L'Europa




Luciano Lama al V Congresso Ces, 14 maggio 1985


Negli ultimi tre anni l'Europa è stata il teatro di grandi lotte per il lavoro, la difesa dei diritti sindacali, il salario. Esse dimostrano che in questa parte del continente la classe operaia ha accumulato una coscienza e una forza organizzativa che non è facile piegare. Dobbiamo tuttavia ammettere con franchezza che queste lotte spesso sono state di natura difensiva. Hanno senza dubbio pesato l'acutezza della crisi e l'aggressività della destra. Ma hanno anche pesato nostri comportamenti fondati sulla convinzione che fosse possibile sottrarsi alla congiuntura internazionale giocando tutte le carte in politiche di sviluppo nazionali, sorrette per giunta da un alto grado di protezionismo. Vedo in ciò una delle ragioni basilari delle difficoltà a tradurre in un deciso e concreto impegno europeistico i programmi della Ces. I documenti e il rapporto di attività illustrato da Hinterscheid sottolineano il carattere negoziale che deve avere la nostra iniziativa, e accompagnano questa opzione con indicazioni operative condivisibili. Ma la Ces resta essenzialmente un comi-tato di informazione, un organismo di collegamento tra le Confederazioni affiliate. Non sottovaluto l'importanza di questa specifica funzione. Essa ha consentito un riavvicinamento, che considero di grande valore, tra gli orizzonti strategici di forze che si richiamano alle matrici fondamentali della sinistra laica e cristiana in Europa. Ma siamo ancora al di sotto del possibile e del necessario. Siamo soprattutto lontani da quella «solidarietà nell'azione per il lavoro e la pace» che abbiamo assunto come parola d'ordine del congresso. Per ribaltare questa situazione è necessario conferire alla Ces poteri reali di rappresentanza, anche mediante la delega di quote di «sovranità», da parte dei sindacati affiliati, in determinati campi. Pongo ciò come un punto di discussione politica, e non certo come una esigenza tecnica di riforma dello statuto. Lo stato delle cose non è incoraggiante. L'Europa è sconvolta da una disoccupazione di massa fino a oggi sconosciuta. La Cee continua a funzionare a due e perfino a tre «velocità». Si delinea sempre più nettamente un processo di subordinazione economica dell'Europa rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. Il «carodollaro» e la reindustrializzazione in corso negli Usa agiscono in larga misura a detrimento dei paesi europei. Questi fatti hanno conseguenze di enorme rilievo sulla stessa scena internazionale, dove gravano le ipoteche della corsa al riarmo, dei commerci con l'Est, del conflitto in Medio Oriente. Tutto induce, dunque, a un ripensamento profondo dell'edificio comunitario, a una sua svolta rifondatrice. Daremo un sensibile contributo alla sua soluzione se concluderemo questo congresso con una scelta netta ed esplicita contro ogni tendenza protezionistica su cui rischia di infrangersi ciclicamente l'aspirazione all'unità e all'autonomia dell'Europa. Non possiamo avere tentennamenti: la creazione di uno spazio economico e sociale europeo deve essere la pietra angolare di una coerente strategia per l'occupazione, la democrazia economica, la rifondazione politica e istituzionale della Comunità. È nell'interesse dei lavoratori la creazione di un grande mercato europeo unificato, la realizzazione di nuove intese e integrazioni nei campi della ricerca, dell'innovazione tecnologica, delle produzioni più moderne dell'industria e dell'agricoltura, dei servizi. Si tratta di obiettivi che hanno bisogno della conquista e dell'esercizio di effettivi poteri contrattuali su scala europea tra i partners sociali, eventualmente con il sostegno della Commissione esecutiva dellaCee, per guadagnare vere e proprie convenzioni collettive a livello comunitario. Ci sono tre campi, in particolare, in cui sperimentare questi «accordi quadro», i quali naturalmente, non surrogano o sostituiscono la contrattazione nazionale, ma possono suggerirne le linee-guida per orientarla e coordinarla: la politica della domanda pubblica, la politica degli orari e i diritti di informazione dei lavoratori. L'altro fulcro di una strategia innovativa della Ces è una politica straordinaria per il lavoro. Il problema è drammatico e urgente. Dobbiamo sviluppare idee, proposte azioni per saldare prospettiva ed emergenza nella lotta contro la disoccupazione di massa. Dobbiamo sottolineare la necessità di una sorta di Piano Marshall per il lavoro in Europa. Dobbiamo insistere sull'effetto moltiplicatore dei programmi comunitari in determinati settori, come quello dei trasporti, telecomunicazioni, energia, protezione ambientale. Dobbiamo affrontare una questione cruciale per la stessa praticabilità ed efficacia delle misure straordinarie per l'occupazione che rivendichiamo: il finanziamento, non inflazionistico e non squilibrante i conti con l'estero, della domanda addizionale necessaria. A tal fine Cgil, Cisl e Uil hanno presentato l'ipotesi di finanziare programmi di sostegno all'occupazione e per investimenti produttivi attraverso una moneta di riserva internazionale coniata dalla Comunità, con diritto di ogni paese membro di prelevare le somme disponibili in proporzione al numero dei disoccupati. La domanda interna e l'occupazione aumenterebbero in ognuno di questi paesi come effetto di tale sostegno, ma senza creare problemi nelle bilance dei pagamenti, perché il finanziamento avverrebbe in Ecu depositati presso le banche centrali che sarebbero la premessa del vero Ecu, ossia della moneta europea. Nel 1936 Keynes suggerì che per ridurre la disoccupazione sarebbe stato necessario stampare moneta e spendere di più. Oggi il vincolo estero impone che l'incremento della quantità di moneta sia mezzo di pagamento internazionale. Questa moneta è lo «scudo dei disoccupati», come l'ha chiamato Ezio Tarameli}, l'economista italiano assassinato dalle brigate rosse, che ha pagato con la vita la sua dedizione al movimento sindacale e la sua ansia di tradurre in proposte concrete l'ideale europeista. È, questa, solo utopia? Non era considerata forse utopia, fino a poco tempo addietro, la riforma dei Trattati per una nuova unione europea? Forse che l'utopia delle forze di progresso non è sempre la paura dello schieramento conservatore? Il sindacato e la sinistra europea sono le sole forze capaci di mettere in crisi il blocco moderato e conservatore. Per questo, la nostra strategia per il lavoro deve costituire non solo il primo passo per l'unione europea, ma deve dare anche un forte impulso all'unità della sinistra in Europa. Bisogna migliorare l'intesa operativa, che già c'è, tra Ces e sinistra europea. In ogni caso la Cgil, quale forza unitaria della sinistra italiana, è vitalmente interessata a promuoverla e a rafforzarla. Una simile prospettiva non è realistica senza una Ces autonoma, pluralista e non inquinata da pregiudizi ideologici. Non è saggio escludere dal nostro impegno quotidiano sindacati rappresentativi e democratici, e presumere, nel contempo, di poter sublimare le straripanti pressioni sociali dell'epoca contemporanea in un quadro ideale superiore: l'edificazione di un'Europa unita che rompa l'egemonia del dollaro, rappresenti una forza stabilizzante nei rapporti militari tra Est e Ovest, e che fondi su basi diverse la lotta contro la fame nei rapporti tra Nord e Sud. Il 30 gennaio scorso il Comitato esecutivo ha accettato all'unanimità l'affiliazione del Disk, un coraggioso sindacato che in questi anni è stato duramente represso dalla dittatura militare turca. E una decisione di grande significato politico e che arricchisce il pluralismo della Ces. Non si può affermare lo stesso, purtroppo, per la vicenda delle Commissioni operaie, le quali sono ancora costrette a subire una umiliante anticamera, tanto più incomprensibile alla vigilia dell'ingresso della Spagna nella Cee. Solo se saremo i rappresentanti autentici dell'intero mondo del lavoro, le nostre speranze di progresso, il nostro disegno di un'Europa nuova e pacifica potranno davvero realizzarsi.