Venezia, 25 aprile 1978



Discorso di Luciano Lama a Venezia, 25 aprile 1978



In questo 25 Aprile 1978 la nostra Italia è sottoposta a una grande prova, la più tremenda, certamente, dalla Liberazione a oggi.

Conquiste essenziali realizzate trentatré anni fa che parevano irreversibili, definitive, sono messe in discussione dall’aggressione armata che è in atto contro lo Stato e la società civile. E’ giusto, in questo anniversario, ritornare senza retorica alle ragioni della nostra lotta di allora per ricavare da questa riflessione i motivi di un rinnovato impegno giacché noi, partigiani, non siamo mai stati e non saremo mai un gruppo di reduci, di ex combattenti che si perdono nel ricordo di gesta passate, magari gloriose.

Perché abbiamo combattuto contro i fascisti e i tedeschi? Perché abbiamo rischiato la vita, perduto, nelle montagne e nei crocevia delle nostre campagne, nelle piazze delle nostre città migliaia dei nostri compagni e fratelli, i migliori? Perché siamo insorti, con le armi, quando il nemico era tanto più forte di noi?

Noi abbiamo lottato allora per la giustizia e per la democrazia, per cambiare l’Italia, per renderla libera.

Eravamo giovani allora, e, oltre il coraggio, molte delle nostre idee erano certamente confuse, non sempre la ragione riusciva a dominare l’illusione e l’utopia.

Ma la nostra lotta era fondamentalmente guidata, illuminata dalla volontà di distruggere la tirannide che aveva governato il Paese sopprimendovi ogni libertà e lo aveva portato alla guerra e alla catastrofe.

Io ho combattuto in Emilia, prima nell’ 8° Brigata Garibaldi e poi dalla sua formazione nella 29a Brigata Gap. Ebbene nelle discussioni che facevamo sulle montagne dell’Appenino nel terribile inverno ‘43 – 44 e poi, nelle buche scavate nei campi sotto il granturco durante l’estate del ‘44, la ragione della libertà, l’odio della dittatura, il diritto di esprimerci liberamente, di conquistare uno Stato diverso, permeava ogni nostro sentire, costituiva la molla potente per il nostro agire . E anche dopo, negli anni duri che seguirono la fondazione della Repubblica e l’avvento della nuova Costituzione, anche dopo, l’anelito di libertà e l’ansia di giustizia che avevano segnato indelebilmente la lotta di Liberazione, continuarono a rappresentare le ragioni più profonde e più vere del nostro impegno.

Abbiamo in quegli anni subito discriminazioni ingiuste, abbiamo contato ancora dei morti nelle 1 Archivio storico CGIL nazionale, Fondo Luciano Lama, INT 1, 33-38, fasc. 14

campagne e nelle città, ma sempre abbiamo lottato col metodo della democrazia, abbiamo rifiutato la violenza e il terrore.

Di quelle ragioni quante restano vive ancora oggi?

Quanti, dei nostri obiettivi di allora, rimangono da realizzare?

La libertà esiste, in Italia! La democrazia politica è stata mantenuta, non c’è in carcere oggi nessuno che abbia perduto la libertà per le sue idee, per il suo credo politico o religioso.

Persistono invece ancora troppe ingiustizie, troppe diseguaglianze, squilibri iniqui come la disoccupazione di massa, il sottosviluppo del Mezzogiorno, la mancanza di ogni prospettiva di lavoro utile per le giovani generazioni.

Anche se è vero che nella lotta di Liberazione molti di noi errando avevano coltivato l’utopia di un impossibile passaggio repentino a una società di uguali, è vero certamente che l’obiettivo di una civiltà più giusta nella quale siano cancellati privilegi e inumane disuguaglianze sociali resta ancora da raggiungere.

Quando si giunge a questo punto di una analisi che a me pare largamente condivisa, taluno aggiunge subito che la responsabilità è di tutti. Anche se è vero che nell’azione di ogni forza sociale è possibile trovare errori o debolezze non credo che si possa affermare che la responsabilità delle disuguaglianze attuali sono uguali per tutti, perché non è vero che in una società come la nostra la colpa di chi subisce l’ingiustizia sia uguale a quella di chi la fa subire.

