Al Congresso di Bari




Relazione introduttiva all'VIII Congresso nazionale della Cgil, Bari 2-7 luglio 1973



(...) Noi vogliamo impegnare il meglio delle nostre forze e tutti i lavoratori in una politica realistica e incisiva di trasformazione sociale che cambi il volto dell'Italia. E sappiamo che per questa politica c'è bisogno dell'unità.

(...)


La proposta politica: per una nuova politica economica e sociale


La nostra risposta a questo interrogativo è la proposta politica che abbiamo elaborato per questo Congresso. Come voi sapete si tratta di linea politica di sviluppo economico – sociale, alternativa a quella che ha caratterizzato il ventennio passato. Il carattere alternativo della nostra proposta consiste nel fatto che essa vuole impegnare tutte le forze dei lavoratori e i ceti sociali per una politica di occupazione e di sviluppo nel Mezzogiorno fondata su riforme delle strutture rivolte a incentivare i consumi collettivi, ad estendere i servizi sociali essenziali, per una vita civile, a migliorare – in sostanza – come si dice oggi, la qualità della vita.

Tutto ciò è impossibile col vecchio meccanismo di sviluppo; tutto ciò è impossibile quando ci si proponga come obiettivo il puro aumento dei profitti aziendali; tutto ciò è impossibile se non si punta a un generale impiego delle risorse umane e materiali che accresca la produttività sociale al livello globale della società italiana.

In questo quadro di utilizzazione complessiva delle risorse assumono particolare rilievo i contenuti della nostra proposta politica che riguarda i problemi dell'occupazione, del Mezzogiorno, dell'agricoltura e delle riforme sociali.

Nella nostra proposta, questi grandi problemi non sono visti come una sommatoria di rivendicazioni specifiche slegate le une dalle altre. Nè gli obiettivi sono in nessun modo sovrapposti artificiosamente, o peggio contrapposti agli obiettivi dell'azione rivendicativa nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro delle città e delle campagne. E' proprio lo stretto intreccio e la profonda interconnessione fra questi obiettivi nel luogo di lavoro e nella società, che fanno della nostra proposta un disegno e una linea organici. E' proprio per la piena consapevolezza delle acute contraddizioni che si sono aperte e si aprono con la nostra azione quotidiana rivendicativa e con i successi strappati dal sindacato nei luoghi di lavoro che si fa “proposta” una soluzione all'esterno della fabbrica, sul piano della politica economica, come condizione perché quelle rivendicazioni e quelle lotte non siano mortificate e vanificate,, isolate e battute. E' proprio per la coscienza del ruolo democratico e nazionale della classe operaia, interprete delle esigenze di crescita e di sviluppo di tutta la società, che le lotte unitarie, per uno sbocco un collegamento organici sul piano della politica di sviluppo, si fanno “proposta” politica. Mezzogiorno, occupazione agricoltura e riforme sociali sono parti inscindibili della nostra strategia generale di sviluppo economico alternativo. Abbiamo scritto nei nostri Temi per il dibattito congressuale che priorità assoluta va alle iniziative per il Mezzogiorno, alla esigenza di una generale ripresa della pressione per lo sviluppo economico alternativo, allo sviluppo economico e sociale del Sud e alla proposta di procedere attraverso piani economico – urbanistici opportunamente integrati. Il Mezzogiorno dentro questa nostra strategia è il punto centrale, è il punto più alto della domanda di lavoro, della domanda e dei servizi sociali, della domanda di riforme strutturali, della domanda di più avanzati livelli di vita civile. Il Mezzogiorno, quindi, è per noi il punto su cui si misura la ristrutturazione economica e sociale, democratica, antimonopolistica. Bisogna tener conto che la ristrutturazione portata avanti dal padronato si presenta come prosecuzione – aggiornata – di un tipo di sviluppo, frutto di continua mediazione da parte delle forze politiche dirigenti del Paese Quella operazione “non salta” il problema meridionale, ma lo fa entrare come elemento del sistema, da manovrare per raggiungere una fase nuova di assetto economico – sociale complessivo sempre pieno di squilibri al suo interno. Il Sud è, in questo disegno, un elemento assunto come parte subordinata del processo di ristrutturazione.

