Fig. 1- Vittorio Polacco e sua cugina Clara Wachsberger, Roma 1943 ca.
Fig. 2- Vittorio Polacco nel giardino dell'IC Ceneda, Roma
Fig. 3- Biglietto dei venti minuti
Il 21 febbraio, nel teatro della nostra scuola, si è presentato un signore. Ogni sua ruga rappresentava sofferenza, ma era desideroso di trasmettere la storia di tale sofferenza a noi giovani. Non nella speranza di renderci tristi a nostra volta, ma per ricordare ingiustificati e tremendi e disgustosi eventi che mai più nella storia dovranno essere ripetuti. La sua voce esprimeva rabbia e malinconia allo stesso tempo. Il perdono era tabù, perché non c’era stato pentimento per azioni sconsiderate. Troppi morti, ma uno fra tanti salvato. Non ha visto lo sterminio provocato dai campi, ma ha visto gli occhi di coloro che ne uscivano. E ha visto persone a lui care non uscirne.
Questo è il racconto di un bambino messo in salvo, protetto da tanta sofferenza. La storia di uno fra tanti, la storia di tanta fortuna. La fortuna di essere raccontata, ma con tanta tristezza. Storia così inverosimile da far venire la pelle d’oca a ogni parola. Questa è la storia di Vittorio Polacco.
Ha iniziato il suo racconto con questa frase: “Quando uscite di qui, quando adesso andate a giocare a pallone, raccontate ciò che io vi racconterò! Quando sarete grandi potrete dire: - Io ho incontrato uno dei testimoni -, però non sono stato deportato. Ricordate che tali cose non dovranno succedere mai più.”
Poi ha continuato così: “Quel giorno, il 15 ottobre 1943, i miei genitori erano andati a casa dei miei zii, che vivevano coi miei nonni, e gli avevano chiesto se potevano tenere il loro bambino per qualche giorno. Quel bambino ero io.
Immaginatevi la felicità dei miei nonni ad avere il nipotino in casa. Se lo potevano mettere nel lettone e dormire insieme abbracciati. Potevo anche giocare con mia cugina Clara, anche se lei aveva cinque anni e io ne avevo due.
I miei genitori dovevano andare nella campagna romana per cercare del cibo, visto che cibo… non ce n’era!
Alle cinque e mezza del giorno dopo, il campanello suonò. Mio zio si alzò e pensò: - Sono venuti a riprendersi il figlio, sono venuti a riprendersi Vittorio -.
Aprì la porta e comparve un soldato tedesco che gli puntò un fucile alla pancia! E intanto un altro entrò e staccò i fili del telefono! Mio zio parlava perfettamente il tedesco, quindi chiese perché erano venuti. Il soldato gli diede un biglietto (fig. 3), che si chiamava Biglietto dei 20 minuti. C'era scritto che avevamo venti minuti per prepararci e andare in un campo di lavoro.
Ma ormai, a distanza di anni, non li dobbiamo più chiamare ‘Campi di concentramento’ o ‘Campi di lavoro’, dobbiamo chiamarli col loro nome vero: ‘Campi di STERMINIO’.
Intanto, ci eravamo alzati anche io e la zia, e lo zio esclamò:
- Il bambino non è nostro, è di amici. Non potete prenderlo. -
Ma a quelli non importava niente! Poi andarono al portone accanto, dove abitavano degli altri ebrei, e bussarono. Mio zio Arminio allora disse forte, in italiano:
- Non ci sono, sono andati via! -
per avvertire quelli che erano dietro alla porta, e poi lo ripeté in tedesco. La polizia allora lasciò stare.
Ma poi perché sono venuti proprio di sabato? Perché per gli ebrei è il giorno sacro, quello in cui tutti stanno a casa, così era più facile poterli trovare.
Finiti i venti minuti eravamo tutti pronti. Lo zio aveva messo di tutto nelle valige, anche dell’oro. I tedeschi avevano detto che si poteva scambiare dell’oro per del cibo in più nel campo. Uscimmo e mio zio chiuse la porta a chiave, poiché gli avevano detto che sarebbe tornato. Salimmo su due carri coperti di tela e un soldato disse a mio zio di fare da interprete e riferire che avrebbero sparato a vista a chiunque fosse sceso dal carro. Facemmo forse due o tre fermate, eravamo tutti chiusi su quel carro! Un carro bestiame, sembrava! Si può tenere la gente così? Si fermarono anche a casa dei miei genitori per prenderli, ma fortunatamente non c’erano. La portinaia del palazzo scese a vedere cosa succedeva, e vide me, impaurito, che tenevo la mano di mia zia. Lo zio se ne accorse e fece un segno di intesa alla portinaia e le lanciò me. Il soldato, che stava fumando una sigaretta, si accorse del movimento e chiese:
- Chi è sceso? -
-Ma come ‘Chi è sceso?’ Chi sarebbe dovuto scendere? Avete detto che avreste sparato a vista a chiunque si fosse mosso. – rispose mio zio.
Il soldato riprese a fumare la sua sigaretta e io venni portato in convento.”
Questa è la storia che non va dimenticata.
In suo ricordo nel nostro giardino è stato piantato un albero, perché la scuola coltivi la memoria. (Alessandro Bruni)
1 marzo 2023