Questo modo di ragionare agevola il mantenimento delle disuguaglianze, introduce le idee conservatrici del fatalismo e del qualunquismo e disarma i lavoratori nella lotta necessaria per la loro liberazione sociale e per la trasformazione, per il rinnovamento dello Stato democratico. Per queste ragioni che sono a un tempo sociali e nazionali perché rispondono all’interesse più profondo dell’intera collettività, incombe su di noi, che, lo ripeto non siamo ex combattenti che si perdono nel rimpianto di una gloriosa epopea, ma cittadini impegnati in una grande impresa di cambiamento sociale e morale per queste ragioni incombe su di noi il dovere di impegnarci in una nuova Resistenza, perché valori essenziali per i quali abbiamo lottato sono gravemente minacciati. L’attacco armato, la violenza eversiva che dura da anni e che ha raggiunto il suo acme con l’uccisione della scorta e il rapimento dell’On. Moro, è un attacco diretto alla democrazia, alla libertà, alla Repubblica e alle sue Istituzioni.

E’ vero che anche noi nella guerra di Liberazione abbiamo lottato con le armi, abbiamo sparato e ucciso, ma nessun altro mezzo esisteva allora per affermare la libertà degli uomini e delle loro idee. Il disegno delle brigate rosse è invece quello di distruggere questa conquista, di sommergerla in un bagno di sangue. Dicono i brigatisti, per sollevare i proletari!

In fondo a questo pauroso, criminale tunnel insanguinato col sacrificio di tanti uomini, non si leverebbe l’aurora di una società nuova e giusta ma soltanto un nuovo fascismo, una spietata dittatura o, come sola alternativa, una nuova guerra civile.

Compagni partigiani, le vittime che già si contano così numerose, da quelle di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, ai cinque poliziotti di via Fani, alle decine di carabinieri, di guardie carcerarie, di giornalisti, di dirigenti di azienda, di uomini politici che hanno subito l’attacco della violenza eversiva sono tutta gente nostra, uomini che hanno pagato con la vita l’aggressione allo Stato democratico.

E le metto di proposito tutte insieme queste vittime sia quelle cadute per proditorie azioni fasciste che le altre, sacrificate dall’attacco eversivo di organizzazioni cosiddette rivoluzionarie.

Io ignoro se esista o sia esistito, a qualsiasi livello, un rapporto fra gli uni e le altre. So però, sappiamo tutti, che l’azione eversiva porterebbe allo stesso risultato, sboccherebbe nella stessa fatale conclusione, in una spietata dittatura, se il suo attacco dovesse riuscire.

Ho detto prima che alcuni essenziali obiettivi della nostra lotta di Liberazione restano ancora da realizzare.

Ma la storia oltre che la ragione, ci dice che le strutture dello Stato Liberale, strutture che possono e devono essere rinnovate e trasformate, l’uguaglianza formale dei cittadini può diventare più sostanziale solo attraverso la lotta politica democratica, la partecipazione più piena degli uomini e delle donne alla vita politica, l’impegno quotidiano della nostra società in un’opera di profonda trasformazione.

La democrazia non è per noi soltanto un mezzo, essa è anche un fine, la condizione permanente per una convivenza civile e sociale più libera, per una partecipazione più piena degli uomini al Governo della cosa pubblica. Per questo noi che vogliamo costruire una società migliore vogliamo farlo partendo dalla realtà di oggi:

distruggere le Istituzioni democratiche, la Repubblica e la Costituzione è la stessa cosa che bruciare i libri sulle piazze; è un atto di barbarie, che nega storia e cultura, millenni di faticosa opera dell’uomo per elevarsi, per cambiare se stesso e la società.

Contro le Brigate rosse, dunque, bisogna lottare senza mezzi termini.

C’è stata troppa tolleranza troppa indifferenza perché non si è avvertito che in ritardo il pericolo mortale che incombeva su di noi. Troppi inquinamenti e compiacenze anche in alcuni settori dello Stato!

Ecco perché è necessario estendere l’impegno dei lavoratori per scovare i nemici della Repubblica, collaborando con la polizia e con le forze dell’ordine che hanno bisogno di questa collaborazione; ecco perché bisogna isolare i violenti e chi simpatizza con loro o li incoraggia; ecco perché bisogna mettere in opera ogni nostra capacità di convincere, di conquistare i troppi indifferenti, i troppi neutrali, i troppi passivi.

Le organizzazioni dei lavoratori, le organizzazioni dei partigiani sanno che senza l’impegno delle grandi masse, l’azione dello Stato contro la violenza rischia di trasformarsi in una serie di norme che limitano la libertà dei cittadini e che poi, anche per questo, diventano vane.

