Prima d'essere un mostro e un vortice, Scilla era una ninfa, della quale s'innamorò il dio Glauco. Questi cercò l'aiuto di Circe, la cui conoscenza di erbe e di magie era famosa. Circe s'innamorò di lui, e, poiché Glauco non dimenticava Scilla, avvelenò le acque della fontana in cui la ninfa soleva bagnarsi. Appena a contatto con l'acqua, la parte inferiore del corpo di Scilla si trasformò in cani latranti. Dodici piedi la sostenevano, e si trovò provvista di sei teste, ciascuna con tre filari di denti. Terrificata da questa metamorfosi, si gettò nello stretto che separa l'Italia dalla Sicilia; gli dèi la trasformarono in roccia; e ancor oggi, durante le tempeste, i naviganti ne odono il ruggito. Gli elementi di questa favola si trovano nelle pagine di Omero, di Ovidio e di Pausania.
« Perché prima di Eva fu Lilith » si legge in un testo ebraico. Il poeta inglese Dante Gabriel Rossetti (1828-1882) si ispirò a questa leggenda per comporre Eden Bower. Lilith era un serpente; fu la prima sposa di Adamo e gli dette « glittering sons and ra-diant daughters» («figli splendenti e figlie radiose»). Dio in seguito creò Eva; Lilith, per vendicarsi della moglie umana di Adamo, la spinse ad assaggiare il frutto proibito e a concepire Caino, fratello e assassino di Abele. Questa è la versione primitiva del mito, seguita da Rossetti. Nel corso del Medioevo, l'influsso della parola ebraica layil, che vuol dire «notte», a poco a poco trasformò il mito. Lilith da serpente diventò uno spirito notturno. A volte, è un angelo che presiede alla generazione degli uomini; altre volte, si muta in demoni che aggrediscono chi dorme da solo o chi va per le strade. Nell'immaginazione popolare, è solita assumere le sembianze di una donna alta e silenziosa, dai neri capelli sciolti.
Secondo un mito islamico, Kujata è un grande toro dotato di quattromila occhi, quattromila orecchi, quattromila nasi, quattromila bocche, quattromila lingue e quattromila zampe. Per spostarsi da un occhio all'altro o da un orecchio all'altro sono sufficienti cinquecento anni. Kujata è sostenuto dal pesce Bahamut; sul dorso del toro c'è una roccia di rubino, sulla roccia un angelo e sull'angelo la nostra terra.
Il kraken è una specie scandinava dello zaratan e del drago o serpente di mare degli arabi. Nel 1752, il danese Erik Pontoppidan, vescovo di Bergen, pubblicò una Storia naturale della Norvegia, opera famosa per la sua ospitalità o credulità; nelle sue pagine si legge che il dorso del kraken ha un miglio e mezzo di lunghezza e che le sue braccia possono cingere la più grande delle navi. Il dorso emerge come un'isola; Erik Pontoppidan giunge a formulare questa norma: « Le isolegalleggianti sono sempre dei kraken ». Scrive anche che il kraken è solito intorbidare le acque del mare con una scarica di liquido; l'affermazione ha fatto sorgere l'ipotesi che il kraken sia un'amplificazione del polpo. Fra le composizioni giovanili di Tennyson, ce n'è una dedicata al kraken. Dice, alla lettera, così: «Sotto i tuoni della superficie, nelle profondità del mare abissale, il kraken dorme il suo antico e inviolato sonno senza sogni. Pallidi riflessi si agitano intorno alla sua forma scura; grosse spugne millenarie per crescita e altezza si gonfiano sopra di lui, e in fondo alla luce smorta innumerevoli ed enormi polpi battono con gigantesche braccia la verdastra immobilità da segrete celle e grotte meravigliose. Giace lì da secoli, e ancora vi giacerà, nutrendosi addormentato di immensi vermi marini, sinché il fuoco del Giudizio Universale non scalderà l'abisso. Allora, per essere finalmente visto da uomini e da angeli, emergerà ruggendo e morirà in superficie».
In un bosco sul Rodano, fra Arles e Avignone, c'era a quei tempi un drago, metà bestia e metà pesce, più grande d'un bue e più lungo d'un cavallo. E aveva i denti acuti come la spada, e corna da ambo i lati, e s'occultava nell'acqua, e scannava i viandanti e affondava le navi. Ed era venuto per il mare di Galazia, ed era nato da Leviatano, rudelissimo serpente d'acqua, e da una bestia chiamata Onagro, cui genera la regione di Galazia... Dalla Leggenda Aurea.
