1961: i trionfi mondiali nella 125 e 250
Il 1961 fu l'anno in cui il campionato mondiale di Velocità uscì per la prima volta dall’ambito europeo con la disputa sul circuito di Buenos Aires del primo GP d’Argentina che chiuderà quindi, il 15 ottobre, il primo vero “mondiale”.
E il 1961 fu l'anno in cui si vide la prima vittoria di una Honda in un gran premio del motomondiale: questo storico evento si verificò il 23 aprile al Gran Premio di Spagna, primo appuntamento del mondiale 1961 che si svolse sul circuito del Montjuich; in programma c’erano le sole classi 125, 250 e sidecar. La prima gara della giornata fu quella della 125 nella quale australiano Tom Phillis diede alla Honda la sua prima vittoria nella Velocità.
E il 1961 fu anche l’anno dei primi titoli iridati: vittoria nei campionati mondiali costruttori e piloti nella 125 (con Tom Phillis) e 250 (con Mike Hailwood) e vittoria nel TT sia in 125 che in 250, entrambe con Mike Hailwood!
Vediamo il dettaglio di questi trionfi
Nella 125 Honda vinse il campionato costruttori e 8 gare su 11 (al Tourist Trophy dell'Isola di Man occupò i primi cinque posti con Mike Hailwood sul gradino più alto del podio) ma, in mancanza di ordini di scuderia, ogni gara aveva un vincitore diverso ed Ernst Degner, della DDR (Germania Democratica), già due volte campione del mondo, su MZ poté costruire un buon margine piazzandosi sempre a punti. Dopo il GP di Svezia Degner fuggì dalla DDR e si trovò senza moto. La EMC gli offrì un posto ma la moto non venne consegnata in tempo per il GP d’Argentina e Tom Phillis poté così portare a casa il mondiale per la Honda.
Curiosità: l'ingegnere Ernst Degner l’anno successivo passò alla Suzuki, che vinse il TT nella categoria 50 cm³ nello stesso anno proprio con Degner, il quale contribuì attivamente alla progettazione dei mezzi da competizione Suzuki. Tuttora si dibatte se Degner abbia portato con sé i segreti tecnici delle fortissime MZ o se fosse semplicemente un eccellente ingegnere ed un gran pilota. Il fatto che abbia vinto altri quattro mondiali con Suzuki, mentre MZ iniziò a faticare con la sua partenza, depone a favore della seconda ipotesi.
Kunimitsu Takahashi fu il primo pilota giapponese a vincere un gran premio. Takahashi si aggiudicò il Gran Premio della Germania Occidentale classe 250 ad Hockenheim, battendo il compagno di squadra Jim Redman, anch’egli in sella ad una RC162 4 cilindri. In carriera Takahashi conquistò anche tre vittorie GP classe 125 in sella alle bicilindriche RC143 e RC145.
Nella 250 Honda vinse il campionato costruttori e il dominio della RC162 fu quasi imbarazzante, visto che vinse tutte le gare con l’esclusione del solo GP di Spagna (anche nella 250 al TT occupò i primi cinque posti ancora con Mike Hailwood sul gradino più alto del podio) . Fu comunque un mondiale rocambolesco.
Il trionfo di MIke Hailwood venne ricompensato in modo bizzarro da Honda… presentandogli un conto di 200 sterline per il trasporto delle sue moto dal Giappone in Europa!
1961: prima vittoria in assoluto in un Gran Premio per la Honda nel mondiale velocità con Tom Phillis.
1961: primo pilota giapponese in assoluto a vincere un Gran Premio fu Kunimitsu Takahashi su Honda 250 che si aggiudicò il G.P. della Germania Occidentale.
1961: primi titoli mondiali in assoluto per la Honda nelle 125 e 250. Su una di queste c'è l'impareggiabile Mike Hailwood (n. 7 nella foto)!
1962: dopo gli USA, il Belgio
Sulla scia del successo motociclistico al Tourist Trophy, Honda decise di aprire il suo primo impianto produttivo all'estero ad Aalst (Belgio), per far fronte alla domanda crescente di motociclette Honda.
Nel 1962 fu introdotto il razionale Super Cub C102 e le vendite iniziali furono molto ad sopra delle previsioni.
1963: il boom negli USA, ma l'Europa ancora non si preoccupa
Nel 1963 la ditta di pubblicità Grey Advertising acquistò da uno studente universitario un progetto di pubblicità per le moto Honda. Accompagnato dallo slogan “You Meet the Nicest People on a Honda”, rappresentava giovani, sorridenti e rispettabili, a bordo di Super Cub. Un’immagine lontana anni luce da quella di Harley-Davidson, incentrata su “duri” con giacche di pelle, o da quella degli Inglesi, coi loro corridori con caschetto ed occhialoni.
Kihachiro Kawasahima fu tanto entusiasta che si accordò per utilizzarla ad una cifra enorme: 5 milioni di dollari all’anno.
Il risultato: le vendite di Honda passarono da 40.000 unità nel 1962 a 200.000 nel 1963.
Triumph tentò persino di copiare questa campagna pubblicitaria per il suo scooter Tina, uno di quei prodotti che gli appassionati della casa di Meriden dimenticherebbero volentieri, leggere https://it.wikipedia.org/wiki/Triumph_Tina .
1963: dalle due alle quattro ruote
Honda iniziò a vendere nel 1963 auto e veicoli commerciali a quattro ruote. Ma la vera bomba, a due ruote, la stava riservando per il 1969...
Il primo veicolo a quattro ruote era un mini-pickup, il resistente T360 che ottiene un certo successo. Il secondo veicolo, invece, era un'auto innovativa, la S500: una piccola roadster a due posti in grado di raggiungere ben 9.500 giri al minuto e una velocità massima di quasi 130 km/h. Si trattava della versione di serie della concept car S360. Con le sospensioni indipendenti e un motore bialbero a camme, era all'avanguardia rispetto ai concorrenti più rinomati. Inizialmente le vendite non furono altisonanti, ma le auto Honda iniziarono a farsi conoscere e, dopo oltre 100.000 modelli di T360 venduti, entrò in scena la prima vera auto Honda per passeggeri, la N360 del 1967 (il cui motore aveva origine dalla moto CB 450 del 1965 descritta dopo). Questa super-utilitaria dal grande fascino ha spianato la strada all'automobile Honda superstar degli anni '70, la Civic.
Il primo veicolo Honda a quattro ruote: il piccolo pick-up T 360 del 1963.
Il secondo veicolo Honda a quattro ruote: la roadster S500 prodotto quattro mesi dopo il T360.
1964: l'esordio in Formula 1
Nel 1964 Kihachiro Kawasahima, che oramai aveva compreso che cosa voleva il pubblico americano, spese la bellezza di 300.000 dollari dell’epoca per uno spot pubblicitario televisivo durante gli Academy Awards (Oscar), facendo di Honda la prima compagnia straniera ad apparire in questo evento come sponsor.
Nel giro di una settimana gli uffici di American Honda ricevettero centinaia di richieste per l’apertura di nuovi concessionari.
A un solo anno di distanza dalla fabbricazione delle sue prime automobili, Honda decise in maniera coraggiosa di entrare nel mondo delle corse. La Honda RA271 esordisce nel Gran Premio di Germania di F.1 del 1964, diventando sempre più competitiva una gara dopo l'altra.
1965: prima vittoria Honda in Formula 1 e poi arriva la CB 450
Nel 1965, Richie Ginther, al volante della RA272, tagliò per il primo il traguardo del Gran Premio del Messico, regalando la prima vittoria in F1 alla casa dell'Ala d'Oro. Fu la prima vittoria di una marca non europea nella F1. A un solo anno di distanza dall'esordio della scuderia automobilistica, Soichiro aveva già realizzato il suo sogno.
Il 1965 è l’anno della CB 450. Fino a quel momento la Honda era considerata come una azienda produttrice di piccoli motori affidabili. La CB 450 cambia tutto. Con il suo motore bicilindrico di 444 cm³ capace di 10.000 giri al minuto, offriva già dai 7.500 giri prestazioni strabilianti. Dalla prima versione K0, questo modello sarà offerto in varie edizioni per un periodo di circa 13 anni. Era l’ultimo passo verso la rivoluzione, che avverrà quattro anni dopo con la CB 750 Four.
Sebbene le vendite della CB 450 non abbiano mai eguagliato le aspettative della Honda, la moto aveva un'eccellente ingegneria per l'epoca, inclusi componenti elettrici affidabili, il doppio albero a camme in testa (!), un avviamento elettrico e un basamento diviso orizzontalmente, tutte caratteristiche distinte dalle sue contemporanee concorrenti inglesi. Una caratteristica radicale era il molleggio della valvola: al posto delle tradizionali molle elicoidali, utilizzava le " barre di torsione " (barre di acciaio che si attorcigliavano per fornire l'effetto molla).
Il "Black Bomber" (così fu definita la prima serie) fu mostrato per la prima volta nel Regno Unito durante i Diamond Jubilee Brighton Speed Trials del settembre 1965, tradizionalmente tenuti sul lungomare. La moto era stata importata di recente e il suo motore non era neppure stato rodato, ma in uno sprint dimostrativo in una semi-gara, la CB450 guidata dall'inglese Allan Robinson (un membro dello staff Honda) raggiunse il chilometro di partenza da fermo in 30,1 secondi e una velocità terminale di 160 km/h. In un ulteriore evento pubblicitario, la Honda iscrisse Mike Hailwood come uno dei piloti nella gara di produzione di 500 miglia della Motor Cycle a Brands Hatch nel luglio 1966. Tuttavia, Hailwood fu in grado di completare solo alcuni giri dimostrativi sulla CB 450 prima dell'inizio delle gare, in quanto alla Honda CB 450 era stato vietato di gareggiare nella categoria 500 cm³, perché la FIM aveva ritenuto che "non poteva essere classificata come macchina di serie in quanto aveva due alberi a camme in testa"!
Nel 1967, poi, al suo esordio con la Honda di F.1 il pluricampione John Surtees ottenne un'epica vittoria al Gran Premio d'Italia al volante della nuova RA300 nella sua prima gara.
Le case motociclistiche europee continuarono a non accorgersi di niente, nonostante i tanti campanelli di allarme...
Honda CB 450 "Black Bomber": il Regno Unito viene avvertito con questo modello sulle intenzioni dell'industria motociclistica giapponese.
1966: campione del mondo Velocità in tutte le classi
Nel 1966 la Honda stabilì un primato tuttora imbattuto: conquistò il mondiale Costruttori in tutte le classi a due ruote: 50 (però il titolo piloti andò a Hans-Georg Anscheidt su Suzuki), 125 (titolo piloti: Bill Ivy su Honda), 250 (titolo piloti: Mike Hailwood su Honda), 350 (titolo piloti: Mike Hailwood su Honda) e 500 (però il titolo piloti andò a Giacomo Agostini su MV Agusta).
Il dominio fu talmente schiacciante che l'anno dopo, il 1967, decise di ritirarsi.
Giacomo Agostini su MV Agusta: due spine nel fianco delle Honda da corsa.
1968: qualcun altro si accorse che i giapponesi facevano sul serio
In una riunione del consiglio d’amministrazione della BSA/Triumph nel 1968, uno dei Responsabili Vendite, le cui mansioni includevano anche tenersi sempre informato sui futuri piani della concorrenza, se ne uscì con questa frase «Ho da poco appreso che a breve Honda inizierà a vendere una motocicletta da 750 cm³ di cilindrata». Queste poche parole bastarono a gettare il consiglio d’amministrazione nel panico.
Dopo un lungo silenzio, ci si accorse che non c’era altro da opporre ad Honda che il tre cilindri 750 il cui progetto era basato su tecnologia risalente al 1936. Un bicilindrico 750 venne immediatamente scartato perché i 650 allora in produzione davano già seri problemi di vibrazioni. In sintesi ci si doveva opporre alla nuovissima CB 750 con un motore che qualcuno aveva progettato “a tempo perso” cinque anni prima e con soluzioni tecniche vecchie di tre decenni.
Al Salone di Tokyo di quel 1968 si sarebbero scoperte le carte di due letali motociclette giapponesi: la Honda CB 750 Four, 4 cilindri e 4 tempi - appunto - e la Kawasaki 500 H1, detta Mach III ("3 volte la velocità del suono"), 3 cilindri e 2 tempi, detta "Widow maker" ("fabbricante di vedove") negli USA e "Bara volante" in Italia per l'impossibilità della sua ciclistica di imbrigliare (e fermare... aveva i freni a tamburo!) tutta la strapotenza del suo assetato propulsore.
La Kawasaki 500 H1 (qui vista dal lato destro) si apprestava a dividere le luci della ribalta con l’altra neonata, la Honda 750 Four, di cui era più veloce di svariati km/h! Anche l'accelerazione era fulminante, ma questa mezzo litro era la prima moto dotata di stampella laterale senza dispositivi di sicurezza o ripiegamento automatico e inoltre aveva la marcia folle non tra la prima e la seconda ma sotto la prima...
