Domanda di Giovanni Battista

e testimonianza che gli rende Gesù 


di Tonino Urgesi -- 23 ottobre 2006


dal Vangelo di Luca

 


Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due di essi e li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?». Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?». In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. È beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!».

Commento

 

 

La risposta nella Domanda

Tutta la vita di Giovanni Battista è basata su un’atavica Domanda; il Battista chiamò i suoi discepoli e gli mandò a dire a Gesù: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?». È la Domanda della Venuta che s’incarna nella Domanda esistenziale dell’uomo. Molte volte m’hanno fatto la domanda: perché l’uomo deve soffrire? Ho sempre tentato di rispondere con concetti filosofici, ragionamenti trascendentali, indottrinamenti teologici o con quadretti poetici, però mi rendevo conto che nella risposta rimaneva un amaro, un vuoto, non lo vedevo soddisfatto il mio interlocutore; ripensandoci bene, dopo un po’ non ero appagato nemmeno io. M’accorgevo che erano solo dei tentativi, che non mi portavano a niente; ho pensato anche che fosse sbagliato come mi era formulata quella domanda… così trovavo la mia giustificazione.


Ma, non si ferma qui la Domanda: più delle volte non c’è la ricerca reale del vero, e non vogliamo farci mettere in discussione da essa. Scioccamente, con presunzione tentiamo di rispondere a qualcuno, per rispondere realmente ancora solo a noi stessi; sfuggiamo all’essenza della risposta, che non sta nelle nostre parole scarne di significato, ma piuttosto in una presa di coscienza e di conoscenza dell’altro; con le nostre risposte preconfezionate diciamo che una persona è: “la gioia della vita o il bello di un incontro, o mille altre cose, o infine che dio ti vuole bene”; ma quella Domanda va avanti, va al senso della morte, al senso del dolore, della sofferenza, al senso ultimo della vita. Se si ascoltasse realmente quella Domanda ti porterebbe là…, alla solitudine più esasperata, dove ci sei tu e nient’altro che te stesso, e solo in questo caso la Domanda si fa vera e la risposta si fa ascoltare. La Domanda non deve cercare una risposta individuale, fine a se stessa, ma una risposta più universale, nella quale si può riconoscere ogni uomo, ogni donna; deve arrivare a scalfire il senso ontologico per riuscire a rispondere al senso dell’umano.


Tutte le domande che possiamo andare a formulare o risposte che riusciamo a dare sono solo dei surrogati, una simulazione della Domanda stessa, come della risposta. Perché nella Domanda esiste già la risposta; o parte di essa. Se noi chiedessimo, a qualcuno: cos’è la matematica analitica? Lo chiederemmo perché conosciamo già imparte il concetto di matematica e di analisi. La Domanda non nasce mai dal nulla, ma da quella risposta, che fa parte del nostro essere, della nostra natura.


Proviamo a osservare il noto affresco “Scuola di Atene”, di Raffaello, del 1509-1510. È ancora questo il tema del contendere: la ricerca razionale del Vero. Che per noi, è la Domanda. Altrimenti non si spiegherebbe perché, al centro della scena, Aristotele e Platone indicano ognuno con un gesto diverso, sintesi delle proprie convinzioni filosofiche, la strada per raggiungere razionalmente il Vero. La Domanda. Così Platone, che tiene in mano il Timao, alza il dito al cielo per riferirsi al mondo delle idee, mentre Aristotele, che porta con sé il libro dell’Etica, distende la mano con le cinque dita aperte verso il basso a significare che la chiave per conoscere la Verità, la Domanda, si trova nelle indagini empiriche, delle cose di questo mondo. Tutt'intorno, a gruppi, si raccolgono scienziati e filosofi del tempo, assolti nelle loro attività speculative. Le dispute sulla ricerca razionale del Vero sono ancora punti controversi anche della filosofia contemporanea. Platone, con il dito indica il cielo, Aristotele, con il palmo della mano e le cinque dita aperte si rivolge alla terra. Questo mi fa pensare che la ricerca del Vero, della Domanda, deve trovare un'altra direzione, né quella trascendentale, né quella fenomenica. Ma una direzione filantropica. La filantropia, nel linguaggio filosofico, è il vincolo naturale di solidarietà fra gli uomini in quanto partecipi della stessa natura, rientra nell'ambito della giustizia elevandola a espressione massima dell'amicizia, lontana da ogni interesse e solo intesa alla ricerca del bene.

 

 

L’uomo che nacque dalla Domanda.

Ripercorro la storia mentalmente, per cercare la Domanda, quella che ho tentato fino adesso di sintetizzare come la Domanda per eccellenza; e sono arrivato sino a Giovanni Battista. Tutta la vita, del Battista è impregnata su quella Domanda. Le informazioni sulla sua vita ci vengono soprattutto dai Vangeli e dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine che nel 1244 entrò nell’Ordine Domenicano. Se prendo il vangelo di Luca. (Luc. 1.18 - 20) Zaccaria disse all'angelo: «Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni». L'angelo gli rispose: «Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a portarti questo lieto annunzio. Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo».


E Zaccaria, il padre, domandò all'angelo: «Come posso conoscere questo?», apparentemente una domanda lecita, direi umana, che però non ha una sua risposta, anzi può sembrare un ammonimento, lo rende muto, lo fa tacere… Dalle parole dell’angelo, nel libro di Luca, si può capire che il sacerdote Zaccaria, prega a Dio per diventare padre, ma rimane incredulo; ecco perché Gabriele gli toglie la parola, perché il sacerdote, non crede alla forza della propria preghiera, della propria Domanda. Si legge ancora in Luca, 1.13: «…Ma l'angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni…». Zaccaria per circa nove mesi non parla, rimane nel suo silenzio, con la sua domanda che si fa vita nel grembo di Elisabetta, contemporaneamente Domanda e Risposta nello stesso tempo. Penso che Zaccaria, non ebbe mai una visione dell’angelo Gabriele, come neppure Maria la madre di Gesù; ma piuttosto che sia una sorta di capacità d’ascolto della propria interiorità, e di saper leggere la storia e gli eventi che la circondano. Se no, non riesco a motivarmi il perché nei tempi passati i personaggi biblici avevano così tante visioni; al contrario del nostro tempo, che molto più difficile decifrare gli eventi della storia dell’ultimo decennio nel suo scenario di guerre e ingiustizie politiche.