Il drago ha la capacità di assumere molte forme, che però sono imperscrutabili. In genere si immagina con testa di cavallo, coda di serpente, grandi ali laterali e quattro granfie, ciascuna provvista di quattro artigli. Si parla anche delle sue nove rassomiglianze: ha corna come di cervo, testa come di cammello, occhi come di demone, collo come di serpente, ventre come di mollusco, squame come di pesce, granfie come d'aquila, piante come di tigre e orecchi come di bue. Ci sono esemplari senza gli orecchi che sentono dalle corna. Di solito si rappresenta con una perla al collo, l'emblema del sole. In quella perla c'è il suo potere. Se gliela tolgono, diventa inoffensivo.
La storia gli attribuisce la paternità dei primi imperatori. Le sue ossa, i denti e la saliva possiedono virtù medicinali. Può, a suo piacimento, essere visibile agli uomini o invisibile. A primavera si innalza nei cieli; in autunno s'immerge nelle profondità delle acque. Alcuni draghi sono privi di ali e volano per il loro slancio. La scienza li distingue in vari generi. Il drago celeste porta sul dorso i palazzi delle divinità, che altrimenti cadrebbero sulla terra; il drago divino produce i venti e le piogge, per il bene dell'umanità; il drago terrestre determina il corso dei torrenti e dei fiumi; il drago sotterraneo monta la guardia ai tesori vietati agli uomini. I buddhisti affermano che i draghi abbondano quanto i pesci nei loro numerosi mari concentrici; in qualche parte dell'universo esiste una cifra sacra che ne indica il numero esatto. Il popolo cinese crede nei draghi più che in altre divinità, perché li scorge assai spesso nelle mutevoli nuvole. Parallelamente, Shakespeare aveva osservato che ci sono nuvole a forma di drago (« Sometimes we see a cloud that's dragonish »). Il drago governa le montagne, è legato alla geomanzia, dimora vicino ai sepolcri, è associato al culto di Confucio, è il Nettuno dei mari e appare anche sulla terraferma. I re dei Draghi del Mare abitano palazzi splendenti sotto le acque e si nutrono di opali e perle. Sono cinque: il più importante si trova al centro, gli altri quattro in corrispondenza dei punti cardinali. Sono lunghi una lega: quando cambiano posizione, scuotono le montagne. Sono rivestiti da un'armatura di squame gialle. Sotto il muso hanno una barba; le zampe e la coda sono pelose. La fronte sporge sopra gli occhi fiammeggianti, le orecchie sono piccole e tozze, la bocca sempre aperta, la lingua lunga e i denti affilati. Il fiato bollente lessa i pesci, ogni esalazione del corpo li arrostisce. Quando salgono in superficie negli oceani, provocano gorghi e tifoni; quando volano in aria, causano burrasche che scoperchiano le case nelle città e inondano i campi. Sono immortali e possono comunicare fra loro malgrado le distanze che li separano e senza bisogno di parole. Nel terzo mese presentano il loro rapporto annuale ai cieli superiori.
