Rassegna di giudizi e interpretazioni (Giorgio Bàrberi Squarotti, Luciano Benini Sforza, Alberto Bertoni, Giuliano Ladolfi, Gianfranco Lauretano, Marco Merlin, Lido Valdrè)

I testi poetici di Matteo Veronesi fanno pensare ai quadri di Utrillo o di Casorati. Assumere, come punto di partenza dell’analisi, una notazione pittorica esprime il tentativo di adeguare il nostro metodo critico a quello poetico dell’autore, il quale si preoccupa costantemente di situare i suoi versi entro un luogo preciso, in un ambiente, nel ritaglio di realtà che gli si para innanzi mentre scrive. Il paesaggio prescelto è per lo più uno spazio abitato, composto da due elementi ricorrenti: il cortile e le torme dei colombi che «s’aggrumano su tetti». Il sostantivo «cortile» viene spesso congiunto a verbi come «rinchiudere», «rinserrare», ecc. Tale spazio delimitato non acquista però l’accezione pascoliana di rifugio e nido accogliente, ma appare bensì simbolo di costrizione e prigionia spirituale. 

Se la realtà, che i nostri sensi avvertono, non è che «cielo chiuso nei cortili» e «penombra rinserrata», essa condurrà a un’unica esperienza interiore: il tedio, la «cupa tetraggine che addenta». Ma qui bisogna fare un passo in più. La porzione di mondo che ha provocato il tedio, non è infatti l’unica dimensione percepita dall’uomo. I sensi possono anche essere alterati. Ecco allora che si schiude il regno del sogno, delle ombre, dell’ubriachezza. (Il vocabolo «ombra» è uno dei più frequenti). La fiammella che sempre oscilla e cangia agli occhi dell’ubriaco dice una verità che appare e scompare e incessantemente si contraddice. Ma paradossalmente «socchiude l’ignoto». E ancora, nella poesia «Il parco», il poeta sta «folgorato» su un prato e scorge «una porta socchiusa». Quando poi egli scoprirà di «aver sognato sempre», nascerà una seconda volta e tutto gli apparirà nella luce. Come nei grandi maestri russi, lo stato allucinatorio e il delirio sembrano condurre alla rivelazione di una superiore verità. Ma anche questo è un inganno. Il nuovo nato, che cerca di capire la propria identità scrutando il passato sulle foto dell’album di famiglia, troverà infatti vuote le cornici e nella poesia «Domenica» ritornerà a questa lucida affermazione, di tono montaliano: «Ed io non so / chi sono e chi non sono». Non ci troviamo di fronte all’assolutezza di una metafisica negativa, ma all’umiltà del socratico «non sapere». Con questa ignoranza programmatica si spiega a volte l’assenza di un unico centro tematico e il diramarsi e dilatarsi del testo in più direzioni: l’uomo che non sa, non può nemmeno scegliere il campo della propria azione, ma avanza per tentativi che lo porteranno a strade diverse e perfino opposte. L’ignoto è «immacolato foglio». Alla poesia dunque tocca il compito della ricerca. Il tributo stilistico più evidente va sicuramente a Montale, a un Montale basso, colloquiale, forse più per il tono che per la scelta delle parole. Ma un’eco di Gozzano può essere rinvenuta in «Il mezzogiorno dietro le persiane…». 

                                                               (Nicoletta Bortolotti, «Il grappolo», II, 3, luglio-dicembre 1989, p. 10)


