Livorno 1969




Intervento di Luciano Lama al VII Congresso nazionale della Cgil, Livorno 16-21 giugno 1969


(...) Il problema dei diritti nella fabbrica collega le lotte in corso con il fenomeno della partecipazione, nel senso che ne interpreta uno degli aspetti più genuini. I lavoratori vogliono potere decidere in assemblea, vogliono scegliere i loro rappresentanti sul posto di lavoro, vogliono che il sindacato negozi in fabbrica le condizioni concrete della loro prestazione e ne controlli la dinamica.

Voglio dire subito che la soluzione di questo problema deve essere affrontata in prima persona dal sindacato, e dalla nostra organizzazione in particolare. Il potenziale di lotta presente fra i lavoratori, la loro volontà di essere i diretti protagonisti delle scelte rivendicative, dei metodi di lotta, della conduzione delle trattative, deve essere per noi una sollecitazione viva, una spinta potente a superare nostre lacune e assenze nel nostro contatto con le masse. Un sindacato di classe come la CGIL non può non cogliere tutto il significato positivo della spinta spontanea alla partecipazione che si manifesta nella fabbrica.

Nello stesso tempo deve essere chiaro che questo fenomeno positivo non è tutto, e non è neppur privo di rischi di chiusure aziendalistiche per la classe operaia, se non si alimenta, attraverso il sindacato, nella vita del sindacato, di una visione più generale dello sfruttamento e dei rapporti di classe, che non si esprimono soltanto a livello di fabbrica, ma si organizzano e si strutturano anche a livello di società.

Per questo la visione generale dei problemi, di cui sono ovviamente portatori i sindacati e ancor di più le Confederazioni, non può e non deve mancare mai nell'elaborazione anche delle più minute rivendicazioni di fabbrica. Rivendicare i diritti di contrattazione e di presenza vuol dire impostare un problema che riguarda più in generale lo sviluppo democratico della società italiana. Da questo punto di vista noi guardiamo con interesse – come ha detto nella sua relazione il compagno Novella – all'iniziativa di stabilire per legge uno statuto dei diritti a livello di fabbrica.

Ma anche su questa questione abbiamo l'obbligo della chiarezza con il governo. Non solo noi non accetteremo mai una definizione di diritti che comporti contropartite nel campo dell'autonomia del sindacato e della sua libertà di rivendicare, di lottare, di contrattare, senza remore e senza pastoie procedurali. Al governo chiediamo anche che significato assume lo statuto dei diritti, quando si contrasta con la violenza e con il sangue il diritto dei lavoratori di manifestare la loro indignazione, la loro collera contro uno stato di cose che li condanna al sottosalario, alla disoccupazione, alla emigrazione, a subire l'eterno ricatto padronale. Il disarmo della polizia nelle manifestazioni sindacali e sociali è dunque un diritto fondamentale dei lavoratori.

E ancora. Che significato ha, da parte di un governo che voglia onestamente fare avanzare i diritti dei lavoratori, mantenere le restrizioni in atto da cinque anni sullo sciopero dei pubblici dipendenti? La trattenuta di una giornata, anche per brevi sospensioni è un'intollerabile limitazione del diritto costituzionale di sciopero. Questi problemi vanno risolti, se si vuole che lo statuto dei diritti sia veramente un passo avanti per i lavoratori italiani, e non venga interpretato come una velleità inconcludente o, peggio ancora, come una manovra che potrebbe coprire intenzioni di segno contrario

E questo lo dico perché intenzioni in questo senso esistono. I lavoratori e le loro organizzazioni sindacali sono e vogliono essere una struttura portante di una democrazia avanzata, di una democrazia che si sviluppa, che vede accrescere il peso dei lavoratori in tutti gli aspetti della vita sociale, di una democrazia che procede attraverso riforme profonde verso il progresso. Il padronato tenterà di bloccare il nostro cammino o di annullare le nostre conquiste, con la manovra, con il tentativo di dividere il nostro fronte, con il permanente ricatto salario – occupazione, con l'aumento dei prezzi, con l'inflazione.

Mi riferisco, a questo proposito, anche a ciò che ha detto Foa questa mattina. L'esperienza del 64 – 65 è significativa, dopo gli anni di lotta del '62 – '63. Conquiste salariali, anche consistenti, possono essere riassorbite sia con una politica inflazionistica che riduca i salari, che con una politica deflazionistica che stringa la vite dello sfruttamento e riduca l'occupazione. E' la reazione spontanea del sistema, il suo modo di ricostruire un equilibrio scosso dalle lotte sociali. Quell'esperienza non deve ripetersi e non può non ripetersi. Ma come?

Il problema non è soltanto quello di dichiarare che noi osiamo sfidare il sistema e che attendiamo a piè fermo coraggiosamente la sua reazione di rigetto. Nè basta dire che occorre collegare – cosa giustissima, ma insufficiente – gli aumenti salariali con un potere di controllo della condizione operaia in fabbrica.

