La scena raffigurata viene narrata da diverse fonti antiche ma è Virgilio, nel II libro dell’Eneide, a darcene la versione più estesa. È il decimo anno della guerra di Troia e i Greci hanno deciso di tentare la via dell’inganno suggerita da Ulisse. Fingono quindi la resa e abbandonano l’accampamento, lasciando solo sulla spiaggia un enorme cavallo di legno. Alla sua vista, i Troiani sono confusi e indecisi sul da farsi. Non così Laocoonte, sacerdote di Nettuno, che subito ammonisce i suoi concittadini sulla nota meschinità dei nemici e sui pericoli che il cavallo nasconde:
“<<Qualunque cosa sia, temo i Danai (i greci, ndr), soprattutto se portano doni>>.
Dopo aver così parlato, lanciò con tutte le forze la grande asta
nel fianco del cavallo e nel ventre ricurvo con solida armatura”.
(Eneide, II, vv. 49-53)
Poco dopo, dall’isola di Tenedo spuntano due enormi serpenti che con “occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco” e “bocche sibilanti” raggiungono i figli di Laocoonte, Antifate e Timbreo, stritolandoli e divorandoli. Inutilmente Laocoonte corre in loro aiuto: preso anch’egli tra le spire dei due mostri, viene ugualmente massacrato. Terminata l’orribile carneficina, i due serpenti si rifugiano presso il tempio di Atena. I Troiani non hanno più dubbi: Laocoonte è stato punito dalla dea per aver violato, con la sua lancia, il legno sacro del cavallo che deve quindi essere accolto come dono all’interno delle mura cittadine.
Il gruppo del Laocoonte immortala il tentativo disperato del padre e dei due figli di liberarsi dai serpenti. La posa dei personaggi, le espressioni dei volti, l’atteggiamento dei corpi: tutto contribuisce alla resa di un pathos estremo e toccante. Che l’episodio raffigurato dall’enorme scultura fosse proprio quello narrato da Virgilio, lo riconobbero subito anche i primi che la videro: Michelangelo e Giuliano da Sangallo.