Il 28 gennaio 1972, cinquant’anni fa, moriva a Milano Dino Buzzati. Scrittore, giornalista, poeta, pittore, drammaturgo, librettista, scenografo, costumista: la biografia di Dino Buzzati è ricca e interessante; le sue opere riconosciute come tra le più importanti della produzione italiana novecentesca e altrettanto sfaccettate. Il deserto dei Tartari è considerato dalla critica un capolavoro della narrativa esistenzialista italiana; per racconti e romanzi surreali e realistico-magici, Buzzati è annoverato tra i più grandi scrittori fantastici del Novecento.
Dino Buzzati nasce a San Pellegrino di Belluno il 16 ottobre 1906. La sua famiglia è agiata: terzo di quattro fratelli, Buzzati ha per padre un celebre giurista e docente universitario di remote origini ungheresi, mentre la madre, veneziana, è figlia di una nobildonna.
Nella villa di Belluno la famiglia passa le estati, mentre trascorre il resto dell’anno a Milano. Le estati a Belluno e la biblioteca della villa sono fondamentali per la formazione di Buzzati, che fin da bambino dimostra una grande sensibilità per il disegno e la musica e una passione per la montagna che lo accompagnerà per tutta la vita.
A quattordici anni, dopo la morte del padre, Buzzati si iscrive al liceo Parini di Milano e, successivamente, si laurea in Giurisprudenza.
Nel 1928 entra come praticante al Corriere della Sera, per cui sarà poi redattore e inviato. Tra il 1935 e il 1936 si occupa del supplemento mensile La Lettura e inizia a dedicarsi alla scrittura di racconti brevi (buona parte di essi sarà pubblicata in raccolte postume).
Il suo primo romanzo, Bàrnabo delle montagne, esce nel 1933, cui segue, due anni dopo, Il segreto del Bosco Vecchio.
Nel 1940 pubblica per Rizzoli il romanzo Il deserto dei Tartari; lo stesso anno è inviato di guerra a Addis Abeba per il Corriere. Dal 1942, anno di pubblicazione de I sette messaggeri, è inviato di guerra e operatore militare a Messina. La corrispondenza di guerra sarà poi raccolta nel 1992 nel volume Il buttafuoco: cronache di guerra sul mare.
Il 26 aprile 1945 firma la prima pagina del quotidiano con l’editoriale Cronaca di ore memorabili, che racconta e commenta l’avvenuta Liberazione. Lo stesso anno pubblica La famosa invasione degli orsi in Sicilia.
Nel 1949 pubblica la raccolta Paura alla Scala e nel 1954 Il crollo della Baliverna: da queste raccolte e dalla precedente Buzzati estrae i racconti poi pubblicati nel 1958 in Sessanta racconti, con cui vince il Premio Strega.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta inizia a scrivere anche per il teatro: successo principale è Un caso clinico, tratto dal racconto Sette piani (in Francia, la commedia sarà tradotta da Albert Camus).
Per il Corriere della sera Buzzati è un redattore poliedrico: si occupa di cultura, di cronaca nera, di cronaca bianca e cronaca sportiva. I suoi articoli sono stati riuniti e pubblicati in diverse raccolte: tra queste si colloca Dino Buzzati al Giro d’Italia, resoconto degli articoli scritti nel 1949 come inviato alla competizione.
Dal 1950 al 1963 è vicedirettore della Domenica del Corriere: si occupa di impaginazione, grafica, titoli, argomenti.
Negli anni Sessanta è inviato in Giappone, a Gerusalemme, negli Stati Uniti (New York e Washington), in India, a Praga; inizia a occuparsi stabilmente anche d’arte.
Nel 1960 pubblica Il grande ritratto; del 1963 è il romanzo Un amore. Nel 1965 pubblica tre opere poetiche.
Nel 1966 Dino Buzzati si sposa con Almerina Antoniazzi. Nello stesso anno, pubblica la raccolta Il colombre e altri cinquanta racconti, seguita da La boutique del mistero nel 1967, in cui l’autore raccoglie il meglio della sua produzione.
Negli anni Settanta pubblica Poema a fumetti, Le notti difficili e I miracoli di Val Morel.
Muore di tumore al pancreas il 28 gennaio 1972 a Milano.
Biografia, bibliografie, notizie, eventi su Dino Buzzati
Dino era un uomo curioso, affascinato dalle novità. Guardava al futuro con passione e interesse, e nonostante si creda spesso il contrario era aperto ai cambiamenti. Talvolta, addirittura, li prevedeva, come fece con i cellulari dei quali in un racconto, battezzandoli «teletini», aveva immaginato diffusione e uso.
Per questo le nuove tecnologie che oggi hanno arricchito la nostra vita arricchirebbero anche la sua. E Dino si divertirebbe a navigare in Internet, a twittare, a fotografare su Instagram. Per questo sarebbe orgoglioso del «suo» sito che ora comincia a muovere i primi passi.
