Lo sviluppo della medicina durante la Prima Guerra Mondiale

Gli storici concordano: la prima guerra mondiale è stata una svolta per la medicina, una “paradossale” fonte di progresso, come riassume il medico e storico della medicina Giorgio Cosmacini in Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi. La necessità di curare un numero enorme di feriti costrinse i medici a cercare risposte per affrontare situazioni nuove, sino ad allora mai conosciute. E i risultati di quelle ricerche, almeno quelli “positivi”, sono arrivati sino a noi. la medicina e la chirurgia del fronte dovevano occuparsi di numeri altissimi e di tipologie le più diverse di ferite. La clinica ipotizzava approcci differenti perché molti dei medicinali in grado di contrastare le infezioni erano ancora sconosciuti. Si moriva di setticemia, di “cancrena gassosa". Spesso non erano le ferite dei combattimenti in sé a causare la morte. Piuttosto, il tetano, le complicanze settiche delle fratture, le forme tifiche, non c’erano sulfamidici né antibiotici.

Arrivò però, ricordano gli storici, una prima possibilità di medicazione antibatterica: la soluzione di Carrel-Dakin . Alexis Carrell (1873-1944) era un chirurgo vascolare e biologo francese (premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1912), Henry Drysdale Dakin (1880-1951) un chimico americano; insieme misero a punto una potente soluzione antisettica a base di acido ipocloroso (l’ipoclorito di sodio è il principio attivo della comune candeggina). Oggi pare antichità, ma allora determinò una svolta significativa, poiché il suo impiego abbatteva la mortalità: impiegato sulle ferite infette, la soluzione non era particolarmente aggressiva sui tessuti, agiva molto velocemente e consentiva una suturazione veloce in un ambiente sufficientemente disinfettato.



Nella prima guerra mondiale il fuoco delle artiglierie causa il 70% delle ferite. Le ferite inferte ai soldati (giovani dai 20 ai 35 anni) si possono suddividere in:


  • Ferite al torace: la mortalità era del 20% e l’intervento consisteva nell’estrarre la scheggia ed applicare l’apparecchio di Potain (un tubo di drenaggio del sangue fuoriuscito nel cavo pleurico). Purtroppo questo intervento generava pleuriti che, pur guarendo, predisponevano alla tubercolosi


  • Lesioni addominali: il ferito era considerato ormai perso per il grave shock tossico che seguiva alla perforazione delle viscere. Pochi medici osavano queste operazioni. Inoltre il dissanguamento dovuto Robert Heinrich Herman Koch Clausthal, Hanover, 1843-Baden Baden 1910 Anno VI - numero 1 – Marzo 2016 Pagina 16 di 65 alle lesioni gravi era un'ulteriore causa aggravante. Solo con le trasfusioni praticate dalla fine del 1916 si poté ridurre la mortalità che era prossima al 100%.


  • Ferite agli arti erano in generale ben trattate con la rimozione di schegge e proiettili. Di fondamentale aiuto furono l’uso della radiologia per determinare l’entità della frattura o sua frantumazione. Poche le amputazioni praticate, si ricorreva alla gessatura.


  • La gangrena gassosa era una necrosi dei tessuti all’interno di organismi viventi dovuta ad un arresto della circolazione del sangue o ad un’infezione. Per evitare che una piaga si trasformi in gangrena i medici possono solo agire rapidamente ed in profondità. Se l’infezione si diffonde la morte per septicemia è ineluttabile. Durante la Grande guerra l’unica soluzione era l’amputazione. La soluzione di ipoclorito di sodio messa a punto da Carrel e Dakin salvò molte vite e risparmiò tante amputazioni

Inoltre, nuove patologie si diffusero nella guerra di trincea:


  • Tifo petecchiale: caratterizzato da piccole lesioni emorragiche diffuse in tutto il corpo.


  • Febbre da trincea: causata dagli escrementi dei pidocchi che procurava febbre alta periodica e nevralgie acute che paralizzavano il soldato.


  • Piede da trincea: un insieme di lesioni gravi dovute al congelamento che poteva procurare la perdita dell’arto.


  • Shock da bombardamento: si manifestava con apatia, obnubilamento sensorio, perdita della congiunzione spaziotemporale. L’incapacità del soldato di eseguire gli ordini fu intesa come ammutinamento e punita. Solo in un secondo tempo si cominciò a parlare di trauma psichico.


  • Nevrosi di guerra: considerata a tutti gli effetti una malattia mentale che portava alla pazzia attraverso il delirio di persecuzione, l’amnesia, l’incapacità di sopprimere i ricordi.


  • Autolesionismo: per sfuggire al massacro molti soldati si procurarono ferite alla mano o a un piede, oppure si iniettavano sotto la pelle dei piedi, olio di vaselina, petrolio, essenza di trementina, rischiando di rimanere zoppi per tutta la vita.


La chirurgia plastica mosse i primi passi nella grande guerra: nacquero laboratori specializzati, a metà fra studio medico e atelier artistici, per ridare una fisionomia ai soldati deturpati realizzando maschere facciali. Come quello dell’inglese Francis Derwent Wood (1871-1926; sul Lancet del 23 giugno 1917:949-51 Wood ebbe a scrivere: “Il mio lavoro inizia dove si completa il lavoro del chirurgo”) o dell’americana Anna Coleman Ladd (1878-1939), che operava a Parigi. Totalmente differente era però ricostruire chirurgicamente se non i tratti almeno l’epidermide: uno dei primi fu Harold Gillies (1882-1960), neozelandese di nascita che allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò nel Royal Army Medical Corps , considerato uno dei padri della chirurgia plastica. Nell’ospedale di Sidcup , nel Kent, ove operava, durante la guerra e negli anni successivi migliaia di soldati sfigurati vennero ricoverati per essere curati e ritrovare un’identità.


Per quanto riguarda l’Italia, il Giornale di medicina militare, ricordando il grande conflitto (maggio 2015), rammenta che all’entrata in guerra la Croce Rossa italiana militarizzò immediatamente il suo personale, forte di 9500 infermieri e 1200 medici, con 209 apparati logistici tra ospedali territoriali, attendamenti, autoambulanze e treni ospedale. Nel 1916 i medici militari in zona di guerra erano circa 8 mila e altri 6 mila operavano nelle retrovie; nel 1918 toccarono quota 18 mila. Per contro, l’esercito entrò in guerra con 770 ufficiali medici in servizio effettivo; nel ’16 vennero chiamati in servizio, col grado di aspirante ufficiale medico, gli studenti dell’ultimo biennio di medicina (per approfondire, si veda, Ferrajoli F.Il servizio sanitario militare nella guerra 1915- 1918 . Giornale di medicina militare. Nov-dic. 1968), oltre a un considerevole numero di soldati-infermieri.



S.M. IIIE