Quando noi combattevamo contro i fascisti e i tedeschi il nostro scopo non era certamente quello di atterrire, di seminare il terrore e la paura fra la gente; al contrario, le grandi masse dei cittadini erano con noi, per la giustizia della causa per la quale combattevamo. In questa drammatica lotta dobbiamo sconfiggere nella coscienza dei lavoratori e del popolo ogni tentazione al disimpegno, da qualunque parte essa venga. E a quegli intellettuali, pochi per la verità, ma prestigiosi, che ritengono di potersi isolare nel loro piccolo mondo interiore, distaccandosi in questo modo dai grandi problemi della società e dei suoi drammi, io ripeto che con questo atteggiamento essi mancano gravemente a un dovere morale. Non è vero che sia connaturato con la funzione dell’uomo di cultura assistere passivamente da spettatore alle vicende della società e della storia! Quanti uomini di cultura erano con noi, nella lotta di Liberazione; e quanti, anche in un passato tanto più lontano, hanno saputo scegliere, poeti o filosofi, o artisti o scienziati insieme, con la ricerca della verità e del sapere, anche la trincea giusta dalla quale difendere un impegno civile, la causa della libertà!

Contro la dittatura fascista noi eravamo uniti. Anche oggi lo siamo, e se non lo siamo ancora abbastanza, serriamo le file! Nella Resistenza Democristiani, Socialisti, Comunisti, Repubblicani, Azionisti e Liberali, uomini e donne anche di classi diverse combattemmo uniti per un ideale che ci accomunava e le leggi inesorabili della lotta armata, leggi uguali per tutti, non soffocarono in nessuno d noi né le sue distinte ideologie né il senso del valore dell’uomo. Questo ricordo dei nostri rapporti nella Resistenza può aiutarci ad assumere, oggi, sul grave problema che sta di fronte a noi e al Paese, la giusta via da seguire. Il Presidente della Democrazia Cristiana è stato rapito dalle brigate rosse che con una strategia perversa lo impiegano come esca per costringere lo Stato a cedere. Il senso di umanità che tutti ci ispira ci fa condividere l’angosciosa attesa , la disperazione della sua famiglia, dei suoi amici, del suo Partito.

Noi stessi siamo colpiti in un sentimento che non è solo di solidarietà umana.

Le sue lettere sono quelle di un condannato a morte scritte sotto dettatura dai suoi carnefici sono la voce delle Br sta a noi uomini liberi, in libertà e responsabili delle nostre azioni difendere la dignità nostra e anche quella di Moro.

Tutti gli uomini sono uguali di fronte alla minaccia di morte. Io che sostengo che non si può accedere al baratto con le brigate rosse non mi sento sostenitore di nessuna concezione prussiana o hegeliana dello Stato, non considero né ho mai considerato lo Stato come un idolo astratto al quale rendere sacrifici. Dobbiamo affermare che lo Stato di cui parliamo non è neppure il Governo, non è una alleanza politica, non è la strategia di un Partito o di un gruppo di partigiani. Lo Stato è la Repubblica, la democrazia, la libertà e questi valori che sono alla base della nostra convivenza civile valgono allo stesso modo per tutti e per ciascuno di noi e devono essere difesi senza incertezze e senza tentennamenti. Per questo abbiamo salutato e salutiamo la fermezza con la quale i Partiti e il Governo difendono le Istituzioni rifiutando il cedimento alle brigate rosse e condividiamo le iniziative umanitarie per salvare la vita di Moro che non portino a patteggiamenti e alla umiliazione delle Istituzioni.

Nessun diritto poi di chiedere il baratto a chi ha fatto sua la parola d’ordine “Nè con lo Stato né con le brigate rosse” e che perciò si è dichiarato nemico di questi valori e vuole distruggerli, magari con mezzi diversi da quelli usati dalle brigate rosse, non so davvero se per odio alla violenza o per personale pusillanimità.

D’altra parte, cedere in questo caso significherebbe dare il via a una catena ininterrotta di ulteriori capitolazioni poiché, lo ripeto, la vita di un dirigente politico, di livello elevatissimo, ha lo stesso valore di quella del più umile operaio o dell’ultimo dei poliziotti e non si potrebbe, di fronte alla minaccia di morte, usare due pesi e due misure.

Oggi, in un drammatico momento della nostra storia, guardiamo con grande preoccupazione al presente e ricordiamo con giusta fierezza, anche se senza trionfalismo, alla lotta di trent’anni fa. Ma se si dovesse scegliere l’umiliazione e il cedimento resterebbe in noi soltanto la vergogna di aver distrutto in un giorno le ragioni morali dell’impegno di una intera vita.