Almerina Buzzati
(l.v.) Il 16 ottobre 1906 è nato Dino Buzzati. Il 16 ottobre 2014, a oltre un secolo di distanza, nasce il suo sito ufficiale. Un sito, come potrete vedere, ancora in fase lavorazione, che crescerà nel tempo, grazie anche ai vostri contributi e suggerimenti. Al momento, dell'autore del «Deserto dei Tartari» troverete la vita, le opere, le immagini e un dizionario personale, cui si aggiungeranno via via altre sezioni, dall'arte al teatro alle notizie su novità editoriali, mostre, spettacoli e convegni.
È il 1929. Dino Buzzati, assunto in prova al «Corriere della Sera» l’anno prima come «giornalista praticante addetto alla cronaca», entra a pieno titolo nella redazione di via Solferino. Ha 23 anni. Dopo mesi di apprendistato come reporter — cui era affidato il compito di «battere» questure e ospedali per raccogliere notizie —, diventa «interno», nel senso che, come scrive lui stesso all’amico Arturo Brambilla, «non giro più per i commissariati e rimango invece in redazione a compilare le notizie portate dagli altri». Dopo paure («È difficile ambientarsi e si possono fare delle gaffes formidabili»), timidezze («Soffro di una indicibile disattenzione che magari mi fa tornare di corsa al giornale per correggere una parola e far finta di essere venuto a prendere una carta personale per non rivelare la mia debolezza») e un sentimento di inadeguatezza che non lo abbandonerà mai («Al Corriere non mi terranno e la vita sarà per me un inferno»), diventa dunque estensore, figura che il tempo ha cancellato dai giornali. Gli viene anche affidato il compito di tenere aggiornati i registri di cronaca, nera e bianca, che Buzzati compila quotidianamente con scrupolo e con la sua grafia «da putei». Quaderni che nelle sue mani si trasformano in «libri mastri», preziosissimi in un’epoca in cui il computer era ancora lontano; pagine fitte di elenchi di morti ammazzati, incidenti, sparatorie che lui personalizza e illustra con disegnini non privi di ironia. Ma soprattutto, è in quell’anno che scrive i suoi primi, non firmati articoli. Notizie brevi di cronaca cittadina, che raccontano una criminalità da sopravvivenza. È dal lavoro quotidiano su questi pezzi che nasce la sua vocazione per la cronaca nera; qui getta le basi della sua predisposizione a raccontare fatti e fattacci della vita.
Il suo talento di cronista sboccia dal dopoguerra in poi, quando alla sua penna vengono affidati i resoconti di crimini e sciagure, degli incubi del quotidiano. Dalle prime «brevi» all’articolo (non firmato) che racconta in prima pagina sul «Nuovo Corriere» il giorno della Liberazione, sono passati diciassette anni; Dino Buzzati si è fatto le ossa nelle lunghe notti in redazione, è stato corrispondente da Addis Abeba, giornalista di guerra a bordo degli incrociatori nel Mediterraneo. Ha scritto racconti per «La Lettura», per la Terza pagina; ha pubblicato tre romanzi, l’ultimo dei quali, Il deserto dei Tartari, diventerà il suo libro più famoso. Potrebbe diventare corsivista, opinionista, come si dice. Potrebbe dedicarsi solo alla scrittura. Invece è tale il suo attaccamento al mestiere che fa la valigia — ne terrà sempre una pronta — e si prepara a essere inviato là dove «qualcosa è successo». Non senza reticenze, dovute al timore di non essere all’altezza. Come quando Gaetano Afeltra gli affida il servizio sulla tragedia di Albenga, dove, nel 1947, 44 bambini muoiono per l’affondamento della motonave che li portava in gita. I due si incontrano davanti al «Corriere». Buzzati non vorrebbe andare, lo prega di trovare qualcun altro, ma Afeltra è irremovibile: sa, «sente», che quello è un servizio perfetto per lui. E lo convince a partire. Quando arriva sul posto è ormai l’alba. Vede una luce: viene dal padiglione dove sono stati allineati i corpi senza vita dei bambini. E lì, da solo, sotto la luce di un neon, scrive il suo pezzo: «La camera ardente di Albenga resterà tra le cose più grandi e spaventose di tutti questi anni e della mia personale vita». O come quando, sempre Afeltra, per dargli coraggio («Diceva di non essere pratico di processi»), lo accompagna ogni giorno in tribunale a seguire il processo a Rina Fort, la Belva di via San Gregorio, «quella specie di demonio» che quattro anni prima, nel 1946, aveva ucciso la moglie e i tre figli del suo amante.