La raccolta poetica di Matteo Veronesi ha come primo testo, quasi in funzione di epigrafe, un componimento che credo possa dirsi il più alto, più intenso, più incisivo che sia stato scritto come testimonianza dell’attuale momento della storia, fra delusioni, mutamenti che non fanno che far ritornare indietro la storia e sono la sigla enorme e irrimediabile sulla vanità di ogni tentativo di cambiare il mondo e gli uomini, perché tutto appare sempre uguale e tragicamente quanto parodicamente ripetitivo. È la poesia della fine o, meglio, del timore della fine della storia, di ogni storia, anzi del sospetto che storia, in realtà, mai ci sia stata: la poesia del vuoto d’oggi, del deserto che è il tempo e che è anche la vita in un tempo in cui ciò che radicalmente è mutato non fa altro che indicare parodicamente e tragicamente al tempo stesso l’inesistenza di quella trasformazione del mondo che sembrava avere segnato con un solco profondissimo il nostro tempo e, per simiglianza, l’illusorietà di tutte le altre metamorfosi: “Nulla è sicuro, scoppia / una rivoluzione e qualcuno nasce o muore / in ogni istante, i tempi cambiano, ma il cambiare / del tempi è sempre uguale, indicibile, quasi  / io non so più neppure se si è vivi”. Si può allora dire che, dopo, il libro si distende sulle tappe di una verifica inquieta e ininterrotta di quel “non sapere” più se si è o no vivi: la memoria degli eventi consueti, delle esperienze della vita, ridotte al loro segno essenziale; le tracce del sogno nel percorso quotidiano dei sentimenti; gli echi che vengono, in una casa coi muri sottili, dalle vite che si svolgono intorno e che, un tempo, erano come gli inviti trepidi e lieti a un’attesa di chi sa quali futuri eventi. Si hanno, in questa prospettiva, evocazioni rapide e tuttavia splendidamente incisive di quei momenti della vita che offrono l’immagine della felicità, pur nel momento della rivelazione del vuoto e del nulla che è dietro alle apparenze della storia come dell’esistenza. Il giardino chiuso è un esempio mirabile di tale ricerca, da parte del poeta, delle figure della felicità: ma anche con la consapevolezza della loro fragilità, tanto è vero che la matita che traccia le immagini è “incerta” nella tensione di coglierle prima che esse si dissolvano nel tempo che trascorre: “Nel giardino c’è un uomo, la figliola /  bagna le dita nella fredda luce / della recente piova sulle foglie. / E ride l’occhiazzurra bimba, schiude / la bella madre i rosei labbri al canto. / E l’uomo prende una matita incerta, / traccia quei visi sulla carta, un attimo / prima che il tempo li confonda. E tutto / è in quella tremula felicità”. Non poteva essere detta meglio la fragile grazia che è il “giardino chiuso”, con il tempo sospeso nelle immagini di bellezza per un attimo, e che solo la matita incerta può, ma tanto precariamente, cercare di conservare per un poco più di quanto la vita conceda (con, in più, l’efficace citazione leopardiana, a indicare metaletterariamente il pensiero che c’è dietro della felicità figlia d’affanno). 

Il libro di Matteo Veronesi alterna memoria e sogno di lievi e fragili momenti di gioia, meditazione e ammonizione. Penso, però, come ai testi più alti, a quelle poesie dove si congiungono questi motivi, con pensoso intreccio, come A Palazzo Gandolfi, una sera, come Un matrimonio, forse, come Nel cortile di casa; oppure a testi di assoluta purezza metafisica (Dopo il carnevale, Tutti i preti, I turisti, Questa è la frontiera) o di una religiosità senza illusioni e senza inni, ma profondamente consapevole della tragicità dell’esistenza che attende uno sbocco di significato e di riscatto al di là di tutto ciò che di oscuro, di doloroso, di desolato e vano contiene: e sono da citare allora Un funerale, forse, Tante volte mirai. Ci sono anche testi di più disteso respiro, dove la memoria tende a farsi racconto, e si infittiscono figure, scene, immagini, momenti di vita effettivamente contemplata oppure soltanto (ma non meno intensamente) immaginata nella memoria. Ma la nota tipica di Matteo Veronesi è nel fatto che ogni momento evocato e descritto, anche se assaporato con cura innamorata, non è semplicemente il luogo della memoria oppure una forma della vita da lasciare nel verso come una nostalgia o un rimpianto o l’oggetto di una contemplazione semplicemente innamorata e trepida, perché, invece, si tratta delle allegorie preziose e disegnate con incisivo segno di quello che si può trarre di vero dallo scorrere del tempo, dal vuoto della storia, dall’incertezza e dalla precarietà della vita. La poesia è proprio quel segno che l’uomo traccia sul foglio per fissarvi, sia pure incertamente, le forme degne di contemplazione e di commozione nel “niente” che sono rivoluzioni, storia, mutamenti, eventi, situazioni che i più credono (o hanno sempre creduto), invece, fondamentali, e tali proprio è ormai chiaro che non sono.

