Baccanti è una tragedia altamente tragica (a differenza di molte tragedie di Euripide, accusate di esserlo poco). Euripide la compone in vecchiaia avanzata, poco dopo muore, e a metterla in scena sarà il figlio. Da anni il poeta non sta più ad Atene, dove non lo amano e non dànno quasi mai la vittoria alle sue tragedie. Vive in una terra mezza barbara, a Pella in Macedonia, alla corte di un re; dunque, lontanissimo dal clima culturale e dallo stile di vita ateniese.
Per alcuni anni Euripide ha provato a fare della tragedia, come genere teatrale, qualcosa di diverso: a togliere il troppo pianto, il troppo lutto, i suicidi e a incentrare lo spettacolo sull'intrigo, sui personaggi. Ha provato a forzare la rigidità della tragedia, la limitatezza della scena, la presenza continua del Coro, e a immettere nel mito temi nuovi, contemporanei.
Poi, negli ultimi anni, una svolta repentina: contrordine! si torna all'origine, si torna ad Eschilo, cioè alla tragedia-tragedia.
Baccanti è frutto di questo ripensamento, anzi di questa rinuncia a 'risolvere' i problemi che avevano tormentato la sua carriera di tragediografo, rinuncia a comporre le dissonanze e i contrasti, a trovare una saggezza superiore ed equilibrata, una pacificazione con sé stesso e col pubblico.
Nelle Baccanti, infatti, tutti i problemi sono sul tavolo; anzi sulla scena. C'è il problema di una cultura troppo elitaria che ha perso il contatto con il vivere semplice e tradizionale; c'è il rancore di chi è escluso da questa cultura elitaria; c'è il problema della vecchiaia che rende ridicola l'emotività, c'è l'emotività incontrollabile che si esprime nella musica e nella danza, c'è l'ansia di conoscere; c'è il rischio di una conoscenza passiva, teorica, 'alla finestra' (su un pino, per la verità); c'è la violenza primordiale, inspiegabile e inspiegata; c'è infine l'inganno e la menzogna della seduzione.
C'è tutto ciò e niente si compone in una visione unitaria.
Penteo esprime per molti versi la cultura elitaria, atea, razionalistica, che diffida delle emozioni, che percepisce come rumore la musica martellante e tellurica delle Baccanti, le seguaci del di Dioniso che si sono impossessate, al seguito di uno Straniero, degli spazi fisici e acustici della città, Tebe.
Quando ha un fitto dialogo con lo Straniero lo spettatore parteggia per lo Straniero.
[lo Straniero già mente - lo spettatore lo sa - perché egli non è proprio uno straniero e non non è capitato per caso a Tebe: ha dei motivi di risentimento nei confronti di Penteo, si sente disprezzato da lui perché lo straniero è Dioniso; è il dio in persona. Un dio misconosciuto da Penteo. Di più: a Tebe è la tomba di sua madre, Semele. Quella Semele incompresa dalle sue sorelle, le figlie di Cadmo (che non hanno mai creduto alla sua relazione con Zeus e quindi alla natura divina di Dioniso). Quelle figlie di Cadmo fra cui c’è Agave, la madre di Penteo, il re di Tebe. Quell’anziano Cadmo, di cui Penteo è l’erede, il bastone della vecchiaia ... ma Penteo non sa nulla di tutto ciò.]
Penteo appare sessuofobo, rigido, arrogante; lo Straniero è invece rilassato, misterioso, bello e sicuro di sé. Non oppone resistenza a Penteo che lo fa arrestare: è una specie di Jesus Christ Superstar davanti ai suoi accusatori (e infatti il Christus Patiens, un dramma sulla passione di Cristo scritto da Gregorio di Nazianzo attinge a piena mani nelle Baccanti e ne copia-incolla molti versi) e le baccanti sono i suoi scalmanati apostoli.
I due entrano nell'edificio-prigione (le stalle del palazzo), il Coro esegue il suo pezzo di canto e danza. Ma qualcosa di terribile accade: una voce extrascenica - la voce del dio, di Dioniso - invoca il terremoto: ed ecco il terremoto, poi un incendio, le strutture sceniche tremano; il Coro si butta a terra, prostrato: è un momento di grande confusione, di concitazione, di emotività...
Ma quando lo Straniero riappare sulla scena quello che racconta è terribile: mentre lo spettatore vedeva ciò che accadeva sulla scena, nell'orchestra, ora lo Straniero racconta cosa accedeva dentro, nelle stalle.
Penteo dunque voleva legare lo Straniero: lo considera pericoloso - è lo Straniero a raccontare - pensa di legarlo ma in realtà non lo tocca; questi si trasforma in toro, si sdoppia. La tranquillità di prima ora nello Straniero si è trasformata in sadica freddezza; seduto, guarda Penteo affannarsi nel tentativo di legarlo; intanto il terremoto scuote la casa, poi scoppia l'incendio...Penteo pensa che la casa stia andando a fuoco e cerca di spegnerlo, accorrendo invano da un lato all’altro, poi crede di vedere lo Straniero nel cortile di casa, si precipita con la spada per ucciderlo ma riesce solo a trafiggere l’aria: lo Straniero che ha visto è un fantasma, un doppio.
Penteo sperimenta una fase di totale confusione, di smarrimento di ogni punto di riferimento, di illusione di realtà: tutto è in frantumi...
Penteo è stremato dalla fatica.
