Saffo
La cosa più bella
Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον, οἰ δὲ πέσδων,
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται.
πά]γχυ δ’ εὔμαρες σύνετον πόησαι
π]άντι τ[οῦ]τ’, ἀ γὰρ πολὺ περσ[κέθοισ]α
κάλ]λος [ἀνθ]ρώπων Ἐλένα [τὸ]ν ἄνδρα
τὸν] [πανάρ]ιστον
καλλ[ίποι]σ’ ἔβα ‘ς Τροίαν πλέο[ισα
κωὐδ[ὲ πα]ῖδος οὔδε φίλων το[κ]ήων
πάμπαν] ἐμνάσθ[η], ἀ[λλὰ] παράγαγ’ αὔταν
Κύπρις ἔραι]σαν
[εὔθυς εὔκ]αμπτον γὰρ [ἔχοισα θῦμο]ν
[ἐν φρέσιν] κούφως τ[ὰ φίλ΄ ἠγν]όη[ε]ν̣
ἄ με] νῦν Ἀνακτορί[ας ὀνὲ]μναι-
σ’ οὐ ] παρεοίσας,
τᾶ]ς [κ]ε βολλοίμαν ἔρατόν τε βᾶμα
κἀμάρυχμα λάμπρον ἴδην προσώπω
ἢ τὰ Λύδων ἄρματα [κἀν ὄπλοισι]
πεσδομ]άχεντας.
ὀλβίοις] μεν οὔ δύνατον γένεσθαι
πάμπα]ν ἀνθρώπ[οις, π]εδέχην δ᾽ ἄραστηαι
Traduzione
Alcuni un esercito di cavalieri, altri di fanti,
altri di navi dicono esser la cosa più bella
sulla nera terra, io invece
quello che s’ama.
Assai facile è farlo capire a chiunque,
infatti colei che molto eccelleva
per bellezza fra gli uomini, Elena,
lasciato lo sposo di grande valore,
partì per Troia, in nave,
né ripensò alla figlia, né agli amati genitori,
per nulla, ma la traviò Afrodite,
lei, innamorata;
subito infatti, col suo animo incostante,
facilmente ignorò nel cuore gli affetti;
lei ora mi desta il ricordo di Anattoria,
che non è qui,
ah, vorrei poter vedere il suo amato incedere
e lo splendore raggiante del suo viso
invece che carri lidi e fanti
pronti alla battaglia.
Agli uomini non è concesso d’essere del tutto felici,
ma possono pregare d’averne parte.
In quest’ode Saffo parla dell’esperienza amorosa, come la cosa più bella e totalizzante: la poetessa menziona a mo’ di esempio il mito di Elena, moglie di Menelao re di Sparta, la quale fu “vittima” di questa forza devastante, quale è l’amore; la dea Afrodite, infatti, la indusse ad abbandonare figlia, marito e genitori, per seguire in terra straniera il giovane di cui si era follemente innamorata. Elena, spinta dalla passione e dal desiderio, “dimentica” Menelao e la figlia, Saffo invece “ricorda” Anattoria, la sua bella e giovane allieva, anche quando viene strappata all’affetto dell’amica proprio dalla famiglia e dallo sposo. Saffo, dunque, usa l’amore eterosessuale come paradigma per esprimere l’amore nei confronti di un’altra donna.
L’ode è divisa in tre parti: una γνώμη, un esempio mitico (l’episodio di Elena) e un caso personale (il ricordo di Anattoria). Il tema gnomico è quello delle tendenze varie degli uomini e della scelta di ciò che è meglio da parte di ciascuno: questo tema ebbe molta fortuna e fu ripreso anche da Orazio. In Saffo, tuttavia, la γνώμη si dissolve presto per lasciare spazio al caso personale: non è chiaro a chi la poetessa intenda far capire questo insegnamento, se a una qualsiasi o ad una in particolare delle sue compagne. Forse è la stessa Anattoria, che si è trasferita a Sardi.
Stesicoro
Palinodia
Secondo una tradizione biografica che sconfina nel mito, dopo aver scritto quest'opera, Stesicoro sarebbe stato colpito da cecità. Da qui trae origine la storia delle due palinodie da lui scritte, che può forse essere ricostruita in questo modo: sospettando che la causa della sua menomazione fosse una punizione dei Dioscuri (fratelli di Elena) per aver accusato la donna di adulterio, Stesicoro scrisse una prima palinodia ("ritrattazione"), rifacendosi a una versione del mito risalente a Esiodo, dove raccontò che Elena e Paride avrebbero viaggiato insieme fino in Egitto, dove poi la donna sarebbe stata sottratta con l'inganno dal re del posto Proteo e a Troia sarebbe giunta solo un'immagine della fanciulla che ha anche valenza di "fantasma", creata all'uomo da un dio.