Se l'inferno è una casa, la casa di Ade, è naturale che un cane vi stia di guardia; anche è naturale, questo cane, immaginarselo atroce. La Teogonia di Esiodo gli attribuisce cinquanta teste; per maggiore comodità delle arti plastiche questo numero è stato ridotto, e le tre teste di Cerbero sono di dominio pubblico. Virgilio menziona le sue tre gole; Ovidio, il suo triplice latrato; Butler paragona le tre corone della tiara del Papa, che è portinaio del cielo, con le tre teste del cane che è portinaio dell'inferno (Hudihras, IV, 2). Dante gli presta caratteri umani che aggravano la sua indole infernale: barba unta e atra, mani unghiate che squarciano, nella pioggia, le anime dei dannati. Morde, latra e mostra le zanne. Cavare il Cerbero dall'inferno, e recarlo alla luce del giorno, fu l'ultima delle fatiche d'Ercole. Uno scrittore inglese del secolo XVIII, Zachary Grey, interpreta così l'avventura: Questo Cane con tre Teste rappresenta il passato, il presente e l'avvenire, che contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose. Che Ercole lo vincesse, dimostra che le Azioni eroiche sono vittoriose del Tempo e sussistono nella Memoria della Posterità. Secondo i testi più antichi, il Cerbero saluta con la coda (che è una serpe) quelli che entrano nell'inferno, e divora quelli che cercano di uscirne. Una tradizione posteriore lo fa mordere quelli che arrivano; per placarlo, s'usava provvedere il morto d'una focaccia al miele. Nella mitologia scandinava un cane insanguinato, Garmr, sta a guardia della casa dei morti, e verrà a battaglia con gli dèi quando i lupi infernali divoreranno la luna e il sole. Alcuni gli attribuiscono quattro occhi; quattro occhi hanno anche i cani di Yama, dio bramanico della morte Il bramanesimo e il buddhismo propongono inferni di cani che, a somiglianza del Cerbero dantesco, sono carnefici delle anime. Il cervo celeste Ignoriamo del tutto la struttura del cervo celeste (forse perché nessuno ha potuto vederlo chiaramente); ma sappiamo che questi animali camminano sotto terra e non hanno altra brama che di uscire alla luce del giorno. Sanno parlare, e pregano i minatori che li aiutino a uscire. Dapprima cercano di subornarli con la promessa di metalli preziosi; ma fallendo quest'astuzia, li molestano. Gli uomini allora li murano solidamente nelle gallerie della miniera. Si parla anche di uomini torturati... La tradizione aggiunge che se questi cervi emergono alla luce, si convertono in un liquido pestifero che può disseccare il paese. Questa fantasia è cinese, la registra il libro Chinese ghouls and goblins (Londra 1928) di G. Willoughby-Meade.
Il centoteste è un pesce creato dal karma di alcune parole, per la loro postuma ripercussione nel tempo. Una delle vite cinesi del Buddha riferisce che egli s'imbattè in certi pescatori che tiravano una rete. Dopo infiniti sforzi, la trassero a riva e vi trovarono un enorme pesce, con una testa di scimmia, un'altra di cane, un'altra di cavallo, un'altra di volpe, un'altra di cervo, un'altra di tigre, e così via fino a cento. Il Buddha gli chiese: Non sei Kapila ? - Sono Kapila, - risposero le cento teste prima di morire. Il Buddha spiegò ai discepoli che in una incarnazione anteriore Kapila era stato bramano, e di bramano s'era fatto monaco, e tutti aveva superato nell'intelligenza dei testi sacri. A volte i suoi compagni sbagliavano, e Kapila diceva loro: testa di scimmia, testa di cane, ecc. Quando morì, il karma di queste invettive accumulate lo fece rinascere mostro acquatico, gravato di tutte le teste che aveva attribuito ai suoi compagni.
Plinio (VIII, 32) narra che ai confini dell'Etiopia, non lontano dalle fonti del Nilo, abita il catoblepa, fiera di media statura e andatura pigra. La testa è di peso considerevole, e l'animale fa molta fatica a portarla; la tiene sempre chinata a terra. Se non fosse per questa circostanza, il catoblepa annienterebbe il genere umano, perché qualunque uomo gli vede gli occhi, cade morto. Catoblepas, in greco, vuol dire «che guarda in basso». Cuvier stimò che fosse stato ispirato agli antichi dallo gnu (contaminato col basilisco e con le gorgoni). In una delle ultime pagine della Tentazione di Sant'Antonio si legge: Il catoblepa (bufalo nero, con una testa di maiale che gli ciondola fino a terra, attaccata com'è alle spalle mediante un collo sottile, lungo e floscio come un budello vuoto. Sta appiattato nel fango, le zampe appena visibili sotto la gran criniera di peli duri che gli copre il muso): - Grosso, melanconico, fosco, me ne sto sempre così: a sentire sotto il ventre il tepore del fango. Ho la testa così pesante che m'è impossibile tenerla alzata. La muovo lentamente attorno, e, a mascelle socchiuse, strappo con la lingua le erbe velenose inumidite dal mio fiato. Una volta, mi sono divorato le zampe senza accorgermene. Nessuno, Antonio, m'ha visto mai gli occhi; o chi li ha visti è morto. Se alzassi le palpebre, queste mie palpebre rosate e gonfie, tu moriresti all'istante.