 

 

La Domanda interrogata

Per riuscire ad avere una visione completa, di un personaggio così articolato, come Giovanni Battista, occorre passare da un vangelo all’altro, da una lettura all’altra. Questa volta prendendo il vangelo di Giovanni; notiamo il ribaltamento, com'è solita fare la scuola giovannea. Qui non né il Battista che fa le domande, ma è il contrario, è da lui che si vogliono le risposte. I Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti ad interrogarlo: sono ben sette le domande che l’evangelista mette in questo passo; conosciamo già la valenza simbolica che l’autore dà ai numeri. Cercherò di sviscerare il passo evangelico (Gv. 1.19 - 28), La testimonianza di Giovanni… e, mi balzano subito agli occhi le prime tre risposte del Battista che dà ai sacerdoti e leviti che lo interrogavano da parte dei Giudei. Negative ma esplicite nella loro chiarezza, con la consapevolezza e scopo della propria natura; si possono riassumere tutte nella seconda risposta che Giovanni Battista dà: «Non lo sono»; mi richiama alla mente la risposta che Dio dà a Mosè sul monte l'Oreb, (nell’Esodo 3.14) Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. Vediamo che Dio risponde: io sono; Giovanni risponde: io non sono. Potrebbero sembrare due risposte monche, o in dicotomia tra loro, ma in realtà non lo sono; tutte e due danno un’umica risposta. La risposta la troviamo connaturata dal vissuto del Cristo; uno che non guarda solo: le cose spirituali del cielo o le cose pragmatiche della terra. (Scuola di Atene). Provo a fare un successivo passo: Dio dice: io sono la risposta; Giovanni dice: io non sono la risposta. Entrambi sì coesistono per l’Altro, per il messia; che dice: «io sono...». Andando a contare tutte le volte che Gesù dice: «io sono…» le sì trovano solo nel vangelo di Giovanni ben dieci volte; definendo se stesso: “la risurrezione, o la via, la verità e la vita”. Possiamo pensare che il cerchio si stia per chiudere, e che l’“Io sono colui che sono!” di Dio e l’“io non sono” del Battista che vive tutta la vita come «voce di uno che grida nel deserto», come disse il profeta Isaia; trovino il loro compimento nelle definizioni del Cristo stesso.


Per continuare a ricalcare la vita di Giovanni Battista, come dicevo sopra… occorre snodarsi tra i quattro vangeli, o tra una domanda all’altra. Questa volta brandendo il libro di Luca. Qui la scena cambia; non sono più i sacerdoti, leviti, o Giudei ad interrogarlo, ma ora è la folla comune, la gente come noi, la gente di tutti i giorni. Sono proprio queste domande che il Battista si lascia porre… e lo conducono come una trina, che intrecciano la trama dell’ultima sua Domanda, che invia a Gesù; è stata proprio questa Domanda del Battista, che mi ha spinto a riflettere su questo passo evangelico.


Se sapessimo ascoltare, le domande che ci vengono poste, e che ci poniamo; senza dare soluzioni affrettate, o sentente dettate dal nostro moralismo-buonistico; capiremmo che sono pertinente “queste” a farci avvicinare alla Domanda.


Come Giovanni ha saputo ascoltare quelle domande della gente, le paure, le solitudini delle persone e, le ha sapute farle proprie; non li lascia nella loro angoscia, nel loro vuoto-nulla. Rileggendo le domande di sofferenze e povertà, fatte al figlio di Zaccaria, si possono intravedere le stesse risposte che dà il Cristo nei vangeli.


Vediamo le domande che sono rivolte al Battista in Luca (3.10 - 14) le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». Giovanni rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».


Il linguaggio del profeta diventa un linguaggio sociologico, politico, direi un annuncio di giustizia; la medesima che quelle folle la crocifiggeranno. Giovanni, non chiede cose impossibili, oppure i nostri riti, o veglie; non sta tanto a discorre, a tergiversare con loro, ma le chiede di dividere il proprio essenziale con chi non ce l’ha. È la preghiera dell’azione, è la preghiera di Dio quando si impasta le mani con le povertà della sofferenza.


Possiamo vedere che la parola “tunica”, in tutti quattro i vangeli compare ben nove volte; precisamente due volte, nel libro di Matteo, e solo una volta, in quello di Marco; in Luca, la incontriamo tre volte in vece altre tre volte la si può evidenziare nel vangelo di Giovanni; dove notiamo che la “tunica”, in questione sono le vesti di Gesù; precisamente nel capitolo diciannovesimo si legge: «Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte.».


Nel Nuovo Testamento si trovano due tipi di indumenti: (tunica, chiton, e mantello, bimation). Gesù dice a colui a cui è chiesto il mantello di cedere anche la tunica. Il mantello era usato per coprirsi di notte, il mantello per certi era la propria casa, e i codici ebraici proibivano a chi aveva prestato del denaro di prendersi in pegno il mantello del povero. Il mantello non si indossava sul lavoro, ma si poteva usare per portare degli oggetti. Avere un cambio di tunica era segno di ricchezza, ecco perché il Battista e Gesù lo proibiscono. Durante l’esecuzione della pena di morte, la tunica del condannato, veniva tirata a sorte fra i soldati, perché era un bene prezioso come il mantello; eco perché alla crocifissione la tunica e il mantello di Gesù furono presi dai soldati e giocate tra loro: la tunica era di tessuto non comune, senza cuciture, un indumento di fattura estremamente semplice di un colore unico.


Quante cose noi possediamo in quantità doppia: oggi non più solo la tunica, ma possediamo il superfluo, giustificandolo come nostra necessità, scordando la sobrietà della vita, delle scelte …e quella del pensiero. Scegliere forse vuol dire vivere una coerenza di fede, mettendo, no sempre noi al primo posto, nemmeno le nostre religiosità, ma le povertà di chi s’incontra, facendo vivere la dignità di quella persona, anche quella sentimentale. E ci definiamo figli di Dio, pensando di accomodare le nostre coscienze sulle panche delle chiese. Viviamo nell’epoca del di più e forse ci fa vergogna avere soltanto una cosa. Ma gli uccelli non hanno un altro paio di ali, gli alberi non hanno un altro fusto e le erbe non hanno un altro stelo: in natura nulla possiede una seconda cosa. Lasciamo nella povertà il più povero, lo lasciamo nella sua Domanda, per esercitare su di lui il nostro potere di così detti “cristiani”.


Più delle cose semplici a noi piacciono gli olocausti e i sacrifici, comunque cose grandi e non alla nostra portata. Vorremmo rimanere davanti ai nostri tabernacoli e chiedere… la purificazione del mondo intero da tutto il male, il miglioramento della condizione sociale per tutti i poveri, l’integrità morale da parte di tutte le persone con cui trattiamo. Per noi stessi vorremmo raggiungere la vetta della santità attraverso un ritiro spirituale o una preghiera; davanti alle difficoltà vorremmo poter compiere miracoli; forse ancora solo per noi stessi. Invece l’offerta più gradita è quella cosa, forse piccola e segreta, a cui siamo più attaccati e che, secondo noi, abbiamo tutte le scuse per tenercela. Diciamo a noi stessi che quella è una cosa piccola; e così ci dispensiamo dal guardare le cose, deleghiamo tutto in una “preghiera”, senza sforzarci di guardare il mondo con un altro paio di lenti, per non ascoltare veramente la Domanda, di quel povero che ci grida giustizia. Come Giovanni in carcere.


Avere un altro paio di lenti; forse è comprendere la Domanda di quel povero, che non vuol dire saper dare una risposta. Perché come ho sostenuto fin ora, non ci sono risposte. Ma saper ascoltare, comprendere quella domanda, vuol dire capire da dove nasce e tentare di intervenire su quella sofferenza. Non partendo come di solito facciamo da noi, come se avessimo le soluzioni, ma osservando la persona che si ha davanti, seguendo il racconto di quella povertà, e da là, forse posso scoprire la risposta; che dà il Cristo a Giovanni.


Continuando la riflessione sulle domande che rivolsero le folle, al Battista nel vangelo di Luca, e questa volta erano dei pubblicani ad interrogarlo. Gli chiedevano: «Maestro, che dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Abbiamo udito l’esortazione di Giovanni a preparare il terreno perché possa ricevere il seme, perché l’uomo sia degno dello sguardo del Padre. Le persone accorse per ricevere il battesimo chiedono cosa devono fare: la risposta di Giovanni è di una semplicità disarmante. Norma semplice ed elementare, ma davvero difficile da mettere in pratica. Giovanni non propone esempi di abnegazione eroici: propone uno standard di vita quasi ovvio, nella sua semplicità, a cui lui per primo si attiene. Ovvio perché là dove si riconosce il valore illusorio e inconsistente dei beni materiali, di tutti i beni materiali, che senso ha occupare tempo ed energie per procurarsi il superfluo, invece di accontentarsi di ciò che basta e di dividere tutto ciò che sopravanza, con chi non ha? Qui, non è il povero che andava a farsi purificare nel Giordano, non è l’adultera o il ceco nato ad interrogarlo, ma erano dei pubblicani: agenti del fisco che percepivano i diritti di dogana e dazio in epoca romana. Molto probabilmente erano anche gente che stava bene e rispettava la legge farisaica e che si recava al tempio. Eppure, anche l’ovvio sembra fuori portata. Oggi non è certo contro il principio di accumulazione del superfluo che tuonano gli anatemi delle chiese, se non in sporadici e velleitari proclami: e questo perché le chiese per prime, di qualunque religione siano, non sono indenni dall’idolatria al principio di accumulazione: accumulazione di beni materiali, di proseliti, di ridondanza dottrinale, di apparenza. Vogliono approcciarsi con i potenti della terra per decidere anche loro le sorti del mondo, sono potenti del mondo: come possono essere credibili, richiamando alla sobrietà che viene dalla rinuncia all’esercizio del potere, che non rappresenta altro che la preparazione del terreno, che non è niente più che il requisito necessario perché si possa ricevere il seme della dignità dell’uomo, della sofferenza,  ascoltando la voce di un Dio che vive ai margini di questo mondo che si regge sull’economia.


Giovanni Battista, infatti, è l’uomo che rinuncia al potere. Il suo atteggiamento è esemplare e di grande aiuto per comprendere quale è la parte dello sforzo umano nella coerenza della fede. Giovanni non tace sulle ingiustizie del mondo, fa della sua voce uno strumento di annuncio e di denuncia. Non si serve del potere del tempo, ma lo critica, lo ammonisce con veemenza; seguendo il pensiero di Giovanni, nel quale ritrovo strati di una idea politica ben delineata, che non è la politica del suo tempo, e nemmeno del nostro, è una politica che non si basa sul potere, ma sull’uomo, sulla dignità del dolore. È una politica, che il Cristo fa sua, e la ritrovo in tutti passi dei vangeli, e sa diventare risposta nel povero. Giovanni è l’asceta e il povero per eccellenza che rifiuta ogni tipo di potere. È l’uomo che segue una via di rinuncia radicale e severa, ed è un maestro e una guida per chi si accosta a lui bisognoso di indicazioni. È un uomo importante, punto di riferimento di intere folle: ma non si fa grande di questo, non usa il potere che gliene deriva. Anzi, svolgere il proprio ruolo gli dà la consapevolezza della propria umiltà, della propria dimensione umana. Usando un artificio descrittivo e separando in due parti qualcosa che in realtà separato non è, posso dire che Giovanni rappresenta il versante umano. Il versante umano è nulla senza l’altro versante, quello divino. Ma anche quello divino è nulla senza quello umano: l’uomo ha bisogno di Dio come Dio ha bisogno dell’uomo per ritornare all’uomo. Questa reciprocità è il segno dell’unità. Solo in questo senso si può parlare di rapporto con Dio.


Cerano anche alcuni soldati a interrogare Giovanni: «E noi che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe».


Per affrontare la domanda dei soldati, voglio riportare uno straccio dell’omelia natalizia: di Franco Barbero, della comunità di base “Viottoli”, licenziato da Kalor Wojtyla, che lo spoglia della tonaca e lo caccia dal sacerdozio; perché benediceva le coppie omosessuali. Dall'ex Sant'Uffizio e firmato dal cardinale Joseph Ratzinger in data 25 gennaio 2002. La condanna, proclama il decreto, è una “suprema e inappellabile decisione senza alcuna facoltà di ricorso”.


«… Il “far parte” (come recita il testo greco) di ciò che si ha e di ciò che si è resta dalla prima all'ultima pagina della Bibbia il nodo centrale, se non vogliamo confinare la fede nel mondo delle idee. Siamo piuttosto spinti a passare dalle “due tuniche” ai quattro cappotti anziché dividere. Per giunta le briciole che dividiamo a Natale sono la vergogna della nostra società e delle nostre chiese (e di ciascuno/a di noi!!!) se non diventano pratica quotidiana. … Ha senso “donare qualcosa” a Natale se condividere è il nostro stile di vita tutto l'anno. Piuttosto continuiamo ad accumulare e smettiamola con questi ipocriti teatrini da Natale all'epifania.  […]


E i soldati? Intanto sorprende positivamente che questa pagina riporti un tratto interessante: ci sono dei soldati che si interrogano. In questi tempi di delirio militarista e di idolatria della patria sono pochi i soldati che si interrogano. In verità oggi per un soldato interrogarsi vuol dire “cambiare mestiere”, cercare forme alternative di presenza. I soldati israeliani (pochi in verità) che hanno disobbedito nei mesi scorsi, sono finiti davanti ai tribunali. Oggi purtroppo i cardinali come Ruini sono più convinti dei generali che occorre difendere la nostra “civiltà occidentale” (!!!) anche con la guerra. “L'umanità potrà avere un futuro solo se verrà messa al bando la guerra, se la guerra diventerà un tabù, schifoso e rivoltante per le coscienze e per la ragione” (Gino Strada, 13 novembre).


Riorientare la vita. Ecco: questo Natale (lo scrivo minuscolo perché non rendo omaggio alla fiera commerciale in atto) può farci ripensare, nelle nostre comunità, all'esigenza di programmare la catechesi, la predicazione, i vari corsi di preparazione alla cresima e al matrimonio sui temi davvero rilevanti della vita e della fede.


Quante storielle dogmatizzanti e quante leggende mariane possono scomparire per lasciare il posto all'annuncio della pace, della giustizia: questi sono i pilastri della nostra fede... Se non ripiantiamo la fede dentro i problemi, le tensioni e le speranze di oggi facciamo “correre a Dio il rischio di essere percepito come un mito da relegarsi fra le anticaglie”, come scriveva il teologo Maurice Zundel nel 1964.


È inutile trastullarci sentimentalmente attorno a “Gesù bambino” e alle leggende natalizie perché non è Natale vero se non nasce in noi qualche decisione, la volontà di rinascere ogni giorno ad un maggior senso di responsabilità. …»

 

 

Il battesimo del “giusto” Battezzato

Leggendo Matteo l’evangelista, troviamo il dialogo di Giovanni con Gesù. Si può incontrare solo in questo vangelo, precisamente nel terzo capitolo, quando racconta del battesimo; a contrario di Marco e, Luca che si limitano a descrivere solo il fatto. Matteo scriveva per le comunità a giudaiche; e tra i giudei, si impegna in particolare a mostrare nella persona e nell'opera del Cristo il compimento delle scritture: (Sal. 2,7 – Gn. 22,2 – Is. 42,1); ecco perché Matteo, ha bisogno d’inserire il dialogo tra i due. La stessa incredulità dei giudei, attaccati alle loro tradizioni umane; l’evangelista, offriva a loro solo un insegnamento misterioso in parabole, com’era pure annunziata dalle antiche scritture, per arrivare a Cristo.


Anche in questo dialogo troviamo una Domanda che non possiamo farci sfuggire. Si legge: “…Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» …”. A questo punto mi devo chiedere che cos’è il battesimo, e cosa vuol dire battezzare. Da Matteo, si può vedere che il battesimo è compiere un atto di giustizia verso l’uomo e verso Dio. Verso l’uomo, per realizzare in ogni persona, la propria giustizia: chi si impegna a battezzare un bambino, deve garantire a quella vita la giustizia di essere venuto al mondo, la giustizia di vivere ogni diritto e ogni dignità. Verso Dio, vuol dire che attraverso il battesimo di quel bimbo ogni uomo abbia la possibilità di poter convertire la rotta della propria vita. Sto pensando a tutti quei bimbi del Sud del mondo, come posso concretamente cambiare la loro esistenza. Verso Dio, vuol dire anche dare la possibilità a Dio di fare arrivare la Sua Giustizia a tutti i suoi figli. Abbattendo tutte le guerre, in questo momento nel mondo: nell’ottobre 2006, se ne possono contare ben ventiquattro oltre alle undici zone di tensione. Indignandoci di tutte le miserie sociali che il nostro sistema occidentale semina sul pianeta; operando affinché ogni bimbo, uomo e donna possano veramente ricevere il battesimo del Giusto.


Abbiamo visto la giustizia verso l’uomo e verso Dio; ma quale è la giustizia di Dio? Quali sentieri della vita percorre? Per fami aiutare riporto quanto trovato sull'attesa del Messia dal “Dizionario di usi e Leggende Ebraiche di A. Untermann” che sunteggia le tradizioni ebraiche.

“MESSIA (in ebraico mashiach che significa unto) Il re unto dal Signore della casa di Davide di Betlemme, che alla fine dei tempi Dio manderà a dare inizio alla redenzione finale ... Il Messia della casa di Davide distruggerà alla fine le forze malefiche e guiderà con l'aiuto del profeta Elia il raduno degli esiliati. Durante il regno del Messia, principe della pace, avrà luogo la resurrezione dei morti, seguita dal grande giorno del giudizio per tutta l'umanità. Sarà rivelata la via per arrivare al giardino dell'Eden…”.


Il popolo Ebraico aspettava questo Messia; che lo liberasse dalla sua schiavitù. Il Signore, fa nascere suo figlio da una ragazza di Nazareth; troviamo nei vangeli apocrifi, che i genitori della ragazza si chiamavano Gioacchino e Anna profetessa del tempio e concepirono Maria in tarda età, dopo una vita sterile, ignobile per gli ebrei del tempo che ritenevano peccato non fare figli. La giustizia di Dio, quindi, non è mai un cammino lineare, ma più delle volte trasversale alla storia, ai progetti dell’umano; i leggibili e reconditi a ogni ragione, a ogni nostra aspettativa. Abbiamo guardato solo un esempio l’attesa del messia, Figlio di Dio, il Giusto, l’uomo che vieni da Dio; che muore tra Dimaco e Tito, due malfattori del suo tempo, muore di pena di morte… fra la povertà e i poveri.


La parola giusto, nei vangeli la si può sottolineare undici volte. Giusto. Questo nome lusinghiero è attribuito a cinque personaggi dei primi quattro libri del Nuovo Testamento, In Matteo la si trova quattro volte; due volte viene attribuita a due personaggi considerati giusti. La prima quando si narra di Giuseppe, (cap. 2, 19); sposo di Maria, viene considerato giusto perchè non voleva ripudiarla e decise di licenziarla in segreto. La seconda, è quando Gesù, maledice gli scribi e farisei, dei loro “Delitti e castighi imminenti”; qui fa una profezia che su loro ricadrà il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del “giusto Abele” fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che è stato ucciso tra il santuario e l'altare. Il terzo personaggio, lo si trova nel sesto capitolo del vangelo di Marco, qui la parola giusto la troviamo solo una volta, ed è riferita a Giovanni Battista. L’evangelista ci dice che Erode temeva il profeta, sapendolo giusto, ogni volta che lo ascoltava rimaneva molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Anche in Luca, si trova quattro volte la parola giusto, l’autore, solo due volte lo attribuisce a due figure nel suo vangelo. Una alla nascita di Gesù e l’altra alla morte. Il primo personaggio è Simone che era un vecchio «giusto e timorato di Dio» che spesso stava nel Tempio e al quale lo Spirito Santo aveva rivelato che non sarebbe morto prima di avere visto il Messia. Si recò al tempio, e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per circonciderlo per adempiere la Legge. Simone, ormai poteva aspettare in pace la morte perché aveva visto colui che secondo il profeta Isaia sarebbe venuto al mondo. La seconda figura è il centurione che comandava la guardia che sorvegliava le esecuzioni sul Golgota, dopo la morte di Cristo esclamò secondo Luca o secondo Matteo: «Veramente quest'uomo era giusto», e Marco gli fa dire: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio». Questa espressione, «giusto»; che l'aveva sentita sicuramente dagli Ebrei di cui capiva la lingua, usata da un pagano certamente il significato assume una valenza non soltanto di ammirazione, ma direi più di conversione. Ci dovrebbe far riflettere, quella sua esclamazione detta sotto la cerea nudità di Dio. La giustizia di Dio è stata crocifissa, resa impotente dall’uomo, resa povera e sofferente da ogni tipo di potere dell’umanità. La risurrezione del figlio di Dio si concretizza nel far scendere dalla “croce” oggi, tutti i “crocifissi della storia”; o non è vero niente. Giovanni XXIII, scriveva nella sua enciclica “Pacem im terris” nel (1963), p. 301)


«…La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini…».


Nel vangelo di Giovanni, il termine giusto, lo si può incontrare tre volte, ma mai è riferito a una persona; sempre a dei concetti filosofici, e ci rimandano a una figura più intimista del Cristo. La prima volta nel quinto capitolo, “discorso sull'opera del Figlio”; si sente l’influenza di una corrente di pensiero largamente diffusa in alcuni circoli del giudaismo: e se ne è ritrovata l'espressione nei documenti esseni. Seguendo con il nostro dito il versetto trenta, avvertiamo questa corrente di pensiero. Attribuisce a Gesù un discorso ontologico, dove afferma che il suo giudizio è giusto perché non parte dalla sua volontà, ma da quella del Padre che lo ha mandato. Nel settimo capitolo, Giovanni ci parla di quando Gesù salì al tempio e insegnava ai Giudei; era per la festa delle Capanne (delle Tende o dei Tabernacoli - Sukkôth) che si celebrava sei mesi dopo la Pasqua al tempo della vendemmia (settembre-ottobre). Originariamente si trattava della festa del raccolto d'autunno, poi è divenuta la commemorazione dei quarant'anni nel deserto. Il discepolo-evangelista per la seconda volta, in questo capitolo, ci ripropone il termine: “giusto”; lo attribuisce all’atteggiamento di giudicare, che non è, secondo le apparenze, ma con quel giusto giudizio; nel diciottesimo versetto, rinforza il concetto della volontà del Padre, ci fa dedurre ancora una volta che non va cercato il proprio giudizio, ma va cercato il “giudizio” di colui che ci ha creato perché è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia. Il nome “giusto” … lo troviamo di nuovo nel diciassettesimo capitolo, per la terza ed ultima volta, dove Gesù prega suo Padre chiamandolo “giusto”. Se si leggesse con attenzione tutta la preghiera è un rimando al Padre Nostro, che troviamo nei tre sinottici. Dunque, posso spingermi a dire che questa preghiera, è il Padre Nostro, per il discepolo prediletto, che ci tramanda nel suo vangelo.


Per ritornare al dialogo tra Giovanni Battista e Gesù, e a quel loro Battesimo; Gesù si fa battezzare perché in lui c’è già il senso intrinseco del Battesimo. Quindi posso dire che il “giusto”, il “battezzato”, è l’uomo che viene da Dio, e per tutta la vita ritorna a Dio, per compiere la volontà del Padre.

 

 

La Domanda messa a tacere

Durante un soggiorno a Roma, Erode Antipa intrecciò una relazione con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo; ripartendo per la Galilea, la portò con sé e la sposò. Il fatto destò scandalo, in quanto la legge mosaica lo proibiva. Secondo i vangeli, Erode Antipa fece arrestare Giovanni Battista, spinto da Erodiade che non voleva ascoltare le accuse del Battista: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello».


Voleva mettere a tacere quella voce, la voce gridava nel deserto. Quante cose mettiamo a tacere, di noi stessi, e non vogliamo che vengano alla luce del sole; e quante altre non ci diciamo per non farci del male; e continuiamo a sorridere a tutti dicendo che tutto va bene, altresì sapendo di sapere. Ci danno fastidio, ci irritano le nostre limitazioni, il non essere in grado di vivere delle situazioni pur sapendo che sarebbe giusto o la cosa migliore, per noi stessi. Se qualcuno domandandoci...; ci facesse notare le nostre debolezze, inadeguatezze o in capacità. Quella persona la definiremmo un imbecille, un ignorante, sbattendole in faccia con tracotanza, l’aspetto più invulnerabile di sé, umiliandola e offendendola, facendola tacere per sempre.


Per questo Erodiade portava rancore verso il Battista e avrebbe voluto farlo uccidere, farlo tacere. La voce di Giovanni è una voce azzittita. Quante ingiustizie siamo a conoscenza, e non le denunciamo, mettendole a tacere anche nelle nostre coscienze; facendo vivere così l’ingiustizie delle nostre piccole realtà; per non perdere la nostra tranquillità di vivere, di borghesi arroccati nei nostri culti; e poi ci scandalizza quello che accade in Medio Oriente o nelle atre parti del mondo.


La donna non voleva che venisse messa in piazza; Erodiade era una donna senza scrupoli: come aveva accettato d'abbandonare il marito “senza terra” (a Roma) per un uomo padrone di una “quarta parte”, così avrebbe fatto di tutto per conservare e, se possibile, aumentare il proprio prestigio di regina. Se avesse voluto guadagnarsi il formale pubblico rispetto, restando al potere, avrebbe dovuto a tutti i costi far tacere la bocca di quel grande accusatore. È stramo che si presentò la figlia di una regina per il ballo, poiché nell'antichità, durante i banchetti, le danze erano molto in uso, ma vi si prestavano soprattutto le prostitute. Allora il re fece un giuramento alla ragazza: “Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò”. Sarebbe stato assurdo che Erode promettesse così tanto, la metà del suo regno a Salomé per il solo piacere della danza e proprio davanti a tutti i rappresentanti del suo potere; poiché il primo dei quali era che il regno non apparteneva a lui più di quanto non appartenesse a Roma. Erode, con la menzogna decapita la voce nel deserto, la voce che gridava giustizia, che faceva strada alla verità. Quello che rimproverava Giovanni ad Erode, era il suo sistema di vita, erano le sue scelleratezze. Quante persone ammazziamo, non solo con iniquità, ma con sottili menzogne (come Giovanni), con le nostre sicurezze e certezze, di questo sistema, per esercitare sul povero ogni forma di potere. Provo a pensare a tutte quelle persone costrette dalla nostra economia, a vivere precariamente le loro poche certezze, dal come mangiare al dove poter andare a dormire. A tutte quelle ragazze vendute e svendute, dalla stessa prostituzione; a tutte quelle persone costrette ad abbandonare le loro terre, le loro famiglie, per le guerriglie o per un po’ di fortuna. E a chi è costretto a vivere in carcere o in un letto. L’atteggiamento di Erode e di Erodiade, lo abbiamo anche verso Dio. Noi cerchiamo un Dio che non parli, che non ci giudichi, un Dio che ci ascolti e, esaudisca solo le nostre preghiere; perché sappiamo già ciò che Lui vuole da noi, lo anticipiamo riempiendo la sua volontà con le nostre cerimonialità e riti che siano. Facendo in questo modo, lo facciamo tacere ancora una volta, lo condanniamo a morte; proteggendo ogni forma di potere politico o clericale che sia. Facciamo tacere tutta la verità, la giustizia di Dio che ci grida dalla voce del sofferente; è una voce che si vuole allontanare, è la voce: della “morte e dell’afflizione”, è la voce del Giobbe d’oggi, schiacciato dall’economia, che ci rifiutiamo di ascoltare come voce di Dio. La voce di Dio è quella che sentirono i pastori nel vangelo di Luca (Luc 2.17); è il pianto di un bambino, è il pianto di una donna e di un uomo. I pastori videro: una donna che aveva appena partorito, forse sfinita dalle doglie, il bimbo piangeva per fame o forse la videro con il figlio al seno; il pianto di quell’uomo probabilmente era un pianto di gioia. È quel pianto di Dio da interpretare, codificare, far proprio; un pianto a cui si deve dare voce; è quel pianto che non dovremmo mettere a tacere.

Resta tuttavia il fatto che il Battista è morto e l’hanno fatto tacere per la sua fedeltà rigorosa alla legge, alla giustizia: nel testo di Marco non si nota ch'egli avesse un ideale più alto di questo.


Ma, ritorniamo per l’ultima volta a quella festa, a quel ballo, dove Salomé, finito di danzare corse dalla madre, per farsi dire: cosa doveva chiedere al patrigno. La ragazza incitata da Erodiade chiese la testa del Battista. Erode, non si oppose, non disse nulla; dai testi si può dedurre che Erode non fu sorpreso da quella richiesta. Subito il re mandò una guardia con l'ordine che gli fosse portata la testa. Forse per timore che i commensali fossero testimoni di uno spergiuro o di un dissidio in casa reale, circa la sorte del Battista, o di un'ammissione di debolezza, di fronte alla paura di conseguenze politico-sociali, Erode trasforma immediatamente i commensali in testimoni di un delitto. La versione di Marco mi è poco attendibile. Benché “triste”, perché Erode non chiese spiegazioni di sorta, non tergiversò, non s'indignò, non rifletté neppure molto sul da farsi: “subito”? - dice Marco - inviò la guardia. E perché tra i commensali nessuna voce di protesta, neppure la più piccola considerazione di opportunità su una decisione così grave? Se l'episodio è davvero accaduto, la ragazza evidentemente ballò col consenso della madre, anche se di questo Erode non diede mostra di stupirsi; anzi, il fatto che lui abbia saputo subito approfittare delle prestazioni artistiche della giovane, promettendole con menzogna, una cosa che a nessun commensale avrebbe promesso, fa pensare che, in qualche modo, egli non dovesse essere del tutto estraneo alle sorprese che il banchetto avrebbe riservato. Egli in sostanza voleva far capire che il suo legame con Erodiade era così solido che avrebbe potuto concedere qualsiasi cosa alla figlia di lei. Lo storico Flavio Giuseppe lo dice chiaramente: “Attorno a Giovanni si era radunata una moltitudine che si entusiasmava a sentirlo parlare. Erode temeva che una tale forza oratoria potesse suscitare una rivolta, dal momento che la folla pareva disposta a seguire tutti i consigli di quest'uomo. Preferì perciò assicurare la propria persona prima che si dovessero verificare delle sommosse contro di lui, piuttosto che pentirsi troppo tardi per essersi esposto al pericolo, una volta che fosse avvenuta una sedizione. A motivo di questi sospetti di Erode, Giovanni fu spedito a Macheronte” (Antichità giudaiche, XVIII, 118-119). È dunque solo per motivi indirettamente politici che l'Antipa decise di incarcerare il Battista. Marco, con l'espressione “a causa di Erodiade”, preferisce accentuare i motivi “legali” del conflitto, poiché lo scopo del suo vangelo è quello di spoliticizzare la figura di Gesù e le persone che gli ruotano attorno. Non a caso nei Sinottici la vicenda del Battista è stata costruita sulla falsariga di altre due narrazioni: quella accaduta al profeta Elia, anch'egli perseguitato da una regina pagana (cfr 1 Re 19,2; 21,4s; 21,18s.), e quella accaduta allo stesso Gesù Cristo, accusato, messo a tacere. non dal governatore Pilato, bensì dai sommi sacerdoti.

 

 

La tremenda Domanda

Possiamo intuire dai racconti evangelici, che il Battista, pochi giorni o, ore prima della sua decapitazione, fece chiamare i suoi discepoli per mandargli da Gesù; con una unica domanda, tremenda e tragica allo stesso tempo; «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?». Se si percorresse un filone teologico si potrebbe sostenere che la domanda di Giovanni è solo per i suoi seguaci; ma questa tesi non è per noi, noi vogliamo proseguire con un’analisi più didascalica, più distaccata dalla lettura tradizionalista per intraprendere una lettura più umana senza perdere di vista i personaggi, e la loro storia. La Domanda di Giovanni nasce dal suo essere uomo, dal suo essere umano. Proviamo a seguire la scena, passo dopo passo: il Battista probabilmente percepisce che non uscirà più da quel carcere, sente che sta per morire; e la paura lo assale. Non né troppo distante dalla figura di Gesù nel Getsemani, da quelle sue domande, dalle richieste – del Figlio dell’Uomo –. Il dolore è lo stesso, la sofferenza anche, la solitudine incolmabile … entrambi cercano una risposta per vivere quel loro momento.


Solo in due vangeli troviamo l’episodio: della “Domanda di Giovanni Battista e testimonianza che gli rende Gesù”. In quello di Matteo, e in quello di Luca, dove leggiamo: (7.18 -19) “Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due di essi e li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?»”. Di quali avvenimenti si riferiscono gli evangelisti o di quali opere che Gesù compiva? Gesù, guariva molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi, donava la vista a molti ciechi e risuscitava i morti, ai poveri annunziava la buona novella, ma per Giovanni, tutto questo non doveva essere una novità; lui conosceva bene Gesù. Come abbiamo già visto, nel testo di Matteo, l’incontro nel fiume Giordano; dove Gesù, andò da Giovanni per farsi battezzare da lui. Allora perché quella Domanda? Perché quel dubbio atroce? Aveva dedicato tutta la sua vita per quel l’Uomo, predicando la conversione; ci sembra una domanda fuori luogo, non si capisce perché la faccia. Se si leggesse dal vangelo di Luca, il paragrafo prima di quello che stiamo analizzando; troviamo la “Risurrezione del figlio della vedova di Nain”. Dove si narra che in seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla, […] e la fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione. E si può pensare che i discepoli di Giovanni glielo raccontarono. Ecco il paradosso dell’umano, da una parte la risurrezione e dall’altra il saper di dover morire; è dicotomia dell’esistenza. Dove scatta la vera Domanda: quella di Giovanni, nella prigione della fortezza di Macheronte. Rileggiamo la Domanda, in essa avvertiamo l’assonanza con il grido straziato del Crocefisso. (Matt. 27,46) “…Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» …”. La tragedia non cambia, ritorna la medesima, quella della solitudine, quella della sofferenza, quella dell’uomo e, quella di Dio; Di un Dio che ha voluto morire per l’uomo; si può dire: che sono due domande speculari tra esse; due uomini verso la morte; il dubbio più atrocce, dove non si sente la presenza di Dio; Giovanni che è il tramite dal vecchio testamento al nuovo, testimone del Cristo, gli chiede se è lui; il Cristo testimone del Padre, chiede al Padre … perché mi hai abbandonato. Le domande non hanno una risposta; Gesù non risponde ai discepoli del Battista, come il Padre non risponde al Figlio. Pare che non ci sia risposta.


Inoltriamoci nella Domanda di Giovanni, e nella risposta del Cristo. Per provare a sviluppare ulteriormente il concetto che abbiamo già affrontato all’inizio di questo commento, che la risposta sta nella Domanda stessa; è lì che va cercata, trovata. Gesù, alla Domanda del Battista non da una propria risposta, perché non c’è risposta razionale di fronte “al dolore, alla morte alla sofferenza dell’uomo”; anche lui non proferisce parola tace. Si riffa a dei versetti di Isaia, precisamente in (35. 5 - 6; 42,7; 26,19: 61,1); e le ritroviamo nel vangelo di Luca (7.22): «…i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la bona novella…». Il Battista le conosceva bene quelle parole, e possiamo pensare che le abbia vissute come risposta. Gesù come sempre ribalta ancora una volta la situazione, e qui ribalta il concetto di Domanda e di Risposta allo stesso tempo; la Domanda è: «…Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ...» e la Risposta ci posiamo azzardare a trovarla in Luca (23,46): «…Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito…». Dove intuiamo che tutta la vita di quell’uomo è una risposta a se stesso. Non esistono risposte, fuori di noi, fuori del nostro contesto di vita, ma forse proprio partendo dalla nostra quotidianità, fatica, sofferenza, possiamo trovare e progettare, la nostra esistenza.


A chi ci fa una domanda esistenziale, le rispondiamo con le nostre risposte vuote, scontate; prive di ogni senso. Proviamo ad immaginare se Giovanni quella sua Domanda la rivolgesse a noi, oggi, cosa gli risponderemmo? Che Dio è amore e vita… o che bisogna aver fede; ma Giovanni, è il precursore delle nostre domande, è la Domanda delle domande, è il dubbio di fronte a Dio e di fronte alla morte; alle quali non ci sono risposte, tranne il silenzio come rispetto.


Pensiamo di avere quella “risposta”, per chi ci “Domanda”, vestita con le nostre religiosità, come soluzione a quella loro “povertà”, “dolore”. Non esiste “risposta”, e ogni tipo di religiosità è la menzogna di quella “risposta”, la si può guardare da dove si vuole, ma la risposta è vuota; perché la risposta è la domanda. Rileggiamo ancora un’ultima volta la Domanda del Battista «…Sei proprio tu che dobbiamo aspettare? ... ». È in quel “Tu” che trova la sua risposta, a quella sua esistenza a quella sua morte; Gesù, con il suo silenzio, verso il Battista, riconosce l’uomo che è in Giovanni, dando dignità a quella sofferenza e a quella morte. Invece noi spesso dimentichiamo la persona che abbiamo dinnanzi assalendola con le nostre religiosità, presunzioni; non ascoltando le fatiche, i fardelli che sta vivendo.


Come sovente dimentichiamo anche, l’ultima cena e scordiamo che tutta la nostra fede passa da quel gesto; proviamo a pensare a quel “pane”, a cosa c’è dietro a un pezzo di pane: la semina, la mietitura, le piogge e il sole con il lavoro dell’uomo, e la grazia di Dio; come la risposta la Domanda, impastata nella nostra esistenza, come dovremo fare con l’esistenza di chi incontriamo mettendo in comune tutto quello che si vive. Se ci fermassimo sul serio ad ascoltare, e non lasciassimo fare alla nostra magnanimità ipocrita, a chi ci fa la “Domanda”, capiremmo che non abbiamo la “risposta”, che non ci sono “risposte”, tutto quello che gli potremmo dire sarebbe solo un tentativo che ci allontanerebbe da quella sua sete di “risposta”, che nasce da una infinita “solitudine-umana”, incolmabile;  che parte dal dolore, dalla sofferenza e come antitesi anche dalle gioie, e far di tutto per alleviarle impastandole con la nostra vita, con quel “pane”; è l’apologia della responsabilità, è la magnificazione verso l’“altro”. Gesù, prima della sua “Domanda” sulla croce prende quel pane, facendosi responsabilità per “l’altro”; come Dio chiede a Caino, dov’è tuo fratello? È da qui che il Padre istituisce la comunione di chi è vivo. Se no, quell’eucaristia del Figlio, diventa solo la colazione domenicale.


Troppe volte ci hanno detto che Dio è “risposta” io credo a questo punto della mia vita che Dio deve essere la “Domanda”, e no risposta al dolore, “Domanda” da cui l'uomo dovrebbe partire. Tutti quelli che hanno cercato di farne una risposta l'hanno asservito a qualche misera struttura di potere, trasformandolo in una bandiera, in uno stendardo di trionfo. Gesù come Giovanni, non sapeva con certezza che sarebbe risorto sono morti nel dubbio, nella fede verso il Padre e verso l’uomo, verso quelle loro risposta incarnata in loro come domanda per cercarla nella nostra speranza di un mondo vivo come “risposta” universale.