La donna adultera

di Tonino Urgesi -- 31 maggio 2024





Dal Vangelo di Giovanni

   E tornarono ciascuno a casa sua. Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più».

Commento

 

I Vangeli erano un insieme di lettere che le varie comunità si scambiavano fra loro. Nei primi secoli della Chiesa, questi frammenti furono ordinati per formare i quattro Vangeli canonici. Se leggendo un libro, ci accorgiamo che manca una pagina, che essa è stata strappata, significa evidentemente che quella pagina non doveva essere letta o che in essa c’era qualcosa di scabroso.


Il passo del quarto vangelo che riferisce l’episodio della donna adultera che vado a scomporre più avanti è un’inserzione tardiva. I manoscritti greci più antichi lo ignorano e gli studiosi hanno osservato che per la lingua e lo stile esso si può apparentare più ai tre Sinottici che al vangelo di Giovanni in cui è inserito. Ma la tradizione apostolica lo ha accolto come passo canonico la cui natura ispirata non è messa in discussione. Il suo inserimento nel testo giovanneo si spiega perché esso illustra la frase del Cristo, riferita nello stesso paragrafo in un passo successivo: «Voi giudicate secondo la carne», cioè secondo le apparenze; «io non giudico nessuno» (Gv 8 -15).


Verso il IV secolo, quindi più di 300 anni dopo la stesura dei vangeli, fu deciso che questa pagina del Vangelo di Luca, doveva essere eliminata. Nei primi secoli della Chiesa, queste pagine strappate, venivano conservate. Questo avveniva anche per altre pagine della Bibbia, che non si voleva fossero lette, e che pertanto venivano cucite. Tutto questo avveniva fino all’ultimo Concilio, dal 1962 al 1965, sono cambiate tante cose. Questa è una pagina scandalosa: Gesù perdona una donna adultera, colta sul fatto di tradire il marito; la legge del tempo prevedeva l’uccisione per questo tipo di donne, non dell’uomo, ma della donna soltanto. Questa pagina è stata poi reinserita e precisamente nel vangelo di Giovanni, perché in Giovanni Gesù dice che: «il Figlio dell’Uomo è venuto non per condannare, ma per salvare» (Gv 3 - 17); pertanto, si è considerato che questo fosse il posto migliore dove inserirla. Dagli studi odierni sappiamo che questa pagina appartiene al vangelo di Luca perché ci sono due riferimenti molto importanti: il monte degli ulivi, citato solo da Luca e negli Atti degli Apostoli, e l’alba; nel nuovo Testamento, ne parla solo Luca.


L’episodio dell’adultera, lo possiamo immaginare come un mini-dramma in due atti, o due scene. La prima scena si apre con molti personaggi: gli accusatori, la folla e la donna, Gesù; la seconda, ne ha due soli, Gesù e la donna.

Proviamo a ricostruire mentalmente la scena; Gesù sta insegnando è seduto. Nel vangelo di Giovanni troviamo Gesù seduto solo due volte: in questo brano, e in quello della “lavanda dei piedi”. Il cerchio degli ascoltatori si apre per far passare una donna spintonata da una muta di farisei vociferanti. Gliela mettono di fronte e si dispongono intorno in cerchio, forse con le braccia conserte, pronti a sentire la sentenza di Gesù.


Voglio partire ad affrontare la seconda scena, del racconto in questione, esattamente da quando vediamo che Gesù, cambia postura, prossemica, modo di relazionarsi; sì alza, non rimane più seduto. Il suo parlare non è più indirizzato ai dotti, alla legislatura del tempo, ma a una donna, in quell’epoca la tradizione insegnava che “Chiunque discorreva molto con una donna, era causa di male a se stesso, trascurava lo studio della Legge e finiva nella Geenna; una donna non aveva da imparare che a servirsi del fuso”, e che “l’uso della donna era di stare in casa”, mentre “l’uso dell’uomo era di uscire e di apprendere dagli uomini”. Gesù conosceva bene la legge, le usanze del tempo; non sì ferma innanzi agli schemi, ci vuole far fare un passo in avanti, va dritto alla donna, a quella dignità calpestata, umiliata. Mi voglio fare come il solito delle domande; non mi voglio accontentare. “Perché Gesù si alza? Sembra quasi che si scomodi”; noi di solito ci alziamo quando mostriamo rispetto per qualcuno o quando vogliamo guardarlo dritto negli occhi. Leggendo i vangeli possiamo quasi immaginare, notare, lo sguardo di Gesù; uno sguardo penetrante che cogliere i pensieri l’emozioni e i vuoti di ognuno. Umanamente tutto ciò si accentua in relazione con il sesso opposto, non voglio immaginare e non posso pensare che Gesù fosse un asessuato; perché i vangeli ci descrivono una psicologia di Gesù troppo attenta alle persone che incontrava, piena di cure; sino ad accorgesi quando una donna, l’emorroissa, le sfiorò solo il mantello: (Mat 9. 20 -2 Mar. 8. 25 – 34 / Luc 8. 43 - 48). Altre domande che mi faccio: il marito di quella donna, (adultera) dov’era? Perché non viene menzionato nel racconto? Non doveva essere lui a portarla davanti ai sacerdoti, alla legge? O forse l’uomo con cui era stata trovata, … ora era lì, che la sta’ accusando?