La verità è altrove: in tutto ciò che la poesia riesce a definire con la sua precisa e determinata volontà di chiarezza; e quella di Matteo Veronesi ne è un esempio davvero altissimo, quale si desiderava in questi grami tempi come testimonianza dell’alternatività del messaggio che essa è rispetto alle apparenze del mondo. 


                             (Giorgio Bàrberi Squarotti, prefazione a La buona solitudine, San Lazzaro di Savena 1991, poi 1993)


L'autore sa condurci dentro le sue immagini essenziali, la sua meraviglia e la sua fuga dalla meraviglia, che è desiderio di una conquista e stupore di fronte a una realtà che sembra offrirsi all’uomo ma non si lascia mai conquistare. Mi vengono in mente certe poesie di John Donne (Anatomia del mondo) e di Montale (Meriggiare pallido e assorto), quello smarrimento di fronte a ciò che accade o a ciò che «non» accade, per cercarvi il suo senso profondo, una felicità non banale nascosta nei rapporti umani, nelle cose e negli eventi, la tentazione della rinuncia insieme al tentativo di scoprire l’essenziale. Non ci si lasci fuorviare dalla vena di pessimismo che sembra percorrere la poesia di Matteo: è solo una patina leggera sotto la quale sta una «decisa e determinata volontà di chiarezza», il tentativo di scoprire una verità attraverso il segno magico della parola poetica.


                                                                                ( Lido Valdrè, «Sabato sera», 11 luglio 1992)


La poesia di Veronesi si muove all’interno di quella “solitudine” che è un po’ il motivo-chiave , calamitando a sé tutti gli altri. Una solitudine esistenziale, chiusa nel cerchio della quotidianità, fra condomini vocianti, palazzi antichi, giardini nascosti, colli e fornaci. In una geografia domestica si sedimenta il senso della caducità e della dimensione elegiaca della perdita, delimitando una poetica neo-crepuscolare piuttosto diffusa negli autori contemporanei. Tanto che la solitudine diventa “buona”, cioè dolce e quasi inutile, come le celebri valigie di Moretti, o le gozzaniane cose di pessimo gusto. Una vena di commozione senza esasperazioni, che a tratti però viene movimentata da ritorni maledettistici e scapigliati: “Non ci sentite, siamo l’ectoplasma / che dorme solo nelle antiche tombe”. Al poeta che piange, tipica figura crepuscolare, ecco allora affiancarsi il poeta-fantasma, lugubre e digrignante contro la società costituita. Ma, con un processo dall’interno, il crepuscolarismo acquista toni più robusti. Alzando il tiro, o puntando ai corti circuiti verbali, l’espressione si muove allora nei più disparati registri. Lo scavo si fa più complesso, stratificato, percorrendo le scorciatoie fra sentimento e ragione, commozione e lucida, ironica riflessione. 


                                            (Luciano Benini Sforza, «Il Messaggero – Ravenna», 17 settembre 1993) 


La poesia di Veronesi è contraddistinta da una disposizione lirica a percepire la realtà nel suo fluire che non scade nel sogno o nell’evasione fantastica, ma rimane comunque ancorata alla fisicità dell’essere attraverso sensazioni di luce, suoni, colori, profumi, gesti. Tali elementi, come i colori di una tela, non vengono dotati di autonomia di significato, ma contribuiscono a creare atmosfere di vita contraddistinte da un caratteristico tono malinconico.  […] L’elemento dinamico del reale viene perseguito mediante un lessico classicamente sorvegliato, privo di mescolanze di registri linguistici, e l’adozione consapevolmente critica di un ritmo metrico che dilata senza forzature il senso mesto della vita. Questo classicismo stilistico è supportato da una personale coscienza critica secondo cui il linguaggio letterario deve essere distinto dall’uso comune. 


                                                                              (Giuliano Ladolfi, “Atelier”, giugno 1997)



Matteo Veronesi è una figura schiva in questo panorama. Sdegna le consorterie e il falso e la superficialità di tante performance. Dal suo orizzonte separato scrive versi sul marmo. Capaci, nella loro algida bellezza, di scatenare una piena di affetti e di timori. Una poesia drammatica, tessuta con perizia certosina. Nella sua nuova raccolta (Il cordone d’argento – Frammenti per la sorella),  la sua Musa si fascia di dolore. Ancora una volta. 