A differenza di altri animali fantastici, il cavallo marino non nasce dalla combinazione di elementi eterogenei; non è altro che un cavallo selvatico la cui abitazione è il mare, e che solo quando la brezza gli porta l'odore delle giumente, nelle notti senza luna, viene a calcare la terra. In un'isola indeterminata - forse Borneo i pastori portano sulla riva le migliori giumente del re e si nascondono in camere sotterranee; Sindbad vide il puledro che usciva dal mare, e lo vide saltare sulla femmina, e udì il suo grido. La redazione definitiva del Libro delle mille e una notte data, secondo Burton, dal secolo XIII; nel secolo XIII nacque e morì il cosmografo Al-Qazwini, che, nel trattato Meraviglie delle cose create, scrive: «Il cavallo marino è come il cavallo terrestre, ma di criniera e coda più lunghe, pelo più lustro, unghia fessa come quella del bue selvatico, statura minore di quella del cavallo terrestre e un po' maggiore di quella dell'asino». Lo stesso autore osserva che «l'incrocio della specie marina e della terrestre dà bellissimo frutto», e menziona un puledro di pelo scuro «con macchie bianche come pezzi d'argento». Wang Tai-hai, viaggiatore del secolo XVIII, scrive nella Miscellanea cinese: Il cavallo marino suole comparire sulle rive in cerca della femmina; a volte lo prendono. E di pelo nero e lustro; la coda è lunga e tocca il suolo; in terraferma cammina come gli altri cavalli, è docilissimo, e può percorrere in un giorno centinaia di miglia. Conviene non farlo bagnare nel fiume, perché quando vede l'acqua recupera la sua antica natura e s'allontana nuotando. Gli etnologi hanno cercato l'origine di questa finzione islamica in quella greco-latina del vento che feconda le cavalle. Nel libro terzo delle Georgiche, Virgilio ha versificato questa credenza. Più rigorosa è l'esposizione di Plinio (VIII, 67): Nessuno ignora che in Lusitania, nelle vicinanze di Olisipo (Lisbona) e del fiume Tago, le cavalle rivolgono il muso al vento occidentale e restano incinte di lui; i puledri così generati risultano di ammirevole prestezza, ma muoiono prima di aver compiuto i tre anni. Giustino lo storico congetturò che l'iperbole figli del vento, applicata a cavalli molto veloci, fosse all'origine di questa favola.
Il centauro è la creatura più armoniosa della zoologia fantastica. «Biforme» lo chiamano le Metamorfosi di Ovidio; ma nulla costa dimenticarne l'indole eterogenea, e pensare che nel mondo platonico delle forme ci sia un archetipo del centauro, come del cavallo o dell'uomo. La scoperta di questo archetipo richiese secoli; i monumenti primitivi e arcaici mostrano un uomo nudo, cui s'adatta scomodamente la groppa di un cavallo. Nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia, i centauri hanno già zampe equine; di dove dovrebbe nascere il collo dell'animale, s'erge il torso umano. Issione, re di Tessaglia, e una nuvola cui Zeus dette la forma di Era, generarono i centauri; secondo un'altra leggenda, sono figli di Apollo. (S'è fatto derivare centauro da gandharva; nella mitologia vedica, i gandharva sono divinità minori che guidano i cavalli del sole). Poiché i greci dell'epoca omerica non conoscevano l'equitazione, si suppone credessero, del primo nomade che videro, che facesse tutt'uno col suo cavallo; e si osserva che i soldati di Pizarro o di Hernan Cortés, allo stesso modo, furono centauri per gl'indii. «Uno dei cavalieri cadde da cavallo; e come gl'indii videro quell'animale dividersi in due, tenendo per certo che fosse tutt'uno, tanto fu il loro spavento che voltarono le spalle gridando, e dicendo che s'era fatto due, e strabiliando dell'accaduto; il quale non fu senza consiglio del cielo: perché, se non accadeva, certo coloro ammazzavano tutti i cristiani», narra uno dei testi citati da Prescott. Ma i greci, a differenza degl'indii, conoscevano il