Ma ritorniamo al racconto. Ci troviamo a Gerusalemme, esattamente nel tempio. Gesù è ormai conosciuto. Sono molti quelli che lo incontrano. C’è anche una donna, che probabilmente non l’ha mai visto. O se l’ha visto certamente non è stato per lei un incontro determinante. Forse in lei non era maturato nessun desiderio.
 Una donna che continuava a “cercare”; questa donna vive una sua storia fatta di bisogni, vuoti e di attese. Non gli basta quello che ha. Una storia forse che non ha neppure scelto né voluto. Una cosa comunque è certa: non ha trovato quello che cercava all’interno di un legame familiare e nell’intimità di un uomo con cui poter progettare la sua vita. Ha sì cercato un incontro. Solo umano. Fatto di sotterfugi. Si accontenta. Vive solo quello che può vivere, quello che le lasciano sperimentare. Si lascia cadere di una ricerca di soddisfazione che forse sa’ già si rivelerà un’altra volta deludente. Un incontro che non cambierà la sua vita non la colmerà nella sua sete di amore. Ma accade l’imprevisto. è un fatto drammatico. Ancora una volta essa prende coscienza di essere “fatta” solo strumento, e forse per l’ultima volta! Strumento di un uomo che ha approfittato di lei per poi abbandonarla senza cercare di difenderla... Strumento anche nelle mani di coloro che vogliono usarla per scopi che neppure lei lontanamente immagina.... È vittima di una violenza, che le toglie l’intimità, l’identità, la dignità... Scopre l’amarezza e il disgusto di essere stata usata e ora derisa da quegli stesi uomini..., di quegli uomini che l’hanno strascinata lì, con le vesti strappate. Questa donna incontra Gesù. Certamente un incontro drammatico. È sola, posta al centro degli sguardi perfidi e perversi dei suoi accusatori: certi nei loro sotterfugi meschini di agire anche secondo la Legge di Dio (Dt 22 - 22). Non sa’ cosa sta succedendo, è ignara a tutto quello che le circonda; forse lei pensa solo alla sua colpa. Una colpa che in quel momento, non importa a nessuno, neanche a quegli uomini. Probabilmente tra gli accusatori c’erano uomini che avevano approfittato di lei. Sente i sassi battere nelle loro mani pronti per essere scagliati contro di lei. L’angoscia e la confusione la assalgono.
 Gesù non si fa’ immediatamente incontrare da lei. È chino a terra a testa bassa. Annoiato. Amareggiato. Silenzioso. Sofferente. Alla fine dietro le loro insistenze, uno sguardo, un sussulto di infinita tenerezza verso la donna. Sente che la deve liberare dalla mano dei suoi assassini.
 Sente di doverla riconsegnare a se stessa.
 Non potrà avvenire un incontro con lui se non nella dignità, nella libertà, nel desiderio di incontrarsi. Quella donna se avesse potuto sarebbe scappata, fuggita ovunque. Certamente non avrebbe mai voluto trovarsi lì, schernita. Con una frase terribile Gesù la isola, la libera. Si riabbassa a terra e scrive: «…i nomi dei peccatori sono scritti nella polvere…» (Gr 17 - 13). Tutti se ne vanno. Sono ormai soli, finalmente, lui e la donna. Gesù ora si alza, i due sguardi s’incontrano, forse si cercano anche, lunga la mano alla donna lo guarda in modo interrogativo, per lei sarà uno sguardo nuovo, diverso da tutti gli altri sguardi; un uomo che non le chiede niente. 
Si rende conto di essere stata salvata da lui; lei si rasserena. Una domanda: Nessuno ti ha condannata? una domanda evasiva, diversa che sa costruire un ponte tra Lui e lei. 
Finalmente vi può essere l’incontro che riconsegna la donna a se stessa rimettendola in cammino nella sua dignità. 
Una sola parola: le dice di cercare ancora, verso un’altra direzione, oltre a ciò che aveva cercato fino a quel momento. Solo un invito quello di non peccare più. E qui ci tengo ad aprire una considerazione; se frammentiamo il dialogo tra la donna e Gesù, notiamo la semplicità e nello stesso tempo sì può sentire la profondità di quelle parole. Sì, rivolge a lei chiamandola donna, nel Vangelo di Giovanni la parola donna: viene pronunciata da Gesù sette volte, abbiamo già visto che spessore simbolico acquista questo numero in un linguaggio giovanneo e non solo. La riflessione che vado a fare ora: è sulla frase che disse Gesù alla donna: «…và e d’ora in poi non peccare più», ma non le disse: “…và e d’ora in poi non farlo più”. Il peccato in questione non vuole essere l’adulterio, ma il senso semantico di peccato; quando Gesù si rivolge ai sacerdoti, usa una frase che di primo acchito ci può sembrare lapidaria, ma poi ci deve fare riflettere e riportare al suo senso più sperduto, ontologico di peccato. Come sempre Gesù, ci obbliga a fare un passo verso un’altra direzione, verso il senso ultimo del «»; più nascosto, di ogni persona, e quindi anche al «» di quella donna. Un «» voluto, desiderato dal Padre. Da un Padre che sa accogliere l’essenza dell’umanità, nell’amore materno, pensato come un Dio donna. Ci rimbalza subito di innanzi un’altra domanda, forse una delle più antiche dell’uomo, anzi se ci si ferma a riflettere le domande si sdoppiano. La questione del peccato, è molto ardua d’affrontare, da dipanare, da provare a spiegare. Io la voglio affrontare solo da due versanti. Il primo quello evangelico. e il secondo quello umano, sociologico, antropologico, per intenderci il quotidiano, la fatica di vivere di tutti i santi giorni. Perché la morale, l’etica, la religione stessa ci devono creare problemi di sensi di colpa o quello di peccato?


