Disabilità: “tra sesso e assistenza, tra affetto e amore”

di Tonino Urgesi - 26 febbraio 2018


Fine agosto e inizio settembre 2017 ha avuto inizio nella città di Bologna il primo corso per chi desidera diventare “assistente sessuale”, organizzato da ‘Love Giver’ in due fasi. La prima, che si è svolta a Bologna tra settembre e ottobre con incontri formativi realizzati sotto la guida di un’equipe di esperti, e la seconda, che si avviata da gennaio con i tirocini; questa figura dell’assistente sessuale dovrebbe aiutare la persona con disabilità a scoprire il proprio corpo, la propria sessualità, i suoi istinti e le sue pulsioni sessuali.

In questo mio articolo voglio sviscerare ed andare oltre al sesso, oltre le pulsioni fisiche, e mettere in luce quello di cui l’essere umano ha bisogno in quanto uomo/donna; egli ha bisogno di relazione, empatia, amore, delusione e solitudine. Perché come abbiamo detto più di una volta, la persona rappresenta tutta questa complessità, e ha bisogno di viverla. Se un “assistente sessuale” arriva solo a massaggiare il corpo del disabile ma non, arriva a viverne la vita quotidiana, allora il disabile cade in quel vortice ancora più immenso della solitudine. Tenterò in questo articolo di sviscerare le motivazioni del perché sono contrario e perché non sono contrario alla figura dell’assistente sessuale: la prima perché se rendiamo lecita la figura dell’assistente sessuale, rischiamo di trattare ancora una volta il disabile solo come un handicappato, perché gli offriamo un ausilio; la seconda è perché se l’handicappato ha l’ausilio rischia di adagiarsi nella sua solitudine sessuale e sociale senza sforzarsi di uscirne, né dalla sua solitudine, né dal suo stato di handicappato (ovviamente parliamo di persone che hanno la possibilità di socializzare nonostante la loro disabilità).

Eccezionalmente potrei essere d’accordo con la figura dell’assistente sessuale in quei casi di disabilità dove il soggetto è allettato e nessuno entra in relazione con lui eccetto parenti infermieri o medici. Oppure in quelle realtà dove la persona è incapace di relazionarsi per gravi condizioni cognitive. In queste due circostanze forse l’aiuto d’esperti potrebbe facilitare il disabile nel mettersi in relazione col proprio corpo e con le proprie pulsioni.

In genere, s’incontrano controversi modi di pensare sul tema della sessualità unito a quello della disabilità: se, da un lato, c’è chi la nega totalmente, dichiarando che i disabili sono asessuati, dall’altro, c’è chi sostiene che i disabili hanno diritto alla sessualità e dunque all’assistente sessuale; e poi c’è chi dice che la persona disabile ha una sessualità molto accentuata, e l’ultima arriva addirittura ad affermare che la persona disabile è quasi un maniaco del sesso.

È molto difficile sfoltire questo ginepraio di preconcetti, ma nella nostra modestia tentiamo di farlo in ogni modo. E per farlo vogliamo partire proprio da due aspetti. Il primo, che non si può tralasciare, è la corporeità del disabile: un corpo che può spaventare, o perché è un corpo spastico o distonico, con i suoi movimenti inconsulti, oppure perché è statico, con pochi movimenti. In ogni caso è visto nella nostra società come un corpo diverso che svincola dai consueti schemi mentali. Arriva a essere percepito come un corpo che non può essere stretto e che non sa stringere, che non può essere accarezzato e che non sa accarezzare, e, infine, che non sa provare piacere e che non sa fare provare piacere.

Il secondo aspetto che si vuole affrontare è la figura della persona disabile. Chiediamoci: “lui stesso come si percepisce? E come percepisce il suo essere corpo?”

La corporeità del disabile appartiene ad un corpo negato, in questa società, negato nella concezione sessuale; perché pochi o pochissimi farebbero sesso solo per fare sesso con un corpo disabile, per la ragione che si tratta di un corpo negato, e dunque non pensato, non immaginato eroticamente nei desideri dell’altro. Dunque il disabile non si sente desiderato, pensato, visto come oggetto vissuto nel desiderio per fare solo del sesso; e di conseguenza lui non si pensa, non si progetta neanche in questa sua avventura, ma la grida. La grida come fa il vecchio Silone, una disperazione che nasce dalla fame inappagata di autenticità e di solidarietà. La urla in ogni suo modo, persino elemosinandola, chiedendo al sesso opposto il poco, il minimo, una carezza; e mentre la ragazza o il ragazzo compie quella carezza, avverte tutta la carica erotica che il disabile esprime, e questo spaventa, perché non c’è l’educazione in entrambi a vivere quella esperienza erotica. Da una parte si trova un corpo disabile, e dall’altra parte lo stesso non ha neanche l’esperienza, l’educazione per corteggiare un corpo normodotato. Le richieste del disabile a volte possono diventare molto esplicite, ma analizziamone il motivo: quella sua sfacciataggine può nascere da una attesa lunga anni, e in quell’attesa c’è tutta la fantasia che lui si è creato, immaginato; e se mi permettete, c’è anche la stanchezza di quell’attesa; un’attesa che diventa frustrante.

Oppure ci sono state delle promesse vane e ipocrite. In una mia ricerca racconto dell’episodio di un ragazzo disabile a cui avevano promesso di fare l’amore se l’esame universitario fosse andato bene - un fatto che ritengo veramente squallido, ancor di più la promessa e l’intento.

Stiamo parlando di sesso, e non di sessualità; vorrei dipanare questa distinzione, tra sesso e sessualità. Perché oggi molte persone disabili reclamano di avere il diritto al sesso, il diritto a un rapporto sessuale, direi genitale. Quello che io mi domando, in quella loro richiesta lecita o illecita che sia, e non sta a noi giudicare, è: sanno che cos’è la sessualità? Hanno mai avuto una relazione affettiva, amorosa? Qualcuno li ha mai accarezzati solo per il desiderio di ascoltare quel corpo o quella loro pelle? Qualcuno che non fossero i genitori? Il disabile ha avuto l’opportunità di vivere situazioni di intimità con l’altro sesso? Credo di no! Ecco dove nasce il grido urlato che dice: “anch’io ho diritto di fare sesso, o una scopata”. Vorrei dire, a questo punto, che occorrerebbe un nuovo vocabolario della disabilità: il disabile non è solo un disabile, o solo un handicappato, ma è una persona. E come persona deve essere pensata tale in tutti i suoi aspetti, emozionali e sessuali-affettivi.

E dunque non occorre solo gridare il diritto al sesso, perché non è un diritto. Vivere il sesso non deve scaturire solo da un diritto legislativo, ma nascere da un incontro e dunque avere il diritto all’incontro. Si ha diritto di andare nei posti dove posso incontrare e farmi incontrare; si ha diritto a un posto di lavoro e alla vita con i colleghi, si ha diritto di poter andare in discoteca, al cinema, nei luoghi dove si forma la società. Allora si deve rivendicare il diritto di frequentare questi posti, ma non il diritto che qualcuno mi dia qualcosa, come il sesso. Invece di pensare all’assistenza sessuale, noi, con la nuova pedagogia, vorremmo rivendicare il diritto che il disabile possa vivere in pieno la società, e che la società viva in pieno la persona disabile; tutti i luoghi di aggregazione, scuola, biblioteche, bar, pub e altro, dove possa nascere, per il disabile, qualsiasi cosa. Anche fare sesso.

Vorrei domandare: in chi non c’è il desiderio di fare solo del sesso? E nei normodotati, il desiderio quanto è misurato? E chi misura, o giudica il desiderio? E chi a sua volta si arroga il diritto di dire se c’è poco o molto desiderio nella persona normodotata? Non credo che esista una scala del desiderio sessuale; piuttosto direi che esiste una relazione in cui il desiderio si esprime, e non sto parlando solo di una relazione di coppia, ma di incontro, in quel placido consenso che dicevamo poc’anzi.

A questo punto, proviamo ad analizzare perché nel pensiero comune di chi ha a che fare con i disabili esiste il preconcetto che in loro ci sia una sessualità molto accentuata. Si ha questo pensiero perché non si ha una visione a tutto tondo del mondo sessuale della persona disabile. Si parte sempre da preconcetti stereotipati, come dicevamo sopra; dove l’incontro viene negato, e di conseguenza il rapporto sessuale è negato. Pochi disabili vivono l’erotismo, o possono viverlo autonomamente. Proviamo ad immedesimarci in un ragazzo o ragazza disabile che si vorrebbe masturbare. Ha poca autonomia di movimento e perciò non può avere momenti di privacy. Qualcuno deve pensare a portarli in bagno e il più delle volte stare in bagno con loro. Qualcun altro li deve mettere a letto e aiutarli ad alzarsi dal letto, e dunque non hanno nemmeno quel loro momento. Se un ragazzo disperde il seme, dove lo disperde? La madre o il padre o chi per essi lo vedrebbe. E tutto l’imbarazzo di quel ragazzo disabile noi lo percepiamo? Potrebbe chiedere un asciugamano, ma nel momento in cui chiederebbe l’asciugamano, l’educatore o l’amico potrebbero immaginare già il motivo. E se è una ragazza disabile? Quando lei potrebbe vivere il suo momento di autoerotismo? E quando lei finisce a chi potrebbe chiedere di essere pulita, lavata? Ecco di nuovo quell’imbarazzo della persona disabile; che scaturisce da un non detto, non se ne parla perché entrambe le parti sono in imbarazzo. Il disabile, da una parte, per pudore, l’assistente, il genitore e il mondo educativo in generale, dall’altra, non ne parla per la paura di affrontare certi argomenti, purché non esiste ancora quel coinvolgimento e quella cultura.

Non si pensa mai di entrare così tanto nello specifico, ma si dice sempre che la persona disabile abbia una sessualità tanto accentuata. Proviamo a capovolgere il punto di gradazione: se chiunque di voi volesse vivere un momento intimo con sé stesso e non potesse … cosa farebbe? Come si comporterebbe? A chi chiederebbe un aiuto? Se aveste avuto il coraggio di domandare tanto, sareste definiti come maniaci del sesso.

Si pensa anche che molti disabili siano masturbati o accompagnati dai genitori dalle prostitute; questa frase ormai la vediamo scritta nei quotidiani, in molti siti web… ma vorrei anche togliere questo alone di mistero attorno a questa diceria. Non intendo dire che non possa essere vero, ma nella mia lunga ricerca, iniziata negli anni ottanta, ho conosciuto pochi disabili, pochissimi, che erano masturbati dai propri genitori; come approfondisce benissimo in un passaggio nel suo articolo Andrea Pancaldi.

La questione non è questa, il problema è che questi disabili non avevano e non hanno tuttora la fortuna di vivere quella relazione, dove tutto può nascere con naturalezza, (nuova pedagogia della disabilità); e i genitori vivono con l’inquietudine, in silenzio, i turbamenti del figlio o della figlia.

È in questo versante che dovrebbe sorgere la nuova pedagogia della disabilità, quella di saper incontrare l’altro per quello che è, e senza cadere nella solita retorica di sempre: “non vengo con te per non farti soffrire”, “non vengo con te perché dopo potrebbe finire tutto e tu soffriresti ancora di più”. Queste due locuzioni le trovo piene di ipocrisia e falsità, perché vorrei sentirle pronunciare queste frasi anche in un altro contesto, dove l’altra persona non è un o una disabile; invece è molto più facile delegare il problema a una figura professionale, l’assistente sessuale, sterile nella sua professionalità e addetta solo al suo lavoro; anche su questa figura troviamo molte correnti di pensiero che sono favorevoli o controversie. La mia posizione credo che oramai sia chiara; perché rispetto l’essere disabile. A questo punto non so neppure se sono chiare a tutti le due proposte di legge che sono state mostrate in Senato. Il numero 1442 presentato l’11 settembre 2014 da Sergio Lo Giudice e alla Camera il numero 1443 presentato l’11 novembre dello scorso anno da Elvira Savino. La proposta di legge dice chiaramente che l’assistente sessuale in Italia è solo una accarezzatrice che aiuterà il disabile ad esplorare il proprio corpo e nulla più. E ancora una volta ci troviamo davanti a delle persone che vogliono educare soltanto la persona disabile; la persona disabile, per quanto mi concerne, non è da educare, ma dovrebbe essere educata tutta la società ad un nuovo concetto di disabilità. Non occorre che l’assistente sessuale risvegli un vulcano già in ebollizione se poi lo lascia su quel letto col desiderio e l’amaro in bocca di non poter esplorare quello che non può vivere da solo. La mia perplessità inerente alla figura dell’assistente sessuale scaturisce da una ragione che, come ho già spiegato, verrebbe meno tutto quel coinvolgimento emotivo, un coinvolgimento di pensiero, un corpo che tocca un altro corpo che non è solo una questione di piacere fisico, ma anche di piacere mentale, è un coinvolgimento di tutti sensi e permettetemi di dire, anche di anime; e quindi è inesatto affermare che nella persona disabile sia spiccata la sessualità, è solo una sessualità che vuole essere riconosciuta e vissuta come tale. Questo incontro così passionale e coinvolgente non ci potrà mai essere nella figura dell’assistente sessuale, perché essa si limiterà sempre a massaggiare ma non a toccare, a educare al massimo all’erotismo ma non all’amore psichico e psicologico. Potrà eccitare, ma mai fare eiaculare (questo non è previsto nella proposta di legge in Italia, sull’assistenza sessuale) o far provare orgasmo a un disabile, perché disperdere il seme per il maschio non è solo eiaculare; l’orgasmo è tutto un meccanismo psicologico e non solo fisico, ma un amplesso di sensazioni e di sensi, di emozioni e di emotività di essere accolto e di accogliere, di vivere e di essere vissuto, e così continuerei all’infinito sino all’essenza dell’umano. Copula e copulare in latino hanno la stessa radice di “coppia” e quindi ci vuole una “coppia” per vivere tutto il senso amoroso. Nel momento in cui l’essere umano raggiunge l’orgasmo libera il proprio corpo, vive e sente vivo il proprio essere persona. Se questo viene vissuto con l’altra persona in modo interattivo, con il coinvolgimento di entrambi, diventa ancora più forte, perché ti fa sentire vivo nel pensiero dell’altro. In un corpo disabile arriva il piacere, e tutta questa emotività psicologica e fisica non può essere vissuta su un lettino terapeutico.

Però non posso e non voglio dimenticare tutta quelle persone disabili che vivono quel vuoto emotivo, alla ricerca disperata di un amore che credono impossibile, e che forse lo è veramente, impossibile. Ecco perché alcune persone pensano che il disabile sia fissato col sesso. In realtà è solo alla ricerca disperata di un amore, e questo bisogno, questa attesa non soddisfatta, crea una sorta di bramosia sessuale che però è soltanto un’apparenza. Per questo motivo continuo a dire che non è solo il disabile che va educato alla società, ma è la società che va educata alla persona disabile, e nella sua interezza; emotiva e sessuale.

E ancora una volta mi piacerebbe sognare che tutto ciò un giorno sia veramente possibile in quel “incontro” della nuova pedagogia della disabilità; e come scrive Gramellini: “Se l’incontrarsi resta una magia, non perdersi è la vera favola”.