La Kawasaki 500 H1 (qui vista dal lato sinistro). Da sfatare anche la leggenda metropolitana del grippaggio del cilindro centrale. Non è mai stato un problema per le Kawasaki, al contrario delle altre tricilindriche del tempo dotate per questo motivo di convogliatori d’aria a scopo raffreddamento. Sulla robustezza e qualità costruttiva della 500 H1 (più del motore che del telaio) basti confrontare quante ne sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi ed invece quante sono le tre cilindri Suzuki GT 380/550/750 che ancora sono in giro.
1969: Honda CB 750 F. Niente fu come prima!
Il progetto della Honda 750 Four ebbe inizio nel febbraio 1968. La proposta nacque dal responsabile Honda USA, Nakajima, che intuì le esigenze del florido mercato americano. L’obiettivo era quello di creare una maxi-moto con il motore numero uno al mondo, visto che sarebbe andato a battagliare contro un futuro tricilindrico inglese BSA/Triumph di 750 cm³ (che fu poi la BSA Rocket 3 e la Triumph Trident) e contro delle grosse cilindrate di Kawasaki e Suzuki che avrebbero esordito sul mercato statunitense: la Honda CB 450 bicilindrica sarebbe stata quindi davvero ben misera cosa nei confronti di questi "mostri". Non vi erano parametri di riferimento, perché non esisteva ancora nulla di simile.
Unica istruzione: «Più grande è, meglio è!». A capo del progetto venne designato Yoshiro Harada, direttore della squadra corse Honda (che si era da poco ritirata dalle competizioni mondiali di velocità). E questo la dice lunga sul travaso di esperienze tra le moto da corsa e quelle di produzione, concetto che invece all'epoca veniva interpretato in maniera differente (la moto che vinceva le corse la domenica promuoveva la moto che si vendeva per tutti i giorni, anche se quest'ultima non aveva nulla da spartire con la prima). Responsabile dello sviluppo del motore fu Masaru Shirakura, sempre proveniente dalla squadra corse. La progettazione del telaio venne affidata a Hisayasu Nozue. La parte stilistica tocca a Hitoshi Ikeda. Il 13 febbraio 1968 il progetto viene classificato ufficialmente: è il n. 300 e lo sviluppo della Four prende il largo.
Una parte dei tecnici Honda provenienti dal mondiale di motociclismo velocità venne destinata a seguire il progetto dei 12 cilindri di Formula Uno, ma un'altra parte venne assegnata a seguire la nuova motocicletta nella sede di Asaka, prefettura di Saitama. Questi tecnici avevano già in casa un motore vincente, il 4 cilindri 500 bialbero RC 181 di Mike Hailwood, ma convertire un motore da corsa in un motore da strada come quello era improponibile per gli elevati costi in generale, la complessità meccanica (la 750 sarebbe stata monoalbero in testa e non bialbero come la 500 da competizione), gli alti regimi di rotazione, la cilindrata differente (la Honda USA aveva richiesto una 750, non una 500) e l'ingombro trasversale del blocco cilindri (tanto che la Honda CB 750 Four avrebbe avuto la corsa maggiore dell'alesaggio proprio per ridurre la sezione frontale).
Si pose molta attenzione sulla riduzione al minimo delle vibrazioni, che nei motori bicilindrici Honda, come in quelli di quasi tutte le case di allora, diventava poco gestibile superati i 500 cm³. Questo avrebbe permesso di avere grandi prestazioni per lunghi viaggi. La soluzione fu individuata in un motore quattro cilindri in linea, montato simmetricamente rispetto al telaio, inclinato in avanti di 15°, teste e cilindri in lega leggera, canne pressate in ghisa, camere di combustione emisferiche con candela centrale, distribuzione comandata da catena centrale, alimentazione con quattro carburatori, lubrificazione (ben dimensionata) forzata a carter secco con doppia pompa trocoidale di mandata e recupero, avviamento elettrico ma con la presenza comunque della leva del kick-starter, cambio a 5 velocità in cascata a doppio albero con ingranaggi sempre in presa e leva a sinistra con prima marcia in basso (al contrario delle moto inglesi che lo avevano rovesciato, come le moto da corsa), frizione multidisco a secco con comando a cavo, accensione a puntine platinate con doppio ruttore di accensione. Furono studiati i grafici e le curve di potenza e coppia del motore perché si volevano prestazioni tali da poter mantenere i 160 km/h con facilità per lunghi periodi (la carenatura non era stata presa in considerazione). Alla Honda capirono anche che lo stile è altrettanto importante quanto le prestazioni. Così diedero al motore potenza, prestazioni e un look meraviglioso. Disegnarono la moto in modo che il quattro cilindri fosse in primo piano, dando l’impressione di essere dinnanzi, non ad una normale due ruote, ma ad un vero esemplare da gara.
Inizialmente la 750 venne realizzata con freno anteriore a tamburo. Ma si sa, gli eventi che portano al successo sono basati su studi e sacrifici, ma anche sul coraggio di voler rischiare e su un pizzico di fortuna. In quel periodo Yoshiro Harada tornò da una visita negli Stati Uniti con un kit freno a disco che aveva acquistato in un negozio; questo freno a disco era molto efficiente e destinato all'after market dell'avantreno delle moto inglesi in vendita negli Stati Uniti. Alla Honda ne realizzarono una copia che venne collaudata e installata sulla 750. Alla fine di agosto il primo prototipo iniziò i test sulla pista di casa Honda. A settembre furono pronti due modelli: la versione rivoluzionaria con freno a disco anteriore a singolo pistoncino con comando idraulico che tutti noi conosciamo oggi e quella più tradizionale equipaggiata con freni a tamburo. E qui entra in campo una leggenda: quando Soichiro Honda visitò il suo centro di ricerca e sviluppo che sta lavorando alla realizzazione di una maxi-moto, pone una questione: «Chi vorrà cavalcare questo mostro?». Sotto il consiglio dei suoi progettisti si reca in Europa e in Nord America e si rende conto che la moto dei sogni di quel momento è la Triumph 650 cm³. Torna subito in Giappone e dà il via allo sviluppo del prototipo. Quindi allorché i tecnici sono molto dubbiosi su quale modello presentare, Soichiro Honda, entusiasta, spazza via ogni esitazione: «Dobbiamo assolutamente mostrare la versione con freno a disco!».
Il 25 ottobre 1968 la CB 750 Four venne presentata al salone di Tokyo.
La CB 750 Four e il suo motore sciolto vengono presentati al Salone di Tokyo nell'ottobre del 1968.
La Honda 750 Four nella versione ultimo prototipo. Si notano alcune differenze, come lo stemma sui fianchetti che nella versione definitiva sarà sostituito da quello che segue questa immagine e il freno a disco, diverso dal modello di serie. Una curiosità: il cambio a cinque rapporti del motore Honda 750 era stato progettato per lasciare spazio ad una eventuale retromarcia. Nel caso di insuccesso della moto, si pensava di riutilizzare il blocco motore per un’automobile di piccola cilindrata.
Il telaio a doppia culla in tubi di acciaio della CB 750 Four.
Nel 1969 la CB 750 Four arrivò ufficialmente al salone di Milano. Il pubblico fu impressionato dalla sua magnifica presenza. L’Honda CB 750 Four fu la prima quattro cilindri venduta in serie. In effetti, già qualche anno prima la Munch e la MV avevano prodotto delle 4 cilindri (la Munch di 1000 cm³ e la MV di 600 cm³ bialbero), ma erano state moto di nicchia, vendute in piccolissime quantità, e con costi esorbitanti. Lo stesso avevano fatto la Benelli, la Ducati e la Gilera, ma solo per le competizioni sportive. Le vere quattro cilindri, come la Honda 750 Four, si erano viste effettivamente solo in pista.
Chi fino ad allora aveva acquistato Norton Commando 750, Triumph Trident 750 e BSA Rocket 3 iniziò a comprare giapponese. Il motivo? Ancora nel 1969 le moto inglesi mancavano di avviamento elettrico, perdevano olio, avevano solo 4 marce, non avevano il freno a disco anteriore, erano tecnicamente ferme agli anni ’50 e si rompevano in continuazione.
Honda stupì il mondo con la prima motocicletta moderna: la CB 750 Four aveva avviamento elettrico, prestazioni eccellenti, elevata affidabilità e soluzioni tecniche d’avanguardia.
Il testimone di eccellenza nell’industria motociclistica passò quindi dal Vecchio Continente alla Terra del Sol Levante.
Per quanto vi resterà ancora dipenderà solo dalla capacità dei loro costruttori di ricordarsi da dove vengono e la sorte toccata a chi riposò sugli allori, sicuro che nulla sarebbe cambiato.
In pratica, come già abbiamo detto, i giapponesi non si limitarono a copiare ma cercarono di capire quali fossero pregi e difetti della produzione motociclistica occidentale sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista commerciale e poi presentarono il loro innovativo modello di veicolo motociclistico moderno, valido ancora oggi.
Mentre la CB 750 Four si vendette come il pane appena sfornato, ecco che BSA, Norton e soci non riuscirono neppure a ridurre l’altezza imbarazzante della sella dei loro vecchi bicilindrici. Mentre il Giappone iniziò a sfornare moto che tutti volevano, a Birmingham ci si scannava sul prototipo della 350 bicilindrica disegnata da Ed Turner, un progetto tanto scadente che non avrebbe mai dovuto essere neppure considerato per la produzione.
Era la fine per l’industria motociclistica britannica, che doveva il suo splendore più all’attività agonistica ed alla buona fortuna che alla qualità del prodotto. Per gli inglesi fu una dura lezione: la CB750 fu l’ultimo chiodo nella bara dell’industria britannica, già devastata quindi dalla mancanza di investimenti, da grossi problemi sindacali e da un management incompetente.
Anche negli USA, con l’arrivo delle nuove Benly e, soprattutto, della CB750 Four del 1969, la Honda divenne il primo venditore di motociclette.
Questa era la fallimentare Honda Benly del 1953 venduta sul mercato USA.
E questa era invece la nuova Benly del 1969.
Queste sono le parole dello stesso Soichiro Honda tratte dal libro “Il signor Honda, come si è raccontato a Yves Derisbourg”:
«Convinto che il motore a 4 tempi fosse assolutamente essenziale non solo per i ciclomotori usati comunemente ma anche per i bolidi da corsa, i nostri ingegneri pensarono a soluzioni originali rispetto alla concorrenza. Se avevo portato con me dall’Europa dei pezzi di tecnologia, non era certo per copiarli stupidamente. Era con l’intenzione di farli studiare e di cercare di trovare soluzioni diverse per ottenere migliori risultati. È sempre stato così che abbiamo affrontato la ricerca. La copia non ha mai fatto evolvere le cose. Per imporci a tutto il mondo dovevamo provare le nostre capacità di creare concetti nuovi».
In questo contesto nasceva la Honda CB 750 Four che venne accolta come una moto sofisticata, ma che richiedeva poca manutenzione e che perciò può essere oggi inserita fra le prime 10 motociclette più significative della storia in tutte le classifiche che si vogliano creare.
Sul tema del boom delle moto giapponesi la rivista Motociclismo nel 1970 indisse un referendum tra i suoi lettori ed ottenne ben trentaduemila risposte il cui esito è qui sintetizzato.
«I partecipanti al referendum hanno espresso una larga tendenza verso la moto di grossa cilindrata, di elevate prestazioni, realizzata con moderni criteri meccanici, comoda, confortevole, esteticamente bella, cioè moto oltre i 700 cc capaci di 180-200 chilometri orari, quattro tempi, cinque marce. Pur se notevoli le preferenze per il motore bicilindrico e monocilindrico, non sono da sottovalutare quelle che riguardano il quattro cilindri (si tenga presente che oltre il 70 per cento dei partecipanti ha dichiarato di usare la moto per turismo).
Nessun dubbio lascia la stragrande maggioranza di risposte per quel che riguarda gli accessori. I partecipanti vorrebbero la messa in moto elettrica, i lampeggiatori, il misuratore di benzina, l’antifurto, specchi retrovisori e carenatura; in una parola una accessoristica ricca e una strumentazione completa.
I risultati del referendum hanno dimostrato che le macchine giapponesi fanno gola proprio perché rispondono ai criteri dianzi elencati. Questo spiega, per esempio, le indicazioni ben precise nei confronti della Honda quattro cilindri.>>
La stessa rivista, però, si dimostra conservatrice nella prova del maggio del 1970, che conclude dopo gli elogi in questa maniera: «Ci auguriamo che i difetti di gioventù vengano ben presto ovviati dalla casa e chi vivrà vedrà.» Certo, in realtà gli ammortizzatori non erano all'altezza del resto della moto e l'assetto turistico e non sportivo non era adatto alle prestazioni (ricordiamo tuttavia che era nata per il mercato nordamericano), però addirittura si affermava, in relazione al freno a disco idraulico, che «un bel freno anteriore a quattro ganasce, magari un Fontana da 250, ci avrebbe soddisfatto di più.»