Guardiamo quante volte c’è nei vangeli la parola peccato, e in che contesti viene collocata, e lo stesso Gesù come si pone d’innanzi al peccato o ai presunti peccatori. In tutti i quattro vangeli la troviamo ben novantuno volte in tutte le sue variazioni, e diciannove volte solo come peccato. Nel vangelo di Matteo è presente due volte, in (Mat 12. 31 -2), la bestemmia contro lo Spirito; e la successiva (Mat 27. 4 - 5), quando Giuda l’iscariota, riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti. Invece in Marco, non viene menzionato, nemmeno una volta. Nel libro di Luca, il termine peccato lo troviamo solo due volte, solo nella parabola del “figliol prodigo”, qui è molto più evidente come viene usata la parola peccato, ed è pronunciata proprio da Gesù nel suo concetto semantico. In Giovanni c’è quindici volte il termine peccato; nel nostro racconto lo s’incontra due volte, ed è sempre Gesù a pronunciarla. Gli scribi e i farisei, parlano solo della legge mosaica, è Gesù, che ribalta il tutto, stravolgendo ogni tipo di schema, di allora e contemporaneo a noi. Gesù quella situazione la fa passare da un concetto di legge a quello di peccato, rivolgendosi la prima volta verso i dottori della legge, chiedendole: … «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» … Mi fermerei un attimo su questa frase. Il peccato va giudicato, ma no dall’uomo e no da un altro peccatore; troviamo nella Genesi. (4.15) “… «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato…” Per scagliare quella pietra, ci voleva un uomo senza peccato, un uomo che sapeva estraniarsi da quella colpa per sapere guardarla con gli occhi del Padre; Gesù stesso. Un Gesù che sa ribaltare ogni volta la storia dell’uomo, come fa con la nostra stessa storia. Passa da un concetto di condanna, da una posizione di poter scagliare quella pietra, ad un pensiero nuovo a quello di salvezza, e quello di sapere accogliere, amare; di nuovo come il Padre con “figliol prodigo”.


