IL DONO DI NATALE - A tu per tu con Tonino Urgesi: «È la diversità a creare l’unicità, ma bisogna creare una nuova cultura. Che inizia nell’incontro»

di Gabriele Gigi Galassi

25 dicembre 2020


Venegonese, 57 anni, una vita spesa da sempre in prima linea per… provocare un pensiero: «Chi possono essere gli attori del cambiamento? I disabili, che devono smetterla di fare gli handicappati. I bambini, che toccano i bulloni di una carrozzina e iniziano un percorso nuovo. E i ragazzi, che hanno bisogno di esempi e non di parole; ma che se riesci a stimolarli, iniziano a farsi “la domanda"…»

Parlare con Tonino Urgesi, ancor di più se ti capita per la prima volta, è un’esperienza. Piacevole, di certo; e anche “tosta”, proprio come l’uomo. Che non usa giri di parole, che “provoca” nel miglior senso della parola: provoca un’emozione, una riflessione, una reazione.

Provoca - e questo è il suo vero sogno, che proprio oggi, nel giorno di Natale, vogliamo condividere insieme a voi - un pensiero. Con un obiettivo: creare una nuova cultura della diversità.

CHI È TONINO

Tonino Urgesi, 57 anni, venegonese - e anima del suo paese, dove tra le altre cose è stato a lungo presidente della Pro Loco - sta in prima linea dagli anni 80, come raccontò tre anni fa a Francesco Caielli in una - memorabile - intervista su La Provincia di Varese dedicata al tema del sesso e della disabilità. «Avevo un amico, un prete che viveva a Cesena, che nel 1983 mi invitò da lui. Avremmo dovuto passare insieme due settimane, diventarono 20 anni. Don Pasquale aveva fondato una comunità di accoglienza e a casa sua stavo quotidianamente a contatto con tossici, prostitute, alcolisti, bambini in affido. Insieme a lui capii il mio desiderio di ascoltare e, anche, che prima del mio deficit e del mio handicap, c’era l’altro. L’altra persona, con i suoi bisogni, la sua solitudine, le sue debolezze. Quei vent’anni sono stati un inizio; complicato, perché per prima cosa me ne sono dovuto andare via di casa, con mia madre che non voleva perché temeva che il suo “bambino” in carrozzina non ce l’avrebbe fatta. Io però non potevo restare lì, a vivere davanti alla tv con un telecomando in mano, a morire, a diventare davvero un handicappato. Così ho iniziato un mio cammino, andando nelle scuole a parlare con i ragazzi. A raccontare di disabilità».

IL DIALOGO CHE STIMOLA RIFLESSIONI

Lo spunto della chiacchierata è stato la vittoria di un bando, da parte del Comune di Venegono Superiore, per un’area gioco inclusiva al “Pratone”. Ed è da qui che Tonino Urgesi inizia la sua riflessione, ben più ampia, ben più importante: «Perché il disabile deve essere “incluso”? In cosa mi devi “includere”? Io non devo essere incluso in nulla, io invece voglio giocare con un gioco in cui entrambi, sia io che te, possiamo interagire. Ecco, questa è la parola giusta: mettere in interazione».

Il progetto, dunque, non la convince?

Non è solo una questione del parco di Venegono, ma di tutti questi parchi cosiddetti “inclusivi”. Ne ho girati tanti, anche nei dintorni: Malnate, Induno, Varese… Il bambino normodotato può giocare sul gioco inclusivo, ma su quello per i bimbi normodotati invece il bambino disabile non può farlo. Dov’è allora l’inclusione? Ti faccio una domanda…

Prego.

Questi cosiddetti “giochi inclusivi” servono ai bimbi disabili… o a chi?

Non le so rispondere.

Non importa. Ciò che importa è che il punto sta da un’altra parte. Prima di creare un gioco, dobbiamo creare una cultura del gioco, in cui i bambini interagiscono sul serio. Dove veramente si incontrano. In tutti questi giochi, manca la cultura del giocare. Certo è molto più facile fare la grande inaugurazione, tagliare il nastro e via: un’ora ed è tutto fatto. Invece creare una nuova pedagogia del gioco, del giocare insieme, lavorare con i genitori dei bambini disabili e non disabili, educare ed educarci ad una nuova cultura della diversità, questo è molto più difficile e costa tempo e sacrifici.

Chi potrebbero essere gli attori di questo cambiamento?

Per primo, il disabile. Che deve smetterla di fare l’handicappato. Questo concetto mi ha rotto l’anima. Io prima di avere dei diritti, ho dei doveri: e il mio dovere è proprio questo, impegnarmi per costruire un nuovo pensiero, una nuova filosofia, una nuova cultura della diversità. La diversità è importante. Io e te siamo diversi, Gabriele. Ma non perché io sono sulla carrozzina e tu no! Perché ognuno è quello che è. Ed è la diversità che crea la tua, e la mia, unicità. Ti dico un’altra cosa…

La ascolto.

Io non sono disabile, è il contesto in cui vivo a rendermi disabile. Se tu mi metti il cellulare sul tavolo, io non sono disabile; ma se me lo metti in alto, allora lo sono. E il problema in realtà non è neanche questo, né il gradino che c’è per strada. Il problema è quanti gradini ci sono nella testa delle persone. Ti faccio una domanda: tu vivresti con una persona disabile? Con una donna disabile al tuo fianco?

La cultura sta qui. È facile fare i giochini, è facile dire “inclusivo”, parlare di “integrazione”… Ma io non devo integrarmi in niente, io sono già integrato. Pago le tasse, pagò il caffè: più integrato di così! Pensa, sono così bravo che alle 22 vado a casa. Cosa vuoi di più? Rispetto anche il coprifuoco.

Tonino, cosa pensa di questo tremendo 2020?

Mi facevano ridere gli striscioni del primo lockdown “andrà tutto bene”, quando si cantava e si ballava sui balconi. Qualcuno pensava ne saremmo usciti migliori… Io non ci credevo, perché la natura dell’uomo non cambia: se uno non legge, non ha cultura, non ha un pensiero, una filosofia, un proiettarsi al domani… La vita non cambia perché non puoi uscire. Ma tu volevi sapere della disabilità nel lockdown?

Sì, anche.

La disabilità nel lockdown è per un bambino o un ragazzo non avere un computer per poter andare a scuola, studiare, scoprire. E, ancora, non avere una persona al proprio fianco ad aiutare. Ti faccio un esempio: mio figlio fa la prima liceo, ha un computer e tutte le capacità cognitive e psicologiche per usarlo. Ma un bambino più piccolo? Che dopo due secondi ne ha le tasche piene del mouse, dello schermo, dei tasti? Cosa fai se non c’è un’assistenza? Ma chi deve farla? La mamma, il papà? Che devono andare a lavorare?

In generale, il Covid avrebbe potuto essere un’occasione per cambiare qualcosa che non va?

Sì, ma solo per chi è in grado, e non tutti lo sono, di riflettere. Questa è la domanda: quanto pesa quello che posso e non posso fare? Ecco, così capirai cosa significa vivere in carrozzina. Cosa significa la disabilità. Che per molte persone è la normalità. Facciamo una prova, vuoi?

Sì.

Io da adesso ti dico: stai seduto su quella sedia e non ti puoi alzare finché non lo dico io. Ora tu mi dici: mi scappa da cagare. Io ti rispondo: te la tieni e quando ho tempo ti porto in bagno. Vuoi alzarti dal letto? Aspetti che io possa venire lì ad aiutarti. Poche palle: questa è la riflessione da fare nel momento del covid, che ci ha costretto a non poter fare delle cose. Però ti chiedo, ancora: chi è in grado di farla? Abbiamo la cultura che ci porta a fare questo tipo di riflessione? Ho speranza… Ma poca.

Come si potrebbe aprire una riflessione?

Basterebbe chiedere a chi vive la disabilità, giorno dopo giorno. La mia opinione può non valere nulla, per carità; ma io la disabilità la vivo tutti i giorni. È come fare le lasagne vicino alla nonna e non chiederle la ricetta: ti sembra intelligente? Chiedete alle persone che vivono la disabilità di cosa hanno veramente bisogno.

Tonino, grazie. Un’ultima domanda: qual è il suo sogno, oggi?

La mia battaglia di sempre è disabilità e sessualità, disabilità e affettività. Su questo, anche se molti fanno delle battaglie, purtroppo vedo l’obiettivo sempre più lontano, è molto difficile. Inoltre vorrei tornare nelle scuole, lavorare con i ragazzi, capire con loro cosa può cambiare e come si può raggiungere quel cambiamento. I ragazzi non hanno bisogno di tante parole, ma di esperienza. Non di retorica, di fatti. Di persone che fanno, non che dicono. Hanno bisogno di esempi: il dramma è che ce ne sono pochi. È una questione culturale. Quando tu vai in aula e li provochi… Allora iniziano a farsi “la domanda”. Ti racconto due ultime cose…

Volentieri.

Sono stato all’asilo e ho chiesto ai bimbi se sapessero contare. E li ho invitati a contare i bulloni della mia carrozzina. Per farlo, li toccavano, uno ad uno: è lì che cambia la cultura, è lì che inizia il pensiero. Ancora: sai qual è una delle domande che faccio ai ragazzi? È questa: tu verresti a mangiare un gelato con me? Alcuni dicono sì, altri dicono no. E io chiedo: perché sì? Oppure: perché no? Poi però quando mi incontrano per la strada, tutti quei ragazzini si fermano, mi salutano, mi chiedono come sto: ecco dove inizia la cultura. Nell’incontro.

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