Non è vero quindi che gli italiani alla comparsa della Fiat 500 decisero di non voler più sapere nulla della moto; non vollero saperne più di quella tipologia di moto, ossia dell’utilitaria, ma appena arrivarono le giapponesi furono pronti ad accorrere dai concessionari per accaparrarsi le meraviglie tecniche del Sol Levante. E fu nuovo boom del mercato della moto in Italia, a meno di dieci anni dal declino.
Nel 1969 per la Honda CB 750 Four, presentata al Salone di Tokio nel 1968, viene utilizzato il termine "maxi-moto" (o "moto pesanti" come si diceva all'epoca) a ragione! La 750 Four presentava un motore a 4 tempi, 4 cilindri in linea da 736 cm³ , 4 carburatori, 4 marmitte, dotato di distribuzione in testa a catena, in un panorama in cui la maggior parte dei modelli di larga produzione presentavano le valvole in testa, ma avevano ancora la distribuzione ad aste e bilancieri. Nel panorama delle maxi-moto del tempo era l’unica che presentava quel tipo di caratteristiche; le concorrenti più accreditate presentavano dei frazionamenti del motore diversi, erano a 4 tempi ma bicilindrici le Moto Guzzi V7 Sport, Laverda SF, Ducati 750 GT, Norton Commando e BMW R75/5 , mentre presentavano invece propulsori a 2 tempi le Kawasaki 750 Mach IV e Suzuki 750 GT (vedere immagine sotto). La linea snella, agile ma possente, dissimulava perfettamente l'ingombrante propulsore e il peso elevato. È da notare che la moto qui raffigurata è la CB 750 Four ma non la K0, che la seguirà (molti confondono la K0 quale prima serie, ma in realtà la prima è la CB 750 Four senza nessun'altra sigla).
Infatti, dopo il prototipo visto prima, fu prima approntata la CB 750 Four (che presentava la scritta "Honda" sul serbatoio di colore nero, il fanale e i suoi supporti in tinta con la carrozzeria, i fianchetti squadrati e con una griglia, Il filtro dell’aria con una copertura liscia in tinta, le spie della strumentazione integrate nel contagiri e nel tachimetro, la sella con un accenno di codino, il comando dei carburatori è sdoppiato e la pinza del freno anteriore è lucida) e poi la K0 (giugno-agosto 1970, solo 8.600 esemplari prodotti, con comando singolo dei carburatori).
Sopra: due anni dopo la Honda, nel 1971, la Suzuki presentò la GT 750 che avrà in più rispetto alla Honda CB 750 Four il solo raffreddamento a liquido. Ma diverse cose in meno: tre cilindri, due tempi, freno anteriore a tamburo... Era praticamente il motore della T 500 (conosciuta come "Titan") con un cilindro in più.
Sopra: anche la Kawasaki 750 H2, strettamente derivata dalla 500, venne presentata nel 1971. La 750 H2 "Mach IV" non avrà nulla in più rispetto alla Honda (codino a parte): raffreddamento ad aria, tre cilindri, due tempi, freno anteriore a disco e non a tamburo come la Suzuki GT 750... Era praticamente il motore della 500 H1 (conosciuta come "Mach III") con un cilindro in più. Nell'attesa della Z1 900 4 tempi bialbero a camme in testa del 1972 (che in seguito avrà anche il doppio disco di serie). La Yamaha, nel frattempo, non azzeccherà sul mercato il modello di 750 cm³ vincente come invece faceva già in pista.
Il quadro strumenti della Honda CB 750 aveva ben 5 spie luminose e il contakm con il parziale, cosa che non tutte le moto dell'epoca possedevano (e comunque non possedevano la stessa dotazione, la stessa precisione e la stessa robustezza, visto che non di rado erano affogate nei supporti in gomma per non essere distrutti dalle vibrazioni). E non parliamo dell'avviamento elettrico, una vera chicca!
Peccato che non si possano confrontare facilmente i sottosella delle motociclette di quell'epoca. Questo è quello della CB 750 Four K0. Le batterie giapponesi iniziano ad acquistare fama di affidabilità e la stessa sella, comunque, per quanto discreta era molto comoda per due persone.
Con la serie F2 del 1977, il motore per la prima volta non è più color metallo lucido, ma viene dipinto di nero. La Honda CB 750 Four rappresentò una svolta nel mondo delle due ruote, non soltanto per lo stile e le prestazioni, ma anche per la sua affidabilità e per la necessità di una manutenzione minima. In quegli anni, solamente le automobili possono vantare motori con tali caratteristiche.
Curiosità: nel 1970, una delle quattro Honda CB 750 Four preparate per la corsa vince a Daytona con Dick Mann e conseguentemente nel campo del modellismo questo celebre motore venne riprodotto in scala persino in versione elettrificata, cioè con pile che mettevano in moto i meccanismi interni del motore: un funzionamento straordinario e affascinante!
Il cromatissimo propulsore, molto apprezzato all'epoca, era abbinato alle quattro marmitte altrettanto cromate che facevano perdere la testa agli appassionati! Anche gli specchietti cromati e gli indicatori di direzione cromati e di serie (a quei tempi non erano ancora obbligatori e anzi per i detrattori appesantivano la linea della moto....) contribuirono al fascino di questa 750, quando invece ancora in Italia non c'era una concorrente con il motore così lucido. L'estetica, poi, era impreziosita da quel freno a disco che le moto concorrenti esistenti ancora si sognavano.
Motore 4 cilindri, raffreddati ad aria – 763 cm³ – 67 cv a 8000 giri/minuto – distribuzione monoalbero a camme in testa – 4 carburatori 28 mm. di Ø - accensione a batteria/bobine – cambio a 5 velocità – trasmissione a catena – telaio a doppia culla – sospensione anteriore telescopica e posteriore oscillante – freno anteriore a disco idraulico mono pinza, posteriore a tamburo – serbatoio da 17 litri – peso 210 kg – velocità massima 189 km/h.
Tuttavia, l’industria motociclistica italiana corse lo stesso pericolo di quella inglese, cioè l'estinzione.
Scomparvero i marchi gloriosi che vincevano nei Gran Premi ma poi proponevano discutibili moto di serie, come la MV Agusta.
Ducati combatté con i suoi motori di grossa, media e poi piccola cilindrata ma rischiò lo stesso il fallimento.
Gilera ripiegò su moto di piccola cilindrata.
Laverda tentò di combattere nelle grosse cilindrate ma non ebbe scampo.
Moto Morini sopravvisse più a lungo perché dopo che vinse le competizioni con moto quasi di serie si ritirò ma le sue moto di serie continuò a farle bene, veloci, economiche ed affidabili e senza imitare i giapponesi.
Moto Guzzi e la consociata Benelli (la Motobi era nel frattempo scomparsa) scimmiottarono penosamente le giapponesi con le loro piccole cilindrate a 4 cilindri (tipo la Benelli 250 Quattro o la 500 Quattro, la Guzzi GTS 350/400) e le grosse a sei cilindri (tipo la Benelli 750 Sei e la 900 Sei in seguito) e riuscirono a sopravvivere grazie al protezionismo invocato dal patron Alejandro De Tomaso (che però decenni successivi si alleerà con gli odiati giapponesi per ottenere il motore a 3 cilindri per la sua Mini...) e all'IVA maggiorata che colpiva le moto di oltre 380 cm³.
Piaggio (il marchio, non il Gruppo) si tenne alla larga dalle motociclette.
Altri costruttori si bloccarono in una nicchia di mercato, che fossero sportive di piccola cilindrata (Malanca), mezzi da regolarità (Ancillotti, Aspes, Fantic Motor, Gori, Villa) o scooter (Italjet, Malaguti). Le innovative Cagiva e Aprilia erano di là a venire. Ormai la presunta superiorità italiana era fondata più su ricordi romantici che non su dati di fatto.
Un'altra realtà europea dai grandi numeri che non si estinse (mentre KTM, Husqvarna e altri costruttori tedeschi, francesi e spagnoli erano considerati piccoli produttori) fu la tedesca BMW che rappresentò, con i suoi boxer, un concetto di moto differente rispetto alle inglesi e giapponesi, specializzandosi nel settore del turismo, dopo che la sua R 75/5 non carenata cadde sotto i tremendi colpi della furiosa e leggera CB 750.
La verità è che i giapponesi di Honda, Yamaha, Suzuki e Kawasaki prima di tutto insegnarono al mondo l'industrializzazione ad alto livello qualitativo e quantitativo, la ricerca ossessiva della qualità in ogni vite, la ricerca ossessiva di trovare prestazioni affidabili in ogni poro, la possibilità di vendere questi gioielli a prezzi competitivi: in poche parole, il sogno della perfezione!
Queste erano le maxi-moto che avevamo in Italia al lancio della splendida Honda CB 750 Four, nessuna aveva l'avviamento elettrico ma già il solo confronto estetico non lascia loro alcuno scampo: sopra una Motobi Tornado (650 cm³ bicilindrica, 4 marce).
Seguono una Laverda 750 S (750 cm³ bicilindrica, l'unica a 5 marce, tutte le altre ne avevano 4...),
una Moto Guzzi V7 (700 cm³ bicilindrica, 4 marce),
una MV 750 Sport (750 cm³ , unica quadricilindrica, 4 marce, incredibilmente a cardano...).
Le Ducati vendevano al massimo una cilindrata di 450 cm³, la 750 GT bicilindrica fu presentata solo nel 1971. La Gilera, la Malanca e le Moto Morini non avevano nella loro gamma delle maxi-moto. I rimanenti produttori italiani di moto facevano invece piccoli numeri di vendita.
Una pungente pubblicità della CB 750 K7 in Italia. La Honda aveva già dimostrato in passato di saperci fare con la promozione dei propri veicoli.
"Ed il Polso", ovvero il provocante e duro Edouard Brancame del mitico fumetto Joe Bar Team alla guida della sua Honda CB 750 Four con scarico e sella modificati.
Nel fumetto la quadricilindrica giapponese battagliava quotidianamente contro "Pépé " (Guido Brasletti) su Ducati 900 SS, "Joe Regazzata" (Jean Manchzeck) su Norton 850 Commando MK1 e "Jeannot La Rotella" (Jean Raoul Ducable) su Kawasaki 750 H2.
Francobolli dedicati a modelli di moto famosi. In alto a sinistra la 750 Honda. L'unica italiana presente è l'iconica Ducati 916, molto più moderna (7° francobollo).
Le versioni della CB 750 Four
CB 750 Four: venduta dal 1969 al 1970.
CB 750 Four K0: venduta da giugno ad agosto 1970, non importata in Italia. La "K" sta per "Kaizen" cioè "Miglioramento" in giapponese.
La K1 (1970-71) è la serie di maggior successo, prodotta in 77.000 esemplari. I fianchetti vengono arrotondati e cambia lo stemma posto sugli stessi, che presenta ora la scritta in corsivo. La sella è senza l'accenno di codino, il fanale e i supporti sono ancora in tinta, la scritta Honda sul serbatoio diviene bianca. La pinza del freno anteriore è nera, la scatola del filtro aria è nera e con dei rilievi.
La K2 (1971-72), seconda solo alla K1 per numero di unità vendute, con i suoi 63.500 esemplari commercializzati, è forse il modello più apprezzato dai motociclisti del tempo, per il suo perfetto equilibrio tra cromature e elementi in tinta. In questa serie, il fanale diviene nero e i suoi supporti cromati. I silenziatori sono leggermente ristretti e il copri-catena diviene di metallo, non più di plastica. La pinza del freno anteriore è nera, la scatola del filtro aria è nera e con dei rilievi. Le spie luminose (4 e non più 5) vengono raccolte in un piccolo e ben realizzato cruscotto rettangolare al centro del manubrio. Le manopole presentano un risalto più evidente. C'è un accenno di maniglione cromato posteriore e sotto la sella appare il gancio per alloggiare il casco (non obbligatorio a quei tempi).
A partire dalle versioni K3 (1972-73) il serbatoio ha una nuova forma e viene ridisegnata la fascia del serbatoio. Essa presenta ora uno sfondo nero che include la scritta "Honda" ed è delimitata da un contorno filettato. Il disco anteriore, ha un piccolo paraspruzzi nero. In Italia viene importata solo la versione K3, mentre le altre non giungeranno mai nel nostro Paese.
La versione K4 (1973-74, non importata in Italia) riporta incisi sul carter motore i rapporti del cambio. Dalla versione K4 gli ammortizzatori posteriori passano da 3 a 5 posizioni di precarico.
Dalla versione K5 (1974, non importata in Italia) il tappo del serbatoio viene spostato a sinistra e lo sfondo degli strumenti passa da azzurro a verde. In questa serie gli indicatori di direzione diventano più larghi, come quelli della Honda Goldwing.
La versione K6 (1975-76) non viene importata in Italia.
Il modello K7 (1976-77) è un po’ stravolto rispetto ai precedenti, per molti non in positivo. Cambia il disegno delle fasce del serbatoio, la forma della sella, non ci sono i paragambe sugli scarichi, il tappo del serbatoio è protetto da uno sportellino, come nella Goldwing. Sulla forcella anteriore è presente la scritta "Honda". Cambia anche la scritta sui fianchetti e le spie vengono spostate su una centralina tra gli strumenti.