Nonostante questa particolare rivisitazione della ben più nota tradizione di Elena, Stesicoro non era stato in grado di presentare Elena come una donna fedele, non scagionandola dalla sua principale accusa. Si rese così necessario per il poeta ritornare sul tema scrivendo un'altra palinodia in cui affermava che Elena non era mai partita con Paride dalla Grecia verso Troia (ci era andata la sua immagine) ed era giunta alla corte di Proteo in Egitto grazie ad un aiuto della dea Era. Di conseguenza, Elena veniva per la prima volta dichiarata fedele a Menelao e scagionata da ogni accusa. (La cecità di Stesicoro viene generalmente considerata di tipo metaforico, come di colui che "non può vedere" la verità su Elena).
Gorgia
Encomio di Elena
Gorgia, strenuo difensore di Elena, non vuole salvare Elena sostenendo che essa non fuggì con Paride, bensì vuole dimostrare che la donna fu soggetta a forze più importanti di lei in questo ratto. Elena è vittima, prima di una dea, Afrodite, che baratta il suo amore per uscire vincitrice da una disputa; poi di un uomo, Paride, che con parole melliflue la convince ad abbandonare la sua patria, il suo sposo e la stessa figlia. Quindi Paride è doppiamente colpevole, poichè ha dovuto abbattere le difese della donna, all’ inizio reticente a seguirlo, prima di poterla rapire. I seduttori, secondo Lisia, sono infatti capaci di corrompere l’ animo delle donne, a tal punto, da farle legare più a loro che agli stessi mariti di queste. Elena è quindi, per Gorgia, totalmente succube di una volontà altra dalla sua. Egli tenta di riscattare il nome della donna attraverso il logos, la parola, per portare alla luce le realtà che Elena visse.
Erodoto
Storie, I, 3
Erodoto, nelle “Storie”, narra del santuario, nella città di Therapne, dedicato ad Elena ed Menelao, ove i corpi dei due sposi riposano, dove questi ricevevano offerte, come fossero dei. Sempre dallo storico viene descritto che quando gli emissari Greci richiesero Elena ed un risarcimento per il rapimento, i Troiani rinfacciarono loro il ratto di Medea, sottolineando così di non poter dar soddisfazione a chi per primo aveva compiuto un atto tanto intollerabile.
Eschilo
Agamennone
Eschilo inventa per il nome di Elena un’ etimologia che lo fa derivare dall’ aoristo eilon. La radice del verbo, el, viene dunque usata per tre epiteti: rovina di navi (helénas), rovina d’eroi (hélandros), rovina di città (heléptolis). Elena, in questa tragedia, è dunque presentata, non solo come casus belli, ma come colei che ha attirato la furia delle Erinni che opprimeranno la casa degli Atridi. Ella ha piena responsabilià, per Eschilo, della guerra e di tutte le sue conseguenze, poichè lasciò Sparta, al fianco di Paride, spontaneamente.
Euripide
Troiane
Le troiane è una tragedia di Euripide, rappresentata per la prima volta nel 415 a.C., durante la guerra del Peloponneso. Tra le tragedie greche è considerata la meno "teatrale", la più statica.
La città di Troia, dopo una lunga guerra, è infine caduta. Gli uomini troiani sono stati uccisi, mentre le donne devono essere assegnate come schiave ai vincitori. Cassandra viene data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo ed Ecuba ad Odisseo. Cassandra predice le disgrazie che attenderanno lei stessa e il suo nuovo padrone una volta tornati in Grecia ed il lungo viaggio che Odisseo dovrà subire prima di rivedere Itaca. Andromaca subisce una sorte terribile, poiché i Greci decidono di far precipitare dalle mura di Troia. Astianatte, il figlio che la donna aveva avuto da Ettore, per evitare che un giorno il bambino possa vendicare il padre e porre fine alla stirpe achea. Successivamente Ecuba ed Elena si sfidano in una sorta di agone giudiziario, per stabilire le responsabilità dello scoppio della guerra. Elena si difende ricordando il giudizio di Paride e l'intervento di Afrodite, ma Ecuba svela infine la colpevole responsabilità della donna, fuggita con Paride perché attratta dal lusso e dall'adulterio. Infine, il cadavere di Astianatte viene riconsegnato ad Ecuba per il rito funebre, Troia viene data alle fiamme e le prigioniere vengono portate via mentre salutano per l'ultima volta la loro città.
Elena
La donna, rapita da Paride, non arrivò mai veramente a Troia ma, salvata da Ermes, fu nascosta in Egitto e al suo posto Dio inviò un fantasma dotato di parola, un vuoto miraggio.
