La novia

(Scoraggiando)

 

Il brano fa parte del filone di satira (lo vogliamo dire? diciamolo) religiosa, filone intensamente popolato da brani di ispirazione clerical-papale (Fragolone DJ, Unisex, Gennarino Primo), evangelico (Al traditore), o addirittura biblico (La ricreazione). Come fustigatori di costumi gli Squallor non la mandavano a dire a nessuno, ma va detto che, se i costumi sono tonache, si coglie nei nostri una vena particolarmente ispirata.

Il pretesto del brano è una confessione, che oseremmo definire sui generis fin dall’inizio: il suono di campane che introduce l’atmofera viene interpretato dal penitente Cerruti come un campanello (e ben più strani campanelli abbiamo sentito in altre occasioni: trilli, fischi e svariate sirene di Kojak) tanto da fargli chiedere con stupore: “Chi ha bussato?” E non potendo trattarsi di lui stesso, unico attore della scena, egli rimane evidentemente disorientato: quando il reverendo Pace lo invita a venire avanti, Cerruti si lamenta proprio di non avere ancora bussato. Volendo dare credito ad un’interpretazione letterale del testo, possiamo supporre che la chiesa disponga, come molti esercizi commerciali (più avanti il paragone si dimostrerà poco irriverente) di una cellula fotoelettrica che, al passaggio del cliente… pardon: fedele, provoca l’emissione di un suono che, nel contesto, altro non può essere che campanario.

 

Il rito penitenziale entra subito nel vivo con una serie di domande incalzanti e intime quanto basta a far esclamare al fedele: “Eh, ma lei, Padre, è curioso, scusi!“. Ma il confessore non demorde: dopo le prime domande di rito (appunto), comincia addirittura a suggerire i peccati di cui dichiararsi implicitamente colpevole (“Quante volte hai rubato il vino nella sacrestia?“). Le professioni di scarsa frequentazione et alcolica et parrocchiale, non bastano come alibi per l’incriminato penitente che, tuttavia, resta indiziato quando ammette la sua indigenza e confessa di non poter peccare nella solitudine della propria stanza, non disponendo, ahilui, di alcuna stanza bensì della sola solitudine (chè l’allitterazione è sempre grata).

 

Ma ecco che accade l’imprevisto: con un anticipo di due anni sul Dottor Palmito, in cui la repentina variazione di base musicale portava il dottore ad alternare consulenze professionali con sfrenate esibizioni di samba e sesso, anche in questo caso la base subisce un mutamento cui il protagonista reagisce con un subitaneo cambio di personalità.  Rispetto al Palmito: minore la variazione di base (un trionfale coro di Ave Maria con contorno di campane), minore la deviazione schizofrenica del protagonista: il prete levita sul pulpito e dà la stura ad un sermone dai toni ingiustificatamente aulici (“E VENNE UN UOMO…”) visto il pubblico assai ristretto – il solo penitente. Inutilmente il peccatore Cerruti cerca di far ritornare in sé il prete (o quanto meno di farlo tornare giù: “Ma padre…padre, io sto qui….io sono qui sotto!”): sarà solo la fine dell’inciso trionfale a far tornare con i piedi per terra il prelato che, peraltro, è conscio di essere andato sopra le righe (“E’ un vizio”).

Gli è che dopo tanta pompa è difficile rientrare nell’angusto contesto di una confessione, né allo scopo possono servire citazioni di allegorie zoologiche (“Hai sentito la parabola delle pecorelle di S.Pietro? Quella del bue e dell’asinello?”). E sì che il peccatore avrebbe tanto da dire (“Padre, io sono venuto qui per confessare un delitto”). Ma padre Pace è ormai preda della frenesia paratelevisiva e promozionale (“Lo sentiremo dopo….dopo l’Ave Maria del coro”) effetto, forse, di generose sponsorizzazioni che consentono alla parrocchia uno “sfarzo” inatteso dall’ingenuo penitente.

 

E, con metronomica precisione, si ripete il fenomeno: il prete si ripulpita (“E VENNE UN UOMO…”) e il fedele stavolta se ne lamenta (“Ancora, n’altra volta i gobbi…Ma io non ho mai visto un padre così gasato!”) anche perché si scopre che il rapporto non è del tutto disinteressato (“Eh, ma scusi, ma io ho pagato”): sfarzo e cori costano ed, evidentemente, l’obolo domenicale non è sufficiente. Si scopre, pensate, che l’imprevisto lusso è reso possibile da un’accorta politica di regolamento degli accessi al sacro edificio (“Biglietti…biglietti…”).

 

La trance del sacerdote dura quanto basta per tentare i nostri ad una digressione pecoreccia, e stavolta San Pietro non c’entra (“Vieni un po’ più vicino”). Solo l’approssimarsi del termine della trance, forse, o l’inopportunità della situazione frena la coppia (“Ancora padre? Ma qua è un concubino”) e scongiura la classica risoluzione a base di amplesso, opportuna invece nei successivi Torre Annunziata e La Guerra dei Vini.

Rientrato in sé, il confessore torna ad un’indagine penitenziale quantitativa (“Quante volte…”) così incalzante e pressante da far dare al penitente letteralmente i numeri, se non le lettere, in un’improvvisata e grossolana totokabbalah  (“X…1” -  “E che fai, la schedina mò?”) .

Diciamoci la verità: la confessione è venuta una schifezza, ma probabilmente il pagamento dell’indulgenza è ritenuto adeguato da don Pace che, ad un preoccupato Cerruti  (“Sia cauto, padre”), assegna una penitenza (“Dì tre Ave Maria”, non bastassero quelle del coro) tutto sommato lieve ma comunque ritenuta esagerata dal credente-non-praticante che, oltretutto, dimostra scarsa dimestichezza con le tempistiche di una pena che proprio non riesce a digerire (“Falle prima della comunione” - “E dopo che faccio, prendo un alkaseltzer?”).

 

Nelle intenzioni il finale è già scritto e, probabilmente, deboluccio: padre Pace dovrebbe congedare Cerruti con generosa accoglienza (“La chiesa è come una casa!”) e questi che, come precedente affermato, non possiede neanche una stanza, dovrebbe trovare in questo invito soluzione ai suoi problemi di dimora (“Allora io mi porto il materasso, che mi cocco qui”).

Se non che, vuoi perché la base è quasi arrivata al termine cogliendo, al solito, impreparati i protagonisti, vuoi forse per una generosa razione di whisky propedeutico, vuoi per un’improvvida amnesia, (vuoi una centomilalire?), Pace dimentica la frase finale ed è Cerruti che deve suggerirgliela in un malcelato bisbiglio. Questo causa uno slittamento dei tempi che, quando Pace tenta di riprendere il controllo della situazione, fa sì che la base termini di colpo e le ultime frasi rimbombino in una chiesa ormai priva di coro e, dunque, di testimoni per l’ultima piccola e inconfessata bugia del peccatore: a quanto pare, infatti, questi non possedeva neanche la solitudine millantata all’inizio del rito penitenziale.

Ma se la chiesa deve essere casa, non può esserlo solo per i fedeli ma anche per le loro indigenti famiglie che, dunque, ivi possono trovare insperato asilo (“Ragazzi entrate, che qua ci’amme truate ‘na bella casa”).

 

Insomma: domus Domini.

L’avevamo detto che qua si allitterava…



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