Il modello K8 (1977-78) è l’ultimo con la sigla K.
La serie A della della Honda 750 Four viene sviluppata appositamente per il mercato americano e presenta un futuristico cambio automatico. La mancanza dei classici rapporti affascina poco gli europei, che la snobbano completamente. In Italia non verrà importata. È un modello tecnologicamente all’avanguardia, che avrà anche una sorella minore con motore di 400 cm³.
La serie A0 (1975-76, non importata in Italia) presenta la sella con codino posteriore e scarichi dritti. Le ruote sono a raggi. Guardando lateralmente il motore si nota, nella zona centrale, il vistoso cambio automatico che trova posto accanto alle tradizionali forme del classico quattro cilindri in linea 750 cm³ di casa Honda.
La serie A, nelle versioni A1 (1976-77, non importata in Italia) e A2 (1977, non importata in Italia), viene rivoluzionata nelle linee, cercando di uniformarla con il nuovo look della K7. Nella versione A1 la sella è su due piani, gli scarichi un po’ curvi verso l’alto. La serie A2 ha i cerchi a razze.
Serie F. Alla Honda, per dare una ventata di novità alla 750, nel 1975 mettono in produzione una nuova versione, la F. Il modello si presenta più aggressivo rispetto ai precedenti. Viene denominato "Super Sport" (SS), scritta che è riportata sotto quella "Honda" sul serbatoio. Visto che molti utenti della 750 K montano, per renderla più sportiva, gli scarichi 4 in 1, la serie F adotta questo sistema. I fianchetti sono adesso neri e non più in tinta con la carrozzeria. Viene inserito un codino in tinta con la carrozzeria e finalmente il freno a disco posteriore. Il segno di rinnovamento che porterà fortuna alla CB 400 Four SS (serbatoio più squadrato e scarico 4 in 1), non ha gli stessi risultati nella 750, tanto che alla Honda sono costretti, date le elevate richieste, a rimettere in produzione parallelamente alla nuova serie F, la serie K. La serie F è un esempio di progetto ben realizzato, ma forse non adatto al mercato di allora, non ancora pronto a questi cambiamenti.
Serie F0 (1975, non importata in Italia) e F1 (1975-76). Questa serie ha la sella con codino e terminale in tinta con la carrozzeria. Lo scarico, per rendere il modello più sportivo, viene montato , come nella CB 400 Four SS, 4 in 1. La ruota posteriore è fornita di freno a disco. Il serbatoio è più squadrato.
Serie F2 (1976-77) e F3 (1977-78, non importata in Italia). In questa serie il motore per la prima volta non è più color metallo lucido, ma viene dipinto di nero. Finalmente i dischi all’avantreno sono due e poi le ruote diventano a razze. Il tutto, anche se costituisce un mix tecnologicamente più avanzato del modello precedente, ne appesantisce un po’ la linea.
La Honda Four, nelle varie cilindrate (da essa derivò nel 1971 la CB 500 Four), è stata venduta in più di 600.000 esemplari ed è stata sostituita dalla nuova serie dotata di doppio albero a camme.
Possiamo anche terminare qui la dura lezione che la Honda (e le altre case giapponesi) inflissero all'industria motociclistica europea.
Il resto, infatti, è facilmente rintracciabile sui vari siti Internet. Tuttavia riteniamo opportuno ricordare brevemente "il decennio magico" del 1900, cioè gli anni '80, in campo motociclistico (trascureremo volutamente il settore automobilistico dove Honda ha comunque ottenuto lusinghieri successi sportivi e commerciali).
A partire dal 1980 Honda lanciò sul mercato motociclistico prodotti molto coraggiosi con un esasperato ritmo produttivo a cui solo i suoi concorrenti giapponesi seppero tener fronte.
Sopra, la Honda CB 125 X.
La prima moto realizzata ad Atessa (Chieti) era una bella monocilindrica 125 cm³ a 4 tempi raffreddata ad aria, 12 CV per 112 kg: allora le 125 erano il mercato di maggior successo in Italia. Motore dai consumi contenuti, look classico e tecnologia “made in Japan”, rappresentava il primo esempio di prodotto “glocal”: nato originariamente all’estero (Giappone) ma perfezionato per un mercato locale (quello italiano). Il prezzo contenuto lo rese un immediato successo sul mercato italiano.
Sopra, la Honda CX 500 Turbo. Segue l’immagine della CX 650 Turbo.
Le moltissime novità tecnologiche che sfoggiava la prima moto turbo di serie fecero subito apparire la CX 500 Turbo diversa da qualsiasi altra moto vista prima. Su un unico modello erano contemporaneamente presenti di serie testate a 4 valvole, raffreddamento a liquido, trasmissione a cardano e pneumatici tubeless. Ma altre caratteristiche peculiari si trovavano nel motore bicilindrico a V di 80° privo dell’alettatura di raffreddamento e nell’insolita dislocazione sul telaio. Montato trasversalmente, non sporgeva come analoghi propulsori a V del periodo, in quanto vedeva i due carburatori posizionati sotto il serbatoio - lontano dalle gambe del pilota e ben protetti dalle intemperie. Infatti, i tecnici Honda avevano ingegnosamente intrecciato le camere di scoppio sui cilindri, dove le aste delle valvole erano collegate all’albero motore. La CX 500 T era destinata a coprire lunghe distanze e riscosse un discreto successo, anche se non era così sportiva come il motore sovralimentato sembrava promettere. La CX 500 T rappresentò per Honda la vetrina della tecnologia del turbocompressore applicata alle moto. Si dovettero superare molti ostacoli, specie considerando i cicli di scarico irregolari del bicilindrico a V, che resero lo sviluppo del propulsore ben più complesso rispetto a quello di un classico motore 4 cilindri in linea. Quindi la CX 500 Turbo fu la prima moto sovralimentata mai prodotta nella storia a diventare un prodotto di serie e la successiva CX 650 Turbo prima Honda di serie con motore alimentato ad iniezione. Oggi il sistema d’iniezione PGM-FI, diffuso sulla gamma moto, auto e motori fuoribordo della Casa giapponese, deriva strettamente dal progetto sviluppato per la CX 650 Turbo. Grazie all’ampia e protettiva carenatura, questa moto era anche una pratica moto da turismo. Il turbocompressore svanì rapidamente come soluzione tecnica presente sulle due ruote, ma Honda aveva dimostrato come fosse in grado di vincere anche questa scommessa, non solo tecnicamente ma anche da un punto di vista commerciale.
Uscita dai listini nel 1978 la mitica CB 750 Four del 1969 e in generale di tutte le CB Four monoalbero, la casa giapponese in loro sostituzione introdusse sul mercato le nuove CB con motori bialbero nelle cilindrate 750, 900 e in seguito 1100. Nel 1981 venne invece presentata la prima versione della CB 1100 R, con quel suffisso R che ricordava le corse. Nei due anni successivi (1982 e 1983) vennero introdotte diverse modifiche, come la carenatura completa e la coda dotata di guscio coprisella, che celava la porzione riservata al passeggero, ma anche il serbatoio in alluminio, il faro che da tondo divenne quadrato e i cerchi ComStar in alluminio anodizzato oro, gli stessi della CX 500 Turbo. Cambiò anche la misura della ruota anteriore, dai 19 ai 18 pollici (con pneumatici 100/90 davanti e 130/80 dietro), mentre la forcella venne dotata di dispositivo anti-dive e di steli da 39 mm e i nuovi ammortizzatori pluriregolabili vennero realizzati appositamente per questo modello. Le differenze tra il modello CB 1100 RC del ’82 e il CB 1100 RD del ’83 erano invece quasi prettamente estetiche, con la “RD” dotata di una carenatura ristilizzata e una diversa combinazione di colori, ma tecnicamente immutata, se si esclude il forcellone a sezione quadrata della CB-RD. L’83 vide anche la commercializzazione del modello CB1100F (in sostituzione della CB 900 F), venduto solo in quell’anno, anno che segnò anche la fine dello sviluppo delle serie CB raffreddate ad aria, che verranno sostituite dalla serie VF a 4 cilindri raffreddati a liquido, di cui uno dei modelli di punta fu la VF 1000 R.
Sopra, la Honda Stream.
All’inizio degli Anni ’80, Honda presentò un futuristico veicolo stradale dalle originali soluzioni tecniche, capace di offrire una rara sensazione di guida: si trattava di uno scooter… a tre ruote! Lo Stream (o Gyro) sorprese il pubblico per la caratteristica di potersi inclinare lateralmente quando affrontava le curve mentre la parte posteriore, che comprendeva il motore e le due ruote motrici, rimaneva perfettamente perpendicolare alla strada - grazie all’adozione di un differenziale. Il risultato era un assetto straordinario (e comodo) che offriva piena fiducia al pilota grazie a superiori livelli di tenuta di strada e sicurezza complessiva. Ebbe un discreto successo. Non era da confondersi con l'omonima automobile Honda Stream, visto che la casa giapponese ha dato lo stesso nome ad alcuni suoi modelli di automobili e di motocicli (si pensi al nome Jazz o Integra). Lo Stream Honda faceva parte di quei veicoli tuttofare come ad esempio la moto-furgone CT 50 Motra o lo scooter tascabile NCZ 50 Motocompo.
Sopra, la Honda XL 125.
Che cosa ci vuole per far diventare una moto “di moda”? Più che progetti a tavolino, forse solo un bel prodotto (anche di design) e tanta fortuna commerciale. Questo è ciò che successe alla XL 125, la prima “vera” moto prodotta in Italia (Atessa) appositamente per il mercato italiano e che già impiegava qualche componente realizzato localmente. Il look elegante e compatto e i costi d’esercizio estremamente contenuti la resero un immediato "best seller", specie fra i giovanissimi (16-20 anni) "pariolini" e "paninari" delle città italiane. Spinta da un tradizionale motore 4 tempi onesto ed affidabile, fece nascere il fenomeno delle moto enduro in Italia rivaleggiando con le ben più potenti (e costose) enduro 2 tempi costruite dai concorrenti italiani. Un successo (nonostante il freno anteriore a tamburo iniziale...) di cui Honda Italia poté andare giustamente fiera.
Sopra, la Honda FT 500.
La Honda FT 500 ("Ascot" su alcuni mercati) nasce nel 1982 come versione "stradale" della famosa XL 500 S, intorno al collaudato motore monocilindrico da 500 cm³. Era una moto facile, senza kick starter, equilibrata, dalla ridotta manutenzione e consumi, ma non ebbe avuto il successo sperato a causa del sui strano disegno: era una "naked" quasi da fuoristrada (anzi, da "Flat Track" come dimostra la sua sigla) ma con una lunga forcella in stile custom. Più che altro, dimostrava al mondo che non c'era una nicchia di mercato che all'epoca la Honda lasciasse scoperta.
La versione 1986 della Nighthawk 450, l’unica commercializzata in Italia.
Questa apprezzata - soprattutto nelle cilindrate 450 e 650 - bicilindrica monoalbero (la cui serie Nighthawk spaziava dalla 250 alla 750 nonché dal 2 cilindri al 4 cilindri nonché dalla trasmissione finale a catena all'albero cardanico) dimostrava quasi dalla sua frettolosa uscita di produzione che i giapponesi non amavano evidentemente le lunghe serie (vedere i casi di Kawasaki Z 900, rimasta in produzione solo dal 1972 al 1977, Honda CB 350 Four, venduta solo dal 1974 al 1976 e sostituita d'ufficio con la "strana" CB 400 Four, tra la perplessità del pubblico e della critica e inoltre occorre leggere più in basso il caso della Kawasaki GPZ 900R) .
Insomma, sembrava quasi che i nipponici non riuscissero proprio a "star fermi" e godersi il successo, dopo pochi anni si cambiava tutto a prescindere dalla validità o meno del progetto: era davvero l'ora di proporre qualcos'altro, poiché il circo Made in Japan non doveva fermarsi mai?
Nel 1983 comunque la Honda lanciò la serie custom Shadow, nel 1985 la serie custom Rebel.
Sopra, la VF 750 S del 1982. Era dotata di un particolare antifurto ottico che però non fu importato in Italia.
Segue l'immagine della VF 750 F del 1983.
La scelta di un 4 cilindri a V per equipaggiare i motori ad alte prestazioni (purtroppo presentato su una moto turistica ancora priva di carenatura, con il freno posteriore a tamburo e con l'albero cardanico finale) fu innovativa. Adottato per la prima volta sulla rivoluzionaria VF 750 S (prima foto), questo propulsore conciliava la potenza e la fluidità del 4 cilindri con la vigorosa coppia di un grande motore a V - caratteristica che molti motociclisti trovarono decisamente affascinante: si poteva infatti realizzare un propulsore incredibilmente compatto e snello. Già nella sua veste originale, questo 4 cilindri a V di 90° con distribuzione a 16 valvole disponeva di 82 CV raffreddati a liquido. L’albero motore era collocato di traverso al telaio, ma la trasmissione finale era cardanica, abbinata alla più avanzata sospensione anteriore con anti-dive e ad una sospensione posteriore con monoammortizzatore Pro-Link. Accattivante la strumentazione a cristalli liquidi. Negli anni successivi, Honda impose il V4 come la propria, caratteristica, configurazione tecnica.
