Regioni e rendita immobiliare all'attacco della nuova legge sugli oneri

Roberto Camagni

Politecnico di Milano


Sunto

L'art. 16, comma 4, del testo unico dell'edilizia (d.P.R. 380/2001), come modificato dall'art. 17 del decreto Sblocca Italia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014, n. 164) stabilisce che “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione: (…) d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.”

Questa innovazione legislativa, che riprendeva il successo della dura battaglia ingaggiata dal Comune di Roma per “catturare” almeno una parte dei plusvalori della trasformazione urbana, aveva fatto insorgere la speranza che finalmente anche in Italia ci si fosse avviati sulla via virtuosa di molti paesi (nord e centro europei ma anche alcuni in via di sviluppo) di una tassazione non irrilevante della rendita. Pure “noi ci allegammo, ma tosto tornò in pianto”: ché la reazione delle amministrazioni, soprattutto regionali e dei grandi comuni, ma anche della cultura e delle professioni urbanistiche, fu improntata all'inizio al “sopire e sedare” manzoniano (cioè al non parlarne nemmeno); poi al negarne la rilevanza in presenza di diverse (precedenti!!) leggi regionali (un controsenso giuridico, a dir poco, a fronte di una legge “di principi” nazionale, che impone un adeguamento delle legislazioni regionali); infine, da parte di un drappello di coraggiose Regioni che ne hanno negato l’applicazione nel loro caso (Emilia-Romagna) o ne hanno disinnescato l’impatto economico (Piemonte). Le altre Regioni, in assenza di uno Stato o di una società civile che imponga il principio nazionale in assenza di intervento legislativo regionale, stanno ancora a guardare, a tre anni e mezzo dalla introduzione del “contributo straordinario”. Il Comune di Milano, a fronte di un grandioso progetto di trasformazione degli scali ferroviari promosso da Ferrovie (cui la legge si applica perfettamente), fa “spallucce” concedendo un ammontare di oneri ridicolo, insensibile persino al rischio di una giustificabilissima causa ai propri amministratori per danno erariale.

Non si sente nemmeno il bisogno di giustificare tale silenzio col fatto (in genere invocato da qualche politico) che si colpirebbe un settore, quello edilizio, già assai provato dalla crisi. Una giustificazione comunque inammissibile, data la natura ‘di domanda’ e non ‘di profittabilità’ della crisi ancora attuale; una domanda che proprio la legge consentirebbe di ravvivare attraverso il meccanismo virtuoso imposto all'utilizzo delle nuove entrate fiscali per nuove “opere pubbliche”. Saremmo in presenza di una condizione win-win, in cui vince sia il pubblico che il privato.