                                                               (Alessandro Rivali,  «Studi cattolici», XLVII, ottobre 2003, p. 745)


Tutto, nella poesia di Matteo Veronesi, riporterebbe in prima battuta a un grado oggi quasi insopportabile di cultura e di letterarietà. Specializzato soprattutto sul grande movimento europeo del Simbolismo, in tutte le sue vastissime diramazioni (tra Mallarmé e il nostro Lucini, per fermarsi a due polarità a un tempo estreme e significative), Veronesi radicalizza  […] il principio teorizzato, studiato e praticato – nel secondo Novecento – da un Jorge Luis Borges come da un Hans Blumenberg secondo il quale il mondo è un Libro e la sua esperienza coincide con quella del frequentatore – ora rabdomantico, ora sistematico – di una Biblioteca. 

Questa poesia si fonda sul trauma primigenio (e prelevato direttamente, senza intermediazioni culturali, dal reale) della Morte della Madre, proprio come nell’opera di uno dei maggiori tra i poeti quarantenni oggi attivi a Bologna, Vitaniello Bonito, autore di due libri di poesia come A distanza di neve (1997) e Campo degli orfani (2000), critico anche lui di stoffa notevolissima e amante dei poeti barocchi e di Pascoli: non a caso, tradizioni decisive (perché vivacemente attive nei suoi testi) anche per la poesia di Veronesi, che – come ogni autore che si rispetti – tuttavia le esclude dal suo Pantheon, perché vuole poterle attualizzare senza troppo dare nell’occhio. Ma quello che in Bonito è Leitmotiv e precipuo motore testuale (nonché efficacissimo telos prosodico), il Silenzio, in Veronesi diviene condizione preliminare, scaturigine dalla quale deriva una disperata necessità di musica, di metrica regolatrice di canto, di emozione trasformata in discorso. Tanto per rilevare la vivezza riattualizzata di un topos barocco, si può riflettere sull’efficacia di un simile incipit: «L’orologio, chiedevi, l’orologio / <già> sulla soglia oscura del delirio». 

Ma non meno forte risuona, da questo punto di vista, anche l’attacco della sillloge di Veronesi, con quel cortocircuito tematico che è archetipo della miglior poesia occidentale tra «grembo della grande madre» e il «tuo grembo» della madre autobiologica, perché al poeta sia dato di concludere: «Che possa ora il pianto / farsi ritmo, musica il lamento – / possano ancora questi versi lievi / incantare l’abisso». È evidente che Veronesi chiama in causa, con un altro salto di senso che non cela il destino edipico e freudiano del soggetto sensibile che risiede «qui e ora»,  il mito di Orfeo e di Euridice, senza – tuttavia – la minima inclinazione verso l’orfismo storico (quale è venuto a esempio manifestandosi nel nostro Novecento, tra ermetismo e «parola innamorata», al di là anche del revival periodicamente vissuto dai Canti orfici  di Dino Campana) ma realizzando piuttosto l’ambizione di farsi cronista del «dopo»: dopo che l’oggetto d’amore si è perso per sempre e soprattutto dopo che la sua umanissima inclinazione alla preghiera si è resa consapevole dell’assenza e del vuoto procurati dal venir meno autobiografico non meno che storico della propria stessa ragione di desiderio. Così, il paradosso riesce a trasformarsi in realtà concreta, condivisa: e il caleidoscopio delle citazioni letterarie e degli omaggi, il mito stesso della classicità rinascono a nuova vita, nella forma di una poesia necessaria ed emozionante.

                                                          (Alberto Bertoni,  in Quattro poeti, Milano 2003, pp. 67-72)


La prima volta che ho letto le poesie di Veronesi credo di aver manifestato qualche dubbio  sulla mia simpateticità alla loro forma, dubbio che espressi all’autore. Si era dinnanzi a testi scritti da un giovane in una lingua letteraria, dannunziana, insomma classica, cosa che si vede raramente e non ci si aspetta. Ma, intanto, Veronesi lenisce con la letteratura la tragedia della vita e della morte e una raccolta più ampia delle sue poesie, dal titolo doppio Il cordone d’argento e Frammenti per la sorella, me ne dava conferma: «Ma quando la tua carne sarà polvere / e il tempo avrà sepolto la tua voce / e gli istanti illuminati dal ricordo / sprofonderanno in un oscuro mare…». Ora, la scelta stilistica di questo poeta non è senza sofferenza, essa stessa. Veronesi cerca volutamente il classico, in questo sostenuto da ciò che diceva quello che per me è un poeta-guida della poesia del Novecento, Osip Mandel’stam: «Alla poesia occorre il classicismo, alla poesia occorre l’ellenismo, alla poesia occorre un senso spiccato dell’immagine, un ritmo meccanico…»