Nel 1983 venne affiancata dalla VF 750 F, (foto successiva) finalmente con carenatura, con trasmissione a catena ed un telaio (d'acciaio in tubi quadri - prima Honda ad adottare questa soluzione - e non verniciato in nero) più agile. Nel 1984 l’azienda prese seriamente in considerazione l’idea di abbandonare la scelta strategica dei motori V4 ma, dopo un’accorata difesa di questa configurazione da parte della Honda Europa, Il grande successo della VFR 750 F (1985), moto presentata in colorazione esclusivamente e totalmente bianca, dimostrò come la fiducia concessa fosse stata ben riposta! La VFR 750 F attingeva tecnologia a piene mani dalle imbattibili RVF da competizione, per offrire un eccezionale connubio di prestazioni, affidabilità e versatilità.
La versione senza carenatura della CBX 550 F (sopra) e con carenatura (immagine successiva). La versione Integra (tutta bianca e con motore cromato) fu venduta sul mercato giapponese.
La Honda CBX 550 F era una moto da turismo sportiva a quattro cilindri in linea e quattro tempi raffreddato ad aria, prodotta dalla Honda tra il 1982 e il 1985. Poteva raggiungere una velocità massima di 191 km/h. La coppia massima era di 49,0 Nm a 8000 giri/min. La potenza dichiarata era di 58,74 CV (43,8 KW) a 10000 giri/min. Aveva ruote in lega tipo Comstar e I freni, vera particolarità di questa ed altre moto dell'epoca (CBX 400 - 550 F, FII) erano, avanti e dietro, dei monodisco completamente carenati. Una soluzione quest'ultima che sebbene abbia alcuni vantaggi (con la pioggia ad esempio), fu presto abbandonata perché costosa, applicabile solo ad un singolo disco e con qualche problema di raffreddamento/affaticamento, pulizia dei residui di attrito e complicazioni nella manutenzione (per sostituire le pastiglie occorreva smontare la ruota!). Questa moto aveva il tremendo obiettivo di affossare le vendite della best seller Kawasaki GPZ 550 Uni Track, ma non riuscì anche perché palesò qualche problema di affidabilità (tendicatena e cuscinetti di sterzo).
La Honda VF 400 F del 1983 (sopra) ispirò indubbiamente le Gilera serie RV 125 (immagine successiva) e 200 che esordirono al Salone di Milano a novembre 1983.
La VF 400 F era la rivale, nei sogni dei giovani appassionati, della Yamaha RD 350 LC. Non si poteva desiderare nulla di più, bella e veloce, il miglior mezzo per scatenare l'invidia di chiunque. In Italia fu importata dal Giappone e dall'Inghilterra nei colori rosso (telaio grigio) e bianco (telaio rosso). Al suo disegno si ispirarono le successive Gilera RV 125 e 200. La VF 400 era spinta da un propulsore 4 cilindri, 16 valvole, a V, di 399 cm³. Due cilindri avanti e due dietro per una potenza di quasi 60 CV a 12500 giri. Coppia massima raggiunta a 10000 giri! I numeri non lasciano dubbi: un propulsore rabbioso che dava il meglio di sé tirandogli il collo. Un cuore sportivo di gran classe, una tecnologia raffinatissima per l'epoca di produzione. I freni erano carenati ma la moto comunque era ben frenata, con qualche limite nell'uso sportivo.
La VF 500 F veniva proposta principalmente con queste due grafiche. A differenza della 400, non aveva i freni "inboard".
La VF 500 F venne siglata V30 (sempre esprimendo in pollici cubi la cilindrata) ed ereditò il nome "Interceptor" della sorella di maggior cilindrata, ma venne presto soprannominata “Miniceptor”, per via della cubatura inferiore. A dire il vero con la VF 400, questa 500 condivideva ben pochi pezzi. Il motore di 498 cm³, alimentato da 4 carburatori da 32 mm Ø e raffreddato a liquido con distribuzione DOHC a 16 valvole, misurava 60 mm di alesaggio per 44 mm di corsa, mentre quello della 400 misurava 55 x 42 mm, dunque non si trattava di una versione rialesata del motore di cilindrata minore. Il V4 della 500 sviluppava 70 CV a 11.500 giri e aveva una coppia massima di 4,2 kgm a 10500 giri, dunque un carattere tipicamente sportivo, assecondato dal cambio a 6 marce. Lo stesso motore venne utilizzato anche sul modello custom VF 500 C “Magna”. Esteticamente si presentava con una semicarenatura che incorniciava il faro quadrato e si univa idealmente con le linee del serbatoio da 17 litri, a differenza della VF 400 F che aveva un semplice cupolino. Il look sportivo veniva enfatizzato dallo scarico quattro in due e dalle colorazioni. Solo per il mercato europeo venne realizzata già dal 1985 la VF 500 FII o F2, che non era una versione evoluta o successiva ma bensì dotata di carenatura completa, oltre che di cerchi neri. Nel 1987 la VF 500 F cedette il passo alla sue erede, benché totalmente diversa, a partire dal motore quattro cilindri in linea: la CBR 600 F, una delle sportive più longeve della storia del motociclismo, come si può leggere più sotto.
La Honda CBX 750 F (sopra) trovò sulla sua strada due temibili concorrenti: la Kawasaki GPZ 600R e la Suzuki GSX-R 750 (immagine seguente).
La CBX 750 F (conosciuta come CBX 750 E, CBX 750 G, CBX 750 P o RC17) non è stata un gran successo (nonostante avesse buone prestazioni, grande affidabilità, punterie idrauliche e nella versione CBX 750 P utilizzasse una frizione antisaltellamento - limitatore di coppia di ritorno - e una molla a diaframma per innestare la frizione), avendo in casa la principale concorrente, quella VF 750 F vista prima. Prodotta dal 1984 al 1988. Le prime versioni avevano una ruota anteriore da 16 pollici di diametro che limitava la scelta degli pneumatici sostitutivi. Non ebbe vita facile nelle vendite a causa della sorella VF 750 F. A darle la mazzata finale furono la Kawasaki GPZ 600R ma soprattutto la Suzuki GSX-R 750 (il cui Model Year ’85 era contraddistinto dalla lettera F) presentate alla fine del 1984 all’IFMA di Colonia ed entrata in commercio nel marzo del 1985, che può essere considerare la prima delle racer replica dell’epoca, con applicazioni tecnologiche derivate dal mondo delle corse, in particolare da quelle di Endurance (il campionato mondiale Superbike ancora doveva nascere, nel 1988).
In Giappone venne venduta, nel 1984, la versione CBX 750 Horizon dotata di cupolino al posto della semicarena e nel 1985 la versione CBX 750 Bol d'Or dotata di carena integrale.
Sopra, la Honda SH 50.
Eleganza e praticità erano le caratteristiche del blasonato SH 50 (conosciuto in Europa anche come Scoopy, Fifty o City Express), scooter di successo in Italia e oggetto di continui miglioramenti nel corso dei molti anni di produzione. Nato espressamente come veicolo destinato ai rapidi spostamenti urbani e destinato principalmente agli adolescenti del vecchio continente, vantava un silenzioso motore monocilindrico 2 tempi, un’affidabile trasmissione a cinghia e ruote da 16 pollici per una guida in totale sicurezza. Prodotto originariamente in Belgio, la nuova versione degli anni ’90 (con ruote in lega e cilindrata anche di 100 cm³) è stata prodotta dal 1996 al 2001 presso la Honda Italia di Atessa (che produrrà il Bali 50 nel 1993 e il Bali 100 nel 1995 a ruote piccole, altri scooter di successo). Risalgono invece al secolo successivo le famosissime versioni SH 125 e SH 150 cm³, con propulsore 4 tempi, veri "best seller" in Italia nelle classifiche delle vendite.
Sopra, la Honda XL 600 LM.
La crescente popolarità della Parigi-Dakar spinsero la Honda negli anni ‘80 a realizzare la XL 600 LM, una moto fuoristrada dalle ottime prestazioni anche stradali - grazie ad un motore monocilindrico (dall'inconfondibile colore rosso) di raffinata concezione. La prima Honda che aveva vinto la classica sahariana era stata nel 1982 una XL 500 quasi di serie, con cilindrata però maggiorata a 550 cm³ La XL 600, forte del proprio motore da 591 cm³ con testata a 4 valvole radiali RFVC (Radial Four Valve Combustion), divenne così da subito la più grande monocilindrica Honda mai prodotta. Particolari tipicamente da “moto del deserto”, quali l’enorme serbatoio da 27 litri ed il doppio faro anteriore, conferirono alla XL 600 un’aria imponente. Ma ci voleva un vero pilota fuoristrada per tirar fuori il meglio da questa monocilindrica nella guida off/road…
La NS 125 F (25 CV, 115 kg) arrivò dopo la Gilera RV 125, in un periodo in cui l'esasperato ritmo produttivo della Honda era replicato dalle case italiane nella classe 125 da strada e da entrofuoristrada (1984-1994). Altri modelli 125 che scesero in campo furono:
Aspes Yuma,
Benelli Jarno,
Fantic Strada e HP1,
Garelli TSR e GTA,
Laverda LZ, LB, LB Sport, LB Uno, GS Lesmo e Navarro,
Malanca OB One.
Queste case italiane scomparvero dalla scena, mentre a Honda, Aprilia, Cagiva e Gilera si oppose solo la Yamaha con la sua TZR 125. E non abbiamo menzionato le 125 Enduro...
A partire dal 1984 le 125 "andavano forte" come prestazioni e come vendite commerciali tra gli adolescenti. La NS 125 F era il sogno adolescenziale di tutti i ragazzi di quei tempi che bramavano questa “ottavo di litro” super tecnologica con motore 2 tempi ad alte prestazioni (in precedenza la Honda aveva proposto sempre motori a 4 tempi per le sue 125), caratterizzata dal telaio perimetrale d'acciaio ma color alluminio in tubi quadri, dal monoammortizzatore posteriore, dalla in tubi quadri con il monoammortizzatore, dall’espansione con il silenziatore racing e la valvola parzializzatrice sullo scarico, dall’ammissione lamellare, dal miscelatore automatico e dalla dotazione di serie di qualità Honda, sempre elevatissima, dalla sella rossa ai cerchi in lega neri. È stato un vero fiore all’occhiello della tecnologia Honda “made in Atessa, Italia”, ed ha in seguito conquistato anche i mercati d’oltreoceano, dove è stata esportata con successo. Dominatrice del mercato e delle gare “Sport Production” riservata alle derivate di serie, è stata la moto sportiva per antonomasia dei giovani italiani (e non), che perdevano i pomeriggi non solo sui libri ma anche a cercare nuove soluzione tecniche per farla risultare ancor più veloce di quanto già non fosse… Le sue concorrenti di pari cilindrata, al contrario degli anni '70, non sono però state a subire ed hanno sfornato mezzi sempre più sofisticati tecnologicamente e rabbiosi nelle prestazioni, veicoli incredibili per esser appena dei 125, ricordiamo:
1982 - Aprilia esordisce nel settore stradale con la sorprendente ST 125 (18 CV, 126 km/h) con motore di derivazione fuoristradistica Hiro: affidabile, veloce, polivalente, rifinita.
1984 - Aprilia STX 125 (26 CV, 107 kg). Rispetto alla equilibrata ST del 1982, la linea della STX beneficiò di un inedito cupolino che assieme al puntale anteriore facevano parte delle dotazioni standard. La ciclistica, primo caso fra le 125 stradali italiane, adottava una ruota anteriore da 16” ed il motore Hiro venne impreziosito dal miscelatore automatico. Esordì a marzo 1984 sul mercato.
► 1984 - Gilera RV 125 (20 CV, 116 kg) che praticamente avviò, da maggio 1984, il fenomeno delle 125 supersportive dopo i grossi volumi di vendita delle precedenti 125 stradali come Cagiva SST 125 prima e Aprilia ST 125 dopo - la RV 125 aveva una linea di ispirazione "giapponese" (con alcuni tratti che ricordavano la Honda VF 400 F come il cupolino e la Yamaha RD 350 come il gruppo sella e serbatoio), strumentazione completissima, aspirazione lamellare, avviamento elettrico, miscelatore automatico, monoammortizzatore posteriore, forcella con antidive, piastre delle pedane in alluminio e persino blocchetti elettrici al manubrio retroilluminati!
1985 - Cagiva Aletta Oro S1 (25 CV, 133 kg) che ricopiava la Kawasaki GPZ 600R e che fu la prima a montare il freno a disco posteriore e l'indicatore della marcia inserita.
1985 - Aprilia AS 125 R (26 CV, 107 kg) era l'ultima versione della STX che come la Cagiva Aletta Oro S1 ricopiava la Kawasaki GPZ 600R ma che montava il motore Rotax con la valvola allo scarico RAVE.