Ecco perché nella nostra proposta all'azione meridionalistica vengono indicati alcuni grandi obiettivi da cui dipendono la crescita armonica non solo del Mezzogiorno, ma dell'intero paese, la soluzione degli squilibri settoriali, territoriali e sociali. La piena occupazione delle forze di lavoro in ispecie di quelle giovanili e femminili e di quelle espulse dai settori efficienti.

L'approntamento di grandi supporti infrastrutturali e la dotazione adeguata di capitale fisso sociale; la qualificazione del ruolo dell'agricoltura meridionale da riformare e ristrutturare profondamente come un settore essenziale, vitale dello sviluppo, la definizione di programmi di industrializzazione inseriti in piani integrati di sviluppo economico territoriale; la qualificazione verso tali obiettivi dell'intervento pubblico, della spesa pubblica per gli investimenti, delle politiche di incentivazione e di sostegno, della preparazione scolastica e professionale, dei programmi delle aziende a partecipazione statale; la valorizzazione, il sostegno e lo sviluppo delle forze imprenditoriali minori, sono tutti obiettivi verso i quali debbono convergere le nostre forze sindacali, del Nord e del Sud, e quelle del popolo meridionale.

La piena occupazione implica il superamento del modo nel quale si sono sviluppati sinora consumi e investimenti all'interno e il loro rapporto con la fase dell'attività produttiva destinata al mercato estero. Ciò significa che il soddisfacimento crescente dei bisogni individuali primari e dei bisogni sociali della collettività nazionale debbono guidare e stimolare uno sviluppo basato sull'espansione qualificata della domanda interna e quindi sulla riqualificazione dell'offerta dei beni e dei servizi, sia in riferimento alla soddisfazione dei bisogni interni che a una diversificazione, ad un ampliamento e una nuova complementarietà tra la nostra economia e quella degli altri paesi.

Abbiamo affermato che l'agricoltura non può essere considerata un settore residuo, passivo e assistito. Anzi, essa può e deve avere un contributo rilevante, fornire al paese prodotti alimentari, adeguati nella quantità e nella qualità e nel prezzo, ed essere in grado di sollecitare una domanda aggiuntiva di beni industriali e di consumi sociali. La agricoltura italiana sta subendo le conseguenze della messa in crisi della politica agricola comunitaria ad opera degli Stati Uniti che vogliono imporre più larghi mercati di sbocco per i loro “surplus” agricoli.

Noi abbiamo denunciato i mali e abbiamo indicato i rimedi per la nostra agricoltura che consideriamo un punto qualificante di attacco per una nuova politica di sviluppo. Abbiamo denunciato il fallimento della gestione capitalistica dell'agricoltura, della politica di sostegno dei prezzi, il privilegio della rendita e dei profitti agrari strappati all'ombra del protezionismo cerealicolo e sulle spalle dei braccianti e dei contadini. Le linee di riforma e di ristrutturazione dell'agricoltura indicate per esteso nei nostri Temi e che sono state alla base della giornata di lotta del 10 maggio costituiscono uno dei cardini della linea generale che il movimento deve realizzare.

Gli obiettivi descritti e quelli portati dall'adozione di una politica di riforme, da noi indicata, alimentano una nuova domanda per consumi e investimenti a cui deve rispondere un accresciuto contributo dei settori industriali e dei servizi.

La politica degli investimenti, sia del settore pubblico che privato, deve essere finalizzata all'obiettivo prioritario della piena occupazione e dello sviluppo del Mezzogiorno. E a questi stessi obiettivi va piegata la funzione delle Partecipazioni statali e di tutti gli altri strumenti di intervento pubblico nell'economia.

Le Partecipazioni statali hanno finora svolto un ruolo di sostegno decisivo del vecchio meccanismo di sviluppo:

1) la massiccia presenza concentrata nei settori industriali di base (siderurgia e petrolchimica);

2) l'intervento nelle infrastrutture e nei servizi (autostrade in particolare) a sostegno della motorizzazione privata, contro la crescita del settore pubblico dei trasporti collettivi e di merci (urbani, ferrovieri e marittimi);

3) il disorganico intervento negli altri settori industriali (alimentare, tessile ecc.)

