulle Alpi, nonché nel resto d'Europa.
Alto fino a 40 metri, con tronco diritto e chioma conica relativamente stretta. Il portamento può comunque differenziarsi in base all'altitudine, essendo questa una specie caratterizzata da un certo polimorfismo: la chioma, infatti, può assumere una forma più espansa alle quote alpine più basse, mentre tende a divenire più stretta a quote maggiori (per contenere i danni provocati dalla neve).
La corteccia è sottile e rossastra (da quest'ultima caratteristica deriva il nome comune dell'albero); con l'età diviene bruno-grigiastra e si divide in placche rotondeggianti o quasi rettangolari (di circa 10–20 mm).
Le foglie sono costituite da aghi appuntiti, a sezione quadrangolare, lunghi fino a circa 25 mm, inseriti su cuscinetti in rilievo posti tutti intorno al rametto, con tendenza a disporsi su un piano orizzontale.
Essendo gimnosperme non fanno fiori. Gli sporofilli, detti anche coni, maturano in aprile-maggio.
Macrosporofilli: formano coni sessili nella parte apicale dei rami, riuniti in genere in 3-4, appaiono dapprima eretti poi penduli. Sono le strutture riproduttive femminili, che dopo l'impollinazione danno origine agli strobili, detti comunemente pigne.
Microsporofilli: formano coni lunghi 10 mm all'estremità dei rami dell'anno precedente, nella parte superiore della chioma. Sono le strutture riproduttive maschili, generalmente si sviluppano alla base dei coni femminili.
Gli strobili, comunemente detti "pigne", sono cilindrici, penduli, lunghi 100–200 mm e larghi 20–40 mm, dapprima di color verde o rossiccio, poi marroni (in autunno). Cadono interi a maturità. La fruttificazione è tardiva (20-50 anni).
Distribuzione e habitat
Europa e Asia centrale e settentrionale. Utilizzatissimo per impieghi silvicolturali e come albero ornamentale. In Italia è presente allo stato spontaneo sulle Alpi, dalla Liguria (con un nucleo relitto in alta Val Tanarello) alle Alpi Giulie; ne sono conosciuti anche alcuni popolamenti relitti nell'Appennino Tosco-Emiliano (valle del Sestaione presso il Passo dell'Abetone); altrove il peccio è stato diffusamente coltivato per rimboschimenti. Nell'arco alpino l'abete rosso forma boschi di notevole estensione solo a partire dalla sezione nord-occidentale delle Alpi Marittime (Vallone del Boréon), ma fino alla Valle d'Aosta è spesso subordinato all'abete bianco nell'orizzonte montano ed al larice in quello subalpino. Le peccete si estendono maggiormente nelle Alpi centrali ed orientali, dove questa specie approfitta di condizioni climatiche per essa ideali, soprattutto estive (caldo moderato e precipitazioni regolari nel trimestre estivo), fattori che nei settori alpini orientali appaiono maggiormente distribuiti.
Sulle Alpi è specie tipica dell'orizzonte montano medio e superiore e di quello subalpino inferiore, trovando condizioni climatiche ottimali tra i 1200 e i 1800 m di altitudine, anche se in casi particolari può scendere fino a soli 600–800 m di altitudine, come nel Tarvisiano, oppure risalire fino a 2100–2200 m, come in alcune località dell'Alta Valtellina (Bormio).
Selvicoltura
Questa specie è oggetto di selvicoltura in un numero sterminato di ettari nell'Europa settentrionale ed in Russia, ma anche, su più ridotte superfici, sulle Alpi. In Italia sono rari gli impianti artificiali trattati a taglio raso, mentre essa appare comunemente associata all'abete bianco, al faggio ed al larice. Il trattamento preferenziale è quello del taglio saltuario. Un grave problema della selvicoltura dell'abete rosso è costituito dalle difficoltà nella rinnovazione, soprattutto in caso di fitto sottobosco che impedisce la crescita del novellame; in questi casi si preferisce ricorrere alla rinnovazione integrata[3].
Tassonomia
È accettata la seguente varietà naturale:[4]
Picea abies var. acuminata (Beck) Dallim. & A.B.Jacks. - endemica delle Alpi, del Giura, dei Carpazi e del sud della Norvegia. Ha coni lunghi 12-16 cm con scaglie rombiche dalla punta elongata e acuminata.[5]
Si distingue dall'abete bianco:
per gli aghi: nell'abete rosso hanno sezione quadrangolare, mentre nell'abete bianco sono piatti;
per la corteccia: nell'abete rosso è più scura, rossastra, e si stacca in placche rotondeggianti o irregolarmente rettangolari (di circa 10–20 mm);
per le pigne: nell'abete bianco sono erette, non cadono ma si sfaldano, mentre nell'abete rosso sono pendule e cadono intere (si possono dunque osservare sul terreno);
per il portamento dei rami: nell'abete rosso (peccio) quelli principali sono orientati verso l'alto e quelli secondari sono penduli, mentre l'abete bianco li ha esclusivamente orizzontali.
L'abete rosso (come tutti i pecci e gli abeti) si distingue dal pino silvestre e dal larice – con i quali condivide nelle Alpi l'habitat – per l'attacco degli aghi: nei pini e nei larici gli aghi sono raggruppati a ciuffetti, mentre nei pecci (e negli abeti) sono inseriti singolarmente sui rametti. Tale caratteristica distingue i pecci anche dai cedri.
Di questa specie esistono numerose varietà ornamentali.
Una pianta simile all'abete rosso, con la quale esso può condividere parchi e giardini, è il peccio del Caucaso (Picea orientalis Carr.). Di solito, però, l'abete rosso ha gli aghi più grandi, appuntiti, e il peccio del Caucaso ha una corteccia che ricorda quella dell'abete bianco.
Il legno di questo peccio ha ottime proprietà di amplificazione del suono e, per questa ragione, viene utilizzato nella costruzione delle tavole armoniche degli strumenti a corda.
Tale riferimento generico all'abete rosso va specificato, restringendolo preferibilmente all'abete rosso "di risonanza", così chiamato per le sue caratteristiche acustiche, che risultano ottimali per detti strumenti. Esso è un particolare tipo di abete rosso (spesso designato, commercialmente e in liuteria, col termine "abete maschio"),[6] il cui legno presenta anomalie di accrescimento degli anelli annuali (cosiddette "maschiature")[7] e da secoli viene ricercato dai liutai e costruttori per realizzare la tavola armonica di svariati strumenti musicali a corda, tra i quali strumenti ad arco (violini, viole, violoncelli...) nonché clavicembali, pianoforti, chitarre classiche. La distribuzione di questo "albero che canta" è limitata a poche zone europee.
Si ritiene che numerosi strumenti musicali, anche di illustri liutai dei secoli scorsi, siano stati costruiti con il legname di risonanza della Val di Fiemme e della foresta di Paneveggio in provincia di Trento, nonché della Val Canale e del Tarvisiano in provincia di Udine. Antonio Stradivari, per i suoi straordinari violini, si riforniva presso la Magnifica Comunità di Fiemme. Inoltre, famose case costruttrici di pianoforti da concerto di alta gamma (quali, ad esempio, Bechstein, Blüthner, Fazioli)[8] utilizzano per i loro strumenti tavole armoniche realizzate con abete di risonanza della Val di Fiemme.[9]
La suddescritta caratteristica negli abeti rossi è stata scoperta anche in Valle di Ledro, sul monte Tremalzo, dove è in atto uno studio più approfondito.
Questo albero in Germania è riscontrabile solo in alcuni distretti alpini, mentre in Austria è assente.
Il Corpo Forestale dello Stato ha condotto un censimento sugli alberi monumentali d'Italia, nel quale viene segnalato un grande abete rosso a Bagni di Mezzo di San Pancrazio: è alto 45 m e ha una circonferenza di 4,8 m.
L'abete rosso, a differenza del larice, è una specie simbionte del fungo porcino (Boletus edulis) ed è la specie ospite prediletta per il dannoso bostrico tipografo (Ips typographus).
Dalla distillazione della resina dell'abete rosso si ricava la trementina (acquaragia). La stessa resina si usa anche per produrre il nerofumo. Dalla corteccia si estraggono tannini, usati per la concia delle pelli.
Inoltre, l'abete rosso è una delle piante più longeve al mondo. In particolare, un esemplare clonale scoperto in Svezia nel 2004 e datato al carbonio da Leif Kullman, botanico all'università di Umeå in Svezia, avrebbe ben 9550 anni, risultando così l'organismo vivente clonale più anziano del pianeta.[10] È stato battezzato Old Tjikko.
L'abete bianco (Abies alba Mill., 1759), detto anche abete comune, abezzo o avezzo, è una pianta tipica delle foreste e delle montagne dell'emisfero boreale.[2]
L'abete bianco è un albero maestoso, slanciato e longevo, e data anche la sua notevole altezza (in media 30 metri, alcuni esemplari possono superare 50 metri), è soprannominato "il principe dei boschi".[3] Il più grande abete bianco d'Europa mai documentato era alto 50 metri e aveva una circonferenza di 4,8 metri[4]. Si trovava a Lavarone, in Trentino (abbattuto il giorno 13 novembre 2017 da una forte raffica di vento[5]), in località Malga Laghetto.
L'abete bianco è un albero sempreverde e monoico (cioè presenta sulla stessa pianta fiori maschili e femminili distinti e separati). È una pianta vascolare (Tracheobionta), con semi (Spermatophyta) contenuti in un cono portato eretto. Vive ad altitudini comprese fra 500 e 1.900 metri, in alcune zone oltre 2.000 metri e risulta essere un albero molto longevo: può superare i seicento anni d'età.
L'abete bianco è una specie sciafila (cioè che può vivere in zone d'ombra); allo stato di giovane, può restare sotto copertura anche per trent'anni, con conseguente malformazione del fusto, mentre allo stato adulto ha la necessità di vegetare in piena luce. L'abete bianco ama umidità, terreni freschi e profondi, tipici delle zone ombreggiate e piovose.
L'abete bianco può crescere fino a un'altezza di circa 60 metri, presenta un fusto dritto che può arrivare ad un diametro di 3 metri. Se la pianta cresce isolata, il fusto si caratterizza fin dalla base dalla presenza di fitti rami, se invece la pianta cresce a contatto con altre piante, il fusto risulta spoglio per gran parte della sua altezza. La chioma, di colore verde-blu cupo, ha forma piramidale negli esemplari giovani, mentre negli adulti (ossia dopo 60-80 anni) si forma un appiattimento, definito "nido di cicogna", in quanto la punta principale ferma la crescita e i rami sottostanti continuano a svilupparsi fino a formare una specie di conca. Tale pianta ha una ramificazione molto regolare: i rami principali sono raggruppati in palchi regolari e disposti orizzontalmente e mai penduli (ramificazione simpodiale). I rami secondari sono disposti lungo il tronco seguendo un andamento a spirale.
Il più grande abete bianco d'Europa era l'Aveδòn, un esemplare alto 60 metri e con una circonferenza di circa 10 metri è situato in Val Noana (in Italia, provincia di Trento); un altro esemplare alto 50 metri e con circonferenza di 4,8 metri[4], si trovava a Lavarone, sempre in Trentino, in località Malga Laghetto, ed era chiamato dalla gente locale Avez del Prinzipe.
Il più grande, tutt'ora vivente, si trova in Montenegro ed è stato scoperto solo nel 2018 nel Biogradska Gora National Park, dalla Giant tree foundation, che lo ha battezzato col nome di "Doria GTF"; possiede una circonferenza di oltre 7 metri e 10 cm e un'altezza verificata di quasi 60 m. [6][7]
La corteccia, negli esemplari giovani, è liscia, ha un colore bianco-grigio argenteo e presenta delle piccole sacche resinose che, se premute, diffondono odore di trementina; nelle piante più vecchie (oltre i cinquant'anni d'età) la corteccia si ispessisce tendendo a desquamarsi in placche sottili e diventa, partendo dalla base, rugosa, screpolata (fessurata) e di colore tendente al nero.
La corteccia di abete bianco è tra le specie di Abies una delle meno ricche in tannino (solo il 5%). Tuttavia, a differenza di altre conifere che possiedono un legno resinoso, nell'abete bianco il legno ne è poco ricco mentre nella corteccia sono presenti delle sacche da cui è possibile estrarre la trementina.
Particolare di un rametto di abete bianco. Notare la disposizione a "pettine" e come gli aghi degli abeti siano solitari e inseriti singolarmente nei rami, particolare che li differenzia dai pini che hanno, invece, aghi riuniti in gruppetti.
Le foglie sono persistenti (8-10 anni) e costituite da aghi appiattiti, rigidi e inseriti singolarmente e separatamente sui rametti, secondo una disposizione a pettine (cioè come i denti di un doppio pettine). Gli aghi sono lunghi circa 1,5–3 cm e larghi 1,5–2 mm, leggermente ristretti alla base, con la punta arrotondata non pungente e i margini lisci. La pagina superiore, di colore verde scuro, è lucida, mentre quella inferiore presenta due caratteristiche linee parallele biancastre-azzurrognole, dette bande stomatifere, che presentano 6-8 file di stomi e canali resiniferi marginali. Altra caratteristica tipica di questa specie sono i rametti coperti da sottili peli di colore bruno chiaro.
Alle nostre latitudini la fioritura dell'abete bianco avviene tra maggio e giugno. Parlare di fioritura delle conifere è in realtà inesatto, dal momento che queste piante sono gimnosperme e non producono fiori come siamo abituati ad intenderli né frutti. Gli organi riproduttivi consistono di sporofilli raggruppati a formare coni o strobili: gli sporofilli maschili (microsporofilli), cui si deve la formazione del polline, sono riuniti in coni maschili o strobili; gli sporofilli femminili (macrosporofilli) portano alla formazione degli ovuli e sono riuniti in coni femminili (le pigne).
I macrosporofilli si rinvengono nella parte superiore dei rametti del primo anno e nella parte alta della chioma. Sono eretti e formano infiorescenze cilindrico-ovali di colore verde o rosso-violaceo, con squame copritrici più lunghe delle squame ovulifere;
I microsporofilli fioriscono nella parte centrale e alta della chioma, sono più piccoli e numerosi di quelli femminili, raggruppati sul lato inferiore dei rametti. Hanno forma ovoidale, sono di colore giallastro e presentano due antere che contengono il polline di colore giallo. Il polline viene facilmente trasportato in alto dall'aria calda.
Le strutture comunemente chiamate "pigne" derivano dai coni femminili che possono lignificare e rimanere sui rami. Sono quasi cilindrici, si trovano soprattutto nella parte superiore della chioma e, a differenza dell'abete rosso, sono rivolti verso l'alto. Formati da squame fitte con brattee sporgenti dentate che proteggono i semi all'interno, gli strobili sono lunghi dai 10 ai 18 cm e larghi 3–5 cm; inizialmente di colore verde, diventano rosso-bruno quando giunti a maturità. A settembre-ottobre gli strobili si sfaldano, le squame cadono una ad una insieme ai semi, lasciando l'asse centrale, detto rachide, nudo sul ramo, dove può rimanere anche diversi anni (tipica caratteristica del genere Abies).
La produzione dei semi è piuttosto tardiva, soprattutto per le piante in bosco in quanto avviene dopo i cinquant'anni; trent'anni, invece, per le piante isolate. Le squame degli strobili hanno consistenza legnosa, variano in numero da 150-200 e ogni squama porta due semi. In totale ogni "pigna" contiene circa una cinquantina di semi fertili. Questi sono di forma triangolare, lunghi 6–9 mm, di colore giallo-bruno e presentano un'ala 3-4 volte più grande, saldamente attaccata al seme stesso, che gli permette, una volta liberati, di volteggiare in aria.
Dai semi si ricava l'Olio di abete, che trova impiego e con le seguenti caratteristiche:
numero di Iodio: da 120 a 160
numero di saponificazione: da 190 a 195
indice di rifrazione a 40º: 1,472
numero di Reichert-Meisl: da 1 a 2
peso specifico: da 0,921 a 0,931
L'apparato radicale è inizialmente di tipo fittonante: un'unica grande radice che penetra nel terreno raggiungendo una profondità di circa 1,60 metri che ancora saldamente la pianta al suolo; in seguito si formano alcune radici laterali (ramificazione laterale) che continuano ad accrescersi e ingrossarsi spingendosi, se possibile, in profondità. L'abete bianco è, per questo, una delle conifere che meglio si ancora al terreno e risulta quindi poco soggetta a sradicamenti.
Habitat e distribuzione
L'abete bianco vegeta in zone montane, ad altitudini comprese tra i 500 e i 2100 m s.l.m., trovando il suo clima ideale nelle zone a piovosità e umidità atmosferica medio-alte comprese tra i 900 e i 1800 m. L'abete bianco è una specie sciafila che raramente forma boschi puri (abetine), è invece una componente importante dei boschi misti del piano montano e subalpino, ad esempio può formare estese foreste associandosi al faggio (Fagus sylvatica), albero con il quale condivide esigenze climatiche e pedologiche, mentre a quote subalpine si può trovare associato al larice (Larix decidua) e all'abete rosso (Picea abies), inoltre, nelle Alpi sud-occidentali forma una caratteristica associazione (denominata Rhododendro-Pinetum uncinatae subas. abietosum) con il rododendro rosso (Rhododendron ferrugineum) e con il pino uncinato (Pinus mugo subsp. uncinata).
L’abete bianco ha un areale europeo ampio ma frazionato, caratterizzato da quattro subareali più o meno collegati tra loro e collocati rispettivamente sui rilievi della Germania centro-meridionale, nei Carpazi, sulle catene montuose della penisola balcanica centro settentrionale e lungo la catena alpino-appenninica.
Il nucleo principale è sicuramente quello centro-europeo, dove si possono trovare bellissime abetine come quella della Selva Nera. I genotipi presenti in Italia sono costituiti da quelli di origine balcanica nelle Alpi orientali, e nelle Alpi occidentali da quelli di origine alpino-appenninica.
In nord Italia l'abete bianco è presente sulle Alpi, ma in maniera discontinua: è comune nelle Alpi orientali, mentre è poco diffuso (e talvolta assente su ampi tratti) lungo le aree interne dei settori centrale e occidentale della catena alpina, zone nelle quali le condizioni microclimatiche ed ecologiche favoriscono il larice e (in misura minore) l'abete rosso, ritorna invece ad essere frequente nelle Alpi Marittime e nelle Alpi Liguri.
Nell'Appennino settentrionale (in Toscana e in Emilia-Romagna) l'abete bianco è presente sia con nuclei autoctoni di estensione a volte limitata, sia in associazione al faggio, o in foreste vaste e più o meno pure, di origine sia silvicolturale che spontanea; in Centro Italia si trova in gruppi isolati sui Monti della Laga e nel bacino del Trigno.
Nel Meridione lo si rinviene sia nell'Appennino lucano e sia nell'Appennino calabro: in Basilicata, lo si ritrova nella Riserva regionale Abetina di Laurenzana e nel versante settentrionale Parco nazionale del Pollino, associato al faggio; in Calabria lo si rinviene oltre che in Aspromonte, anche sulla Sila e sulle Serre calabresi. In questa zona è degno di nota il Bosco Archiforo, nel comune di Serra San Bruno, dove sono presenti alcune piante di grandi dimensioni, mentre sulla Sila, specie nei pressi del Gariglione, in provincia di Catanzaro, sono ancora presenti esemplari monumentali.
Le abetine appenniniche, soprattutto quelle toscane, sono, però, da considerare in gran parte non naturali, in quanto sono il risultato di interventi umani di rimboschimento attuati dai granducati e da alcuni ordini monastici oppure sono il prodotto di una selezione, operata all'interno di foreste miste (faggio e abete bianco), che ha favorito la conifera a discapito della latifoglia. Le zone appenniniche dove tale pianta cresce spontanea sono soprattutto il bosco intorno all'Eremo di Camaldoli, nelle Foreste Casentinesi, e a sud del monte Amiata zone in cui l'abete bianco, seppure autoctono, è stato comunque favorito dai tagli selettivi; assai interessante è infine il bosco formato da abete bianco, in associazione con il pino mugo (Pinus mugo subsp. mugo), che si sviluppa in prossimità della vetta del Monte Nero (1752 m) nell'Appennino Ligure orientale e che rappresenta l'estremo lembo relitto di una fitocenosi ad abete bianco e pino mugo, che pare sia stata molto diffusa in tempi preistorici (grossomodo dal 6000 all'800 a.C.) su gran parte dell'Appennino settentrionale e che oggi è attestata da rilievi palinologici.
Durante gli ultimi anni l'abete bianco ha subito una diminuzione di numero. Ad esempio, in 15 anni, nell'Altipiano svizzero, l'abete bianco è diminuito di circa l'11% e al 2004 rappresenta solo il 13% degli alberi, cifra decisamente inferiore al 37% del più diffuso abete rosso.[8] Tale diminuzione è in gran parte dovuta all'azione antropica (cioè dell'uomo) che, nella maggior parte dei casi, ha sfavorito questa conifera a favore di altre piante, in particolar modo del faggio. Da non sottovalutare anche il taglio delle giovani piante per l'utilizzo come albero di Natale.
Il ritiro dell'areale dell'abete bianco è comunque un fenomeno generalizzato che si registra a partire dagli ultimi 2000 anni. Le cause non sono ancora state accertate, ma sono probabilmente da ricercarsi nelle variazioni climatiche e nell'azione antropica.
Specie affini
In Sicilia esiste l'abete dei Nebrodi, una specie endemica, un tempo classificata come sottospecie dell'abete bianco, oggi ritenuta, invece, una specie autonoma che potrebbe essersi formata per speciazione durante l'inizio dell'ultimo periodo interglaciale post-wurmiano. È una specie in via di estinzione e, ad oggi, ne esistono solo una trentina di esemplari sulle Madonie, protetti da filo spinato. Si differenzia dall'abete bianco in quanto è più piccolo e compatto, con rami glabri, foglie più corte (9–10 mm) e strobili di circa un quarto più piccoli.
Nell'ambito della regione mediterranea vivono nove specie affini all'abete bianco, solitamente interfertili e poco differenziate fra loro. Fra queste: A. pinsapo marocana che si trova solo in Marocco; A. pinsapo in Spagna; A. numidica in Algeria; il già citato A. nebrodensis in Sicilia; A. cephalonica in Grecia; A. × borisii-regis parte meridionale del Balcani A. equi-trojani in Turchia (nella zona vicino alla città di Troia); A. born-mulleriana e A. cilicica in Turchia.
In totale il genere Abies comprende circa 45-55 specie.
Usi
Il legno dell'abete bianco è leggero, abbastanza tenero, di colore chiaro con venature rossastre; ritenuto qualitativamente inferiore a quello dell'abete rosso, è comunque ampiamente impiegato dalle industrie cartiere per ottenere cellulosa tramite il processo al solfito e nelle falegnamerie, dove viene utilizzato per varie costruzioni sia di interni (arredamenti) che per gli esterni, nonostante sia abbastanza vulnerabile a tarli e agenti atmosferici. Alcuni vantaggi rispetto al legno dell'abete rosso si possono trovare nel fatto che tale legno non contiene resina, poiché questa è presente solo nella corteccia, una maggiore resistenza e portata statica ed una superiore attitudine all'impregnazione. Gli svantaggi rispetto all'abete rosso stanno in una maggiore presenza di durame con elevato contenuto di umidità (tale difetto viene definito "cuore bagnato") e nella presenza di "cipollatura", un difetto del legno che consiste in un maggior sfaldamento in corrispondenza degli anelli annuali di accrescimento.
Alcuni dati tecnici:
Resistenza a compressione assiale = circa 35 N/mm²
Resistenza a flessione = circa 70 N/mm²
Modulo di elasticità = circa 14.000 N/mm²
Peso specifico: allo stato fresco circa 920 kg/m³, dopo normale stagionatura circa 440 kg/m³
Il legno è molto utilizzato in Giappone per la costruzione di case antisismiche.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Le gemme, che vengono raccolte in primavera, contengono un olio ed un glucoside, detto piceina, che le rende balsamiche, con proprietà sfiammanti, antireumatiche e diuretiche. Il decotto di gemme unito è molto utile per trattare problemi alle vie respiratorie per l'attività antisettica ed espettorante.[9] Tale olio viene anche usato per aromatizzare prodotti da bagno e per massaggi tonificanti. Le foglie, ricche di provitamina A, anticamente venivano utilizzate per curare malattie agli occhi. Dal legno e dalle foglie si ricava l'essenza di trementina, utilizzata in medicina e in veterinaria per strappi e contusioni grazie alle sue proprietà antisettiche e antireumatiche.