Proviamo ad avvicinarci ancora una volta a quella scena, a quel dialogo, ma soprattutto come ho già detto più volte cerchiamo ad avvicinarci a quegli sguardi di Gesù alla donna e a tutti quegli imbarazzi fatti di entrambi silenzi. In quel momento la donna si vedeva salva, i suoi aguzzini non c’erano più; Gesù, era il salvatore davanti agli occhi di lei, lui non le chiede nulla, niente. Da  quel momento Gesù le poteva chiedere qualsiasi cosa e non lo fa. Perché la domanda di partenza è importante; la domanda non è mai assoluta, ma parte sempre da un contesto, e una realtà, ma soprattutto dalla persona a cui si rivolge la domanda tenendo conto la storia che sta vivendo. Si trovano in molti testi di catechesi degli spunti di riflessioni o domande, ma non teniamo in considerazione che noi più delle volte partiamo con il piede sbagliato, o meglio partiamo dalla posizione di chi sta bene, meglio degli altri, come quei sacerdoti.


Proviamo ad immaginarci quelle domande, pronunciate da Gesù e notiamo subito come stonano, ancor di più in questo contesto se le rivolgeva alla donna. Chi è Gesù oggi, nella mia vita? lei, la donna, come poteva saperlo? come molte ragazze costrette al subire violenze e che forse non hanno modo o tempo per questo genere di domande. Oppure un’altra può essere Che esperienza ho di lui? che esperienza poteva avere quella donna? e che tipo di esperienza può fare nell’elemosina o sotto le bombe, in un carcere, o costretto a vivere in una malattia? Sono domande sbagliate che Gesù non ha fatto a quella donna come a nessuno altro, perché Lui non partiva mai da sé ma dall’altro per ritornare nel Padre. Gesù chiede ai suoi discepoli “chi dicono che io sia?”, ma no “chi sono io per voi?”, in (Gv 21. 15 - 17) La domanda diretta che fa Gesù a Simon Pietro è: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». È una richiesta d’amore. Come quella fatta alla donna: «…và e d’ora in poi non peccare più». L’amore che Dio ci chiede non né un amore fatto di rinuncia o penitenze come lo facciamo diventare noi uomini; per tenere i credenti sotto il potere religioso; ma l’amore del Padre si sente negli esclusi negli sfratati della storia, nei diseredati dai benpensanti, da quelli convinti di avere dio in cuore. Bisognerebbe farsi silenzio, umili d’innanzi al dolore, senza interpellassi a Dio ma ascoltare quel grido e saperlo leggere nella storia dell’uomo.


Come si trova nel libro di Dietrich Bonhoeffer, “Resistenza e Resa”, (Milano 1989, pag. 74); che venne arrestato nel 43 e nel  il 20 luglio 1944, Bonhoeffer fu trasferito nella prigione di Berlino, poi nel campo di concentramento di Buchenwald e infine in quello di Flossenbürg, dove fu impiccato. Scriveva: «Resta un'esperienza di eccezionale valore l'aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti.


Se in questi tempi l'amarezza e l'astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l'infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l'umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la contemplazione e l'azione: tutto questo è una fortuna personale.


Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell'accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell'alto».


Forse ora, da quest’altro punto d’osservazione ci può risuonare meglio la frase di Gesù alla donna, che inizia con due domande, la prima: Donna, dove sono? In questa domanda che ci potrebbe sembrare semplice, e nello stesso tempo scontata; invece nasconde molti aspetti e molti interrogativi. Dove sono? Dove sono, tutti quegli uomini pronti sì, a mettere in tranello Gesù; ma anche a lapidare quella donna sino alla morte per la loro causa di potere, Dove sono? Dove sono, quelle persone che sì arrogano il diritto della conoscenza del bene e del male. Si legge nel libro della Genesi: (Gen 2. 16 – 17) “…Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» ...”. La schiera degli scribi e dei farisei conosceva bene la legge di Mosè per i propri fini. Dinnanzi al richiamo di Gesù al peccato, e alla loro sete di sapienza e potere, fanno un passo indietro, si fanno scivolare le pietre dalle mani come macigni; si vedono nudi, come Adamo ed Eva nel Eden; e quella donna si ritrova rivestita di dignità e giustizia.