Negli ultimi anni, inoltre, si è consolidato nel sud un pericoloso intreccio fra Cassa per il Mezzogiorno e Partecipazioni statali che nella realizzazione dei progetti speciali tende ad esautorare i poteri delle Regioni su una linea di presunto efficientismo che in realtà perpetua i vizi di fondo del vecchio meccanismo.

E' perciò necessario operare un coraggioso rovesciamento delle priorità che hanno informato l'azione delle Partecipazioni statali finalizzandone agli obiettivi della proposta confederale.

A questo proposito noi chiediamo:

- l'attuazione di grandi piani irrigui, collegati alla forestazione, allo sviluppo della zootecnica ed ai piani zonali per l'espansione dei settori intensivi (ortofrutta, colture industriali, ecc.)

- la riorganizzazione ed espansione dell'industria alimentare attraverso impianti polivalenti, direttamente integrati con i centri di distribuzione, con la rete associata dei contadini, creando priorità per il settore delle conserve animali e vegetali;

- il blocco di nuovi insediamenti petrolchimici e un deciso incremento della chimica secondaria e fine, definendo finalmente un piano chimico di sviluppo per il quale si battono tutti i lavoratori italiani;

- lo sviluppo della produzione di materiali e mezzi di trasporto pubblici connessi con la politica di riforma dei trasporti.

Occorre riportare le Partecipazioni statali al loro ruolo di strumento operativo del potere politico, del Parlamento e delle Regioni, assicurando ad essi il pieno potere di indirizzo e di controllo sia dei piani di investimento, sia del complesso dell'attività finanziaria e creditizia.

Tale piattaforma programmatica implica una congiunta azione confederale e di categoria a livello nazionale, regionale e zonale.

Occorre pertanto:

a) adeguare le piattaforme articolate delle organizzazioni confederali e di categoria alle scelte prospettate, considerando il momento regionale come quello decisivo per costruire il movimento;

b) individuare regioni e zone caratteristiche su cui concentrare gli sforzi al fine di creare vertenze esemplari, indicative per tutto il movimento;

c) collegare la nostra azione immediata alle scadenze contrattuali - dei braccianti e mezzadri – alla gestione dei contratti e alla lotta contro la stagionalità, il lavoro a domicilio e la commessa e ad appalto.

Tali scadenze sono particolarmente importanti nel Mezzogiorno.

Con questi commenti la proposta di cambiamento avanzata dal movimento sindacale può e deve diventare il cardine della programmazione economica, alla quale i sindacati vogliono partecipare senza la pretesa, come abbiamo affermato più di una volta, di elaborare essi stessi un piano e un contro piano, ma con la volontà di imporre un metodo democratico nella sua elaborazione, che sia in grado di raccogliere la partecipazione attiva dei lavoratori e di tutte le istituzioni democratiche. Di questo si tratta, e non – come qualcuno ha detto – di un tentativo del movimento sindacale di definire un modello di società futura. Questo compito spetta ai partiti; in realtà, in questa loro funzione consiste quel “primato della politica”, al di fuori di inesistenti gerarchie di valore. E' la diversa natura fra le organizzazioni di massa ed i partiti politici che stabilisce questa fondamentale distinzione.


Politica di classe per unificare e allargare il fronte di lotta


Compagni, la nostra proposta, largamente illustrata nei Temi e che qui ho ripreso soltanto su alcuni punti caratterizzanti, è il frutto di una esperienza che il movimento sindacale italiano ha compiuto unitariamente negli ultimi anni: non si tratta quindi di un progetto esclusivo della CGIL, ma di un tentativo della CGIL di ordinare su una base organica scelte rivendicative, di politica economica e di riforma di volta in volta compiute unitariamente dal movimento sindacale, e in in un momento nel quale la nostra società ha certamente bisogno di una visione più unitaria e complessiva delle strade e degli scopi di un suo sviluppo economico e sociale.