1986 - Cagiva Aletta Oro S2;
1986 - Gilera KZ 125 (26 CV, 113 kg, 150 km/h), un mostro carenato che fece invecchiare di colpo la concorrenza.
1987 - Aprilia AF1 125 Project 108 (27 CV, 115 kg) con motore e ciclistica - telaio perimetrale - all'avanguardia. Era la prima volta che una 125 stradale replicava fedelmente i colori e persino gli sponsor utilizzati sulla vera moto da corsa.
1987 - Gilera KZ 125 Endurance.
1987 - Honda NS-R 125 (25 CV, 128 kg) è la versione carenata della NS-F vista prima, era disponibile nella livrea base bianca e rossa e in quella Rothmans Replica. Dalla NS-F ereditava il telaio e il motore, ma con una migliore messa a punto che assicura buone prestazioni. Aveva il doppio freno a disco anteriore, ma si confrontava con moto di nuova generazione.
1987 - Gilera KK 125 con carenatura integrale e serbatoio sotto al motore.
1987 - Cagiva Freccia C9 (27 CV, 133 kg, 155 km/h) firmata dal maestro Massimo Tamburini, che riprendeva i temi della Ducati Paso. Anch'essa infatti era super-carenata, aveva un parafangone anteriore aerodinamico, i terminali sdoppiati che escono dal codino, la strumentazione all’avanguardia, il telaio era un doppio trave in tubi d’acciaio con monoammortizzatore posteriore; il motore aveva l’ammissione lamellare, il raffreddamento a liquido, il miscelatore e l’avviamento elettrico, c'era un nuovo gruppo termico, la valvola allo scarico, il contralbero di equilibratura.
1988 - Aprilia AF1 125 Sintesi (31,8 CV, 120 kg). Si chiamava Sintesi perché era la sintesi di tutta la tecnologia Aprilia: motore Rotax 123 completamente rivisto e dotato di ogni tecnologia, con l’aggiunta del contralbero e un cilindro con travasi da moto da corsa, erogante oltre 28 CV, telaio a doppio trave in alluminio, forcella a steli rovesciati, freno a disco anteriore flottante da 320 mm, doppio fanale (prima il Codice non lo permetteva), cerchi da 17 pollici con gommatura importante (110, 130). 11 motore. Risultato: oltre 160 km/h. Sue derivate sono le Sport del 1988 e 1989.
1988 - Honda NSR-F 125 (31 CV, 108 kg), la prima sportiva nuda in un periodo di grandi supercarenate. Conquista il mercato: la vogliono tutti perché ha anche un bellissimo telaio pressofuso in alluminio, il motore più potente, è la prima ad avere la valvola elettronica allo scarico a controllo elettronico RC Valve di derivazione HRC.
1988 - Cagiva Freccia C10 R e C10 R Anniversary con tre nuove colorazioni.
1988 - Gilera MX1 125 (28 CV, 118 kg) e derivata Record, disegnata nella galleria del vento Pininfarina, con un vano porta casco al posto del serbatoio (che sta sotto al motore).
1989 - Gilera MXR 125 (30 CV, 118 kg) e SP01 (35 CV, 116 kg). Per non farsi mancare nulla, Gilera rinnovò la MX1 che divenne MXR, con l’inedito doppio fanale e tre nuove colorazioni. La SP01 era una sportiva senza compromessi, con tanti dettagli squisitamente racing che la resero la 125 stradale più sportiva mai prodotta. Aveva le pedane arretrate e i semimanubri bassi, così bassi da far venire i crampi ai polsi, e la posizione in sella non era certo comoda: non era il massimo per muoversi in città, né da usare tutti i giorni, ma non si resisteva al fascino di una sportiva pura. Non interessava la comodità e pazienza se bisognava smontare il coprisellino per caricare la ragazza: all'epoca il massimo desiderio era avere una moto da corsa con la targa e i fanali: la SP01, appunto.
1989 - Aprilia AF1 Sintesi 125 Replica (32,8 CV, 120 kg), aveva poche ma mirate modifiche al cupolino e dal motore che guadagnava la valvola RAVE allo scarico a controllo elettronico. Due le grafiche disponibili, con la nuova versione replica dedicata alla AF1 250 da gara della stagione 1988 di Loris Reggiani che, tuttavia, per la stagione 1989 passò alla Honda e venne quindi rimpiazzato dal pilota belga Didier De Radigues al quale venne assegnato il numero 4 che comparve sul codone della Sintesi Replica. La AF1 Sintesi 125 Sport del 1989 era una versione per la sport production, poco diffusa perché rimpiazzata dal modello successivo (Aprilia AF1 125 Futura).
1989 - Honda NSR-R 125 (praticamente una NSR-F con carenatura, 31 CV, 118 kg) aveva uno stile veramente piacevole che andava a completare l’offerta e a confermarsi un successo incredibile tra i ragazzi. Poi, grazie all’appoggio ufficiale di Honda Italia venne approntata la NSR 125 SP per la stagione 1989 e 1990, una versione speciale per il campionato Sport Production, assemblata a mano, con un carburatore Dallorto PHBE da 32 mm, l’ammortizzatore posteriore regolabile Marzocchi e lo scarico Arrow. La livrea era caratterizzata dalle tabelle nere e dalla scritta Sport Production Replica sul serbatoio.Nel 1990 la NSR-F e la NSR-R si aggiornarono con cerchi Grimeca a sei razze (prima a tre) e il parafango anteriore dal profilo più sottile. La ciclistica e la meccanica ricevettero solo aggiornamenti di dettaglio: una differente regolazione delle sospensioni e il motore rivisto nell’erogazione. Ci furono due nuove livree, la classica HRC (bianca, blu e rossa con la sella nera e i cerchi rossi) e una bianca, acquamarina e blu con cerchi acquamarina. Con questi due ultimi modelli si arrestò la corsa sul mercato delle Honda 125 a due tempi, visto che la Raiden del 1992 (quella col telaio a zeta, inizialmente naked e poi carenata) fu un insuccesso, anche a causa di componenti meno pregiati.
1989 - Cagiva Freccia C12 R (30,4 CV, 124 kg), al contrario delle concorrenti, presentò solo un aggiornamento in tre nuove colorazioni monocromatiche che confermavano come Cagiva era meno esposta alla moda del momento che voleva abbinamenti con colori forti. Ma la vera novità era un'altra: era la prima al mondo con il cambio a 7 marce. In realtà non servivano, ma il fatto di leggere "7 Speed" sulla carenatura faceva venire i brividi. I pochi ma mirati interventi riescono a renderla ancora molto gradita al pubblico. Il parafango non era più così avvolgente come nella precederne C10. Tuttavia la C12R scontava il fatto di avere una ciclistica ormai datata. Nel 1990 uscì la Freccia C12 SP con la sola livrea Lucky Explorer per il campionato Sport Production.
►1990 - Gilera SP02 (35 CV, 116 kg) derivata dalla SP01, aveva nuove grafiche, forcella a steli rovesciati, tappi del serbatoio stile aeronautico, contagiri elettronico. Il telaio Twinbox era stato ritoccato nelle quote per adattarsi alla nuova forcella; invariato il motore, cambiavano l’air-box e lo scarico. Ma non era un momento facile per Gilera, che se la doveva vedere con l’Aprilia AF1 Futura e la Cagiva Mito.
1990 - Aprilia AF1 125 Futura (110 kg) era una vera race replica, nata sulla base della Sintesi, ma con la ciclistica nuova, senza compromessi, pensata per una moto sportiva con il motore Rotax 123 messo a punto e con i 170 km/h molto vicini. Il gruppo ottico anteriore non era più a doppio faro. La AF1 125 Sport Pro del 1992 era una versione per la sport production,
1990 - Cagiva Mito 125 (31 CV, 125 kg), nacque perché la Cagiva non poteva battere questa concorrenza con la Freccia C 12 SP e allora Massimo Tamburini giocò l’asso, ispirandosi alla Cagiva 500 GP di Randy Mamola. C’era però un problema: arrivò sul mercato senza carena, venduta solo in versione naked. Ma a fine 1990 arrivò la versione carenata, e non ce ne fu più per nessuno: per i successivi tre anni, la Mito diventò la moto più venduta in Italia in assoluto.
1990 - Aprilia AF1 125 Europa era praticamente una AF1 125 Futura nuda, così come erano nude le concorrenti Honda NSR-F e la Cagiva Mito.
1991 - Cagiva Mito 125 era disponibile solo in versione carenata (la nuda era rimasta sul mercato solo qualche mese al suo esordio) senza modifiche tecniche ma con numerose livree, che si affiancarono alla classica (rossa con cerchi bianchi): una nell'originale verde acquamarina e una nera a bande verdi; poi in versione Denim (bianca), Lucky Explorer, e poi la Lawson Replica, con le tabelle gialle e il numero 7. Quindi la Mito, rispetto alla concorrenza che si sbizzarrì di più, restò monocromatica. Quell'anno c'era anche la versione Mito SP (la prima serie aveva la scritta "Mini Moke"sui fianchi), allestita per partecipare al campionato Sport Production.
1991 - Aprilia AF1 Futura (stesso nome del modello del 1990, ma con 35 Cv e 113,5 kg) presentò inedite colorazioni, inclusa la nuova Reggiani Replica, e importanti modifiche tecniche, che interessarono la ciclistica (nuova forcella) e la meccanica (nuovo gruppo termico che la rendeva la più performante, con oltre 170 chilometri orari di velocità massima).
1991 - Honda NSR-R SP91 era una versione speciale per il campionato Sport Production. Prodotta nella sola livrea rosso, giallo, blu su fondo bianco, era impostata come la NSR-R del ’91, ma la taratura delle sospensioni era più rigida, c'era un nuovo disco flottante da 318 mm., il motore ha un gruppo termico più spinto, maggior rapporto di compressione, un impianto di scarico Arrow e una cassa filtro dedicati. Cambiavano anche il generatore, la centralina, gran parte degli organi della trasmissione, l’avviamento era solo a pedale.
1991 - Yamaha TZR 125 R (110 kg), italiana a tutti gli effetti (progetto dell'importatore Belgarda) dopo la precedente 125 fallimentare importata dalla Spagna, fu una moto completamente nuova, con il classico telaio Yamaha Deltabox, doppio trave in alluminio, completato con una forcella Paioli a steli rovesciati e un monoammortizzatore con articolazione progressiva che lavorava su un forcellone in alluminio con braccio destro a banana. Il motore era un Minarelli prodotto su specifiche Yamaha, con valvola allo scarico a controllo elettronico, ammissione lamellare nel carter e il contralbero antivibrazioni. A fine 1991 arrivò anche la versione Sport Production, con livrea dedicata, spazi portanumero verdi. Era predisposta per le gare, aveva la forcella completamente regolabile, il cilindro, il pistone e la testa speciali, i carter lavorati, l'espansione dedicata e altre numerose migliorie.
1991- Gilera Crono 125 (30 CV, 116 kg) era un aggiornamento della SP02: la ciclistica era invariata, la carrozzeria pure (ad esclusione del codone che era più affusolato) mentre il motore era oggetto di diversi aggiornamenti tra i quali spiccava una nuova valvola allo scarico a controllo elettronico. Ma si capiva che questo modello era ormai alla fine, essendo un progetto vecchio di tre anni che faticava a tenere il passo della concorrenza.
1991 - Gilera CX 125 (120 kg, oltre 30 CV, 163 km/h). Era molto particolare, con un monobraccio sia al posteriore sia all’anteriore e con la carenatura dalle linee futuristiche. Aveva un ottimo motore, quello della Crono, la ciclistica era molto stabile ma la carenatura (attacchi del faro e parafango posteriore rigidissimo compresi) era fragilissima e si rompeva per un nonnulla. Però all’epoca dai ragazzi fu percepita come una moto terribile, chi l’aveva veniva preso in giro e per questo ne vendettero pochissime (tante sono state demolite): oggi è ricercatissima dai collezionisti di tutto il mondo, ed è esposta al MOMA di New York.
1992 - Aprilia RS 125 Extrema (115 kg, oltre 30 CV) aveva un inedito telaio, sempre in alluminio ma progettato ex-novo, con un forcellone in alluminio in luogo del monobraccio d’acciaio introdotto nel 1987. Erano state aggiornate anche le sospensioni e il motore Rotax 123 che permetteva di superare agevolmente i 170 km/h. Per non farsi mancare nulla nel mercato dominato dalla Cagiva Mito, Aprilia aggiornò anche la Futura con una versione - la Extrema SP del 1993, - dedicata al campionato Sport Production, con mono regolabile ed una favolosa nuova livrea. Da notare però dei passi indietro: le pedane del pilota erano ben disegnate ma i paracaviglie di plastica sostituivano quelli di più pregiato alluminio delle AF1 Futura, la strumentazione e i blocchetti elettrici erano quelli della Futura ’91 con gli strumenti della versione economica (non più Veglia Borletti), con il contagiri meno preciso e le grafiche che sbiadivano col tempo.