cavallo; e il verosimile è dunque che il centauro fu immagine deliberata, non confusione ignorante. La più popolare delle favole in cui figurano i centauri è quella del loro combattimento con i lapiti, che li avevano invitati a certe nozze. Per gli ospiti, il vino era cosa nuova: a metà del festino un centauro ubriaco oltraggia la sposa, e inizia, rovesciando le tavole, la famosa centauromachia che Fidia (o un suo discepolo) scolpirà nelle metope del Partenone, che Ovidio canterà nel libro XII delle Metamorfosi, e che ispirerà Rubens. I centauri, vinti dai lapiti, dovettero fuggire di Tessaglia. Ercole, in un altro combattimento, annientò a frecciate la stirpe. La rustica barbarie e l'ira sono simboleggiate nel centauro, ma «il più giusto dei centauri, Chirone» (Iliade, XI, 832), fu maestro di Achille e di Esculapio, che istruì nelle arti della musica, della cinegetica, della guerra, e perfino della medicina e della chirurgia. Chirone memorabilmente figura nel canto XII dell'Inferno, che per consenso generale si chiama «canto dei centauri». Si vedano a questo proposito le fini osservazioni del Momigliano, nella sua edizione del 1945. Plinio dice di aver visto un ippocentauro, conservato nel miele, spedito all'Egitto all'imperatore. Nel Convito dei sette savi, Plutarco riferisce umoristicamente che Periandro, despota di Corinto, si vide portare da un suo pastore, in un sacco di cuoio, una creatura partorita poco prima da una giumenta. Aveva faccia, collo e braccia umani, e il resto equino; piangeva come un bambino; e tutti pensarono che si trattasse d'un presagio spaventoso. Il savio Talete la guardò, rise, e disse a Periandro che in verità non poteva approvare la condotta dei suoi pastori.
La fama di Bahamut raggiunse i deserti dell'Arabia, dove gli uomini alterarono e ingrandirono la sua immagine. Da ippopotamo o elefante lo fecero pesce che si sostiene sopra un'acqua senza fondo, e sopra il pesce immaginarono un toro, e sopra il toro una montagna di rubino, e sopra la montagna un angelo, e sopra l'angelo sei inferni, e sopra gl'inferni la terra, e sopra la terra sette cieli. Leggiamo in una tradizione raccolta da Lane: Dio creò la terra, ma la terra non aveva sostegno, e così sotto la terra creò un angelo. Ma l'angelo non aveva sostegno, e così sotto i piedi dell'angelo creò una montagna fatta di rubino. Ma la montagna non aveva sostegno, e così sotto la montagna creò un toro con quattromila occhi, nasi, bocche, lingue e piedi. Ma il toro non aveva sostegno, e così sotto il toro creò un pesce chiamato Bahamut, e sotto il pesce mise acqua, e sotto l'acqua mise oscurità, e la scienza umana non vede più oltre. Altri dichiarano che la terra ha il suo fondamento nell'acqua; l'acqua nella montagna; la montagna nella nuca del toro; il toro in un letto di sabbia; la sabbia in Bahamut; Bahamut in un vento soffocante; il vento soffocante in. una nebbia. Il fondamento della nebbia s'ignora. Così immenso e risplendente è Bahamut, che gli occhi umani non possono sopportarne la vista. Tutti i mari della terra, raccolti in una delle sue narici, sarebbero come un grano di senape in mezzo al deserto. Nella notte 496 del Libro delle mille e una notte, si riferisce che Isa (Gesù) ottenne la grazia di vedere Bahamut, e che, dopo averlo veduto, rotolò al suolo e tardò tre giorni a riprendere conoscenza. Si aggiunge che sotto lo smisurato pesce c'è un mare, e sotto il mare un abisso d'aria, e sotto l'aria fuoco, e sotto il fuoco un serpente chiamato Falak, che ha in bocca gl'inferni. La finzione della montagna sopra il toro e del toro sopra Bahamut e di Bahamut sopra un'altra cosa qualsiasi, sembra illustrare la prova cosmologica dell'esistenza di Dio, in cui si argomenta che ogni causa suppone una causa anteriore, e si afferma la necessità di porre una causa prima per non continuare all'infinito.