Del resto ci pare di poter dire, almeno a questo punto della relazione, che gran parte dei contenuti della nostra proposta, anche se diversamente collocati e motivati, sono riscontrabili nella impostazione e nelle conclusioni dei Congressi della CISL e della UIL tenutisi recentemente e sui quali torneremo naturalmente più avanti.

Io credo che sia inutile soffermarsi molto sulla risposta a un quesito, che pure si è affacciato all'interno della CGIL nel corso di questi mesi di dibattito congressuale. Il quesito è il seguente: questa linea politica della CGIL rappresenta una continuità con la nostra esperienza passata o è un fatto completamente nuovo? Noi teniamo questo Congresso qui a Bari, in Puglia, la patria di Di Vittorio che combattè nel corso dell'intera sua vita una battaglia permanente per i suoi braccianti, per il suo Mezzogiorno, per la povera gente del sud. Quell'impegno di lotta si ritrova nella nostra proposta!. Noi troviamo nella nostra proposta politica una continuità anche con iniziative assai lontane nel nostro passato, come il Piano del lavoro, almeno per alcune finalità che quel piano si proponeva e anche con gli orientamenti da noi espressi in termini di programmazione. La proposta politica corrisponde ad una impostazione di principio sempre seguita dalla CGIL, e cioè all'esigenza di non abbandonare a se stesse le forze emarginate, più diseredate della società come i disoccupati, i vecchi gli inabili. Questa proposta si collega anche alla tradizione della CGIL che non ha mai concepito i problemi dello sviluppo economico come problemi estranei agli interessi dei lavoratori e alla funzione che la classe operaia vuole assolvere nella società italiana: trasformarla per renderla più giusta e umana.

Questa proposta è propria di un sindacato che sappia contemporaneamente sfuggire a quei momenti contraddittori, ma presenti nella vita sindacale italiana nel periodo prefascista e anche negli anni successivi alle scissioni sindacali del '48 e del '49, che vedevano, da un lato un movimento sindacale spinto dalla discriminazione ad essere emarginato e quindi costretto ad un'azione con forte intonazione “protestataria” e dall'altro altri settori del movimento sindacale che perché deboli e innestati in una logica “scissionista” erano generalmente “ integrati” nel quadro delle convivenze del “potere” o del governo in carica. Anche fuori dei confini del nostro paese è riscontrabile nella storia dei diversi movimenti sindacali nazionali la presenza di queste diverse tendenze. Quando una organizzazione sindacale è costretta a esercitare il proprio ruolo nell'ambito di quelle logiche, non solo diminuisce l'incisività della sua azione ma si riduce l'ambito della sua autonomia. Perchè l'autonomia del sindacato non è garantita tanto o soltanto da un insieme di norme di comportamento ma vive soprattutto del modo con il quale il sindacato si colloca rispetto ai grandi temi della società.

Esso deve esprimere la funzione nazionale della classe lavoratrice su una linea di cambiamento dell'assetto sociale imperniata sui traguardi possibili ma tali da costringere le classi dirigenti e le classi politiche di governo a compiere le proprie scelte rispetto alle concrete ipotesi di rinnovamento delle quali il sindacato stesso si fa portatore.

Ma se è vero che esiste una sostanziale continuità fra le nostre scelte passate e la proposta che discutiamo, è altrettanto vero che questa proposta si colloca in una situazione completamente diversa da quella nella quale nel passato analoghe iniziative vennero prese dalla nostra organizzazione. Noi possiamo portare avanti oggi questa strategia utilizzando una forza crescente del movimento sindacale, che ha messo insieme tutte le organizzazioni, possiamo veramente impegnare in questa battaglia le forze fondamentali dei lavoratori occupati nel nord del nostro paese e rendere concrete, dopo decenni di tentativi non riusciti, le strategie unitarie che collegano su una linea di classe il nord con il sud, l'agricoltura con l'industria, gli occupati con i disoccupati.

E' questo, a nostro giudizio, il fatto nuovo che può conferire non solo una credibilità contingente, ma una capacità realizzatrice effettiva alla nostra impostazione. Essa risponde alle esigenze di progresso delle grandi masse lavoratrici, alle esigenze di occupazione di milioni di disoccupati e di sottoccupati, alle esigenze di crescita civile e democratica profondamente radicate nella coscienza della classe operaia italiana Essa sottolinea il rapporto che esiste tra la lotta per cambiare la fabbrica e la lotta per cambiare la società e le strutture stesse dello Stato.