Nella seconda domanda, dove Gesù chiede alla donna «Nessuno ti ha condannata?», sembra voglia ritornare al concetto di legge. Il Cristo è venuto «non per abolire la legge o i Profeti [cioè l'antica legge nella sua più vasta accezione], come si legge in (Matt. 5,17-18) «…Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto…». Gesù ha dato compimento (completare, realizzare, plerôsai nel testo greco), Gesù è il Messia annunciato dalla Scrittura che realizza da un lato le promesse di salvezza e che dall'altro, incarna in lui la Nuova Alleanza, istituisce la sua legge evangelica sugli stessi principi fondamentali della legge divina eterna su cui già si fondava la legge mosaica adattata ai figli d'Israele dell'età antica. Lo vediamo più volte scontrarsi con i sacerdoti del tempio, o con la legge stessa (Luc. 11.46;52)Egli rispose: … «Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!»… […] … «Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l'avete impedito» …. Questo linguaggio di Gesù è un linguaggio duro e nello stesso tempo che non lascia spazio a fraintendimenti, chiaro! Nonostante tutto i farisei dicono nel capitolo diciannovesimo del quarto vangelo: (Gv 19 - 7) … «Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» …, rimangono alla loro paura di perdere il potere, alla loro legge a cui sono attaccati; oggi quella loro legge la potremmo chiamare pena di morte! Gli uomini del tempio conoscevano bene il rotolo di Isaia e lo ignorarono, aspettando un loro messia, che non riconobbero in Cristo. Oggi noi possediamo una affermazione, una verità in più; il prologo di Giovanni dove ci parla di legge e grazia. E corriamo il rischio, fare come i sacerdoti, conservando la nostra religiosità e ignorando la veridicità che ci tramanda il discepolo. Isaia annunciava il messia al suo popolo (Is. 7.14) «…Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele…»; Giovanni, verso la fine del suo prologo indica oggi a noi, (Giov. 1,17) …Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo… Per comprendere la grazia di Gesù Cristo; va vista nella condizione peccatrice nella quale ogni uomo si trova gettato dalla sua nascita, se si prescinde dalla grazia di Cristo. La nostra condizione nativa non comporta, in se stessa, l'amicizia con Dio e la partecipazione alla sua vita, al suo creato; soltanto la grazia di Cristo può assicurarcele, (momento logico, più che cronologico, nella storia della salvezza personale). Paolo esclama «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» Per lui Cristo è al primo posto: ci ha tutti salvati.


Questa distinzione fondamentale, tra legge e grazia, mi porta a fare un’altra diversificazione, ancora più rilevante tra; peccato originale e peccato delle origini.

Per affrontare bene il passaggio che vado a fare, bisogna mettersi d’accordo sulle parole usate, sui termini: peccato originale e peccato delle origini. Quando parlerò del peccato originale, mi riferirò alla lacerazione dell’uomo quanto uomo, al suo continuo vuoto, al suo non senso nella corsa affannosa verso una risposta che non c’è nell’umano.


Quando parlerò del peccato delle origini, mi riferirò a quello che la Bibbia chiama il “peccato di Adamo”, una colpa troppo pesante nella storia dell’umanità che si è condannata e caricata di un senso troppo gravoso segnando la nostra razza peccatrice. Sovente si è partito erroneamente dal “peccato delle origini” (o di Adamo) per spiegare “il peccato originale” (la nostra condizione peccatrice). E invece bisognerebbe fare il contrario.

Il peccato originale, c’è stato sempre fatto vivere come un senso di colpa, quale stato di lacerazione interna e di disarmonia interiore, è una realtà psicologica universalmente umana e non appartenente solo alla dimensione religiosa. – Le contraddizioni ed il senso di colpa che sono generati dal principio religioso della storia, rendono l'amore ed il piacere psichico impossibili. Il senso di colpa che oggi ci viene inculcato dalla religione è così intelligentemente nascosto ed implicito che può influenzare la persona a livello subcosciente facendo perdere il piacere e la felicità. Ci hanno fatto credere, è ancora più difficile è raggiungere questa felicità, se voltiamo il riflettore sulla sfera sessuale –.

Il senso di colpa è diverso anche dalla coscienza di colpa; la coscienza di colpa: è scaturita da un me, e ciascuno se lo può gestire, monitorare, conscio delle cause e degli effetti… mentre il senso di colpa, si riferisce a qualcosa che può effettivamente esserne causa, il senso di colpa, che si fa vivere, è sempre sproporzionato rispetto alla motivazione che lo smuove. Il senso di colpa inconscio (esterno) è caratterizzato da un senso di disagio, di inadeguatezza, di frustrazione, di angoscia che non si riferisce ad un oggetto specifico e reale ma è vago e fluttuante. In un secondo tempo si avvertono gli effetti ma non si ha coscienza delle cause psichiche, che si possono scatenare nella persona che si ha di fronte; tuttavia, si tenta di dare una spiegazione tramite una copertura razionalizzante con un’etica. Qui vi è la presenza della nascita esteriore di un Super-Io rigido (senso del dovere portato all’eccesso) o all'opposto troppo debole, che può condurre allo sviluppo di vere e proprie nevrosi. Perché come ho già detto, il senso di colpa non nasce da un “me”, ma da un “altro” che eseguita potere teocratico su di chi vive il senso di colpa. Pur servendosi della fatidica frase. … «te lo dico per il tuo bene!».


