Commento di Gaia Pizzato
I versi trattati (564-587) narrano le riflessioni di Enea che, in seguito all’assassinio violento di Priamo (successivamente ripreso al v.581 occiderit ferro Priamus), pensa al padre, alla moglie Creusa e al figlio Iulo. Volge dunque lo sguardo intorno a sé, cercando quanti ancora siano con lui, egli però si ritrova solo: da notare l’inusuale utilizzo del termine copia al singolare per indicare i compagni dell’eroe, la cui solitudine viene evidenziata magistralmente dalla scelta del termine. (cfr. Servio ad Aeneidem, II, 564).
Enea, sebbene abbandonato, non accusa i compagni, che vengono al contrario “giustificati” in quanto defessi e dai corpi ormai aegra (“deseruere omnes defessi, et corpora saltu/ ad terram misere aut ignibus aegra dedere” (v.565-566). La pietas dell’eroe emerge dunque, persino in un unico distico: il protagonista accetta la disperazione dei troiani e non la biasima, ne rimane invece affranto e sconsolato, in quanto ora egli si ritrova solo, mentre tutt’intorno a lui Ilio cade in rovina. (Iamque adeo super unus eram, v.567).
I versi 567-588 rappresentano una delle questioni filologiche più dibattute del poema: non compaiono infatti in codici poziori se non in alcune rare recentiores quali la praefatio del commento di Servio (cfr. Servio ad Aeneidem I, preafatio), nella quale il grammatico segnala che gli editori postumi, Vario e Tucca, li avevano espunti a causa dell’inadeguato attacco dell’eroe contro Elena, una donna, e delle contraddizioni con l’episodio successivo di Deifobo (VI, v.511 ss.), o persino per una possibile annotazione dello stesso Virgilio, che si sarebbe accorto dell’incongruenza dell’episodio con il testo seguente e avrebbe segnato i versi senza però avere tempo sufficiente per rifinirli (a proposito si veda nota ai v. 567-88 pag. 700 del Commento di Luca Canali all’Eneide, edizione Mondadori).
Enea rancoroso scorge la Tindaride limina Vestae servantem (il riferimento è ad un dibattuto tempio di Vesta o, più probabilmente al focolare domestico), ella tenta di celarsi alla sua vista, muta, temendo l’ira troiana e achea. (Si noti il nuovo aspetto della figura di Elena: da donna responsabile, ma lontana dalla scena, in quanto caratterizzata da un’aura quasi divina- nell’Iliade-, dall’εἴδωλον giustificatore di Euripide, a colpevole riconosciuta dello scatenarsi del conflitto.) L’eroe, in un impeto d’ira, la definisce commmunis Erinys, ed il suo cuore si infiamma di desiderio di vendetta. Il susseguirsi rapido di domande e il contrasto fra l’immagine di Elena “regina”, in ritorno a Micene trionfante, e le donne frigie ormai schiave, aumenta il pathos dell’episodio culminando nell’esclamazione “Non ita” (v.583). Enea è ora dilaniato da un terribile dissidio interiore: uccidere una donna, gesto inglorioso e deplorevole, o vendicare i parenti? (si noti il v. 587: †ultricis ? famam et cineres satiasse meorum, di lettura e interpretazione incerta). Il protagonista viene infine guidato dalla furiata mente ma, quando sta per scagliarsi contro la Tindaride, gli appare la madre Venere che gli impedirà di commettere l’omicidio contro la donna.
Commento di Carolina Russo
Nei versi vengono narrate le riflessioni di Enea, il quale, trovandosi ormai solo, intravede Elena occupante le soglie di Vesta che si nasconde in silenzio.
Al verso 567 la donna viene definita tindaride: secondo alcune versioni del mito, infatti, la madre di Elena, Leda, era moglie di Tindaro, re di Sparta. Leda partorì quattro bambini, di cui due, Polluce ed Elena, sarebbero stati figli di Zeus, che si era congiunto a Leda sotto forma di cigno mentre gli altri due nati Castore e Clitennestra, erano invece stati concepiti da Tindaro.
Tornando al racconto, Elena si nascose perché temeva che i Troiani si sarebbero vendicati per la distruzione della città e che i Greci avrebbero fatto lo stesso, in quanto le veniva attribuita la colpa dello scoppio della guerra.
Nel vedere la donna, si accende in Enea il desiderio di vendetta: inizia un susseguirsi di domande. L’eroe è in bilico, non sa se uccidere la donna, compiendo un'azione sicuramente immeritevole, oppure non vendicare i parenti.
Commento di Virginia Ros
La figura di Elena è in assoluto una delle più affascinanti di tutta la mitologia antica: è un personaggio complesso presentato solo come fonte di sventura e infedeltà, a causa della dominante mentalità maschilista del tempo, oggi fortunatamente in parte superata: non è affatto un’eroina in primis per la sua condizione naturale, ovvero di essere donna e successivamente perché è solo causa di mali e rovina per l’intera città. L’importanza della figura della Tindaride è data dal fatto che Enea la incontri in un momento per lui molto delicato: quest’ultimo deve scappare da Troia e ha appena assistito all’uccisione di Priamo sulla tomba di Achille. Travagliato da pensieri sulla sorte dei suoi compagni e accortosi che erano effettivamente morti, scorge Elena che è consapevole del desiderio di vendetta dei Troiani rivolto contro la sua persona. La donna, che si era rifugiata in un luogo nascosto e riparato, teme un impeto d’ira dell’eroe. Il pathos dell’episodio è altissimo: Enea vuole la vendetta ma è tormentato interiormente: sarebbe un vero eroe se uccidesse Elena? La donna si trova in una posizione di netto svantaggio ma Enea, preso dalla furia, è pronto ad ucciderla quando l’apparizione divina della dea Venere esorta l’eroe a fuggire, facendolo desistere dal suo intento. Interessante è il fatto che tutto il passo sia caratterizzato dagli aiuti/consigli provvidenziali: per primo Enea si piega al volere divino ed è costretto ad abbandonare la città (non è qui rappresentato come l’eroe guerriero, ma assume un aspetto più “umano”) ed infine Elena è salva grazie all’intervento immediato di Venere, che, per altro, è la madre dello stesso Enea.