Plauto
Bacchides, atto IV, scena 9
Iam duo restabant fata tunc, nec magis id ceperam oppidum.
Post ubi tabellas ad senem detuli, ibi occidi Troilum,
quom censuit Mnesilochum cum uxore esse dudum militis.
Ibi vix me exsolvi: atque id periclum adsimilo, Ulixem ut praedicant
cognitum ab Helena esse proditum Hecubae; sed ut olim ille se
blanditiis exemit et persuasit se ut amitteret,
item ego dolis me illo extuli e periclo et decepi senem.
Poste cum magnufico milite, urbis verbis qui inermus capit,
conflixi atque hominem reppuli;
Traduzione
Restavano due segnali, poi la città era mia. Ho ucciso Troilo quando ho dato al vecchio le tavolette, e lui s'è creduto che suo figlio giacesse con la moglie del soldato. Qui me la sono cavata per un pelo. Un bel pericolo! Ma si può paragonarlo a quello che corse Ulisse, quando fu riconosciuto da Elena e consegnato a Ecuba. Ma come Ulisse si liberò per mezzo delle sue moine, convincendo Ecuba a mollarlo, così io, con i miei trucchetti, mi son tirato fuori dalla trappola e dentro ci ho ficcato il vecchio. Poi mi son battuto col grande soldato, quello che a chiacchiere e senz'armi conquista le città, e lo ho sistemato per le feste.
Bacchidi (Bacchides) è una commedia di Plauto scritta verso la seconda metà del III secolo a.C.
La commedia si basa su uno dei classici schemi della Palliata: due giovanotti sono innamorati di due meretrici, ma i loro genitori si oppongono; in loro aiuto accorre il servo furbo che risolverà la situazione. Ad ingarbugliare maggiormente la vicenda il nome identico, Bacchide, tra le due sorelle meretrici: sarà naturalmente causa momentanea di scontro tra i due giovanotti, che credono di competere per la stessa donna. La scena è ambientata ad Atene.
Nell’atto IV, arriva il parassita a reclamare i soldi per il suo padrone, Pistoclero lo caccia a male parole. Ora i due amici sono alle prese con il problema di recuperare il denaro. Sopraggiunge Crisalo che trova subito l'inghippo ai danni di Nicobulo che inizialmente non si fida di lui. All'arrivo di Cleomaco, Crisalo riesce con l'inganno a far pagare al vecchio la cauzione per Bacchide. Rimasto solo Crisalo si loda, paragonandosi agli Atridi e ad Ulisse, espugnatori della vecchia rocca di Troia. Alla fine il servo riesce a ricavare altri 200 filippi al padre del suo padrone. Il servo racconta al padre di Mnesiloco che per zittire Bacchide e impedire che l'infamia dell'accaduto colpisca suo figlio servono questi altri 200 filippi. Intanto Filosseno è ormai convinto a passare sopra le scappatelle del figlio.
Marco Tullio Cicerone
Philippicae, Orazione 2 capitolo 22
Ut igitur in seminibus est causa arborum et stirpium, sic huius luctuosissimi belli semen tu fuisti. Doletis tris exercitus populi Romani interfectos: interfecit Antonius. Desideratis clarissimos civis: eos quoque vobis eripuit Antonius. Auctoritas huius ordinis adflicta est: adflixit Antonius. Omnia denique,
quae postea vidimus—quid autem mali non vidimus?—si recte ratiocinabimur, uni accepta
referemus Antonio. Ut Helena Troianis, sic iste huic rei publicae belli causa, causa pestis atque exiti fuit.
Reliquae partes tribunatus principi similes. Omnia perfecit quae senatus salva re publica ne fieri possent
profecerat. Cuius tamen scelus in scelere cognoscite.
Traduzione
Come nelle semente è la ragione degli alberi e delle piante, così tu fosti la semente di quella luttuosissima guerra. Voi vi dolete della perdita di tre eserciti del popolo Romano? E’ Antonio che li fece perire. I più illustri cittadini vi son mancati? Anche questi li tolse Antonio. L’autorità di quest’ordine è abbassata e depressa? L’abbassò e depresse Antonio. Infine, tutti i mali vedemmo in seguito, e quei mali, se ragioniamo correttamente, li dobbiamo imputare al solo Antonio. Come Elena per i troiani, così egli fu per questa repubblica motivo di guerra, motivo di estremo danno, e di ultima rovina. Il resto del sui tribunato fu pari al suo principio; egli fece tutto ciò che il senato aveva giudicato non potersi fare senza portare la repubblica alla rovina. Ma vedete a qual punto dentro il crimine stesso egli si è dimostrato criminale.