Il sistema fa le sue vendette, recupera il terreno anche fuori dalla fabbrica. Per questo, al di fuori di una polemica ideologica, che non mi appassiona come dirigente sindacale, sulla proponibilità o meno di una programmazione economica in regime capitalistico, noi dobbiamo capire che la condizione sociale del lavoratore dipende anche da una politica di riforme, da una modificazione delle strutture economiche che il sindacato rivendica e per la quale deve lottare.

Qui le nostre piattaforme economiche si confronteranno con quelle del governo e delle forze politiche, perché si tratta di un terreno che è nostro, ma che non è soltanto il nostro.

La strategia di un sindacato che voglia conquistare nuove condizioni sociali per i lavoratori e difenderle sul serio deve dunque esplicarsi sia nelle politiche rivendicative che nel campo della politica economica e della programmazione, considerando anche questa scelta come un aspetto necessario del suo impegno di elaborazione e di lotta concreta delle masse.

Il padronato però – lo dicevo prima – potrà anche tentare il ricorso a forme di resistenza più dure e frontali, utilizzando spinte autoritarie mai del tutto spente in una società come la nostra. Dobbiamo avere coscienza che le prossime lotte aziendali e contrattuali potranno chiederci attenzione e vigilanza anche in questo campo, ed una inflessibile fermezza nello sventare con l'azione di massa qualsiasi attentato alla democrazia che la destra dovesse effettuare.

Ma perché il nostro movimento abbia carattere democratico e forte, bisogna che il sindacato lo tenga sempre saldamente nelle sue mani in un costante rapporto con la massa dei lavoratori. Dobbiamo combattere gli estremismi velleitari, là dove si presentano, perché ci condannerebbero alla sconfitta. A coloro che due mesi fa ci chiedevano di lottare solo per il potere e oggi ci chiedono di lottare solo per i salari, noi rispondiamo che la forza di un sindacato non si misura né dalle parole d'ordine verbosamente rivoluzionarie, né dal livello delle sue rivendicazioni, ma sempre e soltanto dal contenuto concreto delle sue conquiste. Per questo le nostre piattaforme, così come vengono proposte al Congresso, sono avanzate ed equilibrate, non rispetto al sistema, ma rispetto ai rapporti di forze reali. Non dimentichiamoci che i lavoratori non chiedono ai sindacati il potere per il potere, ma per conquiste più avanzate e per una migliore difesa dei loro interessi.

A questo punto permettetemi di esporre qualche pensiero sul problema dell'unità. Questo tema ha tenuto un posto di grande rilievo nell'impostazione del dibattito di questo Congresso. L'unità d'azione ha camminato molto in questi anni, ma è rimasta unità di azione. Come tale, essa non è acquisita per sempre, non è definitiva. Perchè ciò sia, occorre compiere ulteriori passi verso l'unità organica, per giungervi finalmente.

Non sono di quelli che pensano che l'unità sindacale possa essere realizzata subito, né penso si possa fissare un termine temporale prestabilito a questo obiettivo. Sono tuttavia convinto che se non operiamo ogni giorno in vista dell'unità, se quest'obiettivo non è costantemente presente nelle nostre scelte quotidiane, noi rischiamo, senza rendercene conto di precipitare di nuovo in una situazione di concorrenza e di confronto fra le varie organizzazioni, della quale i soli beneficiari sarebbero i nostri nemici.

Anche fra di noi c'è chi ha dei dubbi, delle esitazioni, delle incertezze, e chi parla di prezzi – come diceva ieri Novella – spesso esprime, in modo forse improprio, queste esitazioni e queste incertezze. Sono convito che per fare l'unità occorre soprattutto una concezione comune del sindacato e della sua funzione, ma in questo campo sensibili progressi sono anche stati fatti.

Non è da sottovalutare, ad esempio, il passo avanti qualitativo compiuto da tutta una parte della CISL nel definire il sindacato come uno strumento di classe, e nell'indicare la sua lotta contro lo sfruttamento come una caratteristica permanente, intrinseca alla natura stessa del sindacato. Dall'interclassismo ideologico, dal collaborazionismo nella pratica, si passa così ad una definizione dell'organizzazione dei lavoratori che si avvicina alla nostra, e che ci permette lo sviluppo di un dialogo fruttuoso e nuovo. Qualcosa di simile comincia a manifestarsi anche sui problemi dell'internazionalismo sindacale e nella politica di pace, che deve diventare, a mio giudizio, obiettivo irrinunciabile dell'intero movimento dei lavoratori.

Su queste basi, anche la spinta unitaria dei lavoratori, può più efficacemente svilupparsi in tutte le organizzazioni, per spingere avanti il processo. La partecipazione delle masse permetterà anche di superare quelle resistenze, quegli ostacoli, che oggi ancora inceppano lo sviluppo dell'unità in quegli ambienti, delle altre organizzazioni, dove più duro a morire è lo spirito discriminatorio, e più tenace la pretesa di sostituire il consenso dei lavoratori con le protezioni del potere.