Ora lo spettatore è costretto a cambiare il suo punto di vista: il freddo e divertito distacco del racconto dello Straniero ce lo rende insopportabile; per contro, il panico di Penteo ci è familiare. Facciamo fatica a ricordarci che se lo è meritato.
La 'compassione' che cominciamo a provare nei confronti di Penteo non è casuale. Se confusione ed emotività deve esserci, essa deve coinvolgere lo spettatore: Euripide vuole confondere anche noi che guardiamo (o noi che leggiamo). Eravamo contro Penteo ora siamo dalla sua parte.
Lo guardiamo andare incontro alla sua distruzione. Inconsapevole.
Non sa che sta ‘giocando’ contro un dio instabile, ingannatore, bugiardo e contro un uomo adirato, risentito. Non sa che la sua - di Penteo - distruzione è lo scopo del gioco, di essere stato manovrato e manipolato senza scrupoli. Non sa che la sua distruzione è un pezzetto della distruzione di Agave, sua madre; e di Cadmo, suo nonno. Un pezzetto della distruzione di una famiglia che ha rifiutato Dioniso e che non ne piange la madre morta, Semele. In difesa di Semele accade tutto ciò...
Letto come un conflitto familiare, le Baccanti sono l'auto-distruzione della famiglia che non è stata capace - per eccesso di razionalità - di integrare Semele e il suo strano figlio di padre divino.
Ma siccome Dioniso non è solo figlio e nipote, le Baccanti sono anche altro.
Infatti Penteo non è sconfitto come gli eroi del mito, combattendo. Anzi, è precisamente questa possibilità di combattere che gli è negata. La sua spada fende l'aria. Il nemico è cento volte più subdolo. Agisce da dentro, dentro la psiche di Penteo. La scompone, fa venire a galla la sua irrazionalità, le sue paure, i suoi desideri più ancestrali e inconfessabili. Penteo è giocato.
Penteo dunque impazzisce. E chiama salute la sua follia.
Lo spettatore è deluso: immaginava qualcosa di diverso, immaginava che Penteo si sarebbe convertito all'emozione dionisiaca; oppure che Dioniso avrebbe trionfato senza inganno e menzogna (come Gesù, davvero).
Non può immedesimarsi.
Non può avvenire la catarsi. Anche il Coro è deluso: ha invocato spesso Dioniso, ma ne ha udito soltanto la voce. Non ha mai dialogato col dio; solo con lo Straniero (di cui il Coro non conosce la vera identità).
E questo è il lascito di Euripide: lo spettatore deve essere deluso. Guardare non basta. Penteo si era illuso che dalla cima di un pino, nel bosco, travestito da donna, avrebbe potuto guardare lo spettacolo - pornografico - delle donne di Tebe dedite a festini orgiastici. Intatto e intoccabile. Come noi spettatori. Sui nostri divani, con i nostri schermi.
[Penteo sarà scoperto, tirato giù dal pino e fatto a pezzi, poiché quelle donne non facevano orge ma erano in preda alla follia inviata da dio. In punto di morte capirà le sue colpe - ma quali? - in ogni caso tardivamente]
Euripide ci dice che no. Quel pino non esiste. La realtà non è una scena e non c'è una platea. Un abito non fa di noi niente: restiamo quello che siamo, in abito di scena. Nessuno personaggio è noi: in ciascuno c'è solo un pezzo di noi. E dentro di noi ci sono pezzi scomposti. Ogni partita è truccata. Non c'è soluzione.
Anzi! l'unica soluzione è ex machina: il dio finalmente appare - dall'alto, con la macchina del volo - e con poche fredde parole spiega la vicenda e afferma la sua identità: sono un dio, mi avete oltraggiato, meritate ciò che vi è capitato...
Ogni soluzione è artificiale, provvisoria, insoddisfacente.
Gli Ateniesi devono aver capito. Infatti al poeta che mai avevano applaudito con convinzione, stavolta diedero la vittoria. Tardiva.
La tragedia antica era articolata in parti recitate e parti cantate: di norma, le parti recitate sono riservate ai personaggi, mentre quelle cantate al Coro, ma occasionalmente il portavoce del Coro (corifeo) può pronunciare delle battute recitate e, allo stesso modo, il personaggio può cantare un pezzo lirico, da solo (monodia) o dialogando con il Coro.
I canti corali del Coro dividono l’intera tragedia in diversi Episodi. Il primo canto del coro si chiama Parodo. Esso è preceduto da una scena recitata che si chiama Prologo. I successivi canti del Coro si chiamano Stasimi. Dopo l’ultimo canto del coro, la scena recitata si chiama Esodo.
I singoli episodi possono essere suddivisi in scene, se al suo interno cambia la composizione dei personaggi, cioè se qualcuno esce di scena o entra in scena.
In genere nel testo stampato sono già presenti queste indicazioni, ma per avere un quadro di insieme sull’articolazione della tragedia, si può usare una tabella in cui annotare i versi con cui ciascuna parte inizia e finisce e inserendo eventuali annotazioni su:
a) presenza/assenza della parte (parodo, prologo etc..)
b) suo sviluppo/lunghezza
c) per le parti corali: strofico, astrofico, dialogico
d) per gli episodi: scene
Prendi nota della struttura della tragedia individuando estensione e caratteristiche di Prologo, Parodo, episodi, stasimi, Esodo. Sono presenti monologhi? Come sono articolate le parti corali?
Come è giunto fino al noi il testo delle Baccanti? È una vicenda molto avventurosa! Approfondisci qui