L'Eterno e la Stella Vagante - Incipit

Nelle profondità dello spazio una stella viaggiava veloce. Lontano da lì, su un remoto braccio della Galassia un lampo attraversò le tenebre.

Nella fredda e umida terra giaceva un corpo di scimmia glabra, un primate bipede disteso in un sepolcro scavato dai suoi simili, sigillato da una pesante pietra allo scopo di proteggerlo dal morso dei divoratori di carogne ma anche con l’illusione di fargli da scudo contro le potenze infernali. Serviva a difendere quel cadavere ma[MDPC(01]  anche i vivi da lui stesso, da un possibile e temuto risveglio.

I vivi hanno orrore dei morti che ritornano. Il loro cuore si spezza se la morte si ripete.

 

Quattro volte il pianeta aveva ruotato su se stesso, riscoprendo il proprio pallido sole in altrettante albe di vita e di morte da quando quelle spoglie erano rimaste immote.

Il corpo nel sepolcro subiva mutamenti di cui non era cosciente. I sensi di Lazzaro (questo era il suo nome) non riuscivano più a comunicare con il cervello, che ancora emanava sottili e impercettibili scariche neuronali.

Stava viaggiando in una luce diffusa attraverso un interminabile tunnel di larghezza indeterminata. Non era propriamente luce ma fendeva ugualmente tenebre, diverse da quelle di una notte senza luna e senza stelle. Ben presto o dopo un’eternità (Lazzaro non lo comprese perché il tempo aveva perso significato), la luminosità si mutò in un grigiore impalpabile che venne assorbito da un’oscurità eterna e incolmabile.

Vuoto. Silenzio assoluto. Niente. Pace.

E poi…

Quel flusso, quel segnale che riattivava il suo cervello, quell’energia che non era energia e non era materia, ridestava il suo corpo, scuotendolo nelle sue più intime profondità, sino nei giochi dei polimeri a doppia catena che determinavano la sua essenza mortale. Dolore. Un dolore quale non aveva mai provato neppure morendo.

Lazzaro fu strappato dalla pace, scagliato in una nuova nascita.

Come un nascituro travolto dall’aria che entra nei polmoni, gridò, ma la sua voce non aveva ancora suono e il suo urlo muto di disperazione si perse nel vuoto. Le sue membra tornavano a vivere mentre quell’urlo restava inespresso come una carica esplosiva, una forza che si apprestava a squartarlo. Era qualcosa che premeva contro tutto il suo essere. Qualcosa che cercava di entrargli dentro.

Respirò. Dolore. Si mosse. Fatica. Respirò. Respirò.

Implosione d’aria. Luce. Vera luce! Una fenditura nella roccia ne fece entrare una lama. La lama si allargò e la luce proruppe feroce e tagliente nel suo sepolcro. La pietra che lo difendeva cominciò a scivolare via. Lazzaro, impacciato dai bendaggi, alzò le mani a proteggere gli occhi e il viso, da cui si erano sciolte le fasciature.

 

«Lazzaro, vieni fuori!» Lazzaro conosceva quella voce. Era quella di Gesù, il suo amico nazareno. Che cosa ci faceva lì? Che cosa voleva da lui? Che cosa c’entrava lui con quel suo risveglio? Perché? Perché lo stava chiamando? Perché era stato strappato alla sua pace?

Uscì esitante dal sepolcro e una piccola folla lo acclamò. Marta e Maria, le sue sorelle, urlarono di gioia. Maria fissò Gesù con uno sguardo di devozione quale nessuna innamorata sarebbe riuscita a rivolgere al proprio più grande amore. Marta cadde in ginocchio e ringraziò il Signore Iddio. Molti altri la imitarono. Gesù e Maria rimasero in piedi a guardarlo. A fatica, Lazzaro, un piccolo passo dopo l’altro, camminò verso di loro. I suoi occhi esprimevano un disperato sgomento. Barcollò. Maria si staccò da Gesù e si precipitò a sorreggerlo. Vedendola, anche Marta si alzò e corse verso di lui, che si ritrovò abbracciato dalle sorelle senza voler ricambiare quell’abbraccio sbalordito. Qualcosa dentro di lui ripeteva un incomprensibile “No, no, no!”

Gesù sorrise e gli porse le mani. Lazzaro lo guardò inespressivo, inebetito, e non raccolse l’offerta.

Lo portarono a casa. Gli diedero da bere e da mangiare. Lo lavarono e lo rivestirono e Lazzaro li lasciò fare. Quella nuova vita non sembrava riguardarlo, non la riconosceva come sua. Attorno, chi non era impegnato ad aiutarlo o confortarlo continuava a festeggiare e a lodare Gesù.

Bevve. Mangiò. Non ringraziò. Non aveva nulla di cui sentirsi grato.


(CONTINUA NEL ROMANZO "L'ETERNO E LA STELLA VAGANTE")