Altri usi
In passato, tra il XV e il XVIII secolo, la pianta veniva utilizzata, data la notevole altezza dei suoi fusti, come albero di maestra per le navi, mentre ancora oggi, soprattutto nell'Europa centrale, gli esemplari più giovani vengono utilizzati come alberi di Natale al posto del più usato abete rosso, in quanto i suoi aghi sono aromatici e resistenti, cadendo molto più tardi rispetto a quelli dell'abete rosso. Oggi, però, l'abete bianco è poco utilizzato come albero di Natale, è stato, infatti, in gran parte sostituito dall'abete del Caucaso (che ha un fogliame più denso e attraente), dall'abete rosso (più diffuso ed economico) e da altre specie.
I frati Servi di Maria di Monte Senario (Firenze) producono un liquore con estratti di questa pianta chiamato "Gemma d'Abeto", ideato nel 1865 da fra Agostino Martini da Sant'Agata di Mugello, speziale del convento.
I monaci di Camaldoli (AR) producono un liquore con estratti di questa pianta chiamato "Lacrima d'abeto".
La corteccia dell'abete bianco contiene una resina, da cui si ricava la cosiddetta "Trementina di Strasburgo" o "di Alsazia", utilizzata soprattutto per le vernici.
Ogni tre anni a Spelonga, in occasione della Festa Bella, si taglia un abete bianco e in tre giorni lo si trasporta a mano in paese per rievocare la Battaglia di Lepanto.
I boschi di abete forniscono il miele di melata,[10] molto apprezzato nei paesi dell'Europa Centrale.
Esigenze ecologiche
L'abete bianco predilige un clima di montagna: può sopportare temperature particolarmente basse (-25 °C), è molto resistente al vento e alle intemperie e tollera condizioni d'ombra (sciafilia). È però sensibile a gelate tardive e per questo non scende nelle valli, dove tale fenomeno avviene più spesso. Necessita di elevata piovosità (condizioni ottimali 1500–2000 mm/anno) e soprattutto umidità. Cresce su terreni silicei freschi e profondi, è in grado di superare periodi di siccità, ma non ama il ristagno idrico che causa la marcescenza dell'apparato radicale.
Questa specie non forma mai in natura popolamenti puri ma si incontra sempre in boschi misti: questo è dovuto al fatto che le plantule non trovano un substrato adeguato nell'humus prodotti dalla decomposizione delle foglie degli abeti bianchi adulti per cui possono svilupparsi solo sotto esemplari arborei di altra specie[11].
Se coltivato al di sotto dei 500 metri, dove il clima è più mite, diviene meno resistente in quanto è costretto a prolungare il ciclo vegetativo a causa della stagione favorevole più duratura. Ciò porta alla formazione di anelli di accrescimento più larghi e contenenti una maggiore quantità d'acqua, rendendolo di fatto più vulnerabile a rotture e attacchi di parassiti.
Selvicoltura
Questa specie sulle Alpi non è in genere oggetto di impianti selvicolturali e non esistono, quindi, fustaie coetanee ma solo esemplari isolati o a chiazze in popolamenti naturali di faggio ed abete rosso. Il taglio effettuato è quindi del tipo saltuario. Diversa la situazione sull'Appennino, soprattutto toscano dove prevalgono fustaie coetanee di impianto trattate a taglio raso con rinnovazione artificiale. Questo tipo di trattamento è in via di abbandono e questi boschi stanno evolvendo in boschi misti.[11]
Pino (Pinus L., 1753) è il nome comune di un genere di alberi e arbusti sempreverdi, appartenente alla famiglia Pinaceae. A questo genere appartengono circa 120 specie.
Il genere Pinus comprende circa 120 specie, raggruppate in 3 sottogeneri[1]:
sottogenere Pinus L. (74 specie)
sottogenere Ducampopinus (A. Cheval.) de Ferré ex Critchf. & Little (20 specie)
sottogenere Strobus Lemmon (23 specie)
Ogni sottogenere viene ulteriormente suddiviso in varie sezioni e sottosezioni.
Gli aghi (cioè le foglie del pino) sono riuniti in gruppi di 2, 3 o 5 che nelle piante adulte non sono inserite direttamente nel ramo (contrariamente agli abeti) ma su corti rametti detti brachiblasti. Sono delle specie sempreverdi. Durante lo sviluppo di una pianta di pino si possono osservare 3 tipi di foglie:
giovanili - compaiono al primo anno, sono appiattite e disposte singolarmente a spirale sul ramo e hanno una vita di 2-3 anni;
eufille - sono foglie squamiformi portate in modo spiralato lungo i macroblasti;
microfilli - sono le foglie aghiformi definitive portate a fascetti sui brachiblasti.
Le specie del genere Pinus sono monoiche: i microsporofilli sono riuniti in coni maschili che portano da 2 a 20 sacche polliniche, i coni femminili portano macrosporofilli con squame copritrici sterili e squame ovulifere (fertili) ognuna con 2 ovuli. Dopo la fecondazione i coni femminili lignificano trasformandosi in pigne, portanti i semi.
In Italia sono presenti il pino silvestre, il pino cembro e il pino mugo nelle zone alpine; lo stesso pino mugo, il pino nero e il pino loricato in talune ristrette aree appenniniche; il pino marittimo, il pino domestico e il pino d'Aleppo nella zona mediterranea.
Assieme agli abeti caratterizzano i boschi di alta montagna italiani.
Si possono identificare i diversi pini in base ad alcune caratteristiche facilmente individuabili:
mazzette di 2 aghi
pigne rotondeggianti, 10–15 cm, con semi non alati (pinoli), aghi di 10±15 cm: pino domestico (in Italia specie spontanea in zone marittime)
pigne coniche, 5±10 cm, aghi di 6±10 cm: pino d'Aleppo e aghi di 10±20 cm: pino calabro (in Italia sono entrambe specie spontanee in zone marittime e di bassa quota)
pigne allungate, 12±20 cm, con semi alati, aghi 14±18 cm: pino marittimo (in Italia specie spontanea in zone marittime)
pigne ovali di 4±6 cm, aghi 3±7 cm: pino silvestre (in Italia specie spontanea in zone alpine)
pigne coniche 5±8 cm, aghi 12±15 cm: pino nero e pino nero calabro
pigne 5 cm con semi alati, aghi 4±6 cm: pino uncinato
pino dalle dimensioni di un cespuglio, che cresce nelle alte quote: pino mugo
mazzette di 3 aghi
aghi lunghi 10±14 cm: pino di Monterey
aghi lunghi 20±30 cm: pino delle Canarie
mazzette di 5 aghi
pigna di ca. 5±7 cm, con pinoli duri e commestibili: pino cembro, presente come pianta spontanea nelle Alpi, in alta montagna
pigna di ca. 10±15 cm, aghi lunghi fino ad 8±10 cm: pino strobo, in Italia presente come pianta ornamentale
pigna di ca. 20±30 cm, aghi lunghi fino a 12±20 cm: pino dell'Himalaya, in Italia presente come pianta ornamentale
Inoltre, gli unici pini dalle dimensioni di un cespuglio, che cresce nelle alte quote: pino mugo e pinus pumilio.
Il pino domestico (Pīnŭs pīnea L., 1753) è un albero della famiglia delle Pinacee[2], diffuso nel bacino del Mediterraneo, specialmente sulle coste settentrionali, in particolare lungo le coste italiane, dove forma vasti boschi (pinete). Questo albero è stato insignito dell'Award of Garden Merit da parte della Royal Horticultural Society.
Arboreo; alto fino a 25 metri, solitamente 12–20 m. Ha un portamento caratteristico, con un tronco corto e una grande chioma espansa a globo, che col tempo diventa sempre più simile a un ombrello. Il fusto può esser rettilineo o lievemente curvo, il più delle volte si biforca a varie altezze in rami secondari, determinando anche così la dimensione del fusto alla base: maggiori biforcazioni corrispondono, solitamente, a una base più ampia. Spesso, infatti, potature massicce corrispondono a tronchi estremamente sottili e snelli, flessibili ai venti ma incapaci di resistrere a carichi pesanti, come la neve.
Il ritidoma è spesso, marrone-rossiccio, fessurato in placche verticali.
Sono costituite da aghi, flessibili e di consistenza coriacea per la cuticola spessa, in coppie di due e sono lunghi da 10 a 20 cm (eccezionalmente 30 cm).
Le gimnosperme tutte, e così il Pino domestico, non producono fiori, ma sporofilli. Il Pino domestico vede maturare gli sporofilli tra aprile e maggio.
Macrosporofilli: sono rossi, e crescono all'estremità dei nuovi germogli.
Microsporofilli: sono giallo-arancione, più evidenti di quelli femminili, posti alla base del germoglio.
Gli strobili, anche detti pigne, sono lunghi 8–15 cm, ovoidali e grandi. Impiegano 36 mesi per maturare, più di qualsiasi altro pino. Si aprono a maturità per far uscire i semi. Questi ultimi, i pinoli (chiamati in inglese pine nuts e in spagnolo piñones), sono grandi, lunghi 2 cm, di color marrone chiaro con un guscio coperto da una guaina scura che si gratta con facilità e hanno una rudimentale aletta di 5 mm che va via facilmente. Il vento non ha effetto per trasportare i semi, che vengono dispersi dagli animali, tipicamente dagli uccelli, ma oggi perlopiù dall'uomo.
Distribuzione e habitat
Vive nelle zone costiere mediterranee; l'areale originario si trovava probabilmente in Corsica e Sardegna, ma è stato coltivato da quasi 6000 anni per i semi che sono anche diventati merce di scambio. Forma boschi litoranei dette pinete, dove vive in associazione con altre piante della macchia mediterranea. Predilige terreni rocciosi vulcanici a reazione acida, anche scogliere in zone litoranee o interne. Diffuso in terreni vulcanici planiziari e collinari profondi (terreni pozzolanici a Roma e Napoli), ricchi e ben drenanti dove ha un tasso di crescita molto elevato. Non si adatta bene in zone troppo umide e con terreni argillosi e pesanti (rischio di clorosi ferrica e crescita stentata) dove l'apparato radicale non si adatta sufficientemente ed è più soggetto a cadute in seguito a venti forti. Seppur resistente ai geli la sua struttura e il legno tenero dei rami non permettono a questa specie di sorreggere carichi nevosi sulla chioma con rischio di rotture di rami o, nei casi più gravi, con la caduta dell'albero stesso.
In Italia è coltivato ovunque, ad eccezione delle zone montuose.
Si è naturalizzato in Africa meridionale, dov'è considerato invasivo, e piantato comunemente in California, Australia e Europa occidentale, fino alla Scozia meridionale.
Curiosità
Pinoli di pino cembro (dx) e di pino domestico (sin)
Un metodo utile per riconoscere giovani esemplari di Pinus pinea da esemplari di Pinus pinaster che appaiono assolutamente uguali, consiste nello "stropicciare" una manciata di foglie aghiformi verdi. Nel caso del pinea si otterrà un odore simile a quello dei pinoli, mentre il pinaster sprigionerà un odore molto più aspro, inoltre le due piante hanno un portamento differente in quanto i loro rami secondari si biforcano in maniera differente: il pinaster ha una ramificazione ad angolo retto mentre il pinea ad angolo acuto inoltre quest'ultimo tende a crescere di meno in altezza. Un'altra differenza è la forma dello strobilo: quello del pinea ha una forma più arrotondata, mentre quello del pinaster è più allungato.
I germogli di questa pianta sono molto sensibili, nei primi giorni di vita, ai ristagni d'acqua che ne provocano facilmente attacchi fungini alla base. Se i germogli nelle prime settimane di vita vengono toccati a mani nude, nella quasi totalità dei casi si disidratano e poi muoiono.
La selvicoltura delle pinete consiste in diradamenti dopo la piantagione (anticamente la semina) ed in tagli di rinnovazione dell'intera parcella giunta a maturità (intorno ai 80-100 anni). Dopo quest'ultimo taglio, detto taglio raso, la parcella viene ripiantata (o riseminata) e ricomincia il ciclo. In questo modo si assicura alle piantine un giusto apporto di luce (il pino domestico è molto eliofilo). Questa pratica in Toscana si attua da metà del XIX secolo. Tuttavia, negli anni '80 del XX secolo si è avuta una interruzione dei tagli rasi programmati, sia per motivi economici che per motivi di conservazione (statica) del paesaggio; la ripresa delle attività selvicolturali negli ultimi venti anni avviene ora in un contesto sociale, economico e ambientale diverso, il che pone nuovi problemi e nuove sfide a proprietari e gestori.
La produzione dei pinoli sta subendo un crollo drammatico a partire dal 2005-06 in tutta Italia. Ciò viene attribuito principalmente all'insetto Leptoglossus occidentalis, che si nutre degli strobili (pigne) in fase di maturazione, provocandone l'aborto (le pigne non maturano, oppure mancano i pinoli, oppure sono vuoti). Altre probabili cause sono la monocoltura, l'acidificazione del suolo, i mancati diradamenti e potature nei tempi giusti, le ripetute e prolungate siccità estive, e più in generale il cambiamento climatico.
Quest'albero è stato utilizzato a lungo per i suoi pinoli commestibili, sin dalla preistoria. Attualmente è anche coltivato come ornamentale, oltre che per i semi. Piccoli esemplari vengono cresciuti in grandi piantagioni e usati anche per i bonsai. Pianticelle di un anno, alte 20–30 cm, sono anche usate anche come alberi di Natale da tavolo.
Per l'alto numero di esemplari in Italia, viene da molti considerato l'albero simbolo del Paese, tanto che negli stati anglosassoni il pino domestico viene denominato "Italian stone pine" ed in Francia "Pin d'Italie". È presente negli stemmi di diverse città.
Il pino marittimo (Pinus pinaster Aiton, 1789) è un albero sempreverde della famiglia delle Pinaceae.
Può raggiungere i 30-40 m[2], ma di solito è più basso (circa 20 m). La chioma giovanile è conica, con i rami che salgono curvi verso l'alto. Nelle piante adulte diventa piramidale, con i rami inferiori spogli di aghi che rimangono attaccati al tronco[3]. In seguito diventa vagamente ombrelliforme ma più irregolare rispetto al pino domestico[2].
Chiara nei pini più giovani, diventa grigia in quelle adulte; è spessa e fessurata, rosea nelle screpolature[2].
Aghiformi, lunghe 12-25 cm da adulte, in gruppi di due (o, raramente, tre). Sono verdi chiare e talvolta tendenti al glauco, molto rigide e spesse circa 2 mm, con i margini leggermente dentellati e stomi su tutti i lati disposti in linea.
Meglio indicati come sporofilli, maturano in aprile-maggio.
Macrosporofilli: a grappolo e rossastri, divisi sulla stessa pianta da quelli maschili.
Microsporofilli: sono riuniti in grossi grappoli, di colore giallo dorato.
Sono grandi, di forma ovale-conica e simmetrica, lunghi da 7 a 20 cm e larghi da 4 a 6 cm. Sono molto più stretti e conici rispetto al pino domestico[2]. Contengono dei piccoli semi scuri muniti di ala.
Forma boschi sulle coste sabbiose del Mediterraneo occidentale (mediterraneo-atlantico), con una concentrazione maggiore nella Penisola iberica compresa la costa portoghese e lungo la costa sudoccidentale della Francia; è sensibile al gelo e vive bene dove la temperatura invernale non si discosta molto da 6 °C; si è comunque diffuso con impianti artificiali sulle dune costiere oltre il suo areale d'origine; può formare boschi misti con Pinus sylvestris, Quercus ilex o anche con Pinus nigra; ha minori esigenze di mitezza climatica e di suoli profondi e umidi rispetto a Pinus pinea[3].
Predilige terreni silicei anche con reazione acida[4]. Tuttavia si adatta anche a terreni sub-alcalini o alcalini (rilievi dell'Appennino tosco-emiliano).
In Italia la specie è di dubbio indigenato ed è considerata quindi criptogenica; il suo areale comprende la fascia peninsulare fino alla Toscana e l'isola di Pantelleria; sebbene in molti ambienti appaia come spontaneo, è stato introdotto in molti luoghi dall'uomo in età storica[5]. Si ritrova inoltre in Liguria e in Sardegna. Preferisce stazioni di collina o anche di bassa montagna rispetto alle pianure[6].
La pianta è stata inserita nell'elenco delle 100 tra le specie esotiche invasive più dannose al mondo.
Si tratta di una specie coltivata soprattutto per la produzione di resina vegetale; che si ricava con un'incisione di 10 × 3 cm sul tronco, dove viene posta una grondaia di lamiera in modo da far colare le resina in un recipiente; ogni tanto il taglio viene ripulito e allungato di qualche centimetro verso l'alto, fino a raggiungere anche 3 m di altezza; a questo punto si procede da un'altra parte del tronco, lasciando come minimo una striscia di corteccia intatta di oltre 5 cm; dalla resina del pino si può ottenere la trementina, la colofonia (per distillazione) e la pece nera[2].
Dalla distillazione del legno di qualità inferiore si ottiene il catrame vegetale[2].
Sono note tre sottospecie:[7]
Pinus pinaster pinaster, sottospecie nominale, diffusa lungo le coste dell'Oceano Atlantico.
Pinus pinaster escarena (Risso) K. Richter, diffusa nel bacino del Mediterraneo.
Pinus pinaster renoui (Villar) Maire, endemica delle montagne dell'Atlante.
ramificato fin dal basso con una chioma espansa, vagamente simile al pino domestico e al pino marittimo, ma di aspetto un po' differente e distinguibile da quelli soprattutto per i getti giovani, più radi, chiari e formati da un mazzetto di aghi centrale più stretto abbastanza distinto dagli aghi immediatamente più vecchi. Chioma spesso più ampia in cima che verso la base dell'albero. Può raggiungere i 25 m ma di solito non è più alto di 15 m. Il tronco è di solito intorno ai 60 cm, raramente fino a 1 m.
rossastra e spessa verso il basso, più scura e con squame più sottili verso l'alto.
aghiformi, lunghe 5-10 cm, molto sottili e morbide, riunite in mazzetti di due, di colore verde chiaro.
meglio indicati come sporofilli, maturano in marzo-maggio.
Macrosporofilli: sono rosso-violacei e grandi 1 cm circa, solitari o a gruppetti di 2-3.
Microsporofilli: sono costituiti da piccoli coni ovoidali di colore giallo e riuniti a spiga.
di forma ovale-conica, sono lunghi 5-10 cm e larghi 2-3 cm. Sono verdi in età giovanile e diventano marroni dopo due anni. Contengono dei semi lunghi 5-6 mm, dotati di un'ala di 20 mm. Gli strobili si aprono con lentezza, di solito nel corso di qualche anno, oppure per il calore provocato da un incendio.
Specie termofila ed estremamente resistente alla siccità. In natura occupa l'areale più meridionale dei tre pini mediterranei ma si spinge a nord fino nella Francia meridionale, Italia centro-meridionale, Croazia (Istria e Dalmazia), regioni costiere del Montenegro e dell'Albania. Particolarmente frequente in Spagna e Grecia, si trova anche in Marocco, Libia e nei Paesi del Vicino oriente come Siria (da cui il nome Aleppo), Giordania e Israele. Mentre nelle zone più settentrionali si trova sulle coste e fino a 200 m, nelle zone meridionali si trova fino a 1000 m in Spagna meridionale e addirittura a quasi 2000 m sulle montagne del Marocco.
In Italia è una delle specie arboree più numerose, presente in natura nel Parco nazionale del Gargano, nelle zone costiere del centro-sud (in popolazioni relittuali, in ambiente rupestre e calcareo), tipicamente nelle fiumare di detriti grossolani, in alcune aree costiere della Liguria (Balzi Rossi, promontorio della Caprazoppa, Capo Noli, parco di Portofino, Parco Naturale Regionale di Montemarcello-Magra-Vara), all'interno nella bassa valle del fiume Nera, nelle Marche e in Sicilia (Riserva naturale orientata Pino d'Aleppo), sulla costiera triestina (pineta di Santa Croce), nella zona nord occidentale della Sardegna (Alghero, Parco Naturale Regionale di Porto Conte), e nel Sud-Ovest della Sardegna sull'isola di San Pietro e nella località denominata appunto "Porto Pino", nel comune di Sant'Anna Arresi; ma è coltivato anche in altre zone (soprattutto costiere) come specie ornamentale, come nel resto del bacino del Mediterraneo. È coltivato anche in California.
Il pino d'Aleppo è molto simile al pino calabro (Pinus brutia), al pino delle Canarie (Pinus canariensis) e al pino marittimo (Pinus pinaster). Alcuni autori considerano il pino calabro come una sottospecie del pino d'Aleppo ma di solito è assegnato a una specie distinta. Ha un aspetto estremamente costante in tutto il suo areale.
Il pino mugo (Pinus mugo Turra, 1764), o anche semplicemente mugo, è un cespuglio aghiforme sempreverde, dal portamento prostrato, appartenente alla famiglia Pinaceae.[2] È stato inserito nell'elenco delle piante officinali spontanee soggette alle disposizioni della legge 6 gennaio 1931 n. 99.[3][4]: dai suoi rametti verdi, non ancora lignificati, viene infatti estratto l'olio essenziale di mugolio. Un bosco di pino mugo si chiama mugheto.
Morfologia
generalmente arbustivo, ma molto variabile, da prostrato con rami ascendenti a cespuglioso fino ad alberello eretto a seconda delle varietà e delle condizioni ambientali. Piccolo e compatto, presenta rami caratteristici che nella parte inferiore possono crescere adagiati sul terreno nascondendo la base del tronco per non offrire resistenza al vento.
grigia scura a squame sottili.
aghiformi lunghe 3–5 cm e riunite in verticilli di due, di colore verde scuro.
meglio indicati come sporofilli, maturano in aprile-maggio e presentano sessi separati.
Macrosporofilli: sono rosso-violacei e più piccoli dei fiori maschili. Sono riuniti in piccoli coni e spuntano in cima al fusto; una volta fecondati, diventano pigne color verde-rossastro.
Microsporofilli: numerosi, gialli, molto più vistosi dei femminili. Sono situati alla base dei rami e producono polline che viene diffuso dal vento.
di forma ovale-conica, sono lunghi 3–5 cm. Contengono dei piccoli semi scuri muniti di un'ala membranosa che li fa volare lontano.
Habitat[
Cresce spontaneo sulle montagne, tra i 1500 e i 2700 m (ha il suo "optimum" tra i 1600 e i 2300 m, ossia nel piano subalpino) nelle Alpi Orientali è presente nelle aree rocciose fin dai 400 m.s.l.m. (p.e. nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, Tarvisano) spingendosi poi in alto oltre il limite della vegetazione forestale arborea. Amante della luce e del freddo, presenta aspetti morfologici molteplici e variati, accomunati tradizionalmente nel gruppo Pinus montana, di tal che se ne distinguono alcune sottospecie - da taluni autori descritte come specie a sé stanti - che vanno dal pinus mugo, cespuglioso e prostrato, al pinus uncinata, conico-arboreo, con versioni intermedie fra i due (forma cd. frutescens erecta). Predilige suoli detritici parzialmente consolidati, ad esempio alla base di ghiaioni o di conoidi di deiezione (la forma pinus mugo in particolare è prevalentemente calcifila ed i suoi rami forniscono un'utile protezione contro valanghe e slavine, frenando lo scivolamento delle masse nevose sui fianchi più inclinati delle valli).
Distribuzione
In Italia è presente, spontaneamente, sulle Alpi (prevalentemente centro-orientali per Pinus mugo ed esclusivamente centro-occidentali per Pinus uncinata); sulle Prealpi calcaree lombardo-venete e in alcune zone degli Appennini (Monte Cusna e Monte Falterona in Appennino settentrionale e a Monte Lieto nei Sibillini, dove è stato reintrodotto; autoctono in Monte Nero Piacentino, Majella, Parco Nazionale d'Abruzzo), nella sola forma Pinus mugo. In Europa il pinus uncinata si rinviene anche sui Pirenei; il pinus mugo sulla fascia alpina, con diffusione ingravescente procedendo verso est, sui Carpazi e sui Tatra, sulla dorsale dalmato-balcanica fino in Bosnia-Erzegovina e Bulgaria e, come detto, residualmente in Appennino. È usato come essenza ornamentale in molte zone d'Italia, anche dove il clima è molto differente da quello d'elezione, per l'aspetto aggraziato e le dimensioni ridotte che lo rendono ideale per giardini rocciosi e piccoli giardini in genere.