1992 - Cagiva Mito 125 nuova serie, con la forcella a steli rovesciati. Al contrario dei motori Cagiva della prima serie, gli ultimi Cagiva erano meno potenti dei Rotax di Aprilia, ma dal 1992 l’R&D Cagiva iniziò ad aggiornarli sfruttando l’esperienza accumulata nel Campionato Italiano 125 Sport Production e così cominciarono ad andare forte, pur mantenendo la stessa base tecnica. Nel 1992 la Mito SP, pur derivando dalla Mini Moke, aveva la forcella Marzocchi a steli rovesciati, pregiati cerchi Marchesini realizzati su specifiche tecniche, disco anteriore Brembo flottante da 320 mm, motore con un nuovo cilindro (serie 7 SP), la relativa testa e il pistone a due segmenti.
1992 - Honda NSR-R SP92 era una versione speciale per il campionato Sport Production. Prodotta nella sola bellissima livrea Rothmans, ispirata alle NSR 250 e 500 ufficiali di Luca Cadalora e Mike Doohan, era l’evoluzione della SP 91, con poche modifiche. La novità della ciclistica era la forcella Marzocchi regolabile nel precarico, il motore era stato messo a punto per migliorare l’erogazione, non la potenza massima, poi aveva la sesta marcia più corta.
1992 - Yamaha TZR 125 R SP, nata per competere nella Sport Production, aveva la classica livrea bianca-rossa Yamaha e si riconosce per le tabelle portanumero verdi e il coprisella del passeggero. Curiosità: veniva venduta con un carburatore da 32 mm Ø, sebbene per l’uso in gara avrebbe dovuto essere sostituito con un 28 mm Ø.
1993 - Gilera GFR 125 (evoluzione della Crono) e GFR 125 SP (evoluzione da competizione della GFR, riconoscibile per la carena destra tagliata per lasciar spazio al kick starter che prendeva il posto dell’avviamento elettrico). Il modello Gilera For Racing è stato l'ultimo motociclo prodotto da Gilera.
1993 - Aprilia RS 125 Extrema SP aveva la forcella regolabile e i cerchi Marchesini. Curiosità: l'Extrema base da strada andava più forte della SP perché la base (come la Futura Sport Pro) aveva il carburatore da 34 mm Ø, mentre la SP montava il 28 mm, come da regolamento della Sport Production.
1993 - Cagiva Mito 125 Lawson Replica II (32,6 CV, 121 kg) con il numero 7 bianco sul codone, la forcella a steli rovesciati, la carenatura traforata, gli adesivi degli sponsor tecnici, il terminale in fibra di carbonio, è da molti è ritenuta la più bella 125 stradale mai costruita. Il motore più performante le permetteva di arrivare a 175 km/h; assieme alle eccellenti doti di guida era una moto fantastica.
1993 - Honda NSR-R SP93 era una versione da strada ma pensata per il campionato Sport Production. Proposta nella sola colorazione gialla e nera, la SP93 manteneva il telaio Zetaframe, la forcella aveva una taratura più rigida e c’era un ammortizzatore White Power regolabile, il motore aveva nuovo gruppo termico e albero motore, nuovi i rapporti del cambio, l’accensione con la centralina PGM3, l’espansione con finale Solfer e l'avviamento era solo a pedale. Per le gare c’era un kit, che tra le numerose parti speciali comprendeva il cilindro, il pistone monofascia, lo scarico Jolly Moto e i leveraggi per alzare la sospensione posteriore, i cerchi Marchesini a 3 razze.
1994 - Yamaha TZR-R 125 Red Rocker, aveva la grafica Marlboro della 500 da GP 500 di Wayne Rainey, anche se il rosso della sua livrea si sbiadiva quando era esposto alla luce solare. Telaio con silent block.
1994 - Cagiva Mito 125 EV era la creatura di Tamburini che copiava la Ducati 916 dello stesso Tamburini. La Mito 125 EV era di una straordinaria bellezza, passava dalla coppia di fanali tondi ai due sottili gruppi ottici stile 916, e anche tutto il resto era preso dalla maxi, si pensi all'ammortizzatore di sterzo traversale: era quindi una delle 125 più potenti e più raffinate, nelle finiture, nell’assemblaggio, nell’allestimento, tanto bella fuori quanto sotto la carenatura.
1995 - Aprilia RS 125 (115 kg, 35 CV), era prodotta in due livree: la prima era la Chesterfield, dedicata alla 250 di Max Biaggi che in quegli anni vinceva tutto quello che si poteva vincere; la seconda è la Reggiani, che in quegli anni gareggiava, con meno fortuna, con la 400 nella classe 500. La RS 125 non era solo la più veloce ma aveva anche una ciclistica da riferimento, nonché bellissima, con il telaio pressofuso in alluminio lucido, la forcella a steli rovesciati da 40 mm e l’ammortizzatore posteriore perfettamente a punto, pacchetto che assicurava eccezionali doti di guida. Il motore era il Rotax 122, simile al 123 ma con accensione elettronica Kokusan che lo rendeva non solo più prestazionale, ma anche più affidabile, tanto che 10 anni dopo sarebbero stati ancora usati in gara con magnifici risultati, addirittura i tecnici più raffinati riuscirono a fargli raggiungere potenze di oltre 45 CV alla ruota. L'anno prima era uscita la RS 125 Sport Pro che pure faticava a raggiungere le prestazioni di questo modello.
1996 - Una legge italiana impose il depotenziamento di tutte le 125, che ormai avevano raggiunto livelli troppo estremi di potenza per essere affidati nelle mani dei neopatentati sedicenni. Il limite di potenza fu stabilito in 15 CV per poter guidare una moto con la patente A. Con le 125 stradali si era verificato lo stesso fenomeno che era nato con l’avvento delle maxi giapponesi negli anni Settanta del 1900: erano così belle, sfacciate, appassionanti, pericolose, da diventare oggetto del desiderio anche per chi non era appassionato di moto. Iniziò quindi il declino di queste splendide 125. Per esempio, nel 1999 l'Aprilia Extrema Replica (che nel frattempo aveva visto anche la versione RS in versione Sport Pro, con sospensioni pluri-regolabili, cerchi Marchesini e una fine messa a punto del motore) venne sostituita dalla versione cosiddetta “culo basso”, con la carenatura e la coda disegnata secondo i canoni aerodinamici delle moto da competizione di allora.
Honda NSR 400 R: le due grafiche disponibili.
Dopo la vittoria nel Mondiale 500 nel 1983 con Freddie Spencer, Honda lanciò sul mercato una racing replica della moto ufficiale che andò a battagliare contro le potentissime Yamaha RD 500 LC YPVS e Suzuki RG 500 Gamma a due tempi stradali, vere racing replica. Scegliendo l’insolita cilindrata di 400 cm³, i progettisti riproposero lo stesso originale schema motoristico della NS 500 R di Freddie Spencer: un motore 2 tempi 3 cilindri a V, con raffreddamento ad acqua. La NS 400 R fu la prima Honda di serie con telaio in alluminio (peso totale, 163 kg) e una carenatura identica alla Honda Rothmans campione del mondo 1985 (la colorazione Rothmans è stata giudicata all'unanimità la più bella colorazione mai vista su una moto da pista). Su strada, faceva furore: quando il sibilo del motore spingeva la NS 400R fino a oltre 200 km/h, era facile immaginare d’essere davvero in sella ad una vera moto da Gran Premio. Fatto ancor più importante per una “media” sportiva, il 3 cilindri a V, montato su un telaio rigido con ottime sospensioni, assicurava un ottimo controllo del mezzo in curva, grazie anche alla ruota anteriore da 16 pollici, che rendeva i cambi di direzione decisi e rapidissimi.
Sopra, la prima serie della VFR 750R. Seguono le immagini della VFR 800 F Plus e della VFR 1200 F.
Sul finire del 1985, la VFR 750 R venne presentata nella cilindrata da 750 cm³ come un'evoluzione della VF 750 F vista prima, nonostante non fosse una sua diretta discendente. Già al momento della sua comparsa, il modello aveva un'impronta allo stesso momento sportiva e turistica insieme, inaugurando (di fatto) un segmento di nicchia, le Sport Tourer. I suoi elementi di spicco che ne caratterizzavano il modello erano, in particolare: il telaio, derivato direttamente dalle moto racing; il sistema di distribuzione a cascata di ingranaggi; l'impianto di raffreddamento maggiorato; la carrozzeria monocromatica. La potenza dichiarata era di 105 CV. Questo modello, sul quale erano montati semimanubri alti, garantiva una migliore posizione di guida (più comoda) per il conducente ma consumi piuttosto elevati sia in fatto di carburante (gli americani avevano ribattezzato la VFR come ironica sigla di "Very Frequent Refueling", "rifornimento molto frequente") che di pneumatici (Dunlop) di serie.
Nel 1988, il modello subì alcune modifiche da parte della Honda, nel 1990 le modifiche furono più consistenti (RC36), nel 1992 altre piccole modifiche, idem nel 1998, nel 2001 viene rivoluzionata (sigla RC 46, mentre la sigla RC45 toccò alla RVF 750 R, motocicletta commercializzata da Honda nel 1994 per poter ottenere l'omologazione per partecipare al campionato mondiale Superbike e succedere alla VFR 750 R RC30 vista prima). Nel 2010, dopo le cilindrata di 780 cm³, si apre con la messa in commercio della nuova VFR 1200 F. Negli anni è aumentata la cilindrata ma soprattutto questo modello ha presentato importanti novità tecnologiche: prese d'aria di tipo NACA alle fiancate, sistema di frenata Dual-CBS, catalizzatore con un sistema di starter automatico, innovativo sistema VTEC di controllo dell'alimentazione, strumentazione digitale, adozione del sistema UNICAM, acceleratore elettronico TBW ("Throttle By Wire"), carter sigillato ed in depressione, al posto del radiatore dell'olio appare un sistema di "scambiatore olio-acqua", cambio automatico a doppia frizione DCT ("Dual Clutch Transmission"), carenatura a doppio strato, indicatore della marcia, spia di controllo della funzionalità del motore e altro. Un modello-laboratorio, insomma, dal quale poi sono derivati altri progetti (Honda Crossrunner o VFR 800 X, Honda Crosstourer 1200 o VFR 1200 X).
Ricordatevi della VFR 1200 perché la ritroveremo ancora, quale ispiratrice dello stile della nostra piccola CBR 250R...
Sopra, la Honda CN 250.
Con il CN 250 ("Spazio" in Europa, "Fusion" in Giappone e "Helix" negli USA), Honda inventò un nuovo genere di due ruote da città. Lungo e filante con un insolito manubrio stile custom, era destinato originariamente al mercato nordamericano, ma ebbe subito grande successo anche in Italia. Riprendeva la struttura dello scooter con ruote di piccolo diametro, ma rimodellato in una chiave personalissima, come quella di una poltrona a due ruote dalle moderne soluzioni tecniche. Un ampio parabrezza garantiva un’utile protezione dalle intemperie; il CN 250 regalava un buon comfort di marcia anche a due persone, grazie all’ergonomico sellone biposto. Inoltre, è stata uno delle prime moto al mondo con strumentazione interamente digitale. Sotto la vistosa carrozzeria sagomata, la trasmissione era completamente automatica, l’avviamento elettrico, la forcella con sistema anti-affondamento e il silenzioso motore monocilindrico 4 tempi raffreddato a liquido rendevano il CN 250 uno dei più confortevoli mezzi di trasporto.
Sopra, la Honda 600 Transalp.
Nel 1986 la Honda affrontò in modo completamente nuovo il mercato delle moto da enduro, grazie alla Transalp, spinta dalla versione 600 cm³, del bicilindrico a V, 6 valvole raffreddato a liquido già impiegato sulla VT 500 stradale. Un importante contributo alla progettazione di questo modello venne dallo staff europeo della Casa, che suggerì la scelta vincente della carenatura protettiva fissa e non rotabile con il manubrio. Il risultato fu quello di una moto da turismo versatile ed emozionante - all’altezza del proprio nome: non esisteva nulla di meglio su due ruote per affrontare i passi alpini. Agile, instancabile e ben frenata, si trovava parimenti a proprio agio sia nel traffico cittadino che sulle strade di campagna o in autostrada. Nel 2007, in occasione della presentazione della nuova XL 700V Transalp con motore 4 valvole ad iniezione, Honda festeggiò il ventesimo anno di commercializzazione di questo modello, che è casualmente coinciso con il raggiungimento dell’incredibile traguardo di 150.000 Transalp prodotte.
La Honda CBR 600 F (sopra) scalzò dal trono la regina Kawasaki GPZ 600 R (immagine successiva). Yamaha e Suzuki proveranno, gli anni successivi, a inserirsi nella lotta tra le due regine ma la CBR 600 F prima e la CBR 600 RR dopo non daranno scampo a nessuna delle loro concorrenti.
Era il 1987 quando Honda lanciò sul mercato la CBR 600 con la sigla F , una sportiva interamente carenata (F=fairing, carenatura, appunto) con le idee chiare: distruggere la concorrenza. Con 197 kg, 76 CV e quasi 230 km/h di velocità massima, la Honda CBR 600 F vinse la comparativa contro la Kawasaki GPZ 600 R, che allora era il punto di riferimento della categoria.