Le Filippiche sono orazioni che Marco Tullio Cicerone pronunciò contro Marco Antonio dal 2 settembre del 44 a.C. al 21 aprile del 43 a.C., ad eccezione della II Filippica, immaginata come pronunciata in senato, in risposta agli sprezzanti attacchi di Antonio nei suoi riguardi durante l'assemblea del 19 settembre (a cui Cicerone non partecipò). Questa orazione di Cicerone, accuratamente preparata nella sua villa a Pozzuoli, poi inviata all'amico Attico - che ne apprezzò molto la vis retorica – e mai pronunciata.
Seneca
Troades, vv 814-887
Helena Andromacha Hecuba
Quicumque hymen funestas,
inlaetabilis lamenta caedes
sanguinem gemitus habet
est auspice Helena dignus, eversis
quoque nocere cogor Phrygibus:
ego Pyrrhi toros
narrare falsos iubeor, ego cultus dare
habitusque Graios. Arte capietur mea
meaque fraude concidet Paridis soror,
fallatur; ipsi levius hoc equidem reor:
optanda mors est sine metu mortis
mori.
Quid iussa cessas agere? Ad
auctorem redit
sceleris coacti culpa.
Plinio il vecchio
Naturalis Historia, libro 35, capitolo 51
Hactenus indicates proceribus in utroque genere non silebuntur et primis proximi: Aristoclides, qui pinxit aedem Apollinis Delphis. Antiphilus puero igne conflante laudatur ac pulchra alias domo splendescente ipsiusqur pueri ore, item lanificio, in quo properant omnium mulierum pensa, Ptolomaeo venante, sed nobilissimo Satyro cum pelle pantherina, quem aposcopeuonta appellant, Aristophon Ancaeo vulnerato ad apro cum socia doloris Astypalaea numerosa
Que tabula, in qua sunt Primaus, Helena, Credulitas, Ulixes, Ceiphobus, Dolus
Traduzione
Indicati fin qui i principali in entrambi i generi non saranno taciuti anche quelli vicini ai primi: Aristoclide, che dipinse il tempio di Apollo a Delfi, Antifilio è lodato per un fanciullo che soffia il fuoco e inoltre per una bella casa che risplende e per il volto del fanciullo stesso, anche per un lanificio, in cui si affetta i fusi di tutte le donne, per un Tolomeo che caccia ma per una satiro molto splendido con una pantera, che intitolano colui che scruta da lontano, Aristofonte per un Anceo ferito da un cinghiale con Astipalea compagna di dolore e per un quadro affollato, in cui ci sono Priamo, Elena, la Credulità, Ulisse, Ceifobo, l’Inganno.
Libro 21, capitolo 89
Helenium ad Helena, ut diximus, natum favere crediturformae, cutem mulierum in face reliquoque corpora nutrire incorruptam.
Traduzione
L’elenio da Elena, come abbiamo detto, si crede nato a favorire la bellezza, a nutrire intatta la pelle delle donne sul viso e nel resto del corpo.
Libro 23, capitolo 41
Corpus augere volentibus aut mollire alvum conducit inter cibos bibere, contra minuentibus alvumque cohibentibus sitire in edendo, postea parum bibere. Vinum ieiunos bibere novicio invento inutilissimum est curiosis vigoremque animi ad procintum tendentibus; somno vero ac securitatibus iamdidum hoc fuit, quod Homerica illa Helena ante cibum ministravit. Sic quoque in proverbium cessit aspientiam vino obumbrari.
Traduzione
A quelli che vogliono ingrassare il corpo o muovere l’intestino conviene bere durante i pasti, invece a quelli che volgiono dimagrire a frenare l’intestino aver sete nel manguare, poi bene poco. Bere vino a diguino secondo un uso recente è molto dannoso per quelli attivi e per quelli che tendono ad attuare l’impegno dell’intelletto: portò ad un vero sonno e alle spensieratezze già che quella famosa Elena omerica offrì prima del cibo. Così anche venne a proverbio che la saggezza viene oscurata dal vino.
La Naturalis historia (Storia naturale, dal latino, propriamente "Osservazione della natura") è un trattato naturalistico in forma enciclopedica scritto da Plinio il Vecchio e fu probabilmente pubblicata con scarsa o nessuna revisione da parte del nipote, Plinio il Giovane.
La fonte principale di Plinio è Marco Terenzio Varrone. Nei libri geografici, Varrone è confrontato e completato con i commenti topografici di Agrippa che furono redatti dall'imperatore Cesare Augusto. Per la zoologia si basa in gran parte su Aristotele e Giuba II, l'erudito re di Mauretania. Giuba è inoltre la sua principale guida in botanica, e anche Teofrasto è nominato negli indici.