Quando le campane di Forlì suonarono l’ora della Liberazione, il 9 novembre 1944, fu a un giovane ventitreenne appena sceso dall’Appennino tosco-emiliano, con i gradi di comandante di una brigata Gap e la tessera fresca di stampa del Partito socialista (Psiup, allora), che il Cln affidò la guida della Camera del Lavoro. Nome di battaglia: Boris Alberti. Ovvero, Luciano Lama. Sindacalista per caso: si può dire così?

Si può dire. Allora non conoscevo altro «mestiere» che quello di partigiano. Avevo preso la laurea in Scienze politiche all’Università di Firenze, clandestinamente. Ma certo, in quel momento, non pensavo né alla carriera diplomatica, il vecchio sogno di mio padre capostazione, né alle scienze naturali, che tanto mi affascinavano da ragazzo. Si ragionava giorno per giorno, con la sola preoccupazione della definitiva cacciata dei nazisti e la neutralizzazione delle ultime sacche fasciste. Liberata Forlì c’era il problema di ricostruire tutto il tessuto democratico della città: la prefettura, il municipio, il sindacato. Ai socialisti fu affidata la Carnera del Lavoro, e la scelta cadde su di me. Forse perché durante la Resistenza mi ero occupato dei rapporti tra il Cln e l’organizzazione clandestina che, nelle città e nelle campagne, preparava gli scioperi, i boicottaggi, le azioni di massa. Ma, francamente, del sindacato sapevo solo ciò che le pubblicazioni clandestine avevano scritto del Patto di Roma siglato il 9 giugno da comunisti, socialisti e cattolici. Quell’incarico, per me, aveva la valenza di una prosecuzione dell’attività partigiana, tant’è che continuavo a tenere il mitra.

Un mitra ma nessun ferro del mestiere sindacale. Come è avvenuto il passaggio all’organizzazione della nuova struttura sindacale: insomma, dal mitra al contratto?

E stata un’acquisizione rapida, anche se molto rozza e spontanea. Dovevamo far scomparire tutto ciò che in qualche modo richiamava il ventennio fascista, compresa l’associazione di fatto obbligatoria nei sindacati delle corporazioni. Questo fu compito facile. Ci fu un’ondata di adesioni al sindacato: a Forlì ne contammo presto centotrentamila. Venivano al sindacato unitario, che era immediatamente vissuto come il contrario dei sindacati fascisti, e questo fenomeno di massa costituiva naturalmente l’estensione della partecipazione popolare alla Resistenza. Venivano con le loro speranze. E con bisogni drammatici: questo diventò subito il compito più gravoso. Non esistevano, allora, le organizzazioni di categoria. La Camera del Lavoro doveva abbracciare e mediare interessi diversi: dell’operaio come del contadino.

(...)

Il sindacato, comunque, era pur sempre espressione dei partiti che formavano il Cln. Tu stesso avevi avuto l’incarico di guidare la Camera del Lavoro perché socialista. Cosa avvenne quando decidesti di passare al Partito comunista? E, in particolare, come maturò quella scelta?

Nel Partito socialista facevo parte della corrente fusionista, diretta da Oreste Lizzadri, con appena il tre per cento dei voti. Il nostro obiettivo era, appunto, la fusione tra comunisti e socialisti per affermare l’egemonia della sinistra, tanto più dopo che gli italiani avevano spazzato via, con il referendum, anche la monarchia. Ma al primo Congresso socialista, a Firenze, nel 1946, l’ala destra del partito ebbe il sopravvento, fino a imporre come segretario Ivan Matteo Lombardo, che non era nemmeno presente (si trovava negli Stati Uniti) e che nessuno conosceva. Chiesi la parola per protestare. Me la negarono. Io non avevo il diritto di parlare! E un uomo che se ne stava in America poteva accaparrarsi la Segreteria del partito! Il microfono dovettero strapparmelo di mano. Ero indignato. Tornato a Forlì scrissi una lettera di dimissioni e chiesi la tessera al Pci. Al sindacato non cambiò niente, anche perché la federazione socialista di Forlì era diretta da Tolloy, che era uno degli esponenti della corrente fusionista. Non solo comprese il mio gesto, ma pubblicò anche la lettera di dimissioni. Le frizioni arrivarono più tardi; alla Camera del Lavoro di Forlì e in tutta la Cgil, come proiezione dei contrasti tra i partiti che formavano il Governo di unità nazionale.

L. Lama, Cari compagni (a cura di P. Cascella).








"Se non la smetti di sobillare i contadini ci rimetti la pelle", «La Lotta», luglio 1945 (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della Provincia Forlì-Cesena)



Lama parla per la prima volta in Piazza Saffi, Forlì 9 agosto 1945 (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della Provincia Forlì-Cesena)




Lama interviene alla Assemblea consiliare, Forlì 1947 (Archivio storico CGIL nazionale)



Dal 28 al 30 aprile 1947 si tiene al Teatro Esperia di Forlì l’ultimo Congresso unitario della Camera del lavoro. Viene eletto il nuovo Esecutivo sempre guidato da Luciano Lama. Fra i documenti più importanti votati dal Congresso la Carta della lavoratrice (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della Provincia Forlì-Cesena)



Con i dirigenti della Camera del lavoro di Forlì: Quinto Bucci, Eligio Lucchi, Berto Alberti (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della Provincia Forlì-Cesena)








In partenza per Roma Lama saluta i compagni forlivesi, «La Lotta», 26 luglio 1947 (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della Provincia Forlì-Cesena)