Noi sappiamo che questa nostra proposta ha dei nemici irriducibili a destra: si tratta non soltanto dei percettori di rendita, di quelli che da molte parti ormai sono considerati parassiti della società italiana; ma pur nell'impossibilità di fare una distinzione netta, che non esiste nella realtà, fra rendita e profitto, si tratta anche di quelle forze capitalistiche le quali avendo finora diretto il meccanismo economico che vogliamo cambiare, cercano di conservarlo e frappongono in tal modo un ostacolo allo sviluppo economico e sociale che noi rivendichiamo. E non si tratta di un ostacolo piccolo, come ognuno sa. Ma a questa parte dei nostri contraddittori, dei nostri avversari che sono nemici di classe noi sappiamo come rispondere e rispondiamo con la azione, con la lotta delle masse.

Esistono poi anche dei critici o addirittura degli avversari di questa nostra linea che la considerano rinunciataria “riformistica” nel senso deteriore, qualcuno dice addirittura interclassista. A quei critici noi rispondiamo che la nostra proposta è esattamente il contrario di una linea interclassista e moderata. Anche in questi ultimi mesi, nel momento in cui la crisi è diventata più acuta, la nostra linea di azione e la nostra lotta ha invece concorso ad aprire una nuova prospettiva. D’altra parte nelle condizioni concrete della società italiana dalle quali non si può prescindere se non si vuole passare dalla lotta di classe alla fantasia politica, non esiste nessuna possibilità reale di trasformare la società se non impegnando seriamente i lavoratori in una grande impresa di rinnovamento che trasformi le strutture col metodo della democrazia, con la lotta di massa, con lo sviluppo delle istituzioni che garantiscono la libertà.

Questa è la via sulla quale abbiamo fatto la Resistenza e la Repubblica, che ci suggerisce l’esperienza e che ci indica la Costituzione repubblicana, questa è la via da seguire per chi vuol mutare veramente i rapporti di forze nella società e non si accontenta delle petizioni di principio da poeta disarmato.

Rinchiudere i lavoratori all’interno delle fabbriche impiegando il potenziale combattivo delle masse su una linea puramente rivendicazionista a livello aziendale o portare le masse a lotte frontali, per obiettivi generici che escludono scelte di priorità e anche gradualità nei tempi, significa illudere le masse lavoratrici e preparare la sconfitta dell’azione di classe.

Se il movimento sindacale italiano si ponesse su questa strada esso andrebbe incontro prima al proprio isolamento e quindi a un indebolimento delle sue forze e poi a una grave sconfitta.

Noi dobbiamo estendere fra i lavoratori la consapevolezza che la realizzazione di un programma di sviluppo economico, che non si limita a restare alla superficie della società, ma che la vuole trasformare profondamente, non può essere conquistata unicamente dalle forze della classe che rappresentiamo: esse sono grandi ma insufficienti se isolate. Segni significativi di questa verità li abbiamo avuti anche gli anni scorsi, quando le nostre scelte in materia di politica delle riforme erano, come ho detto prima, troppo indifferenti ai problemi delle grandi masse dei disoccupati, dell’agricoltura e del Mezzogiorno. E’ per questo che io non capisco, francamente, l’atteggiamento che esiste nelle altre organizzazioni e specialmente nella CISL contro quella che, forse con una espressione impropria per il sindacato, si chiama la politica delle alleanze.

