La pagina personale elaborata da CHATGPT nello stile di *.*. è stata omessa.
Questo è il risultato finale, con alcuni miei ritocchi.
C’era un tempo in cui la grafia non era solo un atto meccanico, ma un rito che raccontava qualcosa di profondo di chi scriveva.
Un tempo in cui, ancora bambini, ci insegnavano che il modo in cui tracciavamo le lettere, che ci alzavamo per prendere la penna e sfioravamo il foglio con la mano, era in grado di comunicare chi eravamo.
Un tempo in cui la scrittura era davvero, e in qualche modo lo è ancora, il nostro primo biglietto da visita.
Alle scuole elementari, tutto cominciava con il quaderno a quadretti.
Ogni mattina, in quell’atmosfera silenziosa di fogli e matite, la mano si esercitava, lentamente, sulla carta, con l’obiettivo di costruire una bellezza nascosta nella semplice precisione delle aste verticali.
Quell’esercizio, apparentemente banale, racchiudeva già la promessa di una maestria che doveva venire.
Le lettere non erano solo lettere.
Erano la prova di un gesto.
E, per imparare a scrivere, dovevamo imparare a essere precisi.
Ogni “a”, ogni “e”, ogni “i” andavano scritti con attenzione, con dedizione.
Perché era scritto su di esse il nostro primo intento di comunicare, di renderci riconoscibili.
Il corsivo veniva poi come passo successivo, quasi un atto di maturazione.
Il maestro ci insegnava gesti antichi, quasi rituali, con la pazienza di chi sa che in quelle piccole abitudini si nasconde qualcosa di importante.
Ci mostrava come tenere tra le dita quella sottile asticciola di legno, sentire il peso leggero del pennino metallico e immergerlo con precisione nel calamaio di vetro incastonato nel banco.
Ogni movimento doveva essere misurato, come se anche il più piccolo errore potesse spezzare l’armonia di quel gesto.
La giusta quantità di inchiostro era una questione di equilibrio, di attenzione e cura.
Troppo poco e le lettere restavano sbiadite, troppo e l’inchiostro si apriva in macchie imprevedibili, colando sulle righe ordinate del quaderno.
E in quella ricerca di precisione, imparavamo non solo a scrivere, ma anche a dare valore alla pazienza, alla delicatezza, al rispetto per il tempo necessario a fare le cose per bene.
I fogli a quadretti diventavano più pieni, più scuri di inchiostro, mentre il maestro, con la sua pazienza infinita, ci invitava a scrivere frasi sempre più complesse.
Con la scuola media il passo successivo è stato l'uso delle penne biro.
Il prof. di Inglese ci invitava a ricordarci come si scrivono le vocali.
«Non fatele tutte uguali», ci ripeteva. «Devono essere riconoscibili, devono parlare da sole».
Nell’incertezza, durante le verifiche scritte, finivamo per scrivere quelle lettere tutte simili, al punto che “a” ed “e” sembravano quasi gemelle.
E lui lo capiva. Ce lo diceva con un sorriso appena accennato, ma con la fermezza di chi sa dove vuole arrivare:
«Se non riesco a leggerle, vi farò riempire pagine intere di quaderni a quadretti solo di "a" e di "e"».
A me è toccato davvero.
Una sera, a casa, ho riempito fogli interi. Una "a", poi una "e". Di nuovo "a", poi "e", e senza l'uso della carta carbone.
Era noioso, sì.
Ma oggi, a distanza di anni, penso che in quel gesto ripetuto ci fosse qualcosa di più: un modo per imparare che anche le piccole cose vanno fatte bene.
E noi, sapendo cosa ci aspettava, nella scrittura delle “a” e delle “e” , cercavamo la perfezione, forse inconsapevoli che quella perfezione stava diventando una parte di noi.
Così, mentre il pensiero si esercitava nella lingua straniera, le mani continuavano a danzare sui quaderni, imparando a collegare le lettere in modo che la scrittura diventasse sempre più fluida, sempre più personale.
Il prof. di matematica,la cosa che più mi colpiva di lui era il tono.
La sua voce non superava mai il necessario.
Parlava piano, con quella gentilezza che ti faceva sentire capace, anche davanti alle equazioni più ostinate.