Sottospecie e varietà
Da un punto di vista tassonomico, Pinus mugo Turra veniva aggregata assieme a Pinus uncinata Miller sotto la specie collettiva Pinus montana Mill. Tuttavia, le differenze fra i due taxa sono tali che attualmente le più recenti flore li ipotizzano come specie separate. A Pinus mugo Turra sono da riferirsi, come sinonimi o come entità sottospecifiche: P. montana Mill. subs. mughus Heer, P. montana Mill. var mughus Willk., P. mughus Scop., P. mughus Scop. var mughus Zen., P. mugo Turra var. mughus Zen., P. mugo Turra var. pumilio Zen e P. pumilio Haenke. Pinus mugo var. pumilio è presente in alcune zone delle Alpi Occidentali (Val Ferret, Val Veny, Alpi del Cuneese). Il pino uncinato (Pinus mugo sottosp. uncinata) ha molte caratteristiche in comune con il pino mugo, ma tendenzialmente si sviluppa in forma arborea (albero con portamento piramidale alto fino a 10–12 m); inoltre, anche negli esemplari prostrati (prevalenti alle quote superiori del piano subalpino), i rami del pino uncinato si presentano eretti nella porzione terminale, le sue pigne sono infine maggiori (lunghe fino a 7 cm) e hanno base asimmetrica, gli aghi sono di colorazione più chiara, più eretti e pungenti; questa entità è diffusa solo in particolari distretti delle Alpi centro-occidentali (dove Pinus mugo ssp. mugo, invece, è sporadico) ed è meno calcifila della sottospecie nominale (adattandosi a vivere anche su ofioliti e perfino su substrati a debole reazione acida); la sua origine rimane incerta tant'è che taluni autori hanno supposto che sia un ibrido fissato tra Pinus mugo ssp. mugo (o forme analoghe già presenti sul territorio europeo occidentale durante la glaciazione Riss) e il Pinus sylvestris.
Ecologia
È una pianta pioniera e stabilizzatrice di terreni sterili, incoerenti e pietrosi, dove, frammentando il manto nevoso invernale, contribuisce anche a proteggere i fondovalle dalle slavine, quindi utilissima ancorché ecologicamente legata alle sole quote montane. Offre riparo e rifugio a molte specie animali, fra cui il gallo forcello e il crociere, fra gli uccelli, ed il camoscio, fra i mammiferi ungulati, che è pressoché semi-simbiotico con la specie, dei cui germogli ed aghi si nutre nelle stagioni più ingrate.
Il pino cembro (Pinus cembra L., 1753), detto anche semplicemente cembro o cirmolo, è un albero sempreverde aghifoglie del genere Pinus che vive sulle Alpi. Il suo legno è molto pregiato ed è usato in modo particolare per le sculture (p.es. in Val Gardena). È l'unico pino a 5 aghi presente spontaneamente in Europa.
È un albero che può essere alto fino a 25 metri, anche se di solito non supera i 15, con chioma cilindrico-conica. È una specie longeva.
La corteccia si presenta grigiastra, sottile e liscia con tracce di resina nelle parti giovani, nelle parti adulte appare rugosa, screpolandosi in piccole placche con fessure rosso brunastre.
Sono aghiformi e raccolte in mazzette da 5, gli aghi sono lunghi 5–8 cm, di colore scuro sulla parte superiore e grigiastro su quella inferiore. Le foglie sono simili a quelle del Pinus Pinea.
Strobilo di Pinus cembra
Indicati anche come sporofilli, maturano da giugno a metà Agosto, sono lunghi in media 4–10 cm.
Macrosporofilli o coni femminili: sono ovoidali, eretti, di colore dal rosa al violetto e peduncolati.
Microsporofilli o coni maschili: sono di colore rosso disposti in gruppi all'apice dei rami.
Le pigne (coni femminili dopo la fecondazione) cadono intere e non aprono le squame. I semi vengono liberati dall'azione di animali (es. Nucifraga caryocatactes). I semi (chiamati comunemente pinoli) sono provvisti di tegumenti duri e legnosi.
Specie montana, l'areale è disgiunto, con areale principale in Siberia centrale e disgiunzioni sull'arco alpino più due zone nei Balcani e in Europa centrale. Cresce a partire dai 1200 metri di quota fino al limite superiore dei boschi di conifere subalpini, trovando condizioni ottimali tra i 1600 e i 2100 m di altitudine, predilige suoli a reazione acida, ma può vivere anche su substrati calcarei acidificati o dilavati in superficie dall'azione delle acque meteoriche. Il pino cembro può formare boschi misti con l'abete rosso, con il larice o anche boschi puri, particolarmente pregiati, come il famoso Bosco dell'Alevè della Valle Varaita, nelle Alpi Cozie. In Piemonte è presente sulle Alpi Cozie e Marittime (nelle valli Varaita, Gesso, Maira, Stura, Susa, Chisone, Pesio) mentre è raro in Val Sesia e Ossola. Forma cembrete pure (1.500 ettari) e miste al larice (3.500 ettari) o con abete rosso; in passato è stata eliminata per far spazio al lariceto pascolato, oggi è in lenta ripresa. In Lombardia è molto diffuso nel Bormiese e nel Livignasco, dove forma sia boschi misti con il larice sia boschi puri, come la cembreta di Valfurva, mentre è presente solo in boschi misti nell'alta Val Chiavenna, Val Malenco, alta Val Camonica e Adamello, raro sulle Orobie. In Trentino è diffuso perlopiù in boschi misti in alta Val di Pejo, Val di Fumo, alta Val di Fassa, Val Travignolo e catena del Lagorai. In Alto Adige è presente in tutta la provincia, ma forma boschi puri soprattutto sulle Dolomiti in Val Gardena, Val Badia e alta Pusteria. Nel Veneto non forma mai boschi puri ma partecipa a formazioni miste con il larice e l'abete rosso, spingendosi a est fino alla conca di Misurina e a Sud fino al Passo Giau, Passo Falzarego, Passo San Pellegrino e Passo Valles. Manca nei boschi del Friuli in conseguenza del clima umido delle Alpi Carniche e Giulie.
Pinoli di cembro sgusciati e da sgusciare
Viene impiegato nei rimboschimenti di protezione e negli interventi di recupero ambientale e consolidamento di versante.
Buona essenza usata per sculture e una delle principali per quanto riguarda l'intaglio in Italia.
Usato talvolta nei parchi come ornamentale, in particolare dove il clima è di tipo temperato-freddo.
I pinoli sono commestibili e vengono usati per preparazioni alimentari, per esempio lo strudel tirolese.
Il numero 5 di aghi permette di distinguere questo pino dagli altri presenti nelle stesse zone. Nei parchi cittadini solo il pino dell'Himalaya e il pino strobo hanno mazzette altrettanto numerose, in compenso hanno pigne molto più lunghe (15–30 cm) e gli aghi stessi sono più lunghi di 8–16 cm. Ha pinoli simili al pino domestico con il quale solo difficilmente può essere confuso in quanto occupano spazi molto diversi.
Il pittosporo[1] (nome scientifico Pittosporum tobira (Thunb.) W.T. Aiton) è una pianta della famiglia delle Pittosporaceae, originaria della Cina meridionale, del Giappone, di Taiwan e della Corea. Per la sua fioritura profumata, per il suo decorativo fogliame lucido e per la sua resistenza a varie condizioni ambientali, questa specie è utilizzata come pianta ornamentale in Italia e in molti paesi del mondo con inverno mite, come quelli mediterranei.
Descrizione
È una pianta sempreverde a portamento arboreo o arbustivo e può raggiungere dieci metri d'altezza nelle zone d'origine[2], mentre in Italia raramente supera tre o quattro metri[3].
Produce delle piccole capsule, non velenose ma neanche commestibili. Tuttavia, in Giappone vengono mangiati dai bulbul (uccelli della famiglia dei Picnonotidi) e da altri uccelli. La sostanza appiccicosa di cui sono rivestiti permette ai semi di attaccarsi al becco degli uccelli e di essere trasportati per lunghe distanze.
Le foglie sono alternate, lucide e oblunghe.
I fiori sono molto profumati; bianchi all'apertura, assumono poi color crema e infine giallo chiaro. In Italia la pianta fiorisce in maggio. Al tatto, i petali sono cerosi. Sono riuniti in cime a ombrello che compaiono nella tarda primavera[4][5].
Uso
In Italia, il pittosporo è coltivato come pianta ornamentale, sia tenuto ad alberello, sia per costruire siepi in località marine, in Italia centrale, nel Mezzogiorno, in Sardegna e in Sicilia e in Liguria. Sopporta senza problemi il caldo estivo, e anche il freddo invernale, ma non sotto i -10°C. Teme i ristagni idrici. Richiede poche e sporadiche cure colturali ed è naturalmente resistente agli attacchi parassitari.
Nei climi con inverni rigidi e prolungati, si può coltivare in vaso sui terrazzi[3].
Sono piante molto visitate dalle api per il loro nettare,[6][7] e se presenti in quantità sufficiente possono dare un ottimo miele.[8]
Metodi di coltivazione
Desiderano esposizione in pieno sole, terriccio di medio impasto tendente al compatto.
Con una potatura di formazione iniziale assume in pochi anni l'aspetto di un alberello; esemplari ottenuti in tal modo sono utilizzati anche per ombreggiare viali cittadini. A Messina c'è un esemplare ad alberello tutelato dalla Soprintendenza per la sua età e per la sua bellezza, con la sua chioma ad ampio ombrello, largo quattro metri e con un diametro di più di sei metri[9]
Se non sottoposto a potature, la chioma assume forma molto compatta e produce abbondantemente fiori da ogni rametto. Le potature, utilizzate quando si vuole mantenere l'alberello in forme obbligate, devono essere effettuate subito dopo la fioritura e prima della fine del mese di giugno; devono essere moderate, per non perdere la fioritura dell'anno successivo e per non esporre la pianta, altrimenti molto resistente, ad attacchi parassitari. A fine inverno, se necessario, si effettua la rimonda dei rami secchi[3].
Il pittosporo è utilizzato anche come cespuglio in mezzo ai prati; anche in questo caso, se non sottoposto a potatura, cresce con forma armoniosa, globosa e compatta, producendo ogni anno un'abbondante fioritura[3].
Tipico è anche l'uso come pianta da siepe. In questo caso, la potatura è obbligata e deve essere effettuata ogni anno, dopo la fine della fioritura ed entro il mese di giugno. I tagli drastici annullano la naturale resistenza agli attacchi parassitari[3].
La moltiplicazione avviene con la semina o, nelle varietà a fogliame variegato, per mezzo di talea.
Avversità
Gli attacchi di cocciniglie e in particolare della cocciniglia cotonosa possono essere molto gravi, se non si interviene tempestivamente[10].
Il gelo intenso (sotto i 10°C) e prolungato provoca gravi danni alle parti epigee[3].
Etimologia
Il nome Pittosporum deriva dal greco pitta = "pece" e sporos = "seme"; significa quindi "semi resinosi", per alludere al fatto che i semi di questo genere sono ricoperti da una sostanza appiccicosa simile alla resina. Il nome specifico tobira è la trascrizine del termine giapponese tobira, abbreviazione dell'espressione tobira no ki (in Kanji 扉の木), che significa "albero della porta", in quanto era usanza attaccare rametti di questa pianta sugli stipiti delle porte, come talismano apotropaico
Il lauroceraso (Prunus laurocerasus L.) è un arbusto sempreverde della famiglia delle Rosacee.
Etimologia
L'epiteto specifico fa riferimento a laurus (alloro) e cerasus (ciliegio), per la somiglianza delle foglie con quelle dell'alloro (laurus nobilis) e drupe simili al quelle dei ciliegi.
Descrizione
È un arbusto o albero di media altezza, che può raggiungere i 7 metri (max 15 m) di altezza.
Le foglie sono verde scuro, molto più chiare e lucide quando giovani; spesse (1-1,5 mm) e coriacee; di forma oblunga, tondeggiante verso l'apice, lievemente seghettate verso l'esterno.
I fiori sono bianchi, ermafroditi, disposti a racemo; dall'odore profumato, ma acido. Fiorisce tra aprile e giugno.
I frutti sono drupe (1 cm ca.) rosse/viola quando acerbe, e nero-bluastre una volta raggiunta la maturazione. Fruttifica a fine estate-inizio autunno.
Le foglie, ma soprattutto i frutti, risultano velenosi per l'uomo per la presenza di acido cianidrico, ottenuto per saponificazione, in una dose di 50:80 (dove 50 è la mole delle drupe e 80 il peso in kg di un individuo)[senza fonte]. Possono essere letali.
Distribuzione e habitat
Il Prunus laurocerasus è originario di una zona che si estendeva dall'Europa sud-orientale fino all'Iran e alla Libia. [senza fonte] È stato importato in Italia durante il secolo XVI[senza fonte].
Terreno neutro (pH non superiore a 7.5), umido;
altitudine non superiore ai 300 metri (ideali) o 700 metri (effettivi);
predilige una zona soleggiata per almeno una parte del giorno;
è abbastanza resistente al freddo ed alle malattie[2].
Usi
Prunus laurocerasus trova impiego come pianta ornamentale e da barriera (siepe) grazie al suo fitto fogliame.
Il distillato, l'acqua di lauroceraso, può essere usato come calmante per la tosse. Se assunto in quantità eccessive può provocare un'intossicazione.
Vengono ricavati spesso degli oli essenziali usati come aroma (in quantità minime) nei liquori, dall'odore di mandorle amare tipico della benzaldeide, prodotto della demolizione idrolitica dell'amigdalina (che produce anche acido cianidrico, inodore).
L'alta concentrazione di acido cianidrico rende questa pianta tossica per l'uomo e per gli animali domestici, in caso di ingestione accidentale.
L'alloro (Laurus nobilis L., 1753) è una pianta aromatica e officinale appartenente alla famiglia delle Lauracee, diffusa nel bacino del Mediterraneo.
Si presenta, poiché spesso sottoposto a potatura, in forma di arbusto di varie dimensioni ma è un vero e proprio albero alto fino a 10 m, con rami sottili e glabri che formano una densa corona piramidale.
Il legno della pianta è aromatico ed emana il tipico profumo delle foglie. Il fusto è eretto, la corteccia verde nerastra.
Le foglie, ovate, sono verde scuro, coriacee, lucide nella pagina superiore e opache in quella inferiore, sono inoltre molto profumate.
L'alloro è una pianta dioica, cioè porta fiori, unisessuali, in due piante diverse, una con i fiori maschili e una con i fiori femminili (che portano poi i frutti). L'unisessualità è dovuta a fenomeni evolutivi di aborto a partire da fiori inizialmente completi. Nei fiori femminili infatti sono presenti 2-4 staminoidi (cioè residui di stami) non funzionali, analogo fenomeno accade per i maschili, che presentano parti femminili atrofiche (non funzionali ed atrofizzate). I fiori, di colore giallo chiaro, riuniti a formare una infiorescenza ad ombrella, compaiono a primavera, generalmente in marzo-aprile.
I frutti sono drupe nere e lucide (quando mature) con un solo seme. Le bacche maturano a ottobre-novembre.
L'impollinazione è principalmente entomofila, ovvero ad opera di insetti.[3]
Diffuso lungo le zone costiere settentrionali del Mar Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia e nell'Asia Minore, passando per la Svizzera e l'Italia.
In Italia cresce spontaneamente nelle zone centro-meridionali e lungo le coste; nelle regioni settentrionali è invece coltivato e talvolta naturalizzato.
L'ampia diffusione spontanea in condizioni naturali ha fatto individuare uno specifico tipo di macchia: la macchia ad alloro o Lauretum. Si tratta della forma spontanea di associazione vegetale che si stabilisce nelle zone meno aride dell'area occupata in generale dalla macchia.
L'alloro è una pianta rustica, cresce bene in tutti i terreni e può essere coltivato in qualsiasi tipo di orto[4].
La diffusione avviene molto facilmente per seme (i semi sono diffusi dagli uccelli che predano i frutti), la moltiplicazione avviene molto facilmente in natura per polloni, fatto che produce agevolmente dei piccoli boschi prodotti da un solo individuo (cioè dei cloni dell'albero di partenza), oppure artificialmente per talea.
Il 20 aprile 2015 il Vlaamse laurier, l'alloro fiammingo, è stato iscritto nel registro europeo delle indicazioni geografiche protette (IGP)[5]. È caratterizzato da una forma simmetrica e da una resistenza al freddo (particolarmente apprezzata dalle clientele dei paesi del Nord).
La diffusione e l'uso ampio che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato l'alloro ad essere inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) come prodotto tipico siciliano.[6]
Si utilizzano le foglie e se ne possono fare vari usi: in cucina, per aromatizzare carni e pesci, come rimedio casalingo per allontanare le tarme dagli armadi (ottimo e più profumato sostituto della canfora), per preparare decotti rinfrescanti e dalle qualità digestive o pediluvi, o trattato con alcool per ricavarne un profumato e aromatico liquore dalle proprietà digestive, stimolanti, antisettiche ed è utile contro tosse e bronchite.[7]
Dalle bacche si può ricavare un olio aromatico, l'olio laurino e con proprietà medicinali, ingrediente peculiare dell'antichissimo sapone di Aleppo. Veniva inoltre utilizzato per preservare libri e pergamene e per preparare le classiche coroncine d'alloro.
A marzo, quando fiorisce l'alloro, soprattutto nei climi temperati freddi dove non ci sono altre fioriture rilevanti, è un'importante fonte di nettare e polline per le api.
L'alloro è conosciuto con il termine lauro; tuttavia, in alcune regioni italiane, con questo termine viene indicato anche il lauroceraso (Prunus laurocerasus), il quale è una pianta tossica.[8]
Nella mitologia greco-romana l'alloro era una pianta sacra e simboleggiava la sapienza e la gloria: una corona di alloro cingeva la fronte dei vincitori nei Giochi pitici o Delfici[9] e costituiva il massimo onore per un poeta che diveniva un poeta laureato. Da qui l'accezione figurativa di simbolo della vittoria, della fama, del trionfo e dell'onore. Inoltre questa pianta era sacra ad Apollo poiché Dafne, la ninfa di cui il dio si invaghì, chiese che fosse eliminata la causa dell'invaghimento di Apollo nei suoi confronti, e dunque le fu tolto l'aspetto umano venendo trasformata in Alloro. Apollo a quel punto mise la pianta di Alloro nel suo giardino e giurò di portarne sul suo capo in forma di corone per sempre, e disse che allo stesso modo facessero i Romani durante le sfilate in Campidoglio[10]. Sarebbe stato proprio Apollo, infatti, a rendere questo albero sempreverde. All'alloro era connesso anche il potere della divinazione (Apollo era infatti anche il dio dei vaticini): la sacerdotessa del dio (la Pizia) usava masticare foglie di alloro prima di profetizzare.
In Italia è tradizione far indossare una corona d'alloro a tutti i neolaureati.
Il "lauro" è spesso citato nel Canzoniere di Petrarca. Nell'opera, infatti, Laura, (anche il gioco omofonico che il poeta realizza è funzionale a questa metafora), la donna amata dall'io lirico, viene in parte assimilata a questo arbusto (emblematica la sestina "Giovene donna sotto un verde lauro"). Riprendendo le immagini della mitologia greca (in particolare il mito di Dafne e Apollo), l'alloro è simbolo di rifiuto e inaccessibilità, caratteristiche di Laura. Il "lauro" è anche però pianta sacra al Dio Apollo e simbolo di sapienza e gloria. Interessante il gioco di parole architettato dal poeta: egli realizza l'accostamento da un lato tra "lauro-l'auro" (dove "l'auro" sta a significare "l'oro" ed è riferito alla lucentezza tipica della donna, in particolare alle sue chiome); mentre compare anche la coppia Laura-l'aura(=l'aria), come accade nel sonetto 90 Erano i capei d'oro a l'aura sparsi.
Fred Perry adotta come simbolo dei suoi capi di abbigliamento due rami di alloro incrociati.
Il mirto (Myrtus communis L., 1753) è una pianta aromatica appartenente alla famiglia Myrtaceae[2] e al genere Myrtus. È tipico della macchia mediterranea, viene chiamato anche mortella.
Descrizione
Il mirto ha portamento di arbusto o cespuglio, alto tra 0,5–3 m, molto ramificato ma rimane fitto; in esemplari vetusti arriva a 4–5 m; è una latifoglia sempreverde, ha un accrescimento molto lento e longevo e può diventare plurisecolare.
La corteccia, rossiccia nei rami giovani, col tempo assume un colore grigiastro. Ha foglie opposte, ovali-acute, coriacee, glabre e lucide, di colore verde-scuro superiormente, a margine intero, con molti punti traslucidi in corrispondenza delle glandole aromatiche.
I fiori sono solitari e ascellari, profumati, lungamente peduncolati, di colore bianco o roseo. Hanno simmetria raggiata, con calice gamosepalo persistente e corolla dialipetala. L'androceo è composto da numerosi stami ben evidenti per i lunghi filamenti. L'ovario è infero, suddiviso in 2-3 logge, terminante con uno stilo semplice, e un piccolo stimma. La fioritura, abbondante, avviene in tarda primavera, da maggio a giugno; un evento piuttosto frequente è la seconda fioritura che si può verificare in tarda estate, da agosto a settembre e, con autunni caldi anche in ottobre. Il fenomeno è dovuto principalmente a fattori genetici.
I frutti sono delle bacche, globoso-ovoidali di colore nero-azzurrastro, rosso-scuro o più raramente biancastre, con numerosi semi reniformi. Maturano da novembre a gennaio persistendo per un lungo periodo sulla pianta.
Distribuzione e habitat
È una specie spontanea delle regioni mediterranee, comune nella macchia mediterranea. In Sardegna e Corsica è un comune arbusto della macchia mediterranea bassa, tipica delle associazioni fitoclimatiche xerofile dell'Oleo-ceratonion. Meno frequente è invece la presenza del mirto nella macchia alta.
Esigenze e adattamento
Il mirto è una pianta rustica ma teme il freddo intenso, si adatta abbastanza ai terreni poveri e siccitosi ma trae vantaggio sia dagli apporti idrici estivi sia dalla disponibilità d'azoto manifestando in condizioni favorevoli uno spiccato rigoglio vegetativo e un'abbondante produzione di fiori e frutti. Vegeta preferibilmente nei suoli a reazione acida o neutra, in particolare quelli a matrice granitica, mentre soffre i terreni a matrice calcarea. È un arbusto sclerofilo e xerofilo.
Miglioramento varietale per l'industria
Ne esistono numerose varietà coltivate a scopo ornamentale come il Myrtus communis var. variegata alta fino a 4,50 m, con foglie dalle eleganti striature colorate di bianco-crema e fiori profumati, ci sono anche degli arbusti che hanno le bacche bianche. Sono state selezionate varietà nane usate per coltivazione in vaso oppure altre ancora con fiori colorati e più grandi. L'interesse economico che sta riscuotendo questa specie in Sardegna ha dato il via negli anni novanta a un'attività di miglioramento genetico da parte del Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei dell'Università di Sassari, che ha selezionato oltre 40 cultivar fino al 2005. Lo scopo principale del miglioramento genetico è la produzione di bacche da destinare alla produzione del liquore di mirto, tuttavia è in corso anche un'attività di screening finalizzata alla produzione dell'olio essenziale.
Fra le caratteristiche morfologiche, fenologiche e produttive valutate ai fini del miglioramento genetico rientrano la forma e la pezzatura delle bacche, la dimensione dei semi, la vigoria della pianta, la pigmentazione dell'epicarpo, carattere fondamentale per la produzione del liquore, la produttività, la percentuale di radicazione (carattere fondamentale per la moltiplicazione per talea) e, infine, la predisposizione alla rifiorenza, carattere ritenuto negativo ai fini della produzione delle bacche.
Propagazione
Il mirto può essere riprodotto per talea o per seme.
La riproduzione è utile per clonare ecotipi o varietà di particolare pregio da utilizzare in mirteti intensivi, perché consente di ottenere piante vigorose e precoci, in grado di fruttificare già in fitocella dopo un anno. Per ottenere percentuali di radicazione accettabili è indispensabile ricorrere a tecniche che incrementino il potere rizogeno, come il riscaldamento basale e il trattamento con fitoregolatori rizogeni, e rallentino l'appassimento delle talee, come la nebulizzazione.
La riproduzione per seme, per la sua semplicità e per i costi bassissimi, è consigliata per un'attività amatoriale da eseguire in ambito domestico. Le piante ottenute da seme sono meno vigorose e difficilmente entrano in produzione prima dei quattro anni. La semina va fatta nel periodo di maturazione delle bacche, nei mesi di dicembre-gennaio, in quanto i semi perdono ben presto il potere germinativo. Per realizzare un piccolo semenzaio si può utilizzare una cassetta da riempire con terriccio. Si sbriciolano le bacche semiappassite, distribuendo uniformemente il seme con una densità di 3-4 semi per centimetro quadrato e ricoprendolo con uno strato leggero di terriccio, dopo di che ci si deve preoccupare di irrigare frequentemente e moderatamente. La cassetta va mantenuta in un ambiente riparato, all'aperto nelle regioni a inverno mite, in serra nelle zone a inverno rigido. Le piantine vanno trapiantate in vasetti o in fitocelle della capacità di mezzo litro quando hanno raggiunto un'altezza di 4–6 cm.
