Città terribili, città invisibili. Il tema della città in Baudelaire, D'Annunzio, Pirandello, il Futurismo, Eliot


(pubblicato dapprima in "Cartapesta", 2004, n. 9, pp. 16-17)

“Sonno delle città / terribili, quando dal fiume / accidioso (ove si stempra / tra la melma e il pattume / la polpa dei suicidi / fosforescente come / su i salsi lidi il viscidume / delle meduse morte) / sorgono le larve diffuse / della caligine tacente / con mille tentacoli molli”. 

Questi versi, potenti e cupi, sono tratti dal XVI canto di Maia, il primo libro delle Laudi di D’Annunzio; un canto in cui l’autore si misura a suo modo (cioè senza rinunciare a quegli aulicismi e a quegli ornamenti retorici che costituiscono la cifra essenziale del suo stile) con uno dei temi chiave della modernità letteraria, vale a dire quello dello choc, come lo chiamano Baudelaire e, sulla sua scia, il Benjamin del saggio Di alcuni motivi in Baudelaire, della visione urbana violenta e traumatica, della realtà “fuggevole” e “transitoria”, dell’allegoria lacerata, frammentaria, ferita, non più riconducibile, come avveniva in una tradizione secolare, ad un significato superiore, ad un sovrasenso assoluto e in qualche modo rassicurante – agli occhi del poeta della modernità, come leggiamo nella poesia di Baudelaire Il cigno, “tutto (…) diviene allegoria”, “palazzi nuovi, impalcature, blocchi, vecchi sobborghi”, le tracce e le ferite che il progresso, o la barbarie, lasciano sulla forma urbis di una Parigi che “cambia”, senza, peraltro, che “nulla si muova” nella “malinconia”, lucida e autocosciente, del soggetto che contempla.

Balzano agli occhi, in quei versi di Maia, certe espressioni aspre e quasi violente (“la gran piaga persiste / livida di cancrena”, “immondizia / polverosa che nera / fermenta sotto le suola”, “rigurgito crasso / delle cloache”), che incrinano profondamente la pàtina aulica e la maschera retorica di cui si ammanta l’eloquio dannunziano, e che proprio per questo restituiscono ancor più efficacemente, in un modo reso ancor più vivo e tagliente dal contrasto stilistico, gli aspetti più cupi e rivoltanti dello spazio – materiale, geografico, ma anche culturale, simbolico, e dunque letterario – della metropoli industriale. Anche il D’Annunzio romanziere, dal Piacere alle Vergini delle rocce, porta sulla pagina proprio la città come “cloaca” di abiezioni e di obbrobri sia morali che estetici. Dalla Roma di D’Annunzio a quella di Pirandello, pure da lui tanto diverso, che paragona la città eterna ormai in declino ad un’acquasantiera declassata a portacenere, il passo è più breve di quanto non paia. 

Il poeta delle Laudi, peraltro -  sublime plagiario, ladro spudorato quanto geniale -, riecheggiava il simbolista belga Verhaeren, che fissava, in larghe colate metrico-sintattiche che sembrano prefigurare anche sul piano formale la “strofe lunga” di Alcyone e quella “pindarica” di Maia, il vorticoso moto delle “città tentacolari” dalla vita molteplice e frenetica, l’anima oscura e crudele delle città industriali “avvelenate dal putrido oro”, pervase da “clamori di pietre” e “voli e gesti di fumo”. 

Marinetti, nel celebre Manifesto del 1909, proclamava l’intento di cantare “le grandi folle agitate dal lavoro, (…) le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne”, aprendo la strada a quell’ossessione del movimento, della velocità, della fuga di colori e di immagini che avrebbe trovato un’eco figurativa nella pittura, poniamo, di un Boccioni (si pensi a La città che sale). 

Non stupisce allora che un poeta diviso tra simbolismo e avanguardia come Corrado Govoni inserisca nella raccolta L’inaugurazione della primavera un testo come Io e Milano, vasto e versicolore poemetto tutto innervato dalle “girandole” e dai ”rosari” di immagini, frenetici e caleidoscopici, in cui l’autore era maestro, e reso ancor più mobile e vario dall’agilità e dalla versatilità del metro libero: uscito dal suo odiato “tugurio”, il poeta si getta “fuor nelle vie strepitose / di movimento e di vita”, fra i marciapiedi che sono “quadrivio di tutte le probabilità / di tutti gli imprevisti”. 

Lo spazio letterario della città moderna è, per l’appunto, un groviglio di possibilità imprevedibili, un intrico di apparizioni e di incontri inattesi – basti pensare alla “passante” di Baudelaire, che incrocia per un istante lo sguardo del poeta, e che questi potrebbe amare profondamente e in eterno, se solo la folla informe e senza volto non la inghiottisse di nuovo, e per sempre.

Dalla décandence e dalle avanguardie, il tema della “città terribile” passa in eredità a tutto il Novecento. Da Sbarbaro ad Eliot, per fare solo due nomi e suggerire un accostamento apparentemente incongruo – da un anello essenziale della linea ligure che attraversa il Novecento italiano ad uno dei vertici assoluti della poesia contemporanea europea e mondiale -, l’inferno urbano trabocca sulla pagina, e abbacina lo sguardo del lettore. 

Se Sbarbaro, mentre cammina, solo, per le strade di una “città tumultuosa” che ricorda da vicino la “cité fourmillante” di Baudelaire, guarda “come smemorato”, “con aperti estranei occhi”, una folla di “nati a faticare e a riprodursi”, segnati dalla “condanna d’esistere“, trascinati dalla cecità e dall’insensatezza della “volontà di vivere”, Eliot, in un passaggio celebre della Terra desolata, contamina, con una spregiudicatezza analogica degna del D’Annunzio “plagiario”, Baudelaire con Dante, con la visione infernale delle interminabili schiere di dannati: “Città irreale, /  Sotto la nebbia bruna di un’alba invernale, / Una folla fluiva sul London Bridge, tanti / Ch’io non avrei creduto che tanti morte n’avesse disfatti” (e si noti, qui, che la città agisce proprio come spazio letterario, come nucleo tematico e fulcro di fusione e di mediazione che innesca e veicola, al di là dei secoli, reminiscenze letterarie e accostamenti culturali). 

Per concludere questo breve, e certo lacunoso e rapsodico, percorso testuale, si può osservare come il lettore d’oggi, di fronte alle figurazioni simboliste e post-simboliste di quei lividi e torridi scenari metropolitani, provi – questa almeno è la mia impressione – non già un senso di smarrimento, di sgomento, di “straniamento”, ma piuttosto un piacere estetico intriso di curiosità culturale, e quasi di vaga, ineffabile nostalgia, rivolte verso un mondo ormai lontano, che assume le tinte remote e un poco sbiadite, per quanto fosche, di un’oleografia. 

Curiosità e nostalgia, si direbbe, per le “città terribili” della modernità, che almeno mostravano e tradivano apertamente, agli occhi del viaggiatore e dello scrittore, il loro vero volto, segnato dalla tecnica e dal progresso, ma anche dall’impersonalità, dall’alienazione, dall’angoscia – mentre la post-industriale e postmoderna “città invisibile”,  telematica, informatizzata, cablata, tende a celare astutamente, dietro un velo di pulizia e di quiete, la natura ugualmente oppressiva e inumana di poteri e di forze eterei, impalpabili, ormai sublimati, e quasi si direbbe divinizzati, in tracce magnetiche, in flussi impercettibili d’informazioni.