La magia del faggio

LA MAGIA DEL FAGGIO

narrazione itinerante tra musica e natura

di e con Jessica Lombardi e Gianni Micheli

Liberamente tratto da Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, VIII, 618-724

Dedicato al grande faggio ai piedi del Sasso di Simone

«Immensa e senza limiti è la potenza del cielo, e qualunque cosa gli dèi vogliano, si compie» (Ovidio). E vollero, gli dèi, che un faggio fosse la dimora eterna dell’amore, della serenità, dell’umiltà e dell’accoglienza. Un faggio longevo, dal tronco robusto, carico di anni e di storia, frutto della fedeltà e dell’ospitalità di una coppia di sposi. Erano, questi, Filemone e Bauci, poveri eppure lieti, devoti e innamorati, maestri del dono della condivisione, degli averi come dei sentimenti. Fu a loro dato d’incontrare gli dèi, Giove e Mercurio, in veste umana, ed essi seppero, unici fra i mortali, offrirgli tutto quel che avevano. Meravigliati, gli dèi promisero d’esaudire ogni loro desidero ma Filemone e Bauci non chiesero altro che di morire, così come avevano vissuto, insieme ed in uno stesso istante. Onorati dagli dèi, nel tempo della loro morte, si cangiarono dunque in quel faggio, in un medesimo tempo, perenni custodi dell’amore, della benevolenza e della fedeltà.

La magia del faggioNarrato da Ovidio nelle Metamorfosi il mito di Baucis e Philemon è una di quelle storie che, come l’albero in cui si è incarnato - nel racconto originale un tiglio e una quercia -, non avrà mai modo di invecchiare almeno finché vi saranno pellegrini per il mondo a chiedere accoglienza e case col fuoco acceso per proteggere i propri ospiti dall’inverno.

Nella versione proposta il racconto si fa itinerario di viaggio e di ascolto in cerca delle radici “magiche del faggio”, le radici dell’amore eterno tra Filemone e Bauci ma anche tra la coppia degli esseri umani e quella degli dèi: la fedeltà, il rispetto, l’accoglienza, l’umiltà, la serenità. Radici ricercate con la voce e con l’aiuto timbrico e melodico di strumenti musicali antichi e moderni, come la piva e il sassofono o i flauti evocativi d’atmosfere pastose e mediterranee.

Viaggio e narrazione, dunque, come intrusione nel mito, nella favola che non s’appanna col tempo, in cerca di un dialogo tra l’uomo e il suo simile e tra l’uomo e la divinità.

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Lo spettacolo La magia del faggio è particolarmente adatto ad essere rappresentato in ambienti immersi nella natura ed in orari insoliti quali alba e tramonto. Il numero di spettatori deve essere limitato all'ambiente prescelto per la rappresentazione che può strutturarsi anche in forma itinerante.

La magia del faggio ha debuttato il 9 agosto 2009 all'iterno della Riserva Naturale del Sasso di Simone (AR) con partenza dal Rifugio Casa del Re.

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Anno 2009

9 agosto 2009. Sono le 3.00 del mattino e riesco ad alzarmi senza problemi. D’altronde non ho dormito. Pur disteso è dalla mezzanotte che non chiudo occhio. Soffro il caldo e sento ogni rumore. Cerco d’assopirmi ripassando a memoria il copione. Le parole mi cadono in testa come gocce sull’asfalto torrido, ed evaporano in un attimo. Degli almeno cinque inizi che ricordo penso di non essere andato avanti più di due, forse tre pagine, poi la distrazione. L’ansia. Un sorriso per la bella cena, ricca di racconti e di ricordi come di buon vino e ottimo cibo - un pepato da lasciarci il fiato! Un grazie a Lara, madrina del Rifugio Casa del Re, e alla sua sempre calorosa ospitalità. Ma perché il tempo non si fa piccolo piccolo, e non scorre più in fretta? Alle 3.00 non resisto e mi metto seduto sul letto. D’altronde la sveglia è per le 3.15, non ho perso granché. Anche Jessica è sveglia. Così Alessandro. Una breve sosta in bagno, una passata sui capelli ritti e sulla barba, che dorme, le torce in mano, il maglione sulle spalle e via, al piano di sotto, per il caffè e la marcia tanto attesa.

In cucina Paolo, padrino del Rifugio, ci accoglie con il suo sorriso. Come promesso è lì a prepararci il caffè ma le sue parole tradiscono la sua perplessità: il cielo è coperto, pare che ci siano dei lampi. Forse erano i fari di una macchina, ma forse no. Col buio non riesce a capire i movimenti del cielo e scuote il capo. Ci affrettiamo ad uscire. L’aria è fresca e profumata ed il cielo imbronciato. La luna piena traspare tra fitte masse nuvolose. Ci invade subito un’angoscia carica di punti interrogativi.

Innanzitutto lo spettacolo: è all’aperto, sotto il faggio secolare ai piedi del Sasso di Simone - pensato e scritto per lui -, e la pioggia può mandarlo a picco. Poi gli strumenti musicali che abbiamo portato al Sasso da poche ore, in una prima camminata esplorativa dell’ambiente e dello spazio scenico, per non doverceli caricare sulle spalle nella lunga marcia notturna che ci aspetta - circa un’ora, nel bosco, dal Rifugio Casa del Re ai piedi del Sasso. Gli strumenti musicali e gli attrezzi scenici sono in una tenda, protetti, certo, eppure in una piccola tenda piantata a oltre duemila metri d’altezza, e non sono con noi e qualunque cosa accada, se noi non faremo in tempo ad essere lì, saranno esposti ai capricci del mondo, e dovremo solo confidare nella bontà di chi se li troverà a fianco, sperando che si ricordi di loro. Un brivido! Infine la marcia nel bosco, nella notte, non consigliabile con la pioggia. E ancora l’argilla che sorregge il Sasso che, a detta di chi la conosce, con la pioggia diventa sapone e impedisce a chiunque, piede, scarpa o ruota di fuoristrada, di salire e scendere. La pioggia potrebbe dunque prenderci anche nel bel mezzo della camminata impedendoci così di procedere oltre e di tornare indietro, o tornare rotolando come sassi del Sasso. E ammesso il grande acquazzone, ammesso l’annullamento dello spettacolo, chi riporterà al Rifugio gli strumenti musicali? E come ci arriveranno se i fuoristrada non riusciranno a scendere - e che strada abbiamo fatto per salire!…? Nuovo brivido.

Prendiamo il caffè e cambiamo i nostri piani. Avevamo intenzione di incamminarci da soli verso il Sasso per essere sulla “scena”, pronti, all’arrivo dell’alba e degli spettatori. Ci eravamo dati mezzora di vantaggio per raggiungere gli strumenti musicali, cambiarci d’abito, allestire la scena e respirare l’aria della notte. Ma lampi come flash fotografano il cielo, i telefoni squillano, dalla sommità del Sasso i campeggiatori che vi hanno passato la notte in vista della grande festa al Sasso della seconda domenica di agosto dicono che forse pioverà e incerti attendiamo la decisione di Paolo, guida e maestro di sentieri, insieme ai quasi venti spettatori che man mano si presentano all’aperto, preparati di tutto punto: zaini, torce, racchette e thermos.

Sono le 4.20 quando Paolo domanda ad ognuno di noi cosa vogliamo fare. Ci informa delle difficoltà che potrebbero verificarsi in caso di pioggia e vuole che ciascuno ne sia al corrente. I visitatori, ormai svegli, pronti a tutto, arrivati al Rifugio solo per quella camminata nella notte - va bene, anche per lo spettacolo, ma soprattutto per la camminata -, dicono: andiamo! Noi artisti possiamo invece scegliere. È lo spettacolo che ci interessa. È la possibilità o meno di salvare gli strumenti, alcuni delicatissimi, dall’acqua. E se il temporale ci coglie nel bel mezzo dello spettacolo, lontano da qualsiasi tetto? Come facciamo? E Jessica, con il suo collare, come farà? Due brividi: uno per ogni braccio.

Ci guardiamo, ci interroghiamo con gli occhi. Abbiamo fatto tanto, abbiamo scritto, studiato, provato, mandato a memoria… per nulla? Che diamine: sì, va bene, facciamolo!

Si parte. Alle 4.40 circa, con il chiarore lunare, la comitiva si mette in marcia. Fa un fresco leggero ma Paolo ci avverte di non coprirci troppo. Meglio un po’ di fresco che stare bene al caldo, ora, quando poi, marciando, il corpo comincerà a scaldarsi autonomamente e a sudare ed allora sarà impossibile scoprirsi per non prendere un qualche malanno e toccherà arrivare in cima al Sasso indossando magliette imbevute di sudore. Nel caso meglio portare anche una maglia di ricambio nello zaino. Seguo il suo consiglio e m’incammino sul sentiero con la sola maglia - il mio ricambio sarà il costume di scena - ma la notte pian piano si fa calda e ci dà piacere. Allacciato in vita ho un impermeabile e tra le mani l’ombrello. Cammino, annusando il terreno, e spero ad ogni passo di non dover usare né il primo né il secondo, se non per aiutarmi sul sentiero, non prima, almeno, che si sia fatto giorno e si siano decise le nostre sorti.

Che meraviglia questo bosco di notte, ad occhi nudi! I calanchi brillano di luna e i nostri passi scricchiolano come croste di pane. Qualcuno prova ad accendere la torcia ma subito, per un piccolo, piccolissimo, mondo illuminato, tutto un universo sprofonda nel buio, come impaurito, ed emergono ombre imponenti, drammatiche, inquiete. Al di là della luce si fa il nero denso di spettri. «Spegnete le torce… - chiede Paolo - e sentite come i piedi diventano i vostri occhi». Ha ragione. A torce spente le ombre s’attenuano, i sentieri si ricompongono, il buio non fa paura. E sembriamo caprioli in una lenta e feconda migrazione. «State sicuri che gli unici animali presenti nel bosco, stanotte, siamo noi!» narra la voce tranquillizzante di Paolo. E non perché non ci siano, gli animali. Ma perché non c’è specie più feroce dell’uomo, e quaranta piedi che smuovono la terra, e ansimano, e parlano, e ridono, sono un segnale di pericolo per qualsiasi animale abbia a cuore la propria vita.

Giunti ad un terzo dalla cima noi artisti decidiamo di accelerare il passo. Arrivare insieme al gruppo vorrebbe dire farli attendere troppo per lo spettacolo, a rischio di non riuscire a fermarli al faggio, tanta è la voglia, in tutti, d’arrivare fin sopra il Sasso. E così io, Jessica e Alessandro ci ritroviamo soli, nella notte di questo lembo di provincia Toscana ornato da ottocento capi di maestose vacche di chianina che lasciano ricordi per le scarpe di oltre venti centimetri di diametro - «Che importa… - dice Paolo - è pur sempre erba».

Saliamo e il cielo è ancora plumbeo ma verso oriente s’apre, come a lasciar correre i colori dell’alba, e a farli sgocciolare su una linea lunga tutto l’orizzonte, come sul bordo d’una tavola apparecchiata. Camminiamo veloci lungo la strada maestra a cui ormai ci siamo ricongiunti, il gruppo è lontano ma i nostri occhi sono tutti per le colline dell’est imbevute d’arancio.

Vediamo il faggio! Fantastico, ma ora abbiamo a cuore solo la nostra esibizione. Lo superiamo, raggiungiamo i nostri strumenti musicali, al sicuro in una piccola tenda, custoditi dal sonno di Marta, della Pro Loco, maestra delle cerimonie festive. Tiriamo un sospiro di sollievo, la ringraziamo, silenziosamente, ci cambiamo alla penombra, in un tavolo che ancora porta il sapore della carne cotta alla brace e del vino rosso, e torniamo al faggio che sarà la nostra quinta naturale. Non passano che pochi minuti, un battito d’ali, e i nostri spettatori ci raggiungono mentre altri emergono dalla strada, provenienti dal campeggio - forse siamo stati proprio noi a svegliarli, o forse non sono ancora andati a dormire -, assonnati ma desiderosi di godersi ogni momento di questa avventura in cima al Sasso di cui si sentono padri e figli. Si siedono su un piccolo bordo semicircolare alle radici dell’albero imponente, il riccio di un anfiteatro naturale, qualcuno si sdraia, le mani raccolte dietro la testa, posano gli zaini, e i loro visi sanno di piacere e di soddisfazione. E di un’intima gioia. Iniziamo.

Recitare così, sotto le colonne del cielo, con il sole gran spettatore seduto ad origliare alla linea degli occhi, dà una strana vertigine. Nominavo Giove e me ne sentivo partecipe, come uno dei tanti discendenti di questa stirpe d’anime in pena che ha desiderato dare un nome e un volto ai sibili del vento sperando di indurre vento, Giove o chi per lui alla compassione.

Risuonava la piva emiliana, il manto del faggio si colorava d’iridescenze, e la mia voce usciva pulita, sonora, come riverberata dal Sasso in un equilibrio acustico che mai avrei immaginato. E narrando ero nel sogno d’ogni viandante e d’ogni pellegrino, dell’infrangere il silenzio colmandolo di parole, lì dove sono più difficili e rare, e d’urlare e ridere e piangere e cantare a voce alta, senza inibizioni, solleticando la vetta della Terra. Raro privilegio consentito ai pazzi e agli artisti.

Recitiamo, cantiamo, suoniamo e mangiamo, ristorandoci con una colazione di torta e caffè, mentre poche gocce di pioggia, tardive, ci danno il benvenuto. Il faggio ci conforta, l’alba di questo nuovo giorno ha aperto le porte del mondo e tra applausi e sorrisi gli spettatori si rimettono in marcia per raggiungere la vetta del Sasso e dichiarare la loro volontà.

Io siedo, spaesato, e mentre una porzione di felicità prende il posto dell’ansia e dell’attesa, della fatica e degli scongiuri, sento finalmente d’aver cancellato, limata contro il sasso, smarrita per la via, ogni crepa di paura. E di malinconia.