Tecnica colturale[
Il liquore di mirto è un prodotto che fino agli anni novanta ha interessato un mercato di nicchia a livello regionale, ma successivamente l'attività dell'industria liquoristica ha subito una notevole espansione promuovendo il prodotto nel mercato nazionale. La domanda di materia prima, tradizionalmente soddisfatta dai raccoglitori stagionali nella macchia mediterranea, ha portato a una notevole pressione antropica sulla vegetazione spontanea, che ormai non è più in grado di sostenere un'attività su larga scala.
A partire dalla metà degli anni novanta, pertanto, si sta promuovendo in Sardegna la coltivazione del mirto in impianti specializzati. La tecnica colturale è in piena fase di evoluzione in quanto è ancora oggetto di recente ricerca in diversi suoi ambiti, soprattutto in relazione alla meccanizzazione. Nei primi anni del millennio sono già emersi i primi indirizzi, applicati nei campi sperimentali e nei progetti pilota.
L'impianto del mirteto si esegue con gli stessi criteri applicati nella frutticoltura e nella viticoltura. Il terreno va preparato con lo scasso e la superficie sistemata con le lavorazioni complementari, in occasione delle quali si può valutare l'opportunità di una concimazione di fondo su terreni particolarmente poveri.
Il sesto d'impianto più adatto per la meccanizzazione della coltura è di 1 x 3-3,5 metri, con un investimento di circa 3 000 piante a ettaro. Le piante, omogenee per età e cultivar, vanno messe a dimora in autunno o al massimo entro l'inizio della primavera per facilitare l'affrancamento. Si possono impiegare anche piante di un anno d'età provenienti da un vivaio, in quanto in grado di fornire una prima produzione già al secondo anno.
Il sistema d'allevamento più vicino al portamento della pianta è la forma libera a cespuglio. Con questo sistema in pochi anni le piante formano una siepe continua che richiede pochi interventi di potatura. Le sperimentazioni condotte dalla Facoltà di Agraria dell'Università di Sassari hanno però individuato nell'alberello una forma d'allevamento più adatta alla meccanizzazione della raccolta. Con questo sistema le piante sono costituite da un fusto alto circa 50 cm con chioma libera. In questo caso sono richiesti sistematici interventi di potatura più drastici per correggere il naturale portamento cespuglioso della pianta e l'allestimento di un sistema di sostegno basato su pali e fili. Per quanto riguarda la potatura di produzione, ancora non esiste una casistica sufficientemente collaudata, tuttavia il comportamento naturale del mirto può dare le prime indicazioni. Il mirto fruttifica sui rametti dell'anno, pertanto la potatura dovrebbe limitarsi a interventi di contenimento dello sviluppo e di ringiovanimento, oltre alla rimozione dei nuovi getti basali nel sistema ad alberello.
Per la sua rusticità e la capacità di competizione il mirto richiede per lo più il controllo delle infestanti con lavorazioni superficiali nell'interfila, qualora si adotti un sistema d'allevamento a cespuglio, e sulla fila nei primi anni e soprattutto con l'allevamento ad alberello. In caso di coltura in asciutto si opera secondo i criteri dell'aridocoltura con lavorazioni più profonde nell'interfila per aumentare la capacità d'invaso.
Il mirto risponde positivamente soprattutto alla concimazione azotata in quanto la produzione è potenzialmente correlata allo sviluppo vegetativo primaverile. Gli interventi vanno pertanto eseguiti in epoca primaverile per incrementare il rigoglio vegetativo. La concimazione azotata e quella potassica diventano indispensabili per garantire un buon livello nutrizionale e contenere eventuali fenomeni di alternanza qualora si provveda ad asportare i rami in fase di raccolta.
L'irrigazione è indispensabile per garantire buone rese. La specie resiste bene a condizioni di siccità prolungata e potrebbe essere coltivata anche in asciutto, ma le rese sono piuttosto basse. Le dimensioni delle bacche inoltre sono piuttosto piccole e rendono proibitiva la raccolta con la brucatura o la pettinatura. Tre o quattro interventi irrigui di soccorso nell'arco della stagione estiva possono migliorare sensibilmente lo stato nutrizionale delle piante e di conseguenza le rese. I migliori risultati si ottengono naturalmente con irrigazioni più frequenti adottando sistemi di microirrigazione con turni di 10-15 giorni secondo la disponibilità e il tipo di terreno. I volumi stagionali ordinari possono probabilmente oscillare dai 1 000 ai 3 000 metri cubi a ettaro.
Raccolta
Tradizionalmente la raccolta nella macchia è eseguita con la brucatura o con l'impiego di strumenti agevolatori (pettini forniti di contenitori per l'intercettazione), questi ultimi in grado di aumentare leggermente la capacità di lavoro. Una pratica sconsiderata è quella di tagliare i rami e lasciarli appassire per qualche giorno in modo da staccare le bacche con la semplice scrollatura. Questa tecnica è deprecabile a causa del grave impatto ambientale se ripetuta negli anni: in un impianto artificiale potrebbe essere giustificata per ridurre i costi della raccolta su grandi estensioni ma oltre a offrire un eventuale rischio di alternanza (non documentato), richiede maggiori oneri di fertilizzazione per garantire un'adeguata rigenerazione annuale della vegetazione ed evitare un eccessivo impoverimento del terreno.
Il Dipartimento di Ingegneria del Territorio Sezione Meccanizzazione ed Impiantistica dell'Università di Sassari sta sperimentato alcuni prototipi per un'eventuale meccanizzazione della raccolta mutuati da altri sistemi di raccolta adottati in olivicoltura o in viticoltura. Allo stato attuale le ipotesi più accreditate prevedono l'impiego di macchine scavallatrici che effettuano lo scuotimento o la pettinatura con intercettazione per mezzo di reti.
Le rese possono variare sensibilmente secondo le condizioni operative. Le rese effettive nella macchia dipendono dalle caratteristiche intrinseche dell'associazione floristica, con particolare riferimento alla percentuale di copertura del mirto, dall'andamento climatico della stagione, dalle condizioni pedologiche. Prove condotte dal Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei dell'Università di Sassari e dal Centro Regionale Agrario Sperimentale della Sardegna in diverse stazioni dell'isola hanno rilevato rese variabili da poche decine di chilogrammi a massimo 200 kg a ettaro. Negli impianti intensivi la letteratura non ha ancora fornito indicazioni attendibili, ma le rese potrebbero attestarsi sull'ordine di 4-6 t a ettaro in regime irriguo con investimenti di 3 000-3 500 piante.
Usi
Per il suo contenuto in olio essenziale (mirtolo, contenente mirtenolo e geraniolo e altri principi attivi minori), tannini e resine, è un'interessante pianta dalle proprietà aromatiche e officinali. Al mirto sono attribuite proprietà balsamiche, antinfiammatorie, astringenti, leggermente antisettiche, pertanto trova impiego in campo erboristico e farmaceutico per la cura di affezioni a carico dell'apparato digerente e del sistema respiratorio. Dalla distillazione delle foglie e dei fiori si ottiene una lozione tonica per uso eudermico. La resa in olio essenziale della distillazione del mirto è alquanto bassa.
Il prodotto più importante, dal punto di vista quantitativo, è rappresentato dalle bacche, utilizzate per la preparazione del liquore di mirto propriamente detto, ottenuto per infusione alcolica delle bacche attraverso macerazione o corrente di vapore. Un liquore di minore diffusione è il Mirto Bianco, ottenuto per infusione idroalcolica dei giovani germogli, erroneamente confuso con una variante del liquore di mirto propriamente detto ottenuto per infusione delle bacche di varietà a frutto non pigmentato. Il prezzo di mercato delle bacche si aggira intorno ai 1,8-2 euro/kg.
Nella tradizione gastronomica sarda il mirto è un importante condimento per aromatizzare alcune carni: i rametti sono tradizionalmente usati per aromatizzare il maialetto arrosto, il pollame arrosto o bollito, il manzo e soprattutto sa taccula o grivia, un semplice ma ricercato piatto a base di uccellagione bollita (tordi, merli, storni). L'uso del mirto come aroma per le carni non è comunque una prerogativa esclusiva dei sardi: la letteratura nel Web riporta ad esempio riferimenti anche per altre cucine regionali e per la cucina spagnola. Assai più raro ma non meno gustoso è l'utilizzo del mirto come condimento per un risotto.
Giardinaggio
L'abbondante e suggestiva fioritura in tarda primavera o inizio estate o la presenza per lungo tempo delle bacche (di colore nero bluastro o rossastro o rosso violaceo) nel periodo autunnale rendono questa pianta adatta per ravvivare i colori del giardino come arbusto isolato, allevato a cespuglio o ad alberello. L'utilizzazione più interessante del mirto come pianta ornamentale è tuttavia la siepe: in condizioni ambientali favorevoli è in grado di formare una fitta siepe medio alta in pochi anni. Le foglie, relativamente piccole, e la notevole capacità di ricaccio vegetativo lo rendono adatto a formare siepi modellate geometricamente con la tosatura, ma può anche essere allevato a forma libera e sfruttare in questo caso lo spettacolo suggestivo offerto prima dalla fioritura poi dalla fruttificazione.
Curiosità
L'"Orto del Mirto" è un settore dell'Orto botanico di Pisa, così denominato per la presenza di un vetusto esemplare di mirto. L'impiego fitocosmetico del mirto risale al Medioevo: con la locuzione di Acqua degli angeli, s'indicava l'acqua distillata di fiori di mirto.
La popolarità di cui gode questa pianta in Sardegna è notevole al punto che questa pianta è oggetto di consuetudini consolidate. In autunno presso i mercati civici e gli ambulanti si trovano facilmente le bacche di mirto pronte per essere messe in macerazione per la preparazione casalinga del liquore. Lo stesso liquore è ormai diventato il digestivo per eccellenza offerto, spesso in omaggio, nei ristoranti al termine del pasto. Infine, i rametti di mirto sono frequentissimi come ornamento nei banchi delle macellerie e delle rosticcerie. La popolarità ha ispirato la ricerca negli ultimi anni di nuove utilizzazioni in campo alimentare che però non hanno riscosso grande successo. In particolare si citano il tè freddo al mirto e il gelato al gusto di mirto.
Il mirto è bottinato dalle api per ottenere il polline.[3] Non è possibile produrre miele di mirto in quanto il mirto non produce nettare, essendo il fiore privo di nettari.
Nell'antichità, il mirto era pianta sacra a Venere, in quanto si riteneva che la dea, appena nata dalla spuma del mare, si fosse rifugiata in un boschetto di mirti.[4]
La filogenesi, della famiglia delle Myrtaceae deriva direttamente dal mirto (Myrtus communis) che è stato considerato evidentemente degno di costituire il genere tipico della famiglia. Tale condizione rappresenta chiaramente la centralità della cultura europea che si è realizzata in ambito del sistema di classificazione botanica linneana e di quelle storiche precedenti, nella classicità greca e latina. In realtà la enorme complessità della famiglia, e della sua filogenesi, ha una grandissima importanza botanica in tutto il pianeta. Sono moltissimi i generi e le specie di piante da frutto o da legno o medicinali arbusti o grandi alberi, che sono attribuite a tale famiglia; sia del deserto sia delle foreste tropicali di tutti i continenti. L'unico luogo dove la famiglia è rappresentata pressoché da una sola specie, peraltro di non fondamentale importanza, questo e il luogo dove appunto è originario il mirto, e la specie è il Myrtus communis.
Il vischio (Viscum album L.) è una pianta cespugliosa che appartiene alla famiglia delle Santalaceae (secondo la classificazione APG).[1]
Il vischio è una pianta sempreverde epifita emiparassita di numerosi alberi ospiti, in particolare conifere e alcune latifoglie (es. pioppi, salici, aceri, betulle, tigli, meli, Robinia e più raramente Prunus). Non cresce mai su Fagus, Platanus o Juglans regia, ma bene su Juglans nigra[senza fonte]. Se ne può notare la presenza specialmente nei boschi caduchi in inverno, quando i suoi cespugli cresciuti sui tronchi e sui rami sono evidenziati dalla perdita delle foglie della pianta che li ospita.
Descrizione
Il vischio ha fusti lunghi 30-100 centimetri con ramificazioni dicotomiche. Le foglie sono oblunghe e coriacee, a fillotassi opposta, intere, di consistenza coriacea, lunghe 2-8 centimetri, larghe 0,8–2,5 centimetri, di colore verde-giallastro.
Il vischio ha fiori unisessuali poco appariscenti, portati in glomeruli; i fiori maschili sono privi di calice quelli femminili hanno sia calice che corolla.
Questa specie è dioica i fiori impollinati dagli insetti.
I frutti sono delle bacche sferiche o ovoidi, bianche o giallastre translucide contenenti semi di 5–6 mm, appiattiti sui lati e immersi in una polpa gelatinosa e vischiosa.
Biologia
La foglia verde del vischio indica la presenza di clorofilla, quindi questa pianta è in grado di compiere la fotosintesi. Pur essendo in grado di effettuare la fotosintesi, sottrae acqua, sali minerali e azoto dalla pianta ospite. Alla base del fusto principale sono prodotti cordoni verdi che penetrano all’interno della corteccia dell’ospite e generano delle propaggini che si allungano fino al tessuto conduttore.
Le sue bacche, trasportate e disperse dagli uccelli (che se ne cibano in inverno), si insediano nelle intercapedini di un ramo di una pianta ospite e i semi ivi contenuti iniziano a germinare. Attraverso un cono di penetrazione ha inizio la formazione di un piccolo tronco e lo sviluppo del vischio.
Usi
La coltivazione del vischio è praticata per fini ornamentali e per l'erboristeria, recidendo in primavera una parte di ramo da una pianta ospite e innestando, schiacciandola, una bacca di vischio matura. Dopo un lento sviluppo, che può durare anche un paio di anni, inizierà la sua crescita spontanea. Di solito la pianta ospite non subisce danni, a patto che non ci siano troppi individui di vischio: in tal caso per liberarsene si dovrà procedere a recidere il ramo.
Tossicità
Il vischio è, in forma concentrata, potenzialmente fatale e le persone possono ammalarsi gravemente mangiandone le bacche.
Gli estratti concentrati possono causare un'intossicazione importante, che può manifestarsi con diplopia, midriasi, ipotensione, confusione mentale, allucinazioni, convulsioni.
La lectina tossica viscumina è stata isolata dal vischio [2]. La viscumina è una proteina citotossica (chiamata proteina inattivante ribosoma, o RIP) che si lega ai residui di galattosio delle glicoproteine sulla superficie cellulare e può essere internalizzata dall'endocitosi. La viscumina inibisce fortemente la sintesi proteica inattivando la subunità ribosomiale 60 S [3].
Medicina alternativa
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Il vischio viene impiegato nella medicina tradizionale, sotto forma di tinture o infusi, come antipertensivo e anti-arteriosclerotico. Non vi sono al momento studi clinici che confermino tale azione[4].
Per queste sue proprietà curative il vischio era utilizzato sin dai popoli della mitologia norrena.[5]
«Il vischio, che per lungo tempo non ha giocato alcun ruolo speciale come pianta medicinale, ed era stato pressoché dimenticato dalla medicina moderna, è stato messo, da qualche decennio a questa parte, al centro di una nuova corrente della medicina; questo dopo che Rudolf Steiner l'ha indicato come base di un medicamento che combatte il carcinoma nelle sue differenti forme.»
(Wilhelm Pelikan, Le piante medicinali per la cura delle malattie, trad. it., Natura e Cultura, 2009[6])
Il vischio è una delle sostanze di medicina alternativa e complementare più studiate per la lotta al cancro. Sebbene non esistano prove a sostegno dell'idea che la stimolazione del sistema immunitario da parte del vischio porti a una migliore capacità di combattere il cancro, la ricerca di base con estratti di vischio fornisce molte tracce per ulteriori indagini sui possibili meccanismi del vischio come prodotto di supporto nell'intero trattamento oncologico del singolo paziente. Gli estratti di vischio sono stati valutati in numerosi studi clinici e sono stati segnalati frequentemente miglioramenti nella sopravvivenza e nella qualità della vita. Tuttavia, secondo alcune revisioni critiche, la maggior parte degli studi clinici condotti fino ad oggi hanno avuto uno o più importanti punti deboli che hanno sollevato dubbi sull'affidabilità dei risultati. La capacità di effettuare studi di controllo randomizzati in doppio cieco con estratti di vischio inoltre è limitata a causa degli effetti immunologici osservati sulla pelle dopo le iniezioni sottocutanee. In secondo luogo, gli studi sono limitati dal fatto che per condurli è necessario un grande investimento economico senza poter avere alcuna esclusiva commerciale sul prodotto derivato dal vischio dopo aver ottenuto i risultati finali[7].
Tradizioni correlate
Al vischio sono riconducibili leggende e tradizioni molto antiche: per le popolazioni celtiche, che lo chiamavano oloaiacet, era, assieme alla quercia, considerato pianta sacra e dono degli dei; secondo una leggenda nordica teneva lontane disgrazie e malattie. Continua in molti paesi a essere considerato simbolo di buon augurio durante il periodo natalizio: diffusa è infatti l'usanza, originaria dei paesi scandinavi, di salutare l'arrivo del nuovo anno baciandosi sotto uno dei suoi rami. A questo proposito il mito di Baldur (raccontato nel Gylfaginning),[8] figlio del dio Odino e signore della luce (per questo sovrapponibile a Cristo), che muore ucciso da una bacchetta di vischio da cui, idealmente e simbolicamente, proviene, in quanto il padre Odino è identificato con l'albero cosmico Yggdrasill su cui nasce il vischio: come era accaduto a Cristo per il legno della croce.[9]
Nel VI libro dell'Eneide (vv. 133-141) di Virgilio, dove si racconta la discesa di Enea nell'oltretomba, la Sibilla cumana gli ordina di trovare un "ramo d'oro" (cioè di vischio, secondo gli studi antropologici) che sarà necessario per placare le divinità infere durante la sua catabasi. L'antropologo britannico James Frazer ha dedicato a questo mito una poderosa ricerca.[10]
Il succo delle bacche veniva usato per preparare colle usate nell'uccellagione. A questo uso fanno riferimento alcuni modi di dire entrati nel linguaggio corrente: può essere vischiosa una sostanza attaccaticcia o una persona particolarmente tediosa, mentre non è gradevole rimanere invischiati in certe situazioni.
Alla natura parassita di questa pianta il poeta italiano Giovanni Pascoli dedicò una poesia, intitolata Il vischio.
La roverella (Quercus pubescens Willd., 1805) è la specie di quercia più diffusa in Italia, tanto che in molte località è chiamata semplicemente quercia. Appartiene alla famiglia delle Fagaceae[2] ed è un albero a crescita lenta.
Resistente all'aridità, è capace di adattarsi anche a climi relativamente freddi. È facilmente riconoscibile d'inverno in quanto mantiene le foglie secche attaccate ai rami, a differenza delle altre specie di querce. Il principale carattere diagnostico per identificare la specie è quello di osservare le foglie o le gemme: sono ricoperte da una fine peluria (pubescenza) che si può facilmente apprezzare al tatto. Le doti di rusticità e plasticità di questa pianta, grazie soprattutto all'enorme vitalità della ceppaia, hanno permesso alla roverella, attraverso i secoli, di resistere agli interventi distruttivi dell'uomo.
La roverella è un albero che di rado arriva a raggiungere i 20–25 m di altezza, di aspetto tozzo, con chioma ampia, rada e irregolare. Presenta un fusto corto, ramificato a breve altezza in grosse branche, e spesso contorto.
Le gemme sono grigie, lunghe 8–12 mm, ovali-appuntite e molto pelose (pubescenti). Queste gemme sono molto simili a quelle dell'ippocastano.
La corteccia è di colore grigio-scura poi nerastra, fessurata sin da giovane in piccole scaglie dure a profilo quadrangolare rilevate e rugose. A maturità è nerastra, più fine.
Le foglie sono tardivamente caduche, alterne, molto variabili nella forma e dimensioni; in genere ovato-allungate, presentano una lamina cuneata a margine lobato. La pagina fogliare inferiore è densamente pubescente (pelosa), con picciolo fogliare di circa 8–12 mm.
Il frutto è un achenio di forma ovoidale, con striature scure allo stato fresco, portato da un peduncolo molto spesso e peloso. La cupola è emisferica e ricopre la ghianda per 1/3 - 1/2 della sua lunghezza.
La roverella è distribuita nel bacino del Mediterraneo; in Italia è presente con esclusione delle zone più interne e più elevate. Si trova principalmente nelle località più assolate, nei versanti esposti a sud ad un'altitudine compresa tra il livello del mare e i 1000 m s.l.m. Non ha preferenze per il terreno, potendo vegetare su suoli di diverso tipo, rifuggendo solo da quelli puramente argillosi, anche se spesso domina sulle formazioni calcaree. Forma boschi puri o misti, d'alto fusto o cedui. Nell’Appennino umbro-marchigiano e in Toscana i querceti misti di roverella sono fonte del pregiato tartufo bianco (Tuber magnatum).
Ne sono riconosciute tre sottospecie:[2]
Quercus pubescens subsp. crispata (Steven) Greuter & Burdet
Quercus pubescens subsp. pubescens
Quercus pubescens subsp. subpyrenaica (Villar) Rivas Mart. & C.Saenz
Può subire gravi attacchi da parte delle larve di alcuni lepidotteri defogliatori, come Lymantria dispar e la processionaria delle querce. I giovani germogli possono essere danneggiati dalla Lachnaia italica.
Il legno è apprezzato ed utilizzato come legna da ardere; fa parte della categoria delle essenze dure, ovvero quei legni che hanno ottimo valore calorifico e lenta combustione. Il legno, anche se simile a quello della Rovere, presenta fibre meno dritte, per cui è di più difficile lavorazione, inoltre tende ad imbarcarsi. Le travi che se ne ottengono vengono usate in edilizia, costruzioni navali e una volta traversine ferroviarie.
Le ghiande sono dolci e venivano utilizzate non solo per l'alimentazione dei maiali ma anche, nei periodi di carestia, per fare una specie di pane o piadina di ghianda.
A Capannori, in località Gragnano si trova la Quercia delle Streghe, una farnia datata approssimativamente 600 anni. La pianta è alta 24 metri, il tronco ha una circonferenza di 4,5 metri e la chioma presenta un diametro di 40 metri
A Rocchetta a Volturno, località Rocchetta Bassa, in provincia di Isernia, è presente un esemplare di quercus pubescens (roverella): circonferenza del tronco 6,50 m, altezza 25 m, età anni 250-300.[3]
A Tricarico, in provincia di Matera, in località Grottone, vegeta una roverella dell'età stimata di 612 anni che ha un tronco di 6,43 metri di circonferenza e un'altezza di circa 20 metri. È inserita nell'elenco degli "alberi padri", riconosciuti dalla regione Basilicata come monumenti naturali.[4]
Un altro esemplare era la Quercia di Santajusta alla Melara, situata nell'agro di Lucera. La roverella aveva un'età stimata di 900 anni, era alta 30 m e aveva una circonferenza del tronco misurata ad un metro da terra di 6,30 m[5]. Purtroppo, il 16 dicembre 2011, dopo un periodo di deperimento a causa di parassiti e malattie e anche all'incuria umana, la quercia è stata abbattuta da fortissime raffiche di vento.
Di 750 anni è l'età stimata per la Quercia di Donato, vegetante a Scurcola Marsicana in località Convento dei Cappuccini. La circonferenza del tronco è di circa 6 metri, l'altezza è di circa 23 metri.[6][7]
La più grande sembra comunque essere in Sardegna a Illorai (in località Sa Melabrina): le sue dimensioni sono di 8,80 metri di circonferenza e 24 di altezza, con un'età plurimillenaria, inserita in un bosco ad evoluzione naturale gestito dall'Ente Foreste della Sardegna[8].
Generalmente nell'Italia centro-meridionale venivano lasciati degli esemplari di roverella lungo i confini di proprietà, così che è possibile in certi casi ricostruire detti confini esaminando la presenza dei grossi esemplari della specie.
Il Fraxinus ornus è una pianta della famiglia delle Oleaceae (conosciuto come Orniello o Orno e chiamato volgarmente anche frassino da manna o albero della manna nelle zone di produzione della manna), è un albero che può superare i 10 metri di altezza, ma viene spesso rigovernato a cespuglio.
È diffuso nell'Europa meridionale e nell'Asia minore. Il limite settentrionale della specie è l'arco alpino e la valle del Danubio mentre il limite orientale è la Siria e l'Anatolia.