Quando nel Congresso di una categoria si sostiene ad esempio. “sì per l’unità sindacale organica, contro la politica delle alleanze” si finisce per negare in buona misura con la seconda parte della frase l’efficacia della prima parte. L’unità sindacale è un potente strumento di trasformazione sociale, ma i ceti che possono essere impegnati in questa battaglia sono certamente più vasti di quelli dei lavoratori dipendenti. Sia chiaro che noi non proponiamo, per allargare il fronte di lotta, di annacquare, di stemperare la nostra piattaforma. Non si tratta di questo! Si tratta invece, sulla base della nostra impostazione, di cercare instancabilmente nella società civile che ci circonda e nella quale viviamo, le forze che possono essere con noi, magari soltanto per quell’obiettivo limitato e in quel momento determinato. Tale concezione dell’alleanza non entra in conflitto con l’autonomia di classe; al contrario, la presuppone, non costa ai lavoratori dipendenti né può essere in alcun modo strumentalizzata. Senza una convergenza di tutte le forze interessate, magari fatta anche di molti momenti polemici, l’inversione del meccanismo di sviluppo non passa, per le resistenze delle forze conservatrici che spesso subiscono e non riescono neppure a determinare più il corso delle cose. Vi ricordo, compagni, il contesto fangoso, il clima irrazionale di paura nel quale si sono fatte la nazionalizzazione dell’energia, le Regioni, la riforma delle pensioni, clima che portò poi al blocco generale delle riforme e dell’attuale crisi economica. Vi ricordo questi episodi per sottolineare la necessità di coinvolgere, di conquistare altre forze alla nostra battaglia. Il nostro scopo non è quello di recare una testimonianza di purezza inconcludente e sterile, il nostro scopo è di passare con la nostra politica! Perché il successo sia assicurato a questa piattaforma dobbiamo far avanzare la nostra linea tra l’opinione pubblica, nel contesto sociale e politico del Paese, sapendo che in questo contesto ci sono i nemici e gli amici, i potenziali sostenitori e avversari. Riguardo alle forze sociali, senza nutrire alcuna illusione, noi dobbiamo chiaramente distinguere le grandi dalle piccole imprese sul piano della politica economica e promuovere misure e riforme che nel campo fiscale, creditizio, del mercato, della ricerca, ecc., costituiscano un sostegno per le piccole e medie aziende oggi egemonizzate e dominate dai grandi gruppi. In materia di rapporto di lavoro, la nostra difesa degli interessi dei lavoratori non può subire eccezioni. Ma quando parliamo dei rapporti tra il movimento sindacale e la società italiana un capitolo fondamentale tocca certamente ai partiti politici. Non basta dire, come ormai tutti diciamo più o meno volentieri, per la verità, che i partiti non sono tutti uguali. Bisogna anche comprendere le differenze che esistono fra i partiti e le ragioni di queste differenze. E’ chiaro che quelle forze politiche che vogliono mutare la società italiana rendendola meno ingiusta e più civile, quelle forze politiche che vogliono combattere il potere dei grandi gruppi monopolistici privati e utilizzare le leve di politica economica nelle mani del potere pubblico per mutare il volto sociale del Paese; è chiaro che quelle forze politiche che vogliono salvaguardati in Italia i valori della democrazia, della libertà, del libero consenso possono più facilmente incontrarsi con un movimento sindacale che di questi obiettivi fa la propria ragione di mobilitazione e di lotta delle masse. Non credo che queste considerazioni costituiscano una aprioristica scelta di campo della CGIL in favore di certi partiti o contro altri partiti. Si tratta soltanto di constatazioni di fatto, facilmente verificabili da chi voglia ragionare sulla realtà, senza paraocchi e senza rinunciare alla propria onestà intellettuale e alla propria autonomia di giudizio. D’altra parte a noi pare che la complessa situazione del nostro paese sia tale da offrire al movimento sindacale, per la sua lotta, la possibilità di confrontarsi vantaggiosamente con forze progressiste e rinnovatrici presenti in numerosi partiti politici, e non soltanto in quelli che si richiamano esplicitamente, anche per l’ideologia che il distingue, alla classe operaia. Noi pensiamo che i lavoratoti italiani sono interessati al mantenimento di un pluralismo politico e ideologico che alimenta e arricchisce il confronto delle idee e lo sviluppo della democrazia. Ma qui si tratta di altra cosa. Si tratta di cercare in un permanente confronto da posizioni di autonomia reale con le forze politiche, col governo e col Parlamento i punti di convergenza, gli obiettivi comuni, per portare avanti, in una dialettica costituita di volta in volta di intese e anche di contrasti, un disegno generale di rinnovamento sociale sul quale le tendenze politiche progressiste che vivono nei partiti possono trovare punti di appoggio e valido sostegno. In questo campo riveste particolare importanza la ricerca, anche in forme nuove, di un rapporto più diretto con le strutture parlamentari, con le Regioni e con gli Enti locali.