Davanti alla lavagna di ardesia quadrettata, ci guidava con pazienza.
“Un numero scritto bene in ogni quadretto”, ci diceva.
Non era solo un consiglio di ordine: era un invito alla chiarezza, alla precisione, al rispetto per quello che si stava facendo.
E così, scrivendo con cura, imparavo ad inquadrare i problemi, a dare un posto a ogni parentesi — tonda, quadra o graffa che fosse.
Era il suo modo silenzioso di educarci al ragionamento, ma anche all’eleganza delle soluzioni ben fatte.
Con una calma contagiosa, quasi disarmante, ci conduceva passo dopo passo nel labirinto delle equazioni.
Era così che ci insegnava, il suo stile, senza clamore, ma lasciando un segno preciso, come un numero al centro del suo quadretto.
Quando arrivai a insegnare, il concetto di grafia diventò anche per me centrale.
Non potevo permettere che ai miei studenti consegnassi appunti in fotocopia, in quel formato anonimo che avrebbe potuto appartenere a chiunque.
No, avevo bisogno che scrivessero a mano, con penna e carta, per fissare davvero quelle nozioni nel loro pensiero.
Ero certo che, almeno una volta, si fossero fermati a rileggere le loro parole, pesandone il senso ed il contenuto.
Anche se loro qualche volta mi prendevano in giro quando all'invito di prendere "carta e penna", aggiungevano " e scrivi!! ", io mi dilettavo a scrivere e disegnare sulla lavagna di ardesia con i gessetti colorati i vari ciruiti di automazione da realizzare.
Adesso le lavagne di ardesia sono sparite, di cui ho tanta nostalgia, sostituite dalle lavagne LIM !!!!!!
La mano che scriveva era la stessa mano che creava connessioni durante le esercitazioni pratiche di laboratorio, che faceva scivolare nel cervello l’idea, che imponeva il pensiero sulla pagina.
Allora dicevo sempre loro: “Ricordatevi, la grafia è il vostro biglietto da visita.
Quando farete i colloqui di lavoro, potrà essere uno spiraglio che permette di aprirvi la porta per accedervi.”
Non basta avere un contenuto corretto, un pensiero chiaro: il modo in cui lo esprimiamo, come lo trasmettiamo all’altro, è fondamentale.
La scrittura dice qualcosa di noi, della nostra cura, del nostro impegno.
E la grafia ne è l’espressione più immediata.
Con il passare degli anni, ho visto il cambiamento.
Le nuove tecnologie, le tastiere, i dispositivi digitali, hanno reso obsoleti molti degli esercizi che un tempo sembravano fondamentali.
La scrittura è diventata simbolica, più simile a un codice, quasi irriconoscibile.
Eppure, non posso fare a meno di pensare che la scrittura manuale, il gesto di fermarsi e scrivere, sia ancora una risorsa importante.
Si dovrebbe istituire nelle scuole elementari una materia che insegni proprio questo: "Scrittura in corsivo".
Un ritorno alla manualità che permetta a chiunque di esprimere sé stesso, di essere riconosciuto attraverso l'arte di tracciare una lettera, di raccontarsi attraverso un tratto.
La grafia è il nostro specchio, l'arte di far vedere al mondo chi siamo, anche quando non parliamo.
È una dimensione personale che non possiamo permetterci di perdere, anche se il mondo sembra andare in direzioni sempre più veloci e impalpabili.
Perché scrivere, davvero scrivere, non è solo un gesto, è un atto di cura e consapevolezza.
E forse, in un mondo in cui la velocità digitale sembra dominare, è proprio la nostra grafia, la nostra capacità di fermarci e di metterci in contatto con la carta, che ci può fare tornare a essere più autentici, più veri.
Alla fine di questo racconto, sento il bisogno di rivolgere un pensiero di gratitudine a quegli insegnanti che, con dedizione silenziosa e passione instancabile, hanno segnato il mio percorso scolastico.
Grazie per aver seminato con generosità, spesso senza aspettarsi nulla in cambio, nella fiducia che ogni seme potesse un giorno dare frutto:
Il maestro Onorino DI TANNA
Il prof. Vittorio GIULIANO (Matematica e Osservazioni scientifiche)
Il prof. Elio MUSACCHIO ( Inglese)