Si è sempre pensato che tramite il peccato delle origini, noi ereditiamo, per generazione, la colpevolezza in cui è incorso Adamo. Di conseguenza ci si chiede poi che cosa sarebbe accaduto se questo primo uomo non avesse peccato. In tutto questo ci sono dei gravi errori. Infatti: la colpevolezza è strettamente personale. Già l'Antico Testamento nega formalmente che un padre trasmetta una colpevolezza ai suoi figli (Ez 18). La generazione non trasmette il peccato, come se una sessualità necessariamente peccatrice portasse necessariamente ad un “concepimento nel peccato” (interpretazione errata del Sal 51,7).


Poiché Giovanni (10:35) afferma che la Scrittura non può essere annullata, i testi di Ezechiele e di Geremia sono pensiero e Legge di Dio inviolabili. Su Abele, figlio di Adamo, non gravò alcuna colpa paterna, perché Gesù Cristo lo giudicò “giusto” (Mt 23. 35). Tra i posteri di Adamo vi è anche Abramo, antenato di Gesù Cristo e (Gc 2. 23; cfr Is 41. 8) «amico di Dio». Sarebbe assurdo, inammissibile che Abramo abbia ereditato il peccato di Adamo. Sta scritto che Abramo ubbidì a Dio ed osservò i suoi comandamenti: (Gn 26. 5) «Abrahamo ubbidì alla mia voce e osservò quello che gli avevo ordinato, i miei comandamenti, i miei statuti e le mie leggi».


L’uomo nasce con l’Amore e nella grazia del Padre, non nasce con nessuna colpa generazionale, solo con la lacerazione e un’inquietudine intrinseca nella sua natura, che sfocia come fiume in piena nelle domande esistenziali, oggi nella era tecnologica scordate. Si è tentato di rispondere negli scorsi secoli e non solo alla domanda dell’uomo; ha tentato di rispondere anche il pelagianesimo che era considerato un movimento ereticale, fondato nei primi secoli del cristianesimo da Pelagio e Celestio. Il movimento fu combattuto da Sant'Agostino e venne condannato nel 431, nel Concilio di Efeso, ma continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico. Pelagio nacque, intorno al 354, in Inghilterra. Il pelagianesimo, comunque, prediligeva l'attitudine della libertà umana a scegliere a suo arbitrio fra il bene e il male e a adempiere, con le proprie forze, la legge divina. Pelagio nega la trasmissione a tutta l’umanità del peccato di Adamo che era, secondo lui, mortale anche prima di commettere peccato; ciascuno è responsabile delle proprie azioni, non di quelle degli altri. Il battesimo degli adulti rimette i peccati da questi commessi ma i bambini appena nati non vengono battezzati in remissionem peccatorum che non possono aver commesso. All’obiezione che era antica l’usanza di battezzare i bambini, afferma che il battesimo è l’espressione dell’accoglimento nella comunità cristiana.


Possiamo vedere, solo in un secondo tempo è stato giunto lo Spirito Santo nel rito battesimale; quanto al valore del battesimo va detto che la formula riportata nel vangelo di Matteo non è esatta, cioè: (Mt 28;19) «battezzandoli nel nome del Padre e del Figliolo e dello Spirito Santo». Tale formula è prettamente trinitaria, aggiunta successivamente. Gli Apostoli battezzavano esclusivamente nel nome di Gesù Cristo, come si può evincere dai testi che riporto. (At. 2:38) «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo». […] (At 8 - 16) «non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù». […] (At 10 - 48) «E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo». […] (At 19 - 5) «Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore.