Stavolta la Ducati 750 Paso era giunta prima (1986) nell'era delle carenature sigillate, ma a onor del vero questa Honda (che presentava anche gli steli degli specchietti retrovisori sdoppiati, come la Ferrari Testarossa...) non soffriva affatto di surriscaldamento.
Nel 1989 vennero apportate alcune migliorie tecniche: la potenza salì a 80 CV, questo grazie ad un innalzamento del rapporto di compressione, ad un nuovo albero motore e all'aggiornamento della mappatura d'accensione. Vennero riviste le sospensioni e anche l'impianto frenante. La linea rimase invariata: il telaio a doppia trave discendente in acciaio rimase sempre nascosto dietro alle carenature completamente sigillate.
Nel 1991 la moto venne completamente rivista, nel 1992 e 1993 presentò due restyling, nel 1995 presentò novità tecniche e nel 1998 novità stilistiche, nel 1999 la moto cambiò parecchio (telaio in alluminio, perno del forcellone nel carter, nuove quote ciclistiche e altro), nel 2001 arrivò l'iniezione elettronica PGM-FI con corpi farfallati da 38 mm di diametro e poi la la CBR 600 F Sport, con 98 CV e 182 kg, nel 2003 arrivò la CBR 600 RR derivata dalle corse che nelle versioni successive (2005, 2007, 2009, 2013) sostituirà la F nelle vendite, rimanendo sempre al vertice delle prestazioni e della fruibilità, inseguita dalla rivale storica Kawasaki 600.
Se la Honda CBR 600 F ebbe il sopravvento nel tempo contro le varie versioni della Kawasaki 600 (GPZ, ZZR, ZX-6R, eccetera) invece questa CBR 1000 F non fu mai all’altezza della mitica "Ninja", cioè la GPZ 900R (immagine seguente).
La CBR 600 F in Italia e nel mondo entusiasmò, mentre la sua sorella più grande CBR 1000 F prometteva di fare altrettanto ma per varie ragioni (prima di tutto, non era una moto votata alla sportività più esasperata) fallì nell'impresa. Moto onesta, robusta, affidabile, protettiva, purtroppo non era né una supertourer e né una super sportiva e si scontrava con le sue altre sorelle di gamma (quando uscirono di produzione nel 1982 la Honda CBX 1000 a 6 cilindri con carenatura e nel 1983 la CB 1100 R del 1981, questa CBR 1000 F se la vide contro la sorella sportive carenata VF 1000 R del 1984 che durò a sua volta fino al 1988 e che non ebbe a sua volta molta fortuna causa ciclistica sbagliata). Fu sostituita nel 1996 dalla velocissima (302,65 km/h) CBR 1100 XX Super Black Bird, moto che aveva inizialmente 141CV ed era nata per sconfiggere la vera regina delle maxi-moto di quei tempi, la Kawasaki GPZ 900 R del 1993 che meriterebbe un articolo solo per lei. Nel 1988 arrivò la concorrente che iniziò la rincorsa verso la velocità massima più alta di tutte, cioè la Kawasaki ZX-10 (137 CV e 268,67 km/h), detronizzata due anni dopo, nel 1990, dalla Kawasaki ZZ-R 1100 (147 Cv e 284,85 km/h). Questa velocissima moto sarà scalzata dal trono soltanto sette anni più tardi, nel 1997, quando la Honda presentò la CBR 1100 XX Super Black Bird (162 CV e 302,65 km/h) ma anche l'erede della CBR 1000 F però ebbe una vita corta visto che arrivarono altre maxi-moto più veloci a detronizzarla: nel 1999 la Suzuki Hayabusa (175 CV e 305,93 km/h), poi nel 2000 (ancora!) la Kawasaki ZX-12 R (178 CV e 302,56 km/h), il missile più godibile e guidabile dai tempi della CBR 1100 XX Super Black Bird (e infatti rimarrà in listino fino al 2007). Le potenti e veloci Kawasaki ZZ-R 1200 del 2002 e BMW K 1200 RS del 2007 non scalfirono i primati della Kawasaki ZX-12 R, ci riuscirà invece la stessa Kawasaki nel 2006 con la ZZ-R 1400 (187 CV che nel 2020 diventeranno 200 e 300,947 km/h autolimitati!).
Vi invitiamo a leggere sui siti Internet l'affascinante storia della Kawasaki GPZ 900 R ("Ninja" per il mercato USA), che sul mercato italiano venne sostituita troppo in fretta da una mille che non era alla sua altezza. In effetti, se la Honda CB 750 Four è l'icona delle prima maxi-moto giapponese, la Kawasaki GPZ 900R è la sua rivale moderna per sfruttabilità, tanto che quando fu presentata a Laguna Seca girò costantemente meglio di altre due moto lì presenti a titolo di confronto, la GPZ 750 Turbo (che quindi era sovralimentata) e la GPZ 1100 (che non solo aveva una cilindrata maggiore ma anche l'iniezione elettronica)!
Il modello successivo, la GPZ 1000 RX non aveva la stessa tremenda efficacia di guida stradale e dopo poche stagioni uscirà di scena, dimenticato da tutti, al contrario della GPZ 900R.
Sopra, la Honda VFR 750 R - RC30.
La VRF 750 R del 1985, vista prima, è stata una di quelle ottime moto che s’impongono per prestazioni e per facilità d’uso. Portò a nuovi livelli d’eccellenza il propulsore 4 cilindri a V. Dimostrò altresì come le dimensioni raccolte e la raffinatezza di un V4 potessero combinarsi persino con la ridotta manutenzione. E poi arrivò la sorpresa, sotto forma della leggendaria questa VFR 750 R (RC30) del 1988. Le sue incredibili prestazioni lasciarono a bocca aperta gli appassionati, perché in realtà si trattava di una moto da corsa adibita ad un uso stradale. Seducente e funzionale al tempo stesso, la RC 30 montava la sospensione posteriore - monobraccio delle RVF ufficiali da G.P. - derivata dal progetto Elf. Il motore, la più recente evoluzione del versatile propulsore della VFR 750 R, era addirittura assemblato artigianalmente (a mano!) per fornire prestazioni sensazionali. I grandi risultati ottenuti nelle gare Superbike e TT F1 parlano da soli: ancor oggi la RC 30 fa venire I brividi...
Sopra, la Honda NSR 125 F.
La NSR 125 F può essere, a ben vedere, considerata l’antesignana della naked sportive moderne, Hornet 600 in testa. Motore a 2 tempi raffreddato a liquido decisamente performante, ma con una grande novità era a livello ciclistico; il primo telaio d’alluminio “made in Italy” (un perimetrale formato da due semi-gusci ottenuti per fusione e imbullonati tra loro in senso longitudinale e vivacemente verniciato color oro, realizzato dalla Grimeca) montato su una “ottavo di litro”, che conferiva un look formidabile a questa piccola peste, la cui grinta era sottolineata dagli sportivissimi cerchi in lega. Dopo la NS 125 F del 1985, ecco un altro successo che fece storia! Seguirà una versione con carenatura.
Sopra, la Honda GL 1500.
Portando all’estremo l’idea alla base della Gold Wing 1000 del 1975, 1100 del 1980 e 1200 del 1984, Honda inventò questa maestosa ammiraglia tourer che risponde al nome di GL 1500. Spinta da un motore a 6 cilindri contrapposti con quasi 100 CV, la GL 1500 (“made in USA”) eclissò su strada qualsiasi altra moto super tourer, per via della comodissima poltrona a disposizione del guidatore e della valida sistemazione del passeggero, del rassicurante impianto frenante e della presenza della retromarcia (!) che facilitava ogni manovra. La progressiva erogazione della potenza e le sofisticate sospensioni rendevano l’assetto della moto più agile di quel che si credi. Ovviamente, il sinto-lettore a cassette (di serie) era stato appositamente studiato per garantire la massima efficienza in movimento. È tre le Gold Wing più amate di sempre. Nel 2001 arriverà la GL 1800 che nel 2007 sarà anche la prima moto di serie a mondo con l'airbag.
Sopra, la Honda NTV 650 Revere.
Questa moto nuda aveva il motore che era lo stesso del Transalp, un bicilindrico a V di 52°, 4 tempi, monoalbero, di 647 cm³, con 3 valvole per cilindro e doppia accensione. L'alimentazione era affidata a 2 carburatori da 36 mm con valvola piatta e il propulsore era in grado di erogare la potenza di 41 kW. Il cambio a 5 marce era collegato alla trasmissione ad albero. All'anteriore era presente una forcella con steli da 41 mm, cerchio da 17" e pneumatico da 110, mentre al posteriore vi era il monobraccio Pro Arm con ammortizzatore regolabile nel precarico, cerchio da 17" e pneumatico da 150. Per quello che riguarda il sistema frenante all'anteriore era dotata di un disco da 316 con pinza a doppio pistoncino, mentre al posteriore disco da 276 e pinza mono pistoncino. In Italia non fu vendutissima nel segmento delle cosiddette "moto intelligenti" di allora, così come poi non lo fu la più celebre Yamaha Diversion 650. La sua erede diretta fu la Deauville. Con una impostazione simile, però, Suzuki farà la sua fortuna nelle vendite con la Bandit.
Sopra, la Honda NX Dominator.
Ispirandosi alla loro XL 600 R da fuoristrada i tecnici Honda giunsero a realizzare la monocilindrica NX 650 Dominator che, pur ricordando le moto da deserto, risultava più curata nei particolari e più semplice da guidare: si fece così particolarmente apprezzare dai motociclisti europei. Il suo monocilindrico trasudava personalità, eccellendo ai bassi e medi regimi. L’efficace monoammortizzatore posteriore Pro-Link rendeva questa enduro facile da guidare, ma in grado di regalare soddisfazioni anche ai veri sportivi. L’efficienza dell’impianto frenante, del sistema d’illuminazione e delle altre dotazioni di serie ne fecero una tuttoterreno valida sull’asfalto e fuori, come dimostrò nei rally africani.
Nel 1988 l'Africa Twin (sopra) sostituì la fallimentare (nelle vendite) XLV 750 R pesante bicilindrica a cardano del 1983, dall'inconfondibile motore rosso (immagine seguente). Come la Transalp e la Dominator, il cupolino dell'Africa Twin era fisso.
In pieno boom di grosse enduro bicilindriche, al salone di Parigi del 1987 venne presentata una replica in scala leggermente ridotta della NXR 750, moto da competizione nella Parigi-Dakar: la Honda XRV 650 Africa Twin RD03. In realtà le differenze non erano poche, in pratica il motore era quello, un po' rivisto, della Transalp 600 presentata nel 1987. La Honda XRV 650 Africa Twin RD03 riceveva infatti il bicilindrico a V di 52° con distribuzione monoalbero a 3 valvole per cilindro (647 cm³, 57 CV). Era alimentato da due carburatori Mikuni da 34 mm. fanno di questa XRV650 una moto assolutamente speciale. Prima di lei la Honda aveva già percorso nel 1984 con la XLV 750 R la strada della bicilindrica con l’intento di dare battaglia alla BMW R 80 G/S, ma si era dimostrata quasi fallimentare perché nonostante questa endurona fosse intrisa di soluzioni tecniche interessanti, come trasmissione finale ad albero, motore raffreddato ad aria e olio (per essere più leggero di uno raffreddato a liquido), punterie idrauliche per la distribuzione (niente manutenzione periodica) non aveva incontrato il favore dei motociclisti per le sue misure extra large, il peso notevole e la quasi impossibilità di affrontare un fuoristrada che non fosse più che un semplice sterrato. In complesso era una efficace moto da turismo, ma per niente versatile e non proprio affidabile a causa dell’eccessivo riscaldamento del cilindro posteriore. La Africa Twin, invece, aveva tutte le carte in regola per soddisfare chi aveva il “mal d’Africa".
Sopra, la Honda Pacific Coast 800.
Impegnata a reinventare la moto di grossa cilindrata in una forma nuova, in grado di calamitare quella clientela disinteressata alla tecnologia od alle alte prestazioni, la PC 800 Pacific Coast derivava dalle esperienze tecniche suggerite ed acquisite da tecnici dell’R&D Honda… automobilistica. Formata da una voluminosa carrozzeria con pannelli fonoassorbenti, aveva un design morbido e filante. A disposizione del guidatore vi era comunque un bicilindrico a V (ereditato dalla serie VT) con trasmissione a cardano, capace di spingere la Pacific Coast a ragguardevoli velocità di crociera. Questa moto ha invero anticipato, forse anche troppo, la successiva tendenza dei maxi-scooter (nata con la Suzuki Burgman 400 del 1998 e proseguita con la versione 650) e delle moto dedicate al turismo a medio raggio, di cui è un mirabile esempio la Deauville del 1998 (nota come NT 650 V fino al 2005 e successivamente come NT 700 V) sempre con motore bicilindrico a V e trasmissione cardanica.
«I buoni prodotti hanno bisogno di una buona strategia di marketing»
Soichiro Honda