I giovani devono conoscere questi valori, e sapere che la nostra generazione, pur con tutti i suoi limiti e i suoi errori, ha creduto in qualche cosa e continua a sacrificarsi se è necessario per questi valori. La nostra gioventù i nostri figli così incerti e senza prospettive anche per nostre manchevolezze, devono ricevere da noi in questo momento una lezione di vita devono trovare in noi un esempio che come nel ‘43 - ‘44 non è fatto di parole, ma di scelte anche dolorose, di sacrificio anche grande perché c’è qualcosa che vale di più di ciascuno di noi, conquiste faticate nella storia degli uomini conquiste che ci trascendono e che si chiamano democrazia, libertà, uguaglianza. Occorre, dunque, attorno a questi grandi idee della nostra lotta di Liberazione mantenere e rafforzare la nostra unità, unità che oggi è costituita da una fondamentale intesa del mondo del lavoro, da un accordo di fondo esistente fra i Partiti, dalla tenuta del Partito più colpito, la Democrazia Cristiana, del suo Segretario, partigiano, Benigno Zaccagnini e del suo gruppo dirigente.

C’è qualcuno che parla di successo delle brigate rosse: non si può certo parlare del successo di un Partito sia pure armato, ma caso mai, di una banda di assassini; che dimostra di saper compiere i più efferati delitti e contro questa banda stanno le forze della democrazia, le espressioni più autentiche della volontà popolare di rinnovare lo Stato salvaguardando i valori della libertà. Chi ha preteso di superarli o, come qualcuno ha detto in questi giorni, di costruire società che si collocassero a un livello più alto rispetto al pluralismo e alla democrazia, ha costruito società che sono agli antipodi con la nostra concezione, perché vogliono spegnere l’idea stessa di partecipazione e di democrazia, sovrappongono agli uomini e alle loro idee strutture burocratiche e la volontà di ristrette oligarchiche politiche.

La giustizia, senza libertà non è neppure giustizia.

E’ in noi invece presente e urgente la spinta al rinnovamento di questa nostra Repubblica per questo dobbiamo impedire che la vita del Paese si blocchi in uno Stato di paralisi, di ipnotismo collettivo di fronte alla violenza dei terroristi. Trasformare la società vuol dire riempire di partecipazione popolare la vita stessa delle Istituzioni e, per il movimento dei lavoratori, portare avanti una lotta che cambi profondamente la condizione sociale delle masse, specie dei giovani e nel Mezzogiorno. Fra pochi giorni, il Primo Maggio, avremo occasione di spiegare ancora più diffusamente il nostro pensiero su questo problema, partendo dalle decisioni unitarie della Federazione CGIL – CISL – UIL e della Conferenza dei delegati di Roma.

Ma anche in questa circostanza dobbiamo insistere sul carattere di quelle decisioni: il sindacato conosce la profondità della crisi economica che attraversa il Paese e vuole mettere la sua forza grande al servizio di una strategia che cancelli gli squilibri sociali più gravi, che migliori la qualità della vita degli uomini. Per ottenere questi risultati noi sappiamo che la lotta è necessaria per piegare volontà e interessi che si contrappongono a questa politica di cambiamento. E, per ciò che ci riguarda, è necessario dar prova di coerenza e di fermezza. I lavoratori sono disponibili a compiere i sacrifici necessari perché la nostra società sia profondamente trasformata, cambiata. Ognuno comprende che non può durare a lungo un sistema politico che non sia capace di offrire alle giovani generazioni un lavoro onesto, una prospettiva sicura. Ma esempi concreti di questa volontà di rinnovamento i lavoratori li stanno dando proprio in queste settimane e continueranno a dare, poiché la nostra politica non è fatta di cedimenti e di compromessi, ma essa tiene presente le ragioni primordiali della nostra nazione e si dispone a lottare perché queste ragioni prevalgano.

Attorno a questa lotta noi chiamiamo i lavoratori, le donne, le giovani generazioni. Nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nella società deve nascere e svilupparsi un nuovo grande impegno per difendere la libertà e la democrazia, per cambiare l’Italia affermando quella esigenza di giustizia che animò la nostra lotta di Liberazione. C’è ancora un posto per noi, compagni partigiani, in questa dura battaglia di oggi.

La violenza e il terrorismo di un pugno di nemici non prevarrà su 56 milioni di uomini schierati a difesa della loro libertà.