Dopo questa lunga dissertazione sul peccato, ritornerei al racconto della adultera. Gesù ha avuto misericordia. Avere misericordia è impedire che l'ultima parola sia di condanna, nostra e dei potenti che schiacciano la dignità dei più deboli. Implica avere fiducia nel futuro dell'altro, dare sempre una possibilità, credere nella capacità di recupero di ogni persona. Come ha fatto Gesù con quella donna; ed espellere il fariseo che è in ognuno di noi. Il fariseo non è tanto una persona quanto uno stile di vita, un modo di comportarsi. Siamo un po’ tutti farisei, come quei sacerdoti del brano, scegliendo la schiera con cui stare, escludendo i poveri del nostro tempo, o offrendogli “la carità” con i denari dei più potenti. Siamo farisei quando ci lasciamo orientare solo dalla legge senza considerare la persona concreta che sbaglia. Equivale alla mancanza di misericordia, alla negazione dell'amore per chi è debole e distrutto. È ciò che Gesù condanna di più nei farisei. L’atteggiamento di Gesù di fronte alla donna e ai suoi accusatori ci fornisce un orientamento sicuro. Gesù si mostra profeta e pastore.


Il profeta denuncia e annuncia con parole e gesti taglienti. Per i presuntuosi e i moralisti Gesù si rivela un profeta implacabile. Difende sempre gli accusati e i deboli contro i lor accusatori: la “donna”, il pubblicano, l’eretico samaritano, la straniera siro-fenicia, gli stessi apostoli che non digiunano il sabato.


Nel nostro racconto abbiamo già visto, già analizzato il momento quando Gesù scrive per terra. La domanda qui è più forte, prende un’altra svolta, un’altra forma. La parola di Dio è una parola viva e vivente, una parola che muta e che fa mutare. Ritorniamo alla domanda: Cosa stava scrivendo? Il nome degli accusatori? Come sopra ho già detto! Probabilmente. La sentenza di misericordia verso quella donna? Forse. L'imperturbabilità di Gesù e il suo gesto di scrivere sulla polvere, che il vento può subito disperdere, vogliono indicare che egli non partecipa al gioco degli accusatori come ai nostri giochi di coscienza. Al contrario, li denuncia. In fondo con quel suo silenzio d’amore vuol dire: “perdonate, dimenticate”.


Gesù non è solo il profeta, è il figlio dell’annuncio, e della denuncia. Denuncia una dignità calpestata proprio dai nostri perbenismi, dai nostri culti, scordando il prossimo, lasciandolo alle periferie della nostra religiosità, per usarlo solo quando vogliamo sentirci più buoni, chinandoci d’innanzi agli futili incensi.


Secondo Matteo, Gesù è in ricerca della pecorella smarrita. (Mat 19 -13) «…Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite…». Così ha fatto Gesù nella sua vita pubblica e lo ripete con la donna. In una parola, mostra un cuore sensibile e pieno di misericordia. Lui con la sua misericordia glorifica suo Padre, e non solo ce la offre anche a tutti noi come dono; come vita nuova che possiamo ritrovare (Luc 10. 30 - 42) nella parabola del buon Samaritano.


La misericordia è la caratteristica principale del Padre, del Figlio. Chi sente su di sé la misericordia di questo Padre è portato ad essere anch'egli misericordioso. Accogliere è non permettere che la povertà dell’umano abbia il sopra evento, che il fallimento si trasformi in una situazione definitiva. Accogliere implica aprire un nuovo futuro di speranza alla persona, verso la parola del Padre, come ha fatto il figlio incontrando l’umanità: «Ecco, faccio una cosa nuova» (Is 43,19).


Dobbiamo partire da Gesù, come vita vivente, per esercitare la profezia nella denuncia degli oppressori degli umili e contro l'arroganza dei prepotenti. Se a questo punto sentiamo il bisogno di chiedere perdono a Dio, dovrebbe essere perché non siamo capaci di continuare il suo creato come lui lo sogna, o perché non amiamo i suoi figli, come fratelli, facendoci pane per loro; per tutte le guerre che ci sono nel suo mondo, e per tutti gli uomini e bambini che muoiono per la nostra ingiustizia e per tutte quelle volte che non sappiamo vederlo nel dolore e diciamo che è la sua volontà.