Una delle condizioni per realizzare l'unità è certamente l'autonomia dai padroni, dai partiti, dal governo. Sulla prima, oltre a quello che ha detto ieri Novella, c'è poco da dire, se non che noi l'abbiamo sempre salvaguardata e che questo rappresenta un patrimonio inestimabile, una gloria della CGIL. Sull'autonomia dai partiti e dal governo, occorre ribadire che essa non sarà mai per noi né un disimpegno politico personale, né una ragione per diffondere tra i lavoratori il rifiuto della politica. Sono al contrario convinto che, così come è insostituibile la funzione dei partiti, è altrettanto insostituibile la milizia politica dei lavoratori in tutti i partiti. I nostri interessi di classe non potranno mai essere difesi solo dal sindacato, anche dal più efficiente e potente.

Tutto ciò premesso come un punto fermo ed irrinunciabile, resta il fatto che i lavoratori sono divisi sul piano politico e che per questo l'unità sindacale può farsi soltanto nell'autonomia. La condizione indispensabile per una tale autonomia è per noi la liquidazione delle correnti. Non c'è dubbio che il permanere di correnti politiche nel sindacato limita la sua autonomia assai più della presenza di suoi dirigenti in questo o in quell'organo di partito.

Dovremmo risolvere anche il problema dell'incompatibilità, non c'è dubbio; ma perché il dibattito fra di noi sia sincero fino in fondo, dobbiamo riconoscere la sproporzione che esiste tra le due questioni e soprattutto la sproporzione che esiste nel dibattito su queste due questioni.

Liquidare le correnti vuol dire permettere ai lavoratori di scegliere i loro dirigenti secondo i meriti sindacali e non secondo le idee politiche.

Liquidare le correnti significa – come dicono i Temi – stabilire rapporti realmente nuovi tra sindacati e partiti, in un confronto diretto che non esclude differenziazioni e contrasti, ma che vuole sempre entrare nel merito dei problemi e contribuire in tal modo al più generale avanzamento di classe dei lavoratori.

Se vogliamo essere seri, dobbiamo dunque riconoscere che l'autonomia della CGIL dalle forze politiche è, ad un tempo, problema di incompatibilità e di superamento delle correnti.

Cicchitto e Didò hanno parlato di processo: va bene, realizziamo subito alcune misure, nell'uno e nell'altro campo, decidiamo subito l'incompatibilità parlamentare, e che è una cosa essenziale, e vediamo se ci sono anche da definire misure parziali, temporanee, nell'incompatibilità con le cariche di partito. Ma per essere coerenti non possiamo limitarci ad esprimere soltanto l'esigenza di superare le correnti, senza adottare misure concrete, parziali e temporanee anche in questa materia. Chi rifiuta una tale visione equilibrata, realistica e dinamica, indipendentemente dalle intenzioni che lo muovono, non avvia a soluzione il problema reale dell'autonomia dai partiti, ma si contenta di restare alla superficie, illudendosi di mutare così il corso delle cose.

Visione dinamica, ho detto e non si prende – come ha scritto un giornalista – cinque anni di tempo, ma che vuole – in termine assai ravvicinati, i più brevi possibili, e che dipendono da noi, da tutti noi, e solamente da noi – risolvere definitivamente problemi della nostra autonomia; risolverli, ho detto, e non proclamarli: risolverli.

Molte differenze o divergenze esistono e continueranno ad esistere, e non si può fare, evidentemente, di ogni differenza una pregiudiziale al compimento dell'unità.

Chiarite le posizioni sulle questioni cui ho accennato, che mi paiono essenziali, cementata l'unità d'azione nelle prossime grandi lotte, il progresso verso l'unità organica potrà essere fortemente accelerato, affidando la soluzione dei problemi aperti alla scelta dei lavoratori. Le proposte di Novella per le fabbriche e per i diversi livelli dell'organizzazione tendono a creare un meccanismo nel quale le volontà politiche e le spinte di base possano concorrere, senza contraddizioni, ad avvicinare il momento dell'unificazione, ad avvicinarlo sul serio e non a parole soltanto.

Certo, l'unità sindacale porterà delle conseguenze anche nella dislocazione delle forze politiche e noi, io personalmente, non me ne allarmo davvero, perché l'aumento delle forze di classe dei lavoratori con l'unità sindacale gioverà anche a favore di un crescere del loro peso della vita politica. Bisogna però guardarci dallo strumentalizzare il processo di unità sindacale a fini politici, perché, a quel punto, tra gli stessi lavoratori, potrebbero nascere reazioni contrarie all'unità sindacale.

L'unità sindacale è per i lavoratori un bene in sé, e come tale va perseguita da un'organizzazione autonoma che ne esprima gli orientamenti e le speranze.

Non c'è dubbio che se nei contenuti concreti dell'azione sindacale, come nel campo dell'autonomia, saremo tutti, tutti i sindacati, all'altezza del compito, il processo unitario vedrà il suo coronamento e sarà un giorno felice per i lavoratori italiani, quello nel quale, a più di vent'anni della scissione, essi si ritroveranno uniti nella loro casa, nella casa di tutti.