Racconta il disastro del Vajont, la caduta dell’aereo del Torino a Superga, l’affondamento dell’Andrea Doria; il dramma di Marcinelle, il delitto Fenaroli, l’arresto della Banda Cavallero. Ma anche la morte di «Marilina» Monroe, per raccontare la quale parte da un elemento vero — l’attrice trovata senza vita con la mano sul telefono — e costruisce un racconto, trasformando una notizia da prima pagina in una favola. «La cifra di Buzzati sta nell’intarsio tra il giornalista e lo scrittore, nell’oscillazione tra la cosa vista e il suo mondo di narratore», diceva Guido Vergani. Così, se da un lato rimane un testimone lucido, coinvolto ma lucido, dall’altro dà alla cronaca un’impronta personale. Inconfondibile. Sua. Perché Dino Buzzati, con Tommaso Besozzi, Alfonso Gatto, Salvato Cappelli..., fa parte di quella generazione di giornalisti che, archiviato il ventennio fascista che l’aveva bandita, inventano la cronaca nera, la nobilitano, facendone un vero e proprio genere. Giornalisti che non scrivevano più «transitando», come diceva Buzzati per definire un modo anonimo di raccontare i fatti, uno scrivere arcaico dove la neve diventava «la bianca visitatrice». Ma cercano, invece, di cogliere anche i risvolti sociologici e di costume che si nascondono dietro un colpo di pistola o un’alluvione, a volte indagando in prima persona. Una passione per la cronaca, un’«umiltà della cronaca», che rimarrà sempre viva in Buzzati. Anche quando, quasi sessantenne, gli verrà proposto di raccontare la Milano di notte dal sedile di una Pantera della Polizia; anche quando, nel 1969, Franco Di Bella lo tirerà giù dal letto alle quattro del mattino per seguire l’irruzione nel carcere di San Vittore in rivolta. «Ci andò, era già malato ma ci andò», ricorderà il futuro direttore, «e fece un pezzo da antologia». «Non hai scritto transitando», gli disse lui complimentandosi. «Sono io adesso che sto transitando», gli rispose Buzzati, che se ne andrà due anni dopo.
Tante volte lui e Afeltra si erano divertiti a impaginare la notizia della loro dipartita. Il giornalismo era per entrambi ragione di vita, e per Buzzati qualcosa di più: un filo per rimanervi attaccato, anche nella morte. Quella morte con cui aveva sempre avuto un rapporto speciale, stretto, intimo, e che forse per questo ha saputo raccontare così bene. Il 28 gennaio 1972, dal letto della clinica milanese La Madonnina, confidò alla moglie Almerina: «È strano, non arriverò a sera, eppure se il direttore mi chiedesse un articolo, glielo farei». Si spense alle 4 e 20 del pomeriggio. In fondo fu quello il suo ultimo desiderio: un desiderio da cronista.
Il volume
La «nera» di Dino Buzzati, a cura di Lorenzo Viganò per Mondadori (pp. 596, euro 30). La nuova edizione parte dall’analisi filologica del libro mastro del 1929 e riunisce gli articoli di cronaca scritti dal romanziere (1906-1972) per il «Corriere della Sera» e il «Corriere d’Informazione» in quasi trent’anni di lavoro. La nuova edizione è ampliata con casi non presenti nella precedente e presenta un ricco apparato iconografico (appunti e disegni di Buzzati, pagine di giornale, foto d’epoca) e riunisce in un volume le due sezioni «Crimini e misteri» e «Incubi»
Fu proprio grazie alla raccolta Sessanta racconti pubblicata da Mondadori che Buzzati vinse il premio Strega, uno dei maggiori riconoscimenti letterari nazionali, nel 1958. I celebri Sessanta racconti furono considerati la summa poetica dell’opera letteraria di Dino Buzzati; ma c’è chi disse che quella raccolta fu uno stratagemma editoriale, pianificato a tavolino, per far ottenere allo scrittore l’ambito riconoscimento. Il libro infatti conteneva un’attenta selezione dei migliori racconti dell’autore, cui si aggiunsero alcuni testi inediti.
Nei suoi racconti Buzzati analizza spesso il concetto imperscrutabile di destino, permettendo così al lettore di interrogarsi sulle debolezze dell’uomo contemporaneo, le sue incoerenze, la solitudine che si annida nel suo quotidiano. L’autore tramite la scrittura scoperchia sempre la realtà mettendola a nudo fino a che non è rivelato il fondo dell’ipocrisia umana. I Sessanta racconti indagano in particolare le dimensioni misteriose del reale quali i sogni, la morte, la religione e, non da ultimo, l’amore.
Uno dei racconti più noti della raccolta è proprio Gli inviti superflui, un poetico soliloquio in cui l’autore si rivolge alla donna amata con un tono struggente, nostalgico, nel tentativo di richiamare un amore ormai lontano, perduto.