Dobbiamo essere eucaristia viva, misericordiosi; come ci riporta solo Lucca nel suo vangelo durante l’istituzione dell'Eucaristia: «…fate questo in memoria di me…». Poi, preso un pane, rese grazie, in quel pane c’era, e c’è tutta la sua misericordia e glorificazione al Padre, e tutta l’urgenza, il bisogno di concretizzare in quel gesto il suo patimento con tutta l’umanità intera. Ha potuto compiere questo gesto no, perché è solo il figlio di Dio, ma perché ha vissuto di coloro che ha incontrato, amato, tutti coloro che sono stanchi e umiliati. Solamente con la tenerezza e il senso di umanità, appartenenza nella misericordia come glorificazione del Padre; non solo un Dio che ha la risposta, ma un Dio che è risposta, anche per quella donna.


Conclusione

 

È sempre difficile per me tirare delle conclusioni, in questo caso dopo il vangelo dell’adultera ancora di più, perché si rischia di mettersi della parte dei sacerdoti, o di quella della donna. Occorrerebbe trovare la terza faccia della medaglia; quella che non si cerca mai, quella che sconvolge tutte le nostre certezze, le nostre regole più razionali, le nostre sicurezze di essere nel giusto. La terza faccia della medaglia è quella che non giudica, quella senza anatemi, quella che è super-parte; quella che non parte dagli insegnamenti o leggi, ma dalla storia individuale di ogni persona, e sa vivere la ricchezza dell’incontro.


Rischiamo di essere noi stessi quelli che scagliano la prima pietra! Condanniamo i farisei del vangelo perché sono senza misericordia per gli sbagli del prossimo, e magari non ci accorgiamo che spesso noi facciamo esattamente come loro. Noi non brandiamo più le pietre contro chi sbaglia, ma il fango sì, la maldicenza si, la critica sì e lo giudichiamo tutta la vita per l’errore di un minuto.


Si caricano le persone di crocifissi, di peccati in assenza di fondamenti, senza preoccuparci del male che produciamo in loro. Scagliare una pietra può essere anche non permettere l’eucaristia a chi si è separato. Si scaglia la prima pietra anche quando si condannano quelle soluzioni giuridiche a favore delle cosiddette unioni di fatto che, pur rifiutando gli obblighi del matrimonio, desiderano vivere i diritti equivalenti; e si mette al bando chi vuole giungere a una nuova definizione del matrimonio per legalizzare le unioni omosessuali. Non si parte mai dalla fatica, dalla storia di queste persone che a volte sono costrette a vivere nella umiliazione. Si scaglia la prima pietra a difesa di principi per conservarli, per farli valere ancor più del dolore e delle persone stesse.


Qui occorrerebbe un atto di coraggio da parte nostra, una capacità di ribaltamento, quello di saper guardare il mondo, dunque la storia dell’uomo, quindi quella di Dio; come in uno specchio il lato destro diventa sinistro, e il sotto il sopra, una prospettiva diversa, nuova, quella del Cristo. Non essere sempre ancorati alle nostre dimensioni di tempo e spazio, perchè la parola di Dio va ben al di là di queste due dimensioni, Dio è in quella che guarda il povero della povertà dalla croce, che non si ferma solo ad un concetto teologico come nel V.T., ma con la venuta di Gesù acquista una valenza sociologica, politica. Va impostata una nuova politica-teologica. Dove i diritti dell’uomo non sono solo legislativi ma anche diritti teologici, un diritto che parte da Dio, che si incarna nel Cristo e in ciascuno di noi. È il sentirci responsabili delle povertà degli oppressi dell’economia, fare crescere in noi una coscienza critica e politica per annunciare il Regno di Dio, e denunciare ogni tipo d’oppressione da qualsiasi parte essa venga. Sono sempre suggestive i nostri riti, le nostre tradizioni, canti, luci, colori, gesti, e veglie, messe, ma il pericolo è che diventino le nostre prigioni. Non c’è giustizia per l’ottanta percento dell’umanità; dove ci sono i poveri non arriva nulla. Dobbiamo vivere con inquietudine i nostri riti, le nostre tradizioni, consapevoli che di tutto ciò che noi facciamo Gesù direbbe: “non rimarrà pietra su pietra…”
 Allora credo che pur dovendo adattarci alla cultura a cui apparteniamo, dobbiamo farlo con animo inquieto sapendo di dover andare oltre, perché non tutto vada distrutto: finché ogni figlio di donna non nascerà nella gioia su questa terra e non sarà circondato dalla pace i nostri riti ci dovrebbero metterci in discussione, farci sentire inquieti. Come il vangelo che ho commentato propone un grande rimedio a questa pessima abitudine. Esaminiamoci bene, e allora sentiremo, sì, il bisogno, l’urgenza di chiedere il perdono per noi, non la condanna per gli altri.