                                                       (Gianfranco Lauretano, «Graphie»,  V, 4, dicembre 2003, pp. 46-47) 


È senz’altro ricco,  stimolante il contesto letterario (emiliano-romagnolo) in cui si muove e si colloca il giovane Matteo Veronesi, bolognese classe 1975, autore del volume di poesie, una sorta di dittico in verità, che si intitola Il cordone d’argento – Frammenti per la sorella. Ricco e stimolante perché in esso vengono a convivere esperienze poetiche  incisive e significative per quantità e qualità, sia in lingua che in dialetto, a partire soprattutto dal secondo dopoguerra. Una regione letterariamente addirittura capace di una intensificazione-diversificazione in atto: pensiamo alla grande stagione recente elegiaco-memoriale di Gianni Fucci, al visionario, lacerante, pluristilistico teatro-poesia di Nevio Spadoni, a quel romagnolo d’importazione come Gianfranco Fabbri, di origini toscane ma forlivese d’adozione, autore di alcune raccolte cospicue per quel loro gusto minimale e metafisico insieme, pensiamo anche al sincretismo globale e visivo della ravennate Carolina Carlone; oppure, per restare in una zona generazionale più vicina a Veronesi, ricordiamo anche il ravennate Alex Ragazzini (è nato nel 1973), forte di un taglio e di un linguaggio paesaggistico e meditativo. E i nomi apena fatti – tanti altri senza dubbio sarebbero ancora da citare – peccano ovviamente più per difetto che per eccesso; ciò che importa è aver reso il senso di una regione e di una fase particolarmente caratterizzate e apprezzabili per le molteplici scritture poetiche. Qui, in questo contesto così nutrito e quasi “ingombrante” si pone con originalità e personalità precisa la scrittura di Veronesi: una scrittura sapiente e letteraria, volutamente attrezzata e scartata dal linguaggio referenziale di tutti i giorni, come nota Alberto Bertoni presentando il poeta nell’antologia Quattro poeti .

Ma come si realizza in concreto, nel fuoco vivo del testo, la spinta, la matrice letteraria in questo volume-dittico? Ed è veramente una forza, una spinta univoca e solitaria, totalizzante all’interno dei componimenti? In effetti, crediamo che in questa raccolta convivano e reagiscano insieme due fattori, due movimenti espressivi e stilistici: quello alto, da grande stile, che si richiama alla tradizione classica e sublime, da una parte, e quello invece affettivo-quotidiano, dall’altra. Due movimenti raffigurati rispettivamente da uno stile “fiorito” (“fiori”, p. 51; e di fiori e parole floreali ed auliche, talora dannunziane, è ricco il volume) e uno stile più asciutto e “scheggiato” (“schegge”, p. 51): grazie al loro interagire nascono un po’ tutte le poesie di questo volume; anzi, dove la sinergia, la dialettica di spinte e controspinte è più vitale e profonda, dove l’equilibrio fra le due forze è più saldo si hanno a nostro avviso gli esiti più alti. Così, per la riduzione dello spessore e del peso del sublime (da un lato), e grazie all’innalzamento del linguaggio piano e domestico (dall’altro), si esplica, si concretizza la prassi fatta di “musiche” e “silenzi” (p. 27), dove versi struggenti e classicamente composti, senza essere algidi, gravitano intorno ad una doppia elaborazione del lutto, la perdita della madre e quella della sorella. Sono questi versi quelli dove “si disperde il soffio / di quella pena vestita d’armonia” (p. 22), dove la tradizione è mezzo e varco al dolore, alla vita vissuta e al suo quotidiano confronto con il negativo, con gli oggetti, con i ricordi, con i rimorsi. 

A volte, persino, in questa poesia ricca e complessa, dinamica e mossa da spinte molto forