Il quarto episodio è realizzato in forma disticomitica: in Euripide, spesso, la forma disticomitica è usata per caratterizzare il dialogo serrato fra due personaggi in accordo fra loro. E infatti in questo episodio Penteo e lo Straniero hanno messo da parte l'ostilità precedente, intorno ad un nuovo progetto comune (che tuttavia è perseguito con scopi diversi da Penteo e dallo Straniero): è dunque - secondo Vincenzo DI Benedetto - una disticomitia 'maligna', ambigua.
L'episodio si incentra sulla dequalificazione e degradazione di Penteo che, addobbato con abiti femminili, esce dalla reggia. Lo spettatore vede l'umiliazione del personaggio, inconsapevole, e ne prova acuta pena. Penteo chiede continuamente conferma allo Straniero dell'adeguatezza del suo nuovo mutato aspetto, convogliando l'attenzione dello spettatore sui particolari dell'addobbo: i capelli, l'abito, il portamento. L'effetto sarebbe comico, se non fosse che l'insistita ridicolizzazione di Penteo suscita la pietà dello spettatore e la condanna della spietatezza del dio.
Successivamente, Penteo comincia ad avere visioni e allucinazioni: vede "due soli", una doppia Tebe, e lo Straniero sotto forma di toro. Si sente in grado si sradicare il Citerone con le sue braccia, si sente un adepto del dio e crede di averne la forza miracolosa. Ma nulla di tutto ciò è vero: l'abito femminile non rende Penteo una baccante.
Tutto l'episodio è giocato sul tema dell'ambiguità: il destinatario di messaggi malauguranti e negativi disinnesca la minaccia, interpretando in modo a lui favorevole le parole che gli vengono rivolte, ignorando l'intenzione malvagia e luttuosa con cui erano state pronunciate.