Un paragone fra D'Annunzio e Oscar Wilde

(apparso in  "Cartapesta", 2004, n. 10, pp. 8-9)

William Butler Yeats, in quel singolare libro che è A Vision (sorta di cosmologia e di storia universale in cui, fra genialità e assurdo, la teoria letteraria si sposa all'esoterismo, e al simbolismo poetico si mescola quello magico ed animistico), affianca D'Annunzio e Wilde come emblemi di uno stesso stadio del cammino umano, quello a cui corrisponde l'individualistica e narcisistica affermazione dell'io, della sua libertà, dei suoi spazi - anche dei suoi capricci e delle sue arroganze. D'altra parte, come insegnano gli antichi, da Cornelio Nepote a Plutarco, proprio i raffronti fra esperienze esistenziali diverse possono illuminare i punti di contatto esistenti, all'interno di uno stesso contesto, di una stessa temperie, di uno stesso Zeitgeist, fra culture e tradizioni nazionali differenti. 

Una comparazione di questo tipo è stata incoraggiata, negli ultimi anni, dalla pubblicazione della biografia di D'Annunzio di Annamaria Andreoli, una delle più profonde conoscitrici dell'opera dell'Immaginifico, e dalla riedizione di quella di Oscar Wilde, dovuta a Richard Ellmann, entrambe presso Mondadori. Due biografie che (com'era del resto imposto dalla stessa esperienza dei due scrittori, la cui vita fu tanto strettamente legata alla loro arte da divenirne nutrimento, occasione, si potrebbe quasi dire pretesto) pongono in stretta correlazione le vicende personali dei due protagonisti, gli accadimenti esteriori delle loro avventure terrene, con i tratti salienti dei rispettivi profili intellettuali e percorsi creativi.

Si potrebbe ripetere per entrambi ciò che Luzi, all'indomani della morte di D'Annunzio, diceva del poeta delle Laudi: che, cioè, chi esaminasse attentamente la loro vita potrebbe finire per dire che «non è stata», che si è totalmente risolta, e come dissolta, in materia d'arte, in oggetto di trasfigurazione poetica, in sostanza emotiva ed esperienziale avvolta dalle finzioni e dalle maschere della forma e dell'artificio. 

Tanto Dorian Gray quanto Andrea Sperelli sono - per citare il Piacere - «spiriti essenzialmente formali», i quali «più che il pensiero» amano «l'espressione» e trovano nel senso estetico, che ha in loro annichilito ogni altra facoltà o sentimento, l'«asse» interiore intorno a cui far ruotare tutto il loro essere, e su cui imperniare la precaria ed illusoria unità a cui si può tentare di ricondurre gli sparsi frammenti delle sensazioni volubili, dei piaceri sterili, delle fascinazioni estetiche sapienti e compiaciute.

Ma Wilde e D'Annunzio sono accomunati anche da quella condizione che può essere definita come l'altra faccia dell'estetismo, come il lato nascosto ed oscuro della maschera adorna e rilucente che vela i lineamenti del dandy, e ne rende studiate ed artefatte tutte le espressioni, dissimulandone l'autentica natura. Alludo all'ombra del disfacimento, della morte, del nulla, che infine sopraggiunge a dissolvere e a dissipare le pose, gli artifici, i vezzi - artistici e insieme esistenziali - dell'esteta, i suoi inganni e i suoi autoinganni, aprendo ferite profonde sull'abisso e sul vuoto che essi tentano di occultare. 

Sotto questo punto di vista, il Libro segreto di D'Annunzio e il De profundis di Wilde appaiono simili. Sono i testamenti spirituali di due esteti che la prossimità della morte priva della loro maschera irridente, ponendoli innanzi al mistero ultimo, alla suprema ineffabilità di fronte a cui la «volontà di dire», come la chiama D'Annunzio con espressione dantesca, la facoltà della finzione e dell'affabulazione letteraria, «si smarrisce in un supplizio senza nome». L'esteta non può allora che fare i conti con l'«Essere-per-la-morte», «gettare» le sue carte «dietro gli òmeri come il suo niente alla notte», sprofondare senza più barriere e difese in quello che Benjamin e Mann chiamarono «l'abisso dell'estetismo», nella voragine dell'insensatezza e dell'assenza di fondamenti che il culto della pura bellezza e dell'art pour l'art non riesce ormai più a celare. 

Il mio vero volto, scrive D'Annunzio, sarà il calco funebre dei miei lineamenti, la maschera - la sola aderente e veritiera - plasmata a contatto del mio viso raggelato dalla morte, preda entro breve di quella che Baudelaire chiamava la «fosforescenza della putredine». 

Se si osserva attentamente il ritratto di Wilde dipinto da Toulouse-Lautrec nell'imminenza della morte dello scrittore, si può notare che dalla tela affiorano, al di là dell'apparente impassibile serenità di un volto pasciuto e appagato, le forme allentate e deliquescenti di un corpo che si decompone, e alla cui dissoluzione sembra partecipare, perdendo proporzioni e contorni, tutto ciò che sta intorno.

«Ognuno uccide la cosa che ama / per poi rinascere / sette volte più ardente», dice, fra i suoi lamenti femminei e melodiosi, l'ambiguo San Sebastiano del Mystère di D'Annunzio. «Ognuno uccide la cosa che ama», aveva scritto Wilde nel suo ultimo canto, quella estrema Ballata del carcere di Reading con cui egli toccò la sua più alta poesia in versi. 

In pochi casi, credo, il contatto intertestuale fra due autori fu più rivelatore. Ci troviamo di fronte ad un credo estetico, ad una militanza culturale, direi quasi ad un profano culto dell'arte testimoniati e perseguiti fino alla morte, e anzi votati e protesi alla propria consunzione e al proprio logoramento - e nondimeno destinati a rinascere, ostinatamente, dalle proprie ceneri, a perpetuarsi nella postuma catena delle riletture e delle interpretazioni.