Scelte rivendicative coerenti e forme di lotta


Per il successo di questa politica della quale noi delineiamo soltanto alcuni obiettivi e strumenti, ma che non ha certamente la pretesa di essere quel programma di sviluppo economico – sociale che spetta alla direzione politica del Paese, anche il sindacato, volendo essere espressione di interessi di classe nazionali, deve dimostrare la propria capacità di compiere delle scelte dando coerenza alle proprie rivendicazioni rispetto al proprio programma generale di sviluppo.

A questo proposito la nostra stessa proposta politica alternativa contiene indicazioni sulle quali vogliamo un momento soffermarci. Per le politiche rivendicative dobbiamo dimostrare sempre più di essere capaci di combattere le spinte corporative, settoriali, aziendalistiche che si manifestano naturalmente nel movimento sindacale. Le differenze tra un modo e l’altro di concepire il sindacato a questo riguardo, trattandosi di organizzazioni di massa, non consistono nel fatto che un sindacato - lo ripeto – di massa sia immune da queste tendenze e un altro no. La vera differenza consiste nel fatto che un sindacato che si voglia fare interprete degli interessi generali di classe combatte queste tendenze mentre l'altro se ne fa espressione e magari le teorizza.

Un campo nel quale si combattono validamente le tendenze corporative è quello dell’eliminazione delle differenze ingiuste fra le singole qualifiche, tra operai e impiegati, tra settore e settore. Ai successi rilevanti realizzati in questa materia nei contratti di quest’anno dobbiamo fare seguire nei prossimi anni l’annullamento delle assurde sperequazioni oggi in atto fra il grande settore dei lavoratori che sono addetti alle attività produttive, e gli altri lavoratori. Queste disparità salariali e nella stabilità del lavoro, oltre a dar vita a ingiustizie patenti nel rapporto tra valore del lavoro e salario, determinano nel mercato del lavoro e nelle scelte di occupazione pericolose distorsioni che impediscono una gestione razionale del collocamento e nuocciono allo stesso sviluppo produttivo.

Noi sappiamo che il sindacato è nato quasi ovunque come corporazione ai primordi della società capitalistica e che solo in un secondo tempo, quando l’ideologia politica della classe operaia ha cominciato a svilupparsi, soltanto laddove essa si è sviluppata, sono entrati nel movimento sindacale la comprensione degli interessi generali e, quindi, indirizzi contrastanti con il settorialismo e con il corporativismo. E’ vero che queste tendenze negative sono particolarmente sensibili in determinate categorie del pubblico impiego e dei servizi ma è anche vero che da esse non sono immuni gli altri settori nei quali si organizza il mondo del lavoro. Anche il grado esteso e crescente di attivazione sindacale delle più svariate categorie dei lavoratori, che è un fatto indiscutibilmente positivo, può talvolta accompagnarsi con una pratica limitata agli interessi della categoria esaurendo in questo ambito il ruolo del sindacato. Il sindacato di categoria ha assunto in questi anni una nuova dimensione. E’ aumentato il potere contrattuale e l’autorità, il peso sindacale e politico delle organizzazioni di categoria sotto forma di orientamenti operaistici, di un allentamento dei rapporti con le strutture orizzontali, la stessa nuova struttura del sindacato in azienda e le forme più estese di partecipazione non garantiscono in assoluto da pratiche sindacali più o meno inficiate da visioni “aziendalistiche” non importa se ammantate da un certo radicalismo “classista”. Per questo non sacrificando mai le legittime rivendicazioni salariali o contrattuali, ma è passandole sempre al vaglio degli interessi più generali della classe e di una strategia che vuole cambiare le strutture del Paese noi possiamo condurre vittoriosamente una lotta contro queste tendenze sapendo che ogni giorno esse risorgono e che quindi ogni giorno esse vanno combattute [...].