Per la Teogonia di Esiodo, le arpie sono divinità alate, di lunga e sciolta chioma, più veloci degli uccelli e dei venti; per il terzo libro dell'Eneide, uccelli con viso di ragazza, artigli ricurvi e ventre immondo, pallidi di fame che non possono saziare. Scendono dalle montagne e insozzano le tavole dei festini. Sono invulnerabili e fetide; tutto divorano, schiamazzando, e tutto trasformano in escrementi. Servio, commentatore di Virgilio, scrive che come Ecate è Proserpina negli inferni, Diana sulla terra e luna nel cielo, e la chiamano «dea triforme», così le arpie sono furie negli inferni, arpie sulla terra e demoni (dirae) nel cielo. Anche le confondono con le parche. Per mandato divino, le arpie perseguitarono un re di Tracia che scoprì agli uomini l'avvenire o che comprò la longevità a prezzo dei propri occhi e fu castigato dal sole, la cui opera aveva oltraggiato. S'accingeva a mangiare, con tutta la sua corte, e le arpie divoravano o contaminavano i cibi. Gli argonauti misero in fuga le arpie; Apollonio di Rodi e William Morris (Life and death of Jason) riferiscono la fantastica storia. L'Ariosto, nel canto XXXIII del Furioso, trasformò il re di Tracia nel Preteianni1, favoloso imperatore degli abissini. Arpie, in greco, significa «quelle che rapiscono, che saccheggiano». In principio furono divinità del vento, come i Maruts dei Veda, che brandiscono armi d'oro (i raggi) e che mungono le nuvole.
É un animale con una gran coda, lunga parecchi metri e somigliante a quella della volpe. A volte mi piacerebbe tenere la sua coda in mano, ma è impossibile; l'animale è sempre in movimento, con la coda sempre di qua o di là. Lui stesso ha qualcosa del canguro, ma la sua testa piccola e ovale non è caratteristica di quest'animale, e ha qualcosa di umano; solo i denti hanno forza espressiva, sia che li nasconda, sia che li mostri. Ho spesso l'impressione che voglia ammaestrarmi: se no, a che scopo tirerebbe via la coda quando voglio afferrarla, e aspetterebbe poi tranquillamente che questa torni ad attirarmi, prima di rimettersi a saltare ?
FRANZ KAFKA,
Hochzeitsvorbereitungen auf detti Lande, 1953.
La sfera è il più uniforme dei solidi, giacché tutti i punti della sua superficie distano egualmente dal centro. Per questo, e per la sua facoltà di girare intorno all'asse senza cambiare di luogo o eccedere i propri limiti, Platone {Timeo, 33) approvò la decisione del Demiurgo, che dette forma sferica al mondo. Affermò che il mondo è un essere vivente, e nelle Leggi (X, 898) giudicò che anche i pianeti e le stelle sono vivi. Dotò, così, di vasti animali sferici la zoologia fantastica, e censurò la pigrizia mentale degli astronomi, i quali rifiutavano di ammettere che il moto circolare dei corpi celesti fosse spontaneo e volontario. Più di cinquecento anni dopo, in Alessandria, Origene insegnò che i beati resusciteranno in forma di sfera ed entreranno rotando nell'eternità. L'idea del cielo come animale riapparve col Rinascimento, in Vanini; il neoplatonico Marsilio Ficino parlò dei peli, denti e ossa della terra; e Giordano Bruno stimò che i pianeti fossero grandi animali tranquilli, di sangue caldo e abitudini regolari, dotati di ragione. Al principio del secolo XVII, Keplero disputò all'occultista inglese Robert Fludd la paternità dell'idea della terra come mostro vivente, «la cui respirazione di balena, corrispondente al sonno e alla veglia, produce il flusso e il riflusso del mare». L'anatomia, l'alimentazione, il colore, la memoria e la forza immaginativa e plastica del mostro furono studiate da Keplero. Nel secolo XIX, lo psicologo tedesco Gustav Theodor Fechner (elogiato da William James, nell'opera A Pluralistic Universe) ripensò con una sorta di ingegnoso candore le idee precedenti. Quanti non sdegnano la congettura che la terra, nostra madre, sia un organismo superiore alla pianta, all'animale, e all'uomo, possono esaminare le devote pagine del suo Zend-Avesta. Vi leggeranno, per esempio, che la figura sferica della terra è quella dell'occhio umano, cioè della parte più nobile del nostro corpo. Anche vi leggeranno che «se realmente il cielo è la casa degli angeli, questi senza dubbio sono le stelle, perché non ci sono altri abitanti del cielo».