In Italia è comunissimo in tutta la penisola, dalla fascia prealpina del Carso, fino ai laghi lombardi; penetra nelle valli principali fino al cuore delle Alpi risalendo le pendici montane fin verso i 1000 m di quota al nord e i 1500 m al sud. Nella pianura padana è quasi assente; torna a popolare gli Appennini (specie quelli settentrionali e centrali) fino a oltre 1.000 metri di altezza, in particolare su quelli del versante orientale della penisola. Specie piuttosto termofila e xerofila preferisce le zone di pendio alle vallette ombrose e fresche. In Sicilia si spinge fino ai 1.400 m di altitudine. Nelle regioni occidentali diviene progressivamente rara, fino a formare tipi localizzati, di cui non è sicura però la distinzione. Cresce principalmente in boschi e foreste in associazione a varie latifoglie, come quercia, carpino ecc... ed è formidabile nel ricolonizzare le zone forestali in cui è avvenuto un incendio o un precedente vecchio rimboschimento, mostrando elevata rusticità e messa a seme.
Le infiorescenze sono a forma di pannocchie, generalmente apicali e ascellari; i fiori generalmente ermafroditi e profumati, con un breve pedicello, possiedono un calice campanulato con quattro lacinie lanceolate e diseguali di colore verde-giallognolo; la corolla ha petali bianchi leggermente sfumati di rosa, lineari, di 5–6 mm di lunghezza.
Il frutto è una samara oblunga, cuneata alla base, ampiamente alata all'apice, lunga 2–3 cm e con un unico seme compresso di circa un centimetro.
L'orniello è una specie interessante per la silvicoltura, in quanto può essere considerata una specie pioniera, resistente a condizioni climatiche difficili, adatta quindi al rimboschimento di terreni aridi e siccitosi. Viene coltivato in Sicilia e Calabria per la produzione della manna, in Toscana nei vigneti viene frequentemente utilizzata come sostegno ai filari di vite. Si moltiplica facilmente con la semina.
Cantaride - adulti di Lytta vescicatoria attaccano le foglie divorando solo il lembo e lasciando intatte le nervature.
Ciono - le larve di Cionus fraxini rodono le gemme e le foglie lasciando intatta solo l'epidermide superiore che ben presto imbrunisce e dissecca; gli adulti attaccano in primavera le giovani gemme.
Ilesino - gli adulti di Lepersinus fraxini scavano gallerie nella corteccia che appare perforata in più punti screpolandosi; col tempo si forma una fitta rete di piccole gallerie che indeboliscono la parte di pianta attaccata.
Tentrenide - le larve di Tomostethus melanopygus divorano le foglie lasciando intatte le sole nervature con grave defogliazione della chioma.
Carie del legno - i funghi Fomes ignarius e F. fomentarius attaccano il legno profondamente con perdita di consistenza e assunzione di un aspetto spugnoso biancastro per la distruzione della lignina; i corpi fruttiferi dei parassiti sono visibili all'esterno dei tronchi attaccati e sono a forma di mensola o zoccolo. Stesso tipo di danno causa la Schizophthora omnivora con corpi fruttiferi a forma di orecchiette grigiastre.
Marciume delle piantine - il fungo Phytophthora omnivora colpisce le giovani piantine nei semenzai con lesioni necrotiche del colletto.
Oidio o Mal bianco - i funghi Microsphaera alni e Phyllactinia sufflata attaccano le foglie ed i giovani rametti verdi, provocando chiazze biancastre pulverulenti a consistenza feltrosa, che nel tempo imbruniscono disseccando le parti colpite.
Nella silvicoltura per il rimboschimento di suoli poveri, aridi, calcarei o argillosi.
Come pianta ornamentale in parchi e giardini di grandi dimensioni, anche su terreni secchi e poco profondi.
Come pianta officinale e medicinale.
Per l'estrazione di tannini dalla corteccia.
Utilizzando le foglie come foraggio per il bestiame, in zone povere di pascoli.
Per la produzione di legname; il legno di orniello ha il durame bruno chiaro, con anelli scarsamente visibili e provvisti di grossi vasi nella zona primaverile, è elastico e resistente, facilmente lavorabile. Viene utilizzato industrialmente per la produzione di mobilio, per attrezzi vari, per lavori al tornio e come ottimo combustibile.
Le foglie secche e triturate e i frutti posti in infuso in acqua bollente forniscono il tè di frassino.
Le foglie fermentate con acqua e saccarosio servono per preparare bevande alcoliche.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Il decotto di manna, sostanza solida bianca-giallastra ricavata dal succo zuccherino che sgorga dalle lesioni della corteccia e che si rapprende rapidamente a contatto dell'aria, raccolta in estate, è un blando purgante, ha anche proprietà bechiche e anticatarrali; può essere usato come collirio nelle congestioni oculari; pezzetti di manna sciolti in bocca lentamente hanno proprietà espettoranti.
L'infuso delle foglie raccolte a fine primavera inizio estate ed essiccate al sole, viene utilizzato come emolliente.
Il carrubo (Ceratonia siliqua L., 1753) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Caesalpiniaceae (altri autori la inseriscono nella famiglia delle Fabaceae) e al genere del Ceratonia. È prevalentemente dioico (esistono cioè piante con soli fiori maschili e alberi con fiori solo femminili, raramente presentano fiori di ambedue i sessi sulla stessa pianta). Viene chiamato anche carrubbio. Per le sue caratteristiche si può avere sullo stesso carrubo contemporaneamente fiori, frutti e foglie, essendo sempreverde e la maturazione dei frutti molto lunga.
Insieme all'Olea europaea è una specie caratteristica dell'alleanza fitosociologica Oleo-ceratonion.
Il carrubo è un albero poco contorto, sempreverde, robusto, a chioma espansa, ramificato in alto. Può raggiungere un'altezza di 9–10 m.
Ha una crescita molto lenta, anche se è molto longevo e può diventare pluricentenario.
Il fusto è vigoroso, con corteccia grigiastra-marrone, poco fessurata.
Ha foglie composte, paripennate, con 2-5 paia di foglioline robuste, coriacee, ellittiche-obovate di colore verde scuro lucente superiormente, più chiare inferiormente, con margini interi.
La pianta è dioica. I fiori sono molto piccoli, unisessuali, verdastri tendenti al rossiccio; si formano su corti racemi lineari all'ascella delle foglie. I fiori maschili hanno 5 stami liberi; quelli femminili uno stilo corto.
La fioritura avviene in agosto-settembre e la maturazione si completa tra agosto e ottobre dell'anno successivo alla fioritura che ha dato loro origine.
I frutti, chiamati popolarmente carrube o vajane, sono dei lomenti: grandi baccelli indeiscenti lunghi 10–20 cm, spessi e cuoiosi, dapprima di colore verde pallido, in seguito quando sono maturati, nel periodo compreso tra agosto e ottobre, marrone scuro. Presentano una superficie esterna molto dura, con polpa carnosa, pastosa e zuccherina che indurisce col disseccamento. I frutti permangono per parecchio tempo sull'albero e hanno maturazione molto scalare per cui possono essere presenti, allo stesso tempo, frutti secchi di colore marrone, e frutti immaturi di colore più chiaro. A causa dell'elevato contenuto in tannino, la polpa dei frutti può avere effetto irritante, se assunta in grande quantità.
I frutti contengono semi scuri, tondeggiati e appiattiti, assai duri, molto omogenei in peso, detti "carati" poiché venivano utilizzati in passato come misura dell'oro.
È pianta spontanea nel bacino del Mediterraneo, del Portogallo e Marocco atlantici, vive nelle zone aride di questa regione. In Italia è presente allo stato spontaneo nelle regioni del Sud mentre è naturalizzata in Toscana e a nord di questa, dove tuttavia è rara. In Puglia, una legge regionale (Art. 18 L. R. 04/06/2007) la fa rientrare nelle specie protette.
Coltivazione
È coltivato specialmente in Nord Africa, Grecia e Cipro e, con minore estensione, in Spagna, Italia meridionale e Albania. In Italia è ancora coltivato in Sicilia, anche se la rilevanza economica di questa produzione è in declino: esistono tuttora importanti carrubeti nel ragusano e nel siracusano; in queste zone sono ancora attive alcune industrie, che trasformano il mesocarpo del carrubo in semilavorati, utilizzati nell'industria dolciaria e alimentare[1]. La provincia di Ragusa copre circa il 70% della produzione nazionale[2].
Il carrubo è una pianta rustica, poco esigente, che cresce bene in terreni aridi e poveri, anche con molto calcare, non resiste alle gelate, ma sopporta bene i climi caldi.
Utilizzi
I baccelli maturi sono commestibili, si conservano per molto tempo e possono essere consumati, comunemente, freschi o secchi o, in alternativa, passati leggermente al forno. Vengono tradizionalmente consumati soprattutto nei mesi invernali, avendo l'accortezza di scartare i semi, durissimi.
Il carrubo è una pianta visitata dalle api,[3] non solo per il polline, ma anche per il nettare da cui se ne può ricavare un miele uniflorale, solo nelle poche aree con un certo numero di piante.[4]
È apprezzata nelle regioni d'origine per l'ombra delle chiome; infatti, conservando un fogliame molto fitto, produce zone d'ombra, preziose in luoghi aridi.
Parte dei succedanei del cioccolato sono ottenuti da pasta o semi di carrube.
Molti addensanti e gelificanti di prodotti alimentari sono ottenuti da farina di semi di carrube.
Oggi i frutti (privati dei semi) vengono usati per l'alimentazione del bestiame. Un tempo furono usati come materiale da fermentazione per la produzione di alcool etilico. Come d'uso nella tradizione popolare, i semi, ridotti in farina, venivano usati come antidiarroici.
I semi, durissimi, sono immangiabili; possono invece essere macinati, ottenendosi così una farina dai molteplici usi, che contiene un'altissima quantità di carrubina, che ha la capacità di assorbire acqua in quantità pari a 100 volte il suo peso.
Siccome i semi erano ritenuti particolarmente uniformi come dimensione e peso, dal loro nome arabo (qīrāṭ o "karat") è stato derivato il nome dell'unità di misura (carato) in uso per le pietre preziose, equivalente a un quinto di grammo. In realtà la variazione del peso dei semi di carrubo, presi alla rinfusa, arriva al 25%.
Tipica è, nelle piante molto longeve, la comparsa, dopo le prime piogge d'agosto, del cosiddetto fungo del carrubo (Laetiporus sulphureus). Seppur consumato in alcune zone della Sicilia e della Basilicata, esso è un fungo tossico, che può causare spiacevoli disturbi gastro-intestinali.[5]
Il legno di carrubo, per la sua durezza e resistenza, veniva impiegato per la fabbricazione di utensili e macchinari in legno soggetti a usura.
In fitoterapia l'estratto secco del frutto (carruba) è utilizzabile, anche assieme allo zenzero, nel colon irritabile ad alvo diarroico.[6]
Il rovo comune (Rubus fruticosus L.) è una pianta arbustiva caducifoglie della famiglia delle Rosacee originaria dell'Eurasia. I suoi frutti sono chiamati comunemente more.
Descrizione
È un arbusto spinoso che può raggiungere i 2–3 m di altezza, ma può esserlo altrettanto o anche di più in larghezza, a causa dei nuovi lunghissimi getti che annualmente si sviluppano dalle radici.
Le foglie sono decidue, composte da 3-5 foglioline a lamina ovata od obovata e margini seghettati e spinosi e apice acuto.
I fiori sono ermafroditi, biancastri o rosati, riuniti in infiorescenze a racemo. La fioritura avviene nel mese di giugno. È pianta mellifera da cui le api ricavano un particolare miele monoflora.
I frutti sono composti da tante piccole drupe, di colore rosso nelle prime fasi di crescita, nero a maturazione. I frutti Iniziano la maturazione in agosto
Distribuzione e habitat
Specie comune in Europa e in Asia, introdotta anche in Nord America; in Italia è pianta comune nei boschi umidi, al margine delle foreste, nelle radure e nelle siepi; predilige suoli ricchi di nutrienti, debolmente acidi. Cresce fino a 1 700 m s.l.m.
Uso in cucina
I frutti (more), raccolti a maturazione in tarda estate, si prestano ad essere usati per fare delle ottime marmellate che, dopo la cottura, vengono passate con il filtro per togliere i semi. È tuttavia importante sapere che la parte di zucchero non deve essere inferiore al 60%, onde evitare problematiche con il botulino (Clostridium botulinum); oppure le more vanno cotte in una padella ove si sia aggiunto il 30% di zucchero, un pizzico di vaniglia e mezzo bicchierino di rhum, cuocendo finché la marmellata non raggiunga una discreta densità. La marmellata risulta ottima sopra i dolci, panna cotta e gelato.
Usi
La pianta è utilizzata anche per delimitare proprietà e poderi, con funzioni principalmente difensive, sia per le numerose e robuste spine che ricoprono i rami, sia per il fitto e tenace intrico che essi formano, creando una barriera pressoché invalicabile.
Altre funzioni delle siepi di rovo sono nella fornitura di polline e nettare per la produzione del miele spesso monoflorale[1], essendo una pianta mellifera[2], molto bottinata dalle api.
l rovo (Rubus ulmifolius Schott, 1818) è una pianta spinosa appartenente alla famiglia delle Rosaceae.
Descrizione
Si presenta come arbusto perenne, sarmentosa con fusti aerei a sezione pentagonale lunghi anche oltre 6 metri, provvisti di spine arcuate.
È una semicaducifoglia; infatti, molte foglie permangono durante l'inverno.
Le foglie sono imparipennate, variabilmente costituite da 3 a 5 foglioline a margine seghettato di colore verde scuro, ellittiche o obovate e bruscamente acuminate, pagina superiore glabra e pagina inferiore tomentosa con peli bianchi e spine nella nervatura principale.
I fiori, bianchi o rosa, sono composti da cinque petali e cinque sepali. Sono raggruppati in racemi a formare infiorescenze di forma oblunga o piramidale. Il colore dei petali varia da esemplare a esemplare con dimensioni comprese tra i 10 e 15 mm. La fioritura compare al principio dell'estate, in giugno.
Il frutto commestibile, la mora, è composto da numerose piccole drupe, verdi al principio, poi rosse e infine nerastre a maturità, derivanti ognuna da carpelli separati ma facenti parte di uno stesso gineceo. In Italia il frutto è maturo in agosto e settembre; il gusto è variabile da dolce ad acidulo.
La moltiplicazione della pianta avviene per propaggine apicale o talea.
Distribuzione e habitat
Il suo areale comprende quasi tutta l'Europa, il Nordafrica e il sud dell'Asia. È stata introdotta anche in America e Oceania.
La pianta è indicativa di terreni profondi e leggermente umidi. La riproduzione è sessuale attraverso i semi contenuti nelle drupe, ma anche vegetativa attraverso l'interramento di rami che danno origine ad una pianta nuova.
È considerata una infestante in quanto tende a diffondere rapidamente e si eradica con difficoltà. Né il taglio né l'incendio risultano efficaci. Anche gli erbicidi danno scarsi risultati. Poiché è una pianta eliofila, tollera poco l'ombra degli altri alberi, pertanto si riscontra nel mantello dei boschi e lungo i sentieri, nelle siepi e nelle macchie.
Spesso nei boschi i rovi formano delle vere barriere intransitabili. Specialmente in associazione con la vitalba, essi possono creare dei grovigli inestricabili spesso a danno della vegetazione arborea che viene in pratica aggredita e soffocata. Tali situazioni sono quasi sempre l'espressione di un degrado boschivo.
Foglie
Il nome scientifico di questa specie è composto dal nome di genere Rubus e da quello di specie ulmifolius.
Rubus (dal latino ruber, rosso) potrebbe far riferimento al colore dei frutti maturi di altre specie dello stesso genere, come il lampone, o direttamente alla forma immatura del frutto di questa specie stessa.
Ulmifolius (dal latino ulmus, olmo e folia, foglia) deriva dalla similitudine con le foglie dell'albero Ulmus minor.
Torta di more
Lo stesso argomento in dettaglio: Mora (frutto).
La pianta è utilizzata anche per delimitare proprietà e poderi, con funzioni principalmente difensive, sia per le numerose e robuste spine che ricoprono i rami, sia per il fitto e tenace intrico che essi formano, creando una barriera pressoché invalicabile.
Altre funzioni delle siepi di rovo sono nella fornitura di nettare per la produzione del miele anche monoflorale, in Spagna e Italia, e ancora nella associazione di specie antagoniste di parassiti delle colture (ad esempio le viticole), e nella formazione di corridoi ecologici per specie animali.
Il frutto, annoverato tra i cosiddetti frutti di bosco, ha discrete proprietà nutrizionali con marcata presenza di vitamine C e A. Cento grammi di more fresche contengono infatti 52 kcal, 0,7 g di proteine, 0,4 g di lipidi, 12,8 g di glucidi, 32 mg di calcio, 0,6 mg di ferro, 6,5 er (equivalente in retinolo) di vitamina A, 21 mg di vitamina C. Presenta indicazioni in erboristeria per le sue proprietà astringenti e lassative.
Si tratta di un frutto delicato, che mal si presta a lunghe conservazioni. È commercializzato per scopi alimentari al naturale e come guarnizione di dolci, yogurt e gelati, oppure nella confezione di marmellate, gelatine, sciroppi, vino e acquavite (ratafià).
Nell'uso popolare, i giovani germogli, raccolti in primavera, sono ottimi lessati brevemente e consumati con olio, sale e limone, al pari di molte altre erbe selvatiche primaverili.
I germogli primaverili, colti quando il sole è alto, lavati e lasciati a macerare in una brocca di acqua fredda tutta la notte, producono una bevanda rinfrescante.
Nutrienti
Nutrienti nei frutti
Le more presentano un contenuto nutrizionale significativo in termini di fibra alimentare, vitamina C, vitamina K, acido folico - una vitamina B, e il minerale essenziale manganese, come mostra la seguente tabella.
Le more rappresentano un'eccezione tra le altre bacche della specie Rubus per via dei semi grandi e numerosi, non sempre apprezzati dai consumatori. Essi contengono grandi quantità di acidi grassi omega-3 (acido alfalinolenico) e omega-6 (acido linoleico), proteine, fibra alimentare, carotenoidi, ellagitannini e acido ellagico.
Farmacognosia
Dalla parte aerea di Rubus ulmifolius sono stati isolati 3 nuovi antroni: rubantrone A, B e C. Il rubantrone A ha mostrato di possedere attività antimicrobica verso Staphylococcus aureus[
Il corniolo (Cornus mas L., 1753) è un albero da frutto, spontaneo, appartenente alla famiglia delle Cornaceae[1] e al genere Cornus.
Descrizione
I cornioli sono piante piccole, caducifoglie e latifoglie, alti fino a 5-6 metri e altrettanto estesi in larghezza. I rami sono di colore rosso-bruno e brevi, la corteccia è screpolata. Sono piante longeve, possono diventare plurisecolari e hanno una crescita molto lenta. Le foglie sono semplici, opposte, con un picciolo breve (5–10 mm) e peloso, la forma è ovata o arrotondata, integra e un po' ondulata ai margini, acuminata all'apice; sono ricoperte parzialmente da peluria su entrambe le pagine, e presentano un colore verde (più chiaro nella parte inferiore) e una nervatura al centro e 3-4 paia di nervature secondarie.
I fiori sono ermafroditi (cioè hanno organi per la riproduzione sia maschili sia femminili), si presentano in forma di ombrelle semplici e brevi, circondate alla base da un involucro di 4 brattee (foglia modificata che protegge il fiore) di colore verdognolo sfumato di rosso, che si sviluppano prima della fogliazione. La corolla è a 4 petali acuti, glabri (privi di pelo), di colore giallo-dorato, odoroso. Fiorisce da febbraio ad aprile.[2]
Il frutto del corniolo è una drupa (frutto carnoso) commestibile (perché edule), con la forma di una piccola oliva o ciliegia oblunga; ha un colore rosso-scarlatto, rosso corallo o anche giallo, dal sapore acidulo, contenente un unico seme osseo. I frutti maturano ad agosto. Il legno è duro e compatto, con alta resistenza, molto usato nei secoli passati.
Il corniolo è specie propria dell'Europa centro-orientale sino al Caucaso e all'Asia minore; in Italia si trova in tutta la penisola, ma è più frequente nelle regioni settentrionali. È una specie che predilige i terreni calcarei, e vive in piccoli gruppi nelle radure dei boschi di latifoglie, tra gli arbusti e nelle siepi del piano sino a 1300 (anche 1530) metri.
Il corniolo è coltivato come pianta ornamentale in orti e giardini, e per i suoi frutti commestibili. Ama terreni freschi e ombreggiati, calcarei, per cui è facile trovarlo nei boschi d'alta collina o di montagna. Esistono diverse varietà con frutti rossi o gialli, più o meno grandi. È un arbusto che non teme le gelate tardive, rustico e resistente agli attacchi di molte malattie.
I piccoli frutti rossi vengono lavorati, oltre che per la produzione di succhi di frutta e marmellate (ottime come accompagnamento al bollito di carne), anche per aromatizzare alcuni tipi di alcolici, come, ad esempio, la grappa. I prezzi di questi prodotti sono relativamente alti a causa della bassa fertilità e del piccolo contenuto di alcool.
Si possono mangiare i frutti anche freschi, ma è preferibile gustare quelli appena caduti o quelli che si staccano dallo stelo con un leggero tocco di mano, cioè quando sono a piena maturazione.
Il legno del corniolo è di colore bruno-chiaro nelle parti interne (alburno), mentre nella corteccia è rossastro, con anelli poco distinti. È il più duro presente in Europa, molto resistente, e viene utilizzato, tra l'altro, per la produzione di pipe. Nel passato era usato per la fabbricazione di pezzi di macchine soggetti a forte usura (per es. raggi e denti da ruota) e per lavori di tornio. La sarissa, picca usata dalla falange macedone, era in legno di corniolo.
Tutta la pianta ha proprietà tintorie (in giallo). Il corniolo è un'erba officinale
Curiosità
J. K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter, l'ha indicato nel sito di Pottermore come un possibile legno da bacchetta, associandolo alle persone allegre e scherzose.
Per i membri della comunità serbo-ortodossa questa pianta ha un valore sacro. Essi ne raccolgono i semi la vigilia di Natale (festeggiato secondo il calendario giuliano, cioè il 6 gennaio); la mattina, appena alzati, li consumano con un sorso di vino rosso, facendosi il segno della croce e augurandosi di stare in buona salute tutto l'anno. Il corniolo stesso è considerato simbolo di buona salute, infatti il detto popolare zdrav kao dren vuol dire letteralmente "sano come il corniolo".
Il famoso cavallo di Troia venne realizzato dai Greci col legno dei cornioli di un bosco sacro ad Apollo situato sul monte Ida.[3]
Il nodo gordiano, che secondo il mito legava il carro di Gordio a un palo nella città di Gordio, era fatto di corteccia di corniolo.
Il tulipano selvatico (Tulipa sylvestris L.) è una pianta bulbosa appartenente alla famiglia delle Liliacee.
Descrizione
La pianta ha 2 o 3 foglie lineari, lunghe 15 – 20 cm.[senza fonte]
I fiori sono solitari, campanulati, leggermente ricurvi e hanno sei tepali ellittici lanceolati di colore giallo internamente e sfumati verso l'arancio all'esterno.
Tassonomia
Sono note tre sottospecie:[1]
Tulipa sylvestris subsp. sylvestris - sottospecie nominale
Tulipa sylvestris subsp. australis (Link) Pamp.
Tulipa sylvestris subsp. primulina (Baker) Maire & Weiller
Il tulipano selvatico è una delle specie più a rischio nella Lista rossa. Per decenni è cresciuto selvaggio tra l'erba dei vigneti; in origine viene dal Mediterraneo e del Medio Oriente. Con la professionalizzazione, e in particolare con l'uso di erbicidi nel vigneto, i sylvestris Tulipa sono quasi del tutto scomparsi. Solo questo è una ragione sufficiente per portare le meravigliose piante di giglio dai fiori gialli nei giardini e coltivarle e moltiplicarle.
Come una pianta amante del calore dell'Europa meridionale, preferisce crescere in luoghi soleggiati e caldi. Tuttavia, vanno d'accordo molto bene con gli inverni freddi e non hanno bisogno di ulteriore protezione invernale. Al contrario, una protezione invernale preventiva potrebbe causare troppa umidità e le parti delle piante marcirebbero. Troppa umidità al di fuori del periodo di fioritura, il tulipano selvatico è molto sensibile. Il terreno dovrebbe essere sciolto e nutriente. Un pH tra 8 e 10 è l'ideale. Reagisce in modo molto sensibile ai terreni compattati, alla competizione con i prati e all'uso di erbicidi. Questo è in definitiva il motivo per cui si trovano a malapena nei vigneti, almeno nelle aree gestite convenzionalmente. Le loro posizioni naturali, come i prati chiari nelle foreste, stanno diventando sempre meno.
Durante la fioritura la Tulipa sylvestris piace essere bagnata. In questo momento, soprattutto quando c'è poca pioggia, si dovrebbe sempre mantenere il terreno ben umido. Circa 2-3 settimane dopo la fioritura, non somministrare ulteriore acqua. L'estate è meglio trascorsa sull'asciutto. Se la posizione è ideale, le specie Tulipa sylvestris non hanno bisogno di cure orticole, né fertilizzanti..
La felce aquilina (Pteridium aquilinum (L.) Kuhn) è una pianta vascolare della classe delle Polypodiopsida (Felci).
Il nome comune della specie sarebbe dovuto alla forma del rizoma, che in sezione ricorda il profilo di un'aquila
Caratteri botanici[
È una pianta erbacea perenne di notevole sviluppo (può raggiungere anche i 2 metri d'altezza), provvista di un grosso rizoma strisciante, da cui emergono le fronde annuali. Le fronde hanno un profilo triangolare e sono lunghe anche fino a 1 metro, con larghezza maggiore che può superare i 50 cm; sono pennate, con 2-3 ordini di divisioni (bi-tripennatosette). Le divisioni più piccole (pinnule) sono oblunghe, più o meno allungate, con margine generalmente intero. In autunno il colore vira dal verde al rossastro.
I sori sono lineari, disposti lungo il margine sulla pagina inferiore delle pinnule e ricoperti dal margine ripiegato. La sporificazione ha inizio in tarda primavera e si protrae per tutta l'estate.
Distribuzione e habitat
Specie cosmopolita, diffusa in tutte le regioni temperate e subtropicali, sia nell'emisfero settentrionale sia in quello meridionale, in Italia è presente in tutto il territorio, comprese le isole, dal livello del mare fino ad oltre i 2000 metri di altitudine.
Vegeta su suoli a matrice silicea, anche aridi, nei boschi, nelle macchie e nei pascoli. Nelle radure e nei pascoli può formare estese e fitte coperture fino a diventare una vera e propria infestante. La sua diffusione su superfici estese è indice di un probabile degrado ambientale perché gli incendi ne favoriscono il ricaccio e la moltiplicazione.
Per le sue proprietà tossiche è una pianta infestante dei pascoli.
Farmacologia
Pur essendo meno popolare di altre felci, anche alla felce aquilina sono attribuite proprietà vermifughe associate al rizoma. L'uso di questa pianta a scopo medicinale è tuttavia rischioso a causa della sua tossicità.
Tossicità
La felce aquilina contiene un principio attivo di tipo enzimatico termolabile[1] (tiaminasi o neurinasi) che provoca la distruzione della tiamina (Vitamina B1). L'ingestione di questa pianta da cruda può provocare gravi avvelenamenti, potenzialmente letali, nell'uomo e negli animali monogastrici (soprattutto nel cavallo), mentre sarebbero tolleranti i ruminanti, in grado di sfruttare largamente la tiamina operata dalla microflora del rumine. Un secondo principio attivo, termostabile, può provocare gravi emorragie ed anemia nei ruminanti.
La pianta contiene anche ptaquiloside, un composto cancerogeno;[2] le comunità (soprattutto in Giappone) che consumano i giovani fusti come vegetale, hanno un livello di cancro allo stomaco tra i più elevati al mondo.[3] Si ritiene che il consumo di latte contaminato da ptaquiloside contribuisca allo sviluppo del tumore gastrico nelle popolazioni delle Ande venezuelane.[4] Anche le spore sembrano essere implicate nell'attività carcinogenica.
La somministrazione di selenio sembra dimostrarsi utile nella prevenzione e regressione degli effetti immunotossici del Pteridium aquilinum.[5]
La violacciocca rossa (non violaciocca, forma diffusa comunemente)[1] (Matthiola incana (L.) W.T.Aiton) è una pianta erbacea perenne della famiglia della Brassicacee, originaria delle regioni mediterranee.[2] Il genere Matthiola prende il nome da Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), medico e botanico senese.
La violacciocca è alta 30-60 cm, ha il fusto cilindrico, rigido, contorto e legnoso alla base, con cicatrici delle foglie degli anni precedenti. La pelosità va dal glabrescente al bianco-tomentoso per peli ramificati, a volte con rari peli ghiandolari.
Le foglie sono di colore cenere, lanceolate (1-3 × 5-12 cm) e vellutate; il margine è intero o con denti ottusi. Sono a volte presenti lacinie basali ottuse, oppure le foglie possono presentarsi sinuate, ondulate o pennatosette.
Il fiore è composto da un calice di quattro sepali di 9-15 mm bordati di violetto e piegati a sacco nella parte inferiore; una corolla di quattro petali violetti, spatolati, lunghi 17-24 mm, con larghezza massima di 8 mm. Fiorisce da marzo a maggio.
Il frutto è una siliqua appiattita lunga 60-100 mm e larga 3 mm, con apice acuto e due bitorzoli laterali che si notato soprattutto prima della maturazione. È sorretta da un peduncolo di 10-20 mm.
La violacciocca predilige suoli calcarei, e cresce spesso su rupi a picco sul mare, o su vecchi muri. È una pianta del litorale, ma si può trovare, naturalizzata, anche nell'entroterra fino a 600 m di altitudine.
È una pianta steno-mediterranea, diffusa cioè lungo le coste del mar Mediterraneo, all'incirca nell'areale dell'olivo. In Italia è comune lungo tutta la costa tirrenica, dalla Liguria alla Calabria, lungo le coste del mar Ionio e Adriatico a sud del Conero, e sulle isole. In altre parti d'Italia si trovano individui coltivati, o sfuggiti alla coltivazione e naturalizzati.
In Italia esistono due sottospecie di Matthiola incana: la sottospecie incana e la sottospecie rupestris.
M. incana subsp. incana: è la sottospecie più diffusa, si riconosce dalle foglie inferiori ad apice acuto, larghe al massimo 22 mm, dal tomento color cenere e dalla lunghezza dei sepali (9-13 mm);
M. incana subsp. rupestris (Rafin.) Nyman: si trova raramente, in Sicilia, nelle isole Egadi e a Gozo (Stato di Malta), si distingue dalla sottospecie nominale per le foglie inferiori ad apice acuto e larghe anche 20-40 mm, dalla scarsità di peli e dai sepali che sono lunghi 11-15 mm.
Sull'isola di Pantelleria è presente una varietà di M. incana (M. incana var. pulchella (Tineo) Fiori) caratterizzata da una particolare abbondanza di peli ghiandolari.
Si coltiva in piena terra per l'ornamento primaverile dei giardini oppure in vaso; si utilizzano anche i fiori recisi. È molto indicata per le fessure degli scogli delle località marine. Le varietà coltivate, per lo più annuali, possono avere fiori di diversi colori (bianco, rosa, rosso o violetto), diverso periodo di fioritura o fiore con petali raddoppiati.
La violacciocca è il simbolo della bellezza durevole.
Muscari è un genere di piante bulbose perenni originarie dell’Europa, delle regioni mediterranee e dell’Asia Minore. In Italia sono presenti molte specie allo stato spontaneo. Si tratta di piante rustiche che si rivelano ottime da naturalizzare nei prati, ai piedi di alberi e arbusti. Una volta messe a dimora si diffondono da sole.
Il Muscari è caratterizzato da un bulbo simile a una piccola cipolla, da spighe formate da piccole campanelline blu che sbocciano in primavera. Nei mesi freddi dal bulbo si sviluppano le foglie verde intenso, carnose, strette e lunghe 30 centimetri che si incurvano per via del loro peso.
I frutti sono piccole capsule trigonali-ovate che contengono semi scuri e rugosi.
Le specie del genene sono note con i nomi comuni di pan di cucco, muschino, pentolino.
Il genere Muscari appartiene alla famiglia delle Asparagaceae, sottofamiglia Scilloideae (come i generi Albuca, Hyachinthus, Leopoldia, Ornithogalum, Scilla).
Nella vecchia classificazione erano incluse nel genere Liliacee.
Al genere Muscari appartengono oltre sessanta specie.
Quando fioriscono i Muscari? La fioritura dei Muscari avviene generalmente tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera sino al mese di giugno, ma alcune specie iniziano a fiorire da febbraio. E’ una fioritura vistosa e copiosa, i fiori turgidi persistono sugli steli per molti giorni.
Le infiorescenze sono sorrette da uno stello di colore verde scuro, disposte in spighe o grappoli compatti formati da 10-20 fiori a forma di piccole campanelle di colore blu intenso.
Oltre il colore tipico di questa pianta, ovvero il BLU ci sono molte specie e varietà di Muscari che offrono fiori di diverse tonalità: come il Muscari argaei con fiori bianchi, il Muscari moschatum con fiori gialli e verdi, il Muscari azerum con fiori più scuri, il Muscari botryoides con le spighe più lunghe, ma in Italia è molto diffuso il Muscari armeniacum con i caratteristici fiori blu.
In commercio si trovano esemplari ibridi anche a fiore doppio di colore lilla, violetto, bianco e rosa.
Muscari
Il Muscari è una tra le bulbose più facili da coltivare: si mettono i piccoli bulbi a dimora in autunno e non si toccano più. Si tolgono dal terreno solo se si desidera propagare.
Durante l’inverno muore la parte aerea della pianta, ma sottoterra si conserverà il bulbo che tornerà a sbocciare con l’arrivo della primavera. Le piante vengono sfruttare in piena terra per comporre aiuole e bordure fiorite ed in vaso come piante ornamentali d’appartamento, sui balconi e sulle terrazze.
Si tratta di una pianta rustica e molto resistente sia al caldo che al freddo, i suoi bulbi si possono piantare sia in giardino che in vaso.
Muscari
Queste piante si adattano facilmente alla coltivazione in vaso. Per le loro piccole dimensioni sono perfetti per contenitori bassi o in originali fioriere.
Nei mesi autunnali si può scegliere un vaso di medie dimensioni più largo che alto, che contenga una composta specifica e ben drenata. I bulbi si interrano ad una profondità di 8 centimetri distanziandoli almeno 5 centimetri tra loro.
Il substrato va mantenuto umido durante il periodo della crescita e della fioritura. Quando lo spazio che serve ai bulbi per crescere è limitato allora il Muscari si rinvasa in un vaso più più largo del precedente con terriccio completamente nuovo e ricco di materia organica
Per migliorare il drenaggio del terreno, si può mischiare al terriccio del materiale drenante come pomice, agriperlite o altro.
Muscari comosum – foto di Père Igor – CC BY-SA 3.0
I bulbi dei muscari vanno piantati in autunno ad una profondità pari al doppio della loro altezza ed a una distanza che dipende dal risultato che si vuole ottenere. In linea generale la distanza tra i bubi dovrebbe seguire la regola dell’”uno si uno no”, ossia dovrebbe essere pari al diametro dei bulbi stessi ma dipende tutto dall’effetto che si vuole ottenere.
Le prime gemme dei Muscari spuntano già verso la fine dell’inverno e sbocceranno completamente in primavera.
Durante la fase vegetativa è importante fare attenzione alle irrigazioni ed alla concimazione, che potrà essere eseguita ogni 15 giorni con un concime liquido da aggiungere all’acqua dell’innaffiatura.
Gli esemplari coltivati in vaso possono decorare terrazzi e balconi.
I Muscari sono resistenti e sopportano bene le basse temperature, non temono né il freddo né il caldo.
Muscari
L’esposizione ai raggi solari aumenta la capacità di fiorire del Muscari. Tuttavia lo si può coltivare anche all’ombra, ma si svilupperanno più le foglie rispetto ai fiori. L’ombra parziale è più adatta alle specie che hanno fiori di colore giallo-verde.
Questa bulbosa ama i terreni con un buon drenaggio e ben nutriti di materia organica. Si può impiegare un substrato formato da torba, sabbia e con una buona quantità di concime organico abbastanza maturo.
E’ importante mantenere sempre il substrato umido durante il periodo della crescita. E’ bene ridurre le somministrazioni di acqua dopo la fioritura, una volta avvizzite anche le foglie.
L’acqua va usata con parsimonia: questa pianta teme i ristagni ed i marciumi radicali ed è quindi importante essere parsimoniosi ed eliminare l’acqua in eccesso nel sottovaso.
Le piante allevate in terrazzo, durante l’inverno, non vanno irrigate.
I Muscari si possono riprodurre per divisione dei bulbi o per seme, ma in questo caso è necessario molto tempo per ottenere piante in grado di fiorire.
Moltiplicazione per separazione dei bulbi
Muscari
La propagazione attraverso i bulbilli si fa in autunno dopo 2 anni dall’impianto: si separano i bulbilli che sono cresciuti lateralmente al bulbo madre e si possono piantare subito o conservare sino al momento dell’impianto. In questo ultimo caso i bulbi vanno ripuliti dalla terre e vanno posti in un luogo asciutto al buio.
Moltiplicazione per semina
La propagazione per semina è poco praticata in quanto richiede molto tempo e le nuove piante non avranno le stesse caratteristiche della pianta madre.
A partire dalla primavera ogni due o tre settimane, è necessario concimare il muscari con un fertilizzante liquido per piante fiorite.
Questa pianta non va potata, è sufficiente eliminare man mano le parti che diseccano.
Muscari
Il Muscari è perfetto per creare contrasti con Narcisi o con Tulipani.
I bulbi di Muscari possono essere lasciati a dimora in quanto sono resistenti al freddo ma qualora si intenda conservarli vanno estratti dal terreno quando le foglie sono completamente secche, vanno ripuliti e lasciati asciugare all’aria aperta in un luogo ombreggiato per qualche giorno. Infine vanno messi in sacchetti di carta forata e conservati in un luogo asciutto e buio fino al successivo impianto.
I Muscari sono immuni da attacchi di parassiti e malattie particolari. E’ opportuno evitare l’eccesso di umidità che può provocare formazione di muffe e marciumi all’apparato radicale .
Già dalla fine del XVI secolo si hanno i primi dati della coltivazione dei Muscari. Si tratta di piante apprezzate da sempre per i decorativi effetti cromatici che è si ottengono accostandoli ad altri fiori.
Il nome generico deriva dal sanscrito ‘mushka’ (testicolo), per via della forma dei bulbi. E’ bene precisare che il termine ‘odore muschiato’ non ha nulla a che vedere con i muschi: significa simile a quello delle ghiandole paratesticolari di alcuni mammiferi, impiegate per produrre profumi sin da tempi antichissimi.
In altri paesi del mondo questa pianta viene chiamata grape hyacinths, che significa giacinto a grappolo, per la sua somiglianza con il giacinto.
In Italia alcune specie spontanee di muscari (in realtà ora fanno parte edel genere Leopoldia) hanno i nomi comuni pan del cucco, giacinto dal pennacchio, giacinto delle viti, cipolla canina, cipolla selvatica, lampascione
A proposito di questo ultimi nome, lampascione, si tratta di un ingrediente sfruttato in diverse ricette tradizionali dell’Italia meridionale.
Muscari
I Muscari vantano notevoli proprietà benefiche sulla salute perché ricchi di sali minerali, vitamine, fibre.
Sono commestibili, ma è necessario saperli distinguerli da altre bulbose velenose.
Vanno raccolti e consumati sbollentati. Il loro sapore ricorda quello degli asparagi, dei funghi e dei frutti rossi.
Sono impiegati nella cucina pugliese e lucana, cucinati stufati o bolliti in acqua e aceto per poi essere conservati sott’olio, e aromatizzati con spezie, ma anche i fiori e i boccioli si possono mettere sott’aceto.
“Attenzione: Le applicazioni farmaceutiche sono indicate a solo scopo informativo. Devono essere consigliate e prescritte dal medico.”
Nel linguaggio dei fiori e delle piante il muscari simboleggia l’utilità.
Viburnum L., 1753 è un genere di piante appartenente alla famiglia Caprifoliaceae (Adoxaceae secondo la classificazione APG), originario dell'Europa, America e Asia.
Sono alberi alti fino a 10 m ed arbusti che possono raggiungere i 5 m di altezza, a fogliame caduco o persistente, hanno il fogliame molto decorativo e una caratteristica e abbondante fioritura, con fiori solitamente di colore bianco, profumati e riuniti in corimbi o cime ombrelliformi, cui segue in autunno una vistosa fruttificazione.[1]
Tra le specie spolianti, coltivate come piante ornamentali, ricordiamo:
Viburnum opulus arbusto alto fino a 6 m, noto col nome di Oppiono, Palla di neve o Pallone di maggio, con rami lisci di colore grigio, foglie profondamente trilobate con margine seghettato, di colore verde superiormente più chiare inferiormente, spontaneo in Italia, con numerose varietà, (tra le quali citiamo il V. opulus var. americanum), che a maggio porta grosse infiorescenze pendule di fiori bianchi, all'estremità dei rami, i frutti sono drupe riunite in grappoli terminali di colore arancio-rossastre, edibili e succose che portano un solo seme
Viburnum lantana arbusto, con foglie opposte, ovali, fiori odorosi, campanulati di colore bianco, riuniti in cime emisferiche, i frutti sono drupe ovali, rosso-nerastre a maturità, spontaneo nei nostri boschi, alto fino a 5 m, chiamato volgarmente Viburno lantana
Viburnum carlesii originario della Corea e del Giappone, arbusto deciduo, alto fino a 2 m, con foglie ellittiche ovate, con larghe infiorescenze primaverili
Viburnum dentatum arbusto alto fino a 4,50 m, originario del Nord America, foglie ovate, di colore verde scuro, fiori di colore bianco riuniti in infiorescenze a fine primavera, frutti di colore nero-bluastro
Viburnum dilatatum arbusto deciduo, originario del Giappone alto 2–3 m, foglie ovate, di colore grigio-verde, fioritura a fine primavera di infiorescenze con fiori di colore bianco, frutti di colore rosso
Viburnum lentago arbusto o piccolo albero di 4,5–9 m, originario del Nord America, con rami di colore grigio-brunastro, foglie di colore verde scuro brillante, finemente seghettate, infiorescenze primaverili dai minuscoli fiorellini bianchi, i frutti sono drupe ovali di colore rosso
Viburnum macrocephalum originario della Cina con cime globose simili a quelle dell'ortensia
Viburnum nudum var. cassinoides arbusto alto 1,5-3,5 m, originario del Nord America, foglie ellittiche, ovate, ri colore verde scuro, infiorescenze primaverili-estive di fiori bianchi, frutti eduli di colore nero-bluastro
Viburnum plicatum arbusto alto fino a 4 m, originario di Cina e Giappone, con fitte infiorescenze dai fiori di colore bianco o rosa
Viburnum prunifolium noto come Viburno americano, albero, grande arbusto di 3.6–5 m di altezza o albero alto fino a 7,50 m, di origine nordamericana, ha rami lisci e di colore marrone-scuro, foglie opposte, ellittiche, serrate di colore verde opaco, con margini finemente seghettati, fiori bianchi non profumati riuniti in grappoli terminali in aprile-maggio, i frutti sono drupe ellittiche, di colore rosa e nero-bluastro a maturità, edibili.
Tra le specie sempreverdi citiamo:
Viburnum odoratissimum arbusto sempreverde, originario di Cina e Giappone, alto fino a 7.5 –9 m, dai fiori profumati che si aprono a maggio.
Viburnum tinus spontaneo nella zona mediterranea e Sudest Europa, chiamato volgarmente Viburno tino, Laurotino o Lentaggine, arbusto sempreverde, alto oltre i 3 m, con foglie di colore verde-scuro, ovali e arrotondate, consistenti, fiori bianchi con boccioli rosa, che in alcune zone sbocciano dall'autunno al pieno inverno
Tra le specie ibride da giardino citiamo:
Viburnum × carlcephalum arbusto grande che fiorisce in primavera.
Come pianta ornamentale nei parchi e giardini, come macchie isolate, boschetti o coltivato in vaso sui terrazzi.
Il decotto di foglie viene utilizzato come lozione per scurire i capelli
Come pianta medicinale le specie V. lantana, V. opulus e V. prunifolium
Le aste delle frecce della mummia del Similaun, anche nota come Ötzi, sono prodotte in getti di viburno.
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
V. lantana
Il decotto di foglie raccolte in maggio, vanta proprietà astringenti e antidiarroiche; per uso esterno viene utilizzato per lavaggi, sciacqui astringenti, lozione contro l'alopecia
Il succo dei frutti raccolti in agosto-settembre ha proprietà antidiarroiche; mentre per uso esterno il decotto viene utilizzato per clisteri astringenti
V. opulus
La polvere e l'infuso di corteccia raccolta e seccata in autunno, vanta proprietà calmanti del sistema nervoso, contro le contrazioni uterine, e purgative
L'infuso di fiori freschi ha un'azione purgativa
L'infuso di fiori secchi ha un'azione sudorifera
V. prunifolium
L'estratto fluido o la tintura di corteccia ha proprietà sedative, anispastiche, antiabortive, curative nella dismenorrea, nelle coliche e nella diarrea
Richiede posizione soleggiata o a mezzo-sole, terreno acido fresco.
Si moltiplica con la semina, per mezzo di talea, per mrgotta e in alcune specie e varietà esotiche per innesto
Il ricino (Ricinus communis L.), unica specie del genere Ricinus, è una pianta appartenente alla famiglia delle Euphorbiaceae.
Il nome generico Ricinus in latino significa "zecca"; la pianta è così chiamata per la somiglianza dei suoi semi con il noto parassita.
Ricinus communis (La Gomera)
Semi del ricino
Plantula
Polline al microscopio
Il ricino si presenta sotto forma di una pianta erbacea o arborescente, annua o perenne secondo le condizioni climatiche della regione. Ha un'altezza media di 2-3 metri fino a raggiungere i 10 metri nella sua zona di origine (Africa tropicale).
Foglie
Sono palmato-lobate (da 5 a 12 lobi) con il bordo dentato, verdi o rosse, palmate, verticillate e caduche. Osservando la base del picciolo si possono notare ghiandole nettarifere. Alcune varietà ornamentali hanno le foglie con la faccia inferiore ed il picciolo colorati di rosso.
Fiori
Il ricino è una pianta monoica con i fiori raggruppati a grappoli in un'infiorescenza sulla cui parte basale sono collocati quelli maschili mentre i fiori femminili si trovano nella parte alta. La fioritura avviene in estate.
Frutti
I frutti consistono in capsule spinose, costituite da tre valve, che a maturazione si aprono liberando tre semi di circa 1 cm.
Seme
Il seme è lucente marmorizzato di rosso o di bruno; presenta una linea sporgente sulla faccia ventrale.
Dispersione
I semi si diffondono ad opera di insetti, ed in particolar modo tramite le formiche.
Composizione
La totalità della pianta con esclusione dell'olio è tossica a causa della presenza di una glicoproteina: la ricina che ha la massima concentrazione nei semi. I semi sono ricchi di un olio che deve le sue proprietà purgative alla presenza dell'acido ricinoleico.
È una pianta originaria dell'Africa tropicale, successivamente si è sparsa un po' ovunque nel mondo, dove il clima ne permette la sopravvivenza. Lo si può ritrovare in zone subtropicali e anche in zone con clima temperato.
La coltura di questa pianta non presenta grossi problemi, bisogna tuttavia aver cura di fornire un buon ammendante organico in primavera e di modificare la struttura del suolo se questo è poco drenato.
Suolo
Ricco, ben drenato, spesa[non chiaro], pH neutro.
Esposizione
Sole o mezza ombra.
Moltiplicazione
Semina in aprile a 20 °C (bisogna prima immergere i semi nell'acqua per 24h).
L'olio di ricino contiene l'acido ricinoleico che altera la mucosa intestinale e provoca grosse perdite di acqua ed elettroliti (sali minerali) per cui svolge un'azione purgativa intensa ed irritante. La ricina, presente nella pianta e nei semi, è una tossina pericolosa che può provocare gravi intossicazioni[1]. I semi di ricino contengono tra il 40% e il 60% di olio, ricco di trigliceridi, principalmente di ricinoleina.
Semi di ricino sono stati trovati nell'antico Egitto in tombe risalenti al 4000 a.C. Erodoto ed altri antichi viaggiatori hanno annotato l'uso di olio di ricino per le lampade e per ungere il corpo. Anche in India l'uso dell'olio di ricino risale fino al 2000 a.C. per le lampade e come lassativo.
Viene citata nella Bibbia la pianta di ricino, in particolare nel libro di Giona (profeta) nell'Antico Testamento. Il profeta, dopo la predicazione alla città di Ninive sosta un giorno sotto una pianta di ricino che Dio gli ha preparato "per liberarlo dal suo male". Dio stesso, mandó un verme il giorno dopo per distruggere la pianta, scatenando lo sdegno del profeta Giona.
La città di Recanati trae il proprio nome dal lat. Iustissima Civitas Recineti[senza fonte], e recinetum significa "luogo delle piante di ricino". Analogamente nelle vicinanze di Recanati vi sono gli antichi resti di Helvia Recina, e la corrispondente "Strada Regina", il cui appellativo deriva da recina.
La produzione mondiale di semi di Ricino ammonta a circa 1 milione di tonnellate all'anno. Le principali zone di produzione sono l'India, la Cina e il Brasile.
Ziziphus Mill., 1754 è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Rhamnaceae.[1] Cresce sotto forma di cespugli o di piccoli alberi dotati di spine nelle regioni caldo-temperate e subtropicali in tutto il mondo. Conta al suo interno circa 50 specie.
Il nome generico proviene da zizfum or zizafun, termine della lingua persiana indicante lo Z. lotus.[3]
Le foglie sono alterne, intere, con tre venature principali, lunghe dai 2 ai 7 cm; alcune specie sono decidue, altre sempreverdi. I fiori sono piccoli, di un poco evidente giallo-grigio. I frutti sono drupe eduli, giallo-marroni, rosse o nere, globulari e oblunghe, lunghi da 1 a 5 cm, spesso molto dolci e zuccherine, ricordando i datteri nella consistenza e nell'aroma.
Diverse specie di Ziziphus sono piante nutrici dai bruchi di alcune specie di lepidotteri, tra i quali i bucculatricidi, che si cibano solo di questo genere, e gli endoclita.
Sono piante per climi temperati o tropicali, dotati di un'ampia gamma di adattamento. Sono più diffuse dove la temperatura media annua va da 12 a 35 °C e quella minima invernale non scende al di sotto dei -2 °C. Preferiscono gli ambienti caldo-umidi, Crescono bene su terreni profondi, freschi, soffici, di natura siliceo-calcarea o calcareo-argillosa o siliceo-argillosa, con superficie permeabile e pH tra 5,5 e 7,8. In terreni eccessivamente sabbiosi o argillosi, che possono creare acqua stagnante, queste piante non crescono bene. Molte specie sono sensibili alla siccità e se il terreno è troppo secco o di natura calcarea, essi possono soffrire di mancanza di umidità. Alla minima siccità è frequente la caduta di frutti immaturi. Lo Ziziphus ha numerose specie residue che crescono in zone temperate. Queste specie non possono sopportare le basse temperature dei climi continentali.
I requisiti ecologici di questo genere di piante sono in gran parte quelli di specie vigorose con grande capacità di diffondersi in habitat favorevoli. Il genere si adatta principalmente ad alti livelli di precipitazioni piovose e umidità. Alcune specie di Ziziphus, che vivono nella zona mediterranea, sono caducifoglie. Esse perdono tutte le loro foglie in periodi dell'anno in funzione delle variazioni di umidità. Nelle specie decidue delle zone tropicali, subtropicali e aride, la perdita delle foglie coincide con la stagione secca.
Le specie di Ziziphus crescono in gran parte nelle foreste tropicali ma sono state trovate anche nelle stoppie, pascoli, zone costiere, zone montane tropicali e nell'interno di regioni da umide a secche.
La famiglia è distribuita in tutte le aree tropicali e subtropicali e nelle foreste nebulose.
Le differenze sono adattamenti ecologici a differenti ambienti su una gamma di climi relativamente secchi-umidi. Le specie in ambienti meno umidi sono più piccole o meno robuste, con fogliame meno rigoglioso e foglie più sottili e hanno celle olearie che producono alberi con un aroma più fragrante.
I frutti sono drupe ed un'importante fonte di cibo per gli uccelli, che lo mangiano l'intero e ne rigurgitano i semi intatti, distribuendoli sul territorio con Disseminazione ornitocoria nelle migliori condizioni di germinazione. In alcuni casi la disseminazione è causata da mammiferi o pesci.
Essi sono alimenti altamente energetici a causa del loro elevato contenuto in zuccheri. Vengono coltivati e mangiati freschi, secchi o in marmellate. Vengono anche aggiunti come supporto di base nella produzione di caramelle.
Nella medicina tradizionale cinese lo suan zao ren (Ziziphus spinosa) è considerato agrodolce al gusto e neutro negli effetti. Si crede che nutra lo Yin del cuore, aumenti il sangue al fegato e calmi lo spirito. È utilizzato per trattare l'irritabilità, l'insonnia e le palpitazioni cardiache.
Astro (nome scientifico Aster L., 1753) è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Asteraceae, dall'aspetto di piccole erbacee annuali o perenni dalla tipica infiorescenza simile alle margherite.
Il nome del genere (Aster) deriva dal greco e significa (in senso ampio) "fiore a stella". Fu introdotto da Linneo ma sicuramente tale denominazione era conosciuta fin dall'antichità. Dioscoride fa riferimento ad un Astro attico (un fiore probabilmente dello stesso genere)[1].
Il nome scientifico attualmente accettato (Aster) è stato proposto da Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione ”Species Plantarum” del 1753[2].
La specie tipo per questo genere è Aster amellus L. (1753).
Descrizione
I dati morfologici si riferiscono soprattutto alle specie europee e in particolare a quelle spontanee italiane.
Sono piante mediamente alte che al massimo superano di poco il metro (le specie nordamericane possono raggiungere anche i 3 metri[3]). La forma biologica prevalente nel genere è definita come emicriptofita scaposa (H scap): ossia sono piante perennanti per mezzo di gemme al livello del terreno e con asse fiorale di tipo cespitoso. Nel genere sono presenti altre forme biologiche come anche piante a ciclo biologico annuo.
Le radici sono secondarie da rizoma.
Parte ipogea: consiste in un rizoma portamento obliquo/orizzontale.
Parte epigea: la parte aerea è cilindrica, eretta e ramificata oppure no con capolini più o meno terminali.
Le foglie sono di due tipi: basali e cauline.
Foglie basali: le foglie basali sono disposte a rosetta; sono intere a forma oblanceolata (e quindi attenuate alla base); la superficie è lievemente pubescente.
Foglie cauline: le foglie lungo il fusto sono disposte in modo alterno; quelle mediane sono a forma spatolato-lanceolata; le superiori (progressivamente ridotte), sono lineare-lanceolate e sessili; i bordi sono interi o finemente seghettati; la superficie è pubescente.
Dimensione delle foglie: larghezza 6 – 17 mm; lunghezza 25 – 40 mm. Lunghezza del picciolo: 2 – 3 cm.
L'infiorescenza è del tipo corimboso se composta da diversi capolini con la forma di una margherita (sono presenti anche specie uniflore). La struttura dei capolini è quella tipica delle Asteraceae: il peduncolo sorregge un involucro conico/campanulato/cilindrico composto da diverse squame che fanno da protezione al ricettacolo nudo e piano nella parte terminale sul quale s'inseriscono due tipi di fiori: i fiori esterni ligulati, e i fiori centrali tubulosi. In particolare quelli periferici (da 14 a 55) sono femminili, sono disposti su un'unica circonferenza (o raggio o serie)[4] ed hanno una corolla ligulata con la ligula molto allargata; quelli interni, tubulosi, sono altrettanto numerosi e sono ermafroditi. Le squame (da 25 a 50) sono persistenti e disposte in modo embricato su più serie (da 2 a 4); la forma è ovato-lanceolata. Diametro dei capolini: 2,5 – 5 cm. Diametro dell'involucro: 15 – 25 mm.
I fiori sono zigomorfi (quelli periferici ligulati) e attinomorfi(quelli centrali tubolosi). Entrambi sono tetra-ciclici (formati cioè da 4 verticilli: calice – corolla – androceo – gineceo) e pentameri (calice e corolla sono formati da 5 elementi)[5].
Calice: i sepali del calice sono ridotti ad una coroncina di squame quasi inesistenti.
Corolla: i petali della corolla sono 5; i fiori di tipo tubulososono saldati a tubo e terminano in cinque dentelli (o lacinie) appena visibili, quelli ligulati sono saldati a tubo nella parte basale e si prolungano in una ligula lanceolata. I fiori periferici (ligulati) sono violetti, azzurri, o porporini o bianchi; quelli centrali (tubulosi) sono giallo-arancio. Lunghezza dei fiori ligulati: 15 – 21 mm. Lunghezza dei fiori tubulosi: circa 10 mm.
Androceo: gli stami (5) hanno delle antere arrotondate alla base; sono saldate e formano una specie di manicotto avvolgente lo stilo.
Gineceo: i carpelli sono due e formano un ovario bicarpellare infero uniloculare. Lo stilo è unico, appiattito e terminante in uno stigma bifido con appendici sterili e brevi peli[7].
Il frutto è un achenio lungo 2,5 – 3 mm che matura fine estate. Si presenta sormontato da un pappo giallastro con peli disuguali disposti su due serie[4] e con la superficie pluri-solcata longitudinalmente. Lunghezza del pappo: 4 – 5 mm.
Impollinazione: l'impollinazione avviene tramite insetti (impollinazione entomogama).
Riproduzione: la fecondazione avviene fondamentalmente tramite l'impollinazione dei fiori (vedi sopra).
Dispersione: i semi cadendo a terra (prima di toccare il suolo possono percorrere diversi metri grazie al pappo spinto dal vento – fase di disseminazione anemocora) sono dispersi poi soprattutto da insetti tipo formiche (disseminazione mirmecoria).
Le specie di questo genere sono distribuite in tutto il mondo ma in prevalenza si trovano nel vecchio mondo e in America Settentrionale. Una decina di specie (o meno secondo le ultime ricerche filogenetiche) sono proprie del territorio italiano.
Due specie di questo genere vivono sull'arco alpino. La tabella seguente mette in evidenza alcuni dati relativi all'habitat, al substrato e alla diffusione delle specie alpine[8].
La famiglia di appartenenza della Aster amellus (Asteraceae o Compositae, nomen conservandum) è la più numerosa del mondo vegetale, comprende oltre 23000 specie distribuite su 1535 generi[9] (22750 specie e 1530 generi secondo altre fonti[10]). Il genere Aster comprende oltre 200 specie.
Da un punto di vista orticolo le specie di questo genere vengono divise in quattro gruppi esaminando il tipo di infiorescenza e la forma delle foglie (divise tra basali e caulinari):
gruppo con capolini solitari o raramente da 3 a 5 (Aster alpinus, Aster pyrenaeus) ;
l'infiorescenza dei prossimi gruppi è corimbosa;
gruppo con foglie basali cordiformi e picciolate (specie Nordamericane);
gruppo con foglie cauline abbraccianti (Aster novi-belgii, Aster novae-angliae);
gruppo con foglie cauline sessili (Aster cordifolius ora Symphyotrichum cordifolium, Aster corymbosus).
Questo genere (insieme ad altri generi come Crepis, Taraxacum, Tragopogon, Hieracium e altri ancora) è tassonomicamente difficile a livello di individuazione delle specie a causa dell'azione incrociata di vari fenomeni come l'ibridazione, la poliploidia e l'agamospermia[11]. In effetti ultimamente (dal 1990 in poi) a seguito di vari studi filogenetici e morfologici di tipo cladistico diverse specie di Aster sono state trasferite ad altri generi. Da 500-600 specie il genere ora contiene circa 180 specie; in Italia Sandro Pignatti nella sua “Flora d'Italia” (degli anni '80) indica 13 specie ridotte ora a due sole (Aster alpinus e Aster amellus). Questo cambiamento ha influito ancora di più la flora spontanea americana dove diverse specie sono state riclassificate nei generi Almutaster, Canadanthus, Doellingeria, Eucephalus, Eurybia, Ionactis, Oligoneuron, Oreostemma, Sericocarpus e Symphyotrichum e altri. Nella tabella seguente sono documenti questi trasferimenti relativamente alla flora spontanea italiana[12]:
Aster annuus L. → Erigeron annuus (L.) Desf.
Aster bellidiastrum (L.) Scop. → Bellidiastrum michelii Cass.
Aster chinensis L. → Callistephus sinensis (L.) Nees
Aster conyzae Griess. → Inula conyzae (Griess.) Meikle
Aster ericoides L. → Symphyotrichum ericoides (L.) G.L. Nesom
Aster laevigatus Lam. → Symphyotrichum novi-belgii (L.) G.L. Nesom
Aster lanceolatus Willd. → Symphyotrichum lanceolatum (Willd.) G.L. Nesom
Aster novae-angliae L. → Symphyotrichum novae-angliae (L.) G.L. Nesom
Aster novi-belgii L. → Symphyotrichum novi-belgii (L.) G.L. Nesom
Aster novi-belgii L. subsp. laevigatus (Lam.) Thell. → Symphyotrichum novi-belgii (L.) G.L. Nesom
Aster salignus Willd. → Symphyotrichum salignum (Willd.) G.L. Nesom
Aster savii Arcang. → Galatella linosyris (L.) Rchb. f. subsp. linosyris
Aster sorrentinii (Tod.) Lojac. → Galatella sorrentinoi Tod.
Aster squamatus (Spreng.) Hieron. → Symphyotrichum squamatum (Spreng.) G.L. Nesom
Aster tripolium L. → Tripolium pannonicum (Jacq.) Dobrocz. s.l.
Aster tripolium L. subsp. pannonicus → Tripolium pannonicum (Jacq.) Dobrocz. subsp. pannonicum
Aster tripolium L. subsp. tripolium → Tripolium pannonicum (Jacq.) Dobrocz. subsp. tripolium (L.) Greuter
Aster vimineus Lam. → Symphyotrichum lateriflorum (L.) À.Löve & D.Löve
Aster x-salignus Willd. → Symphyotrichum salignum (Willd.) G.L. Nesom
Sul territorio italiano, dopo gli ultimi trasferimenti ad altri generi, sono indicate due sole specie[13]:
Aster alpinus L. - Astro alpino: è una specie non molto alta (6 – 15 cm) con foglie raccolte in una rosetta basale e capolini uniflori; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap); il tipo corologico è Orofita – Circumboreale. L'habitat tipico sono i pascoli alpini e le rupi; la distribuzione sul territorio italiano è relativa al nord e centro fino ad una altitudine compresa fra 1500 e 2800 m s.l.m..
Aster amellus L. - Astro di Virgilio: è una specie mediamente alta (fino a 70 cm) con foglie sia basali che cauline e diversi capolini raccolti in una infiorescenza di tipo corimboso; il ciclo biologico è perenne; la forma biologica è emicriptofita scaposa (H scap); il tipo corologico è Centro-Europeo. L'habitat tipico sono i cespuglietti, i boschi cedui; la distribuzione sul territorio italiano è relativa al nord fino ad una altitudine di 800 m s.l.m..
Questo genere di piante viene comunemente chiamato Felicia in gran parte del nostro continente, ed è il corretto nome latino; in Italia viene spesso chiamata anche Agatea.
Si tratta di una perenne di dimensioni modeste, originaria dell'Africa meridionale, dove è una pianta molto diffusa nelle zone soleggiate, con terreni sabbiosi.
Produce un bel cuscino densamente ramificato, costituito da piccole foglie ovali, completamente ricoperte da una sottile peluria rada, che le rende abbastanza ruvide, di un bel colore verde scuro; per tutta la bella stagione produce sottili steli, che si alzano al di sopra delle foglie, e portano piccoli capolini con centro dorato e petali esterni di colore blu cielo.
Il particolare colore dei fiori e la fioritura continua rende la felicia amelloides una pianta molto adatta al giardino, ma anche al balcone, dove ben si sposa con surfinie e gerani nei vasi preparati per la primavera e l'estate. Per avere una pianta sempre ordinata e una fioritura prolungata è conveniente cimare costantemente i fiori appassiti.
Con l'arrivo del freddo le annaffiature possono venire diradate, o anche completamente sospese.
La citronella (genere Cymbopogon) è un'erba perenne propria delle regioni temperato-caldo e tropicali dell’Eurasia, una graminacea affine al sorgo.
Sono piante a portamento cespuglioso che possono raggiungere anche il metro di altezza. Il fusto è eretto con foglie nastriformi di un bel colore verde intenso tendente al bluastro e ricadenti ed entrambi emanano un gradevole profumo agrumato. La citronella, che non va confusa con la cedronella, ha un odore che ricorda il limone e viene largamente usata in India e in altri paesi dell'Asia come ingrediente di salse e zuppe. Viene usata in Asia e in Africa per la preparazione di tisane.
Proprietà repellenti
La citronella viene apprezzata per l'estrazione dell'omonimo olio aromatico. A differenza di molte credenze popolari, la citronella presente nelle candele non ha un buon potere repellente.[1]
Proprietà anti-cancro
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
Nel 2006 un team di ricerca della Università Ben Gurion in Israele ha scoperto che la citronella della specie Cymbopogon citratus causa apoptosi (morte cellulare programmata) di cellule cancerose. Con studi in vitro, i ricercatori hanno esaminato l'effetto del citrale, una molecola trovata nella citronella, su cellule normali e cancerose. Usando una concentrazione di citrale di 44.5 muM, i ricercatori hanno notato che la molecola induce la morte programmata nelle cellule cancerose. [2]
Specie
Il genere comprende circa 55 specie
Araujia sericifera Brot., nota come pianta della seta[1] è una pianta perenne appartenente alla famiglia Apocynaceae.
Il genere (Araujia) è dedicato a António de Araújo e Azevedo, primo conte di Barca (1754-1817), botanico amatoriale portoghese che condusse studi scientifici e esperimenti nel suo giardino botanico.
L'epiteto specifico (sericifera) in latino significa seta e si riferisce ai peli setosi che circondano i semi all'interno dei frutti e che vengono utilizzati nelle composizioni di fiori secchi.
Araujia sericifera Brot. è una liana perenne di circa 5-7 metri, a crescita veloce, molto competitiva, originaria del Sud America.
I fusti sono volubili e pubescenti, le foglie sono opposte, oblungo-lanceolate, intere, verdi e subglabre nella pagina superiore ma con tomento biancastro nella pagina inferiore.
I fiori sono riuniti in cime ascellari.
Il frutto è un follicolo che contiene semi piatti, ovato-lanceolati, rugosi, marrone, con pappo apicale.
La specie è originaria delle regioni tropicali del Sud America.
Ѐ stata introdotta in Europa, precisamente in Inghilterra, nel 1830 come pianta ornamentale ma si è velocemente diffusa diventando invasiva. Per quanto riguarda l'Italia, Saccardo[3] riferisce che è giunta dall'Australia nel 1842. Nel 2010 ne è stata segnalata la spontaneizzazione in provincia di Trapani[4
Verbena L. è un genere di piante erbacee annue o perenni della famiglia delle Verbenaceae.
Si ritiene che il nome di questa pianta derivi dal latino verbenae, che indicava genericamente rametti e sterpi.[senza fonte] Ma anche dal celtico ferfaen, da fer (scacciare via) e faen (pietra), infatti la pianta era usata per curare problemi dovuti ai calcoli renali.[2] Veniva usata dalle tribù indiane, da maghi e stregoni per incantesimi e sacrifici agli dèi, per questo veniva chiamata anche erba sacra. La verbena era sacra ad Iside, sacra la ritenevano gli antichi Romani. La pianta era nota per le sue presunte proprietà magiche e afrodisiache.Una leggenda narra che fu utilizzata sul Monte del Calvario per cicatrizzare le ferite di Gesù crocifisso ed ancora oggi, nella liturgia della festività dedicata all'Assunzione di Maria, viene utilizzata per benedire le chiese.[senza fonte] La verbena possiede proprietà: antidepressiva, antinevralgica, spasmolitica, febbrifuga, antinfiammatoria; inoltre ha proprietà emollienti e rinfrescanti.[3]
Il fusto è quadrangolare. Le foglie sono per lo più opposte, dentate, alterne e con nervature ben visibili. I fiori hanno un calice a quattro o cinque sepali, parzialmente fusi. La corolla (gamopetala) ha la forma di un tubo allungato con cinque petali non perfettamente uguali. L'androceo è formato da 4 stami inseriti sul tubo corollino. Si presentano dalla primavera all'autunno inoltrato. Il frutto è una capsula con quattro semi.
La maggior parte delle specie del genere sono spontanee nel Nuovo Mondo, dal Canada al Cile. Poche specie sono spontanee nel Vecchio Mondo, più che altro in Europa.
La pianta della Verbena è citata in Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Il protagonista Pinkerton, rivolgendosi alla moglie giapponese Cio-Cio-San, alias Madama Butterfly, l'appella con questi versi: Piccina, mogliettina, olezzo di verbena.
La pianta della verbena è considerata velenosa per i vampiri.
In Spagna, la Verbena è anche una festa di carattere popolare, presente in varie città o paesi.
Nella serie televisiva The Vampire Diaries e in The Originals, la verbena è spesso citata in quanto capace di indebolire i vampiri e non poter essere soggiogati.
Il Canto della Verbena è un canto della città di Siena, intonato sia in ambito paliesco dai contradaioli, sia in ambito sportivo soprattutto dai tifosi della Mens Sana Siena e della Robur Siena, rispettivamente le squadre di basket e calcio della città toscana.
Verbena è il nome della principessa nella favola di Italo Calvino dal titolo La foresta-radice-labirinto edita da Emme Ed. nel 1981 (ora in Romanzi e Racconti, III). Da questa favola Roberto Andò ne ha tratto un adattamento per il teatro delle marionette (La foresta-radice-labirinto, Museo internazionale delle marionette, Palermo 1987).
È anche citata nella canzone "Fiorin fiorello" di Carlo Buti
Kohleria hirsuta: in autunno producono numerosi fiori tubolari, rosso arancio, ricoperti da peluria e con puntini in colore contrastante.
Kohleria amabilis: produce fiori penduli rosa cupo maculati di marrone.
Temperatura: nella stagione fredda è necessario ritirare le piante in casa perché temono il freddo.
Luce: prediligono posizioni luminose, ma non troppo esposte direttamente al sole; in primavera e in estate si possono collocare all'esterno, a mezz'ombra, in luogo riparato.
Annaffiature e umidità ambientale: durante il periodo vegetativo annaffiare regolarmente, aspettando, tra una somministrazione e l'altra, che il terreno asciughi un po'. Diminuire notevolmente l'apporto di acqua durante il riposo vegetativo.
Substrato: utilizzare terriccio per fiori mescolato ad una piccola quantità di sabbia, ben drenato.
Concimazioni ed accorgimenti particolari: nel periodo vegetativo somministrare concime per piante da fiore ogni 15 giorni circa mescolato all'acqua delle annaffiature.
Si può moltiplicare per talea di ramo o, più semplicemente, per divisione dei cespi, prelevando delle porzioni ben sviluppate di rizomi con radici ben sviluppate.
Possibili danni da attacchi di afidi e ragnetti rossi (acari).
Pilea peperomioides ( / p aɪ ˈ l iː ə p ɛ p ə ˌ r oʊ m i ˈ ɔɪ d iː z / [1] ), la pianta monetaria cinese , [2] pianta UFO , pianta di frittelle o pianta missionaria , [3] è una specie di pianta da fiore della famiglia delle ortiche Urticaceae , originaria dello Yunnan e del Sichuanprovince della Cina meridionale .
Il botanico scozzese George Forrest fu il primo occidentale a raccogliere Pilea peperomioides , nel 1906 e di nuovo nel 1910, nella catena montuosa di Cang nella provincia dello Yunnan .
Nel 1945, la specie fu trovata dal missionario norvegese Agnar Espegren nella provincia dello Yunnan mentre stava fuggendo dalla provincia di Hunan. Ne riportò le talee in Norvegia, attraverso l'India, nel 1946, e da lì si diffuse in tutta la Scandinavia.
La Pilea peperomioides è un esempio di pianta che è stata diffusa tra i giardinieri dilettanti tramite talea, senza essere nota ai botanici occidentali fino alla fine del XX secolo. Non conoscevano la sua vera classificazione fino agli anni '80. La prima immagine pubblicata di esso è apparsa sulla rivista Kew nel 1984. [4] Negli ultimi anni è diventata ampiamente disponibile in commercio e non è più una curiosità.
La Pilea peperomioides è una pianta perenne eretta, sempreverde , con foglie lucide, verde scuro, circolari fino a 10 cm (4 pollici) di diametro su lunghi piccioli . [5] Le foglie sono descritte come peltate — circolari, con il picciolo attaccato vicino al centro. La pianta è completamente glabra. Cresce fino a circa 30 cm (12 pollici) di altezza e larghezza in natura, a volte più indoor. Lo stelo è di colore da verdastro a marrone scuro, solitamente non ramificato ed eretto, e lignificato alla base quando è maturo. In cattive condizioni di crescita perde le foglie nella parte inferiore del fusto e assume un portamento caratteristico. I fiori sono poco appariscenti. [6]
La pianta ha una superficiale somiglianza con alcune specie di Peperomia (da cui l'epiteto specifico peperomioides ), diffuse anche come piante coltivate ma di una famiglia diversa, le Piperaceae . A volte è anche confuso con altre piante dalle foglie peltate come Nasturtium , Umbilicus e Hydrocotyle .
Questa specie si trova solo in Cina: nel sud-ovest della provincia del Sichuan e nell'ovest della provincia dello Yunnan . Cresce su rocce ombrose e umide nei boschi ad altitudini comprese tra 1500 e 3000 m. È in pericolo nel suo habitat naturale. Tuttavia, è conservato in Cina e nel mondo come pianta ornamentale .
Con una temperatura minima di 10 °C (50 °F), nelle regioni temperate , P. peperomioides viene coltivata come pianta d'appartamento . P. peperomioides si propaga da piantine che spuntano sul tronco della pianta madre (queste sono dette propaggini) o da germogli sotterranei (detti rizomi ). [7] Questi rami vengono spesso tramandati come piante fortunate ("taler fortunato") o piante dell'amicizia. Poiché le temperature costanti e l'umidità elevata hanno un effetto positivo sulla crescita delle piante, questa specie vegetale è adatta per piantare terrari .
Sebbene la pianta sia in pericolo nel suo habitat naturale, oggi è tra le piante d'appartamento più popolari. È molto richiesto perché è snello, facile da coltivare e tollera gli ambienti asciutti. Tuttavia, non è una nuova moda passeggera ed è stata ulteriormente resa popolare dalle tendenze dei social media su Instagram, TikTok e altri siti Web. [8] La pianta è prontamente disponibile nelle serre al dettaglio, che a loro volta sono fornite da imprese agricole su scala industriale.
Questa specie ha ottenuto l' Award of Garden Merit della Royal Horticultural Society . [3] [9]
Ci sono tre diverse cultivar apparse negli ultimi anni "Sugar", "White Splash" e "Mojito".
Catalpa Scop., 1777 è un genere di piante appartenente alla famiglia Bignoniaceae, originario dell'America Settentrionale, Centrale e dell'Asia Orientale.
Etimologia
Il nome deriva dal termine muscogee per albero, kutuhlpa, che significa "testa alata" e non è correlato col nome del popolo Catawba.[2][3] I termini Catalpa e Catalpah sono stati utilizzati da Mark Catesby tra il 1729 e il 1732, mentre Carlo Linneo la classifica come Catalpa Bignonia nel 1753.[4][5] Giovanni Antonio Scopoli istituì il genere Catalpa nel 1777.
Per lo più alberi a foglia caduca, che in genere crescono fino a 12–18 m di altezza e 6–12 m di larghezza. Un alberello di 10 anni sarà di circa 6 m di altezza. Possono essere riconosciuti per le grandi dimensioni, per la forma trilobata a cuore delle foglie, per i vistosi fiori bianchi o gialli a larghe pannocchie e, durante l'autunno, per i frutti lunghi 20–50 cm, che ricordano un fagiolo sottile, e contengono numerosi piccoli semi piatti; ogni seme rivela due "ali" sottili per la dispersione anemocora.
A causa dell'ampia superficie delle foglie, le specie di Catalpa forniscono un'ombra molto scura e rappresentano un habitat importante per molte specie di uccelli, fornendo loro un buon riparo dalla pioggia e dal vento. Questi alberi lasciano cadere ben poco, ma durante la tarda estate rilasciano i frutti marroni. Il legno è abbastanza morbido.[6]
La specie di Catalpa ha foglie simili alla Paulownia tomentosa, importata dalla Cina[7]. A volte sono confusi anche con l'albero tung (Vernicia fordii) nel sud del Regno Unito.[senza fonte]
Le due specie provenienti dal Nord America, Catalpa bignonioides (catalpa del sud) e Catalpa speciosa (catalpa del nord), sono ampiamente diffuse fuori dal loro areale naturale come piante ornamentali, grazie ai loro fiori vistosi e alla bella forma. Le due specie sono molto simili in apparenza, ma la catalpa del nord ha foglie, fiori e baccelli leggermente più grandi. La fioritura inizia dopo 275 GGD. La Catalpa ovata, proveniente dalla Cina, con fiori giallo pallido, è ugualmente piantata a scopo ornamentale anche al di fuori del suo areale.
Questo albero è l'unica fonte di cibo per la farfalla sfinge della catalpa (Ceratomia catalpae). I bruchi si nutrono delle foglie, se sono numerosi gli alberi infestati possono venire completamente defogliati; questi reagiscono emettendo nuove foglie, ma se si susseguono altre generazioni il fogliame può venire nuovamente mangiato; gravi defogliazioni ripetute in anni successivi possono provocare la morte delle piante. Essendo i bruchi eccellenti esche vive per la pesca sportiva, alcuni pescatori, soprattutto negli stati del sud degli USA, creano degli appezzamenti di catalpa come fonte di bruchi di questa farfalla.
Un ibrido che non produce fiori di Catalpa ("Catambra") è stato messo in commercio da alcuni vivaisti che sostengono come l'alto contenuto di catalpolo (un glicoside che sarebbe presente quattro volte in più rispetto alla specie originaria) possa allontanare le zanzare (in particolare le comuni Culex pipiens e Aedes albopictus). Allo stato attuale, non esistono studi scientifici con revisione paritaria che possano confermare o smentire quest'affermazione. Tale ibrido sarebbe stato brevettato all'Ufficio comunitario delle varietà vegetali con il numero EU27931. Sebbene non sia stato specificato quali siano i genitori dell'ibrido, il sito del produttore cita C. bungei, ma afferma anche che si tratterebbe di un ibrido di una "specie americana" (C. bignonioides?).
La catalpa viene occasionalmente usata come legno di risonanza nelle chitarre.
Paulownia tomentosa Steud., nota anche come Paulownia imperialis, è un albero tradizionalmente attribuito alla famiglia delle Scrophulariaceae, collocato dalla classificazione APG tra le Paulowniaceae
Albero dal portamento maestoso e fioriture molto decorative, con foglie cuoriformi, tomentose, caducifolia, e che a fine primavera produce fiori di colore bianco o lilla, lunghezza 5–7 cm, profumatissimi, riuniti in grandi corimbi, eretti a pannocchia piramidale di 20–30 cm, fino a 50 cm. I frutti autunnali, deiscenti settifragi, persistenti sui rami per tutto l'inverno, sono capsule ovoidali, del diametro di 4–5 cm, formate da due carpelli legnosi, prima di colore verde, e poi marrone scuro, contenenti al loro interno migliaia di semi alati, lunghi 3–4 mm, per una produzione complessiva, per pianta adulta, di milioni di semi. Dall'autunno, e per tutto l'inverno, permangono sui rami raccolti in corimbi, anche i boccioli dei fiori primaverili, protetti dai sepali del calice racchiusi a formare dei bottoni ricoperti da una peluria dorata. I boccioli non sopportano gli inverni troppo rigidi, e il gelo prolungato ne provoca la caduta.
Le peculiari caratteristiche botaniche ed ecologiche del genere Paulownia ne fanno un tipico albero “multifunzionale”, in grado di fornire contemporaneamente diversi tipi di prodotti e di servizi.
Citiamo di seguito le tre principali categorie di usi della Paulownia tomentosa:
ornamentale;
legno da lavorazione;
La leggerezza è tra le doti di spicco del suo legno, come delle altre specie del genere. Ha elevata flessibilità e durabilità, ma bassa rigidità. Questo lo rende inadatto per strutture che richiedono alta rigidità. I giapponesi lo apprezzano molto per questo ed anche perché ha una struttura uniforme che lo rende molto adatto per lavorazioni di precisione e non lascia passare l'umidità. Per queste caratteristiche viene usato per costruire mobili, come cassettoni e bauli, per gli strumenti musicali come il Sō (arpa orizzontale), per le scarpe e le maschere. Il legno di Paulownia tomentosa ha il suo impiego anche nel settore dell'edilizia per rivestimenti interni e serramenti, ma anche per la fabbricazione di mobili, pannelli truciolati e multistrato, tranciati, sfogliati, pasta da carta, arnie per le api, ed oggettistica varia.
Si tratta di una pianta che cresce molto velocemente ed ha il suo picco di crescita proprio nei primi tre anni di vita. Si adatta molto bene per questo alla produzione di biomassa per fini energetici. Le grandi quantità di materiale sono però penalizzate dal grande contenuto di acqua.
Al di fuori delle tre grandi categorie citiamo l'uso di foglie e fiori, con i quali si possono ricavare medicinali e pure mangime per il bestiame. Non di meno la fioritura è grande fonte di nettare per le api, le quali possono produrre miele esclusivamente da questa pianta. E ancora la funzione frangivento (data dall'ampia e folta chioma), le capacità fitodepurative (elevato prelievo di azoto dal terreno), l'estrazione di biossido di carbonio dall'aria (in quantità molto importanti data la velocità di crescita) ed infine l'intercettazione delle polveri grossolane grazie alla peluria che caratterizza le foglie di questa specie.
Desidera posizione soleggiata o a medio-sole, terreno sciolto e ricco.
Si riproduce per semina o si può moltiplicare per talea radicale.
Questo genere di piante popolano la terra da centinaia di migliaia di anni e sono originarie della zona temperata boreale (Europa, Nord America e Asia). In Italia, a Pocapaglia - Piemonte, sono stati trovati fossili di Paulownia appartenenti al periodo Zancleano - Pliocene. (Martinetto et al. 2014 - Palaeobotany of Italy). Proprio dall'Italia è partito un gruppo di ricerca, sviluppo e diffusione di questo albero a cura di un'organizzazione ambientale denominata Paulownia Piemonte (e Paulownia 4Planet), che prende il nome proprio dalla regione in cui sono stati rinvenuti i resti fossili più antichi mai trovati.
La costante ricerca ha evidenziato come i generi e l'ibridazione tra essi, ha portato ad ottenere ibridi intervarietali più resistenti a malattie e differenziazione delle varietà per avere ibridi più adatti a contesti diversi.
In Asia è utilizzata da oltre un Millennio anche a scopo curativo; questo fatto ha creato il falso mito circa la sua origine, erroneamente correlata alla Cina.
La Paulownia tomentosa, insieme alla Paulownia elongata, rappresenta la specie del genere Paulownia di maggior rilevanza commerciale. Il legname proviene solitamente da coltivazioni nelle province centrali cinesi, lungo il fiume Giallo. Non mancano tuttavia coltivazioni in USA, Israele, Australia ed anche in Italia.
Caratteristiche del legno:
Massa volumica: 300–400 kg/m³
Aspetto: alburno e durame scarsamente differenziati di colore bianco-giallastro. Tessitura grossolana a poro aperto.
Stabilità: molto elevata
Durezza: molto bassa
Durabilità: molto elevata
Lavorabilità: molto buona, anche se difetta di tenuta per viti e chiodi. Assorbe molto collante. Ottimo comportamento in verniciatura.
Utilizzo in Italia: mobili, infissi, scatole in legno.
Utilizzo nel mondo: mobili per kimono (Giappone ), legno strutturale (Giappone), battiscopa (USA).
L'odore, poco intenso ma caratteristico in caso di legno fresco, è gradevole (quasi di pane) quando segato stagionato. Assai resistente all'attacco di parassiti animali (non si tarla), resiste anche alla propagazione di funghi del legno (trovano difficoltà a diffondersi nella sua particolare porosità). Si ossida facilmente, ma solo in superficie. Contiene polifenoli.
Il salice piangente (Salix babylonica L.) è uno dei salici maggiormente utilizzati per scopo ornamentale.
Il salice piangente è un albero deciduo che raggiunge normalmente l'altezza di 10–15 m (può arrivare a 25), i rami sono penduli e sottili, caratteristica esaltata nelle varietà ornamentali. L'albero assume così un portamento particolare, riverso in basso.
Le foglie sono disposte a spirale, di colore verde chiaro, strette e lunghe (0,5-2 x 4–16 cm), appuntite, con margini finemente seghettati. In autunno, prima di cadere, diventano giallo dorato.
I fiori, come in tutti i salici, sono riuniti in amenti, che appaiono precocemente in primavera. Gli amenti maschili e femminili compaiono su alberi distinti (pianta dioica).
I frutti sono capsule, con molti piccoli semi provvisti ciascuno di un ciuffo di peli bianchi e setosi.
In natura, Salix babylonica è limitato alle regioni temperate della Cina.
La specie molto affine Salix matsudana, anch'essa della Cina temperata, è considerata da molti autori una varietà o una sottospecie di Salix babylonica.
Già in tempi remoti si diffuse l'uso di questo salice per scopi ornamentali, prima in Cina e poi, seguendo la via della seta, verso occidente.
Alcune varietà ornamentali, in particolare Salix babylonica 'Pendula', hanno origine antica.
Oggi, per scopo ornamentale, sono molto usati gli ibridi con Salix alba (denominato Salix x sepulcralis) e con Salix fragilis (denominato Salix x pendulina). La varietà ornamentale attualmente più diffusa in Europa è Salix x sepulcralis 'Chrysocoma', indicata anche come Salix x chrysocoma.
Sophora L., 1753 è un genere di piante appartenenti alla famiglia delle Fabacee (o Leguminose)
Comprende specie arboree e arbustive a fogliame deciduo o sempreverde, con foglie alterne, composte imparipennate, fiori papilionacei solitamente riuniti in racemi o pannocchie, di colore bianco, giallo o blu-violaceo. I frutti sono legumi cilindrici o appiattiti. Originarie delle regioni temperate e subtropicali, in special modo degli Stati Uniti, Messico, Cile, Giappone e Cina.[senza fonte]
Lo stesso argomento in dettaglio: Specie di Sophora.
Tra le specie coltivate come piante ornamentali ricordiamo:
Sophora japonica L. albero deciduo a portamento eretto, vagamente somigliante alla Robinia, originario di Cina e Giappone, introdotto in Europa già nel XVIII secolo, che raggiunge lentamente i 5–20 m di altezza, dal portamento elegante, con il tronco diritto dalla corteccia screpolata secondo linee tortuose. I rami, negli esemplari più giovani, sono di colore verde-brillante, le foglie pennate sono composte da 11-13 foglioline pelose, ovali-lanceolate, acute, di colore verde-scuro superiormente e glauco sulla pagina inferiore, con il margine intero e nervature che si prolungano oltre l'apice, con belle fioriture estive. I fiori dal delicato profumo, di colore bianco-giallastro o crema, sono riuniti in racemi formanti a loro volta grandi pannocchie terminali lunghe fino a 25 cm, possiedono un calice scampanato con 5 denti, ed una corolla dal vessillo arrotondato delle stesse dimensioni della carena che mostra 2 petali separati, gli stami liberi sono in numero di 10, l'ovario è supero; il frutto si presenta come un legume allungato e carnoso, di colore verde-vitreo, con numerose strozzature che gli conferiscono un aspetto moniliforme, che contiene semi ovoidali nerastri a maturità; comprende numerose varietà orticole tra cui citiamo la Sophora japonica var. pendula.
Sophora davidii (Franch.) Skeels specie rustica originaria della Cina, arbusto dalla chioma espansa, alto fino a 3 m; i giovani rami pubescenti sono di colore grigiastro, con foglie decidue, composte da 7-10 paia di foglioline, pubescenti di consistenza sericea, fiori estivi di colore bianco, sfumato di celeste-chiaro o viola-bluastro riuniti in racemi terminali
Sophora flavescens Ait. specie rustica originaria della Cina, piccolo arbusto alto fino a 1,5 m, con foglie lunghe 15–25 cm, composte da foglioline ovate, lunghe fino a 6 cm, fiori estivi, di colore bianco-giallastro, riuniti in racemi cilindrici lunghi fino a 30 cm
Sophora macrocarpa J.E. Sm. specie arbustiva sempreverde originaria del Cile, alta fino a 6 m, con fiori grandi dal bel colore giallo
Sophora secundiflora (Ortega) Lag. ex DC. originaria del Messico e del Texas, si presenta come un albero alto fino a 15 m, con il tronco breve e sottile, foglie persistenti e fiori molto profumati
Sophora tetraptera J.F. Mill. specie rustica originaria della Nuova Zelanda e del Cile, arbusto o piccolo albero semideciduo, con rami tomentosi di colore giallastro, con foglie composte da 10-20 paia di foglioline ovali, porta in estate racemi penduli, con 4-12 fiori tubolari di colore giallo.
Sophora tomentosa L. specie poco rustica originaria delle zone tropicali è un grande arbusto o alberetto di 4–7 m d'altezza, con rami tomentosi di colore bianco-argentato, foglie composte decidue, con 9 paia di foglioline ovate, fiori estivi papilionacei di colore giallo-pallido, riuniti in racemi lunghi fino a 15 cm.
Gradisce clima non troppo rigido e suoli fertili.
Si moltiplica con la semina e la margotta.
Per ombreggiare giardini, viali, parchi, o in vasi di opportune dimensioni per decorare i terrazzi
Nelle zone asiatiche di origine, dai baccelli si estraggono pigmenti per colorare di giallo i tessuti
I semi di Sophora secundiflora contenenti alcaloidi, vengono usati come allucinogeni nei riti tribali delle popolazioni indigene degli U.S.A.
Il legno di Sophora japonica e Sophora tetraptera è denso, compatto e molto resistente, utilizzato per costruire oggetti di uso comune
Da foglie e frutti si ricavano sostanze medicinali con proprietà diuretiche e depurative.
La koelreuteria (Koelreuteria paniculata Laxm.), detto anche albero delle lanterne cinesi per la forma dei frutti[1][2], è una pianta della famiglia delle Sapindacee, originaria di Cina e Corea.
È un albero caducifoglio che non raggiunge grandi altezze (solitamente non più di 12 m).[4]
Le foglie sono pennate, con 7-17 foglioline dentate o lobate,[5] e la loro lunghezza complessiva può superare i 45 cm;[6] diventano gialle in autunno.[4]
I fiori sono piccoli (circa 1 cm di diametro)[5], compaiono circa a giugno; di colore giallo, sono raccolti in pannocchie piramidali.
Inconfondibili, sono delle vescichette a forma di cuore, appuntite, lunghe 4–5 cm,[5] di colore giallo-bruno, che contengono semi neri
Ampiamente coltivato in Europa meridionale come pianta ornamentale.
La pianta si riproduce per seme in primavera tra febbraio – marzo.
La semina si effettua in un cassone contenente del terriccio specifico. I semi vanno interrati in buche profonde 10 cm, distanti tra loro circa 50 cm. Il substrato di semina va mantenuto costantemente umido per tutto il tempo necessario alla germinazione e allo sviluppo dei germogli.
Quando le piante di Koelreuteria paniculata saranno abbastanza vigorose potranno essere messe a dimora definitiva in piena terra oppure allevate in vasi singoli che andranno cambiati man mano che le piante cresceranno.
La messa a dimora della pianta va fatta in autunno, dopo la caduta delle foglie per consentire all’apparato radicale di irrobustirsi e quindi sopportare meglio il carico delle foglie e dei fiori.
L’albero delle lanterne cinesi messa a dimora in primavera, quasi sempre, non fiorisce o al massimo produrrà una fioritura sparsa e rada.
La buca destinata ad accogliere la pianta deve essere profonda e larga il doppio delle dimensioni del pane di terra che avvolge le radici. Per fornire un adeguato apporto di nutrienti si consiglia di arricchire il fondo della buca con dello stallatico ben maturo.
Durante il periodo di riposo vegetativo, autunno-inverno, si potano i rami vecchi e quelli danneggiati dal vento e dal freddo. I tagli devono essere obliqui per favorire lo sgrondo dell’acqua piovana e come sempre le cesoie devono essere disinfettate e ben affilate per scongiurare il rischio di malattie fungine e per evitare sfilacciamenti del legno.
Si tratta di una pianta rustica resistente ai parassiti animali comuni quali afidi e cocciniglia; raramente viene attaccata dalla ruggine o da altre malattie fungine.
La Koelreuteria paniculata è suscettibile alle marciume radicale se il terreno di coltivazione non è ben drenato e al cancro dei rami patologia che provoca evidenti proliferazioni nodose.
L’albero delle lanterne cinesi è una pianta molto rustica e non richiede particolari cure. Nei primi anni dalla messa a dimora, si consiglia di sostenere il tronco con un tutore che potrà essere eliminato quando l’albero sarà ben saldo al suolo.
Tra le varietà di questo genere ricordiamo:
la Koelreuteria paniculata Fastigiata, una specie di grande valore ornamentale, a portamento colonnare con chioma piramidale simile a quella del Cipresso, facile da coltivare, resistente al freddo e adatta alla creazione di viali ombrosi nei parchi pubblici e nei giardini.
I frutti essiccati vengono utilizzati a scopo decorativo nelle composizioni floreali.
L’albero delle lanterne cinesi per la sua resistenza all’inquinamento atmosferico, al caldo, al vento, viene utilizzato per alberare le strade e i giardini pubblici delle grandi città.
Gli inglesi chiamano questa bellissima pianta ornamentale Golden rain tree che significa albero della pioggia dorata.
Gli altri nomi comuni della Koelreuteria paniculata sono: orgoglio dell’India o albero della Cina.
Il genere Koelreuteria porta il nome in onore del botanico tedesco Joseph Koelreuter (1733-1806), professore di storia naturale a Karlsruhe, mentre il nome specifico si riferisce all’infiorescenza a pannocchia.
I semi di della Koelreuteria contengono sostanze irritanti e per questo motivo rientra nella lista delle piante velenose per cani e gatti.
L’aglio orsino (Allium ursinum L.) è una pianta bulbosa, erbacea, perenne, eretta non molto alta, con fiori bianchi e foglie larghe, delicate e setose, dall'odore pungente di aglio. Appartiene alla famiglia delle Liliaceae come il tulipano, il giglio, il mughetto ed altre. La si può trovare nei nostri boschi a volte in popolamenti spesso massivi e fitti.La denominazione Allium (il genere) non è facilmente ricostruibile dato l'uso e la coltivazione nota da almeno 3000 anni a.C. Il termine, come lo conosciamo noi, era già in uso presso le popolazioni romane. Si pensa che l'origine sia celtica, dallo loro parola "all" per caldo, acre come si presenta l'aglio appena degustato. Anche i Greci conoscevano questa pianta "bruciante" a causa del suo forte odore e con "allis" si riferivano probabilmente la spata che copre l'infiorescenza. Il nome della specie ursinum deriva quasi sicuramente dagli orsi che alla fine del letargo si cibano con questa pianta per depurare l'organismo dopo il lungo sonno invernale. In tempi più recenti, prima ancora di Linneo, questo genere era già catalogato fra le Monocotiledoni con circa 250 specie tra cui l'Allium ursinum. In Italia si trovano una trentina di specie diverse del genere Allium, quasi tutte accomunate dall'odore pungente che deriva da un olio essenziale volatile ricco di solfuri.
Allium ursinum
Infiorescenza
La forma biologica appartiene alla geofita bulbosa, piante il cui organo perennante (organo di riserva che vive per più anni) è un bulbo da cui, ogni anno, nascono fiori e foglie.
La pianta è priva di un fusto vero e proprio, sia le foglie sia i fiori partono con un lungo peduncolo, semicilindrico o trigono, direttamente dal bulbo al livello del suolo. Altezza massima 25 – 40 cm.
Le foglie sono tutte basali e poche di numero, generalmente 2, dalla consistenza carnosa. Lunghezza massima 30 cm, larghezza 3 – 6 cm. La forma della foglia è decisamente lanceolata e lungamente picciolata (picciolo alato). Il colore è verde lucente.
L'infiorescenza è un'ombrella con pochi fiori, al massimo una ventina. Questo particolare tipo di infiorescenza viene chiamata anche pauciflora ed è lungamente peduncolata. Larghezza massima 3–8 cm. Prima della fioritura vera e propria un'ampia brattea a due-tre valve avvolge il fiore. Questa spata, così si chiama questa parte dell'infiorescenza, membranosa, quasi cartacea, al momento opportuno cade lasciando in vista il fiore. È una fase tipica della fioritura delle monocotiledoni spadici.
Il perigonio dal peduncolo, molto sviluppato e lungo, presenta 6 tepali lanceolati lunghi circa 10 mm a sviluppo patente e dal colore bianco candido; gli stami sono pure in numero di 6; l'ovario ingrossato è centrale ed è situato nella parte inferiore del pistillo e quindi sopra il perianzio (in questo caso si dice che l'ovario è supero). I fiori sono ermafroditi e l'impollinazione avviene tramite api e altri insetti.
Fioritura: aprile - giugno.
Il fiore
Particolare degli stami
Particolare del pistillo con l'ovario
Il frutto del tipo schizocarpo ha la forma di una capsula composta da tre vani. Al momento opportuno si aprono longitudinalmente lasciando fuoriuscire dei semi quasi rotondi.
Il bulbo ha la forma oblunga fascicolata. Il colore è perlopiù biancastro. Dal bulbo spuntano direttamente le foglie e lo scapo floreale.
Questa specie è distribuita in tutta Europa e nell'Asia settentrionale. La si trova in tutto il territorio italiano, dal piano a 1500 m s.l.m.
Un habitat tipico dell’Allium ursinum sono i boschi umidi di latifoglie e non in pieno sole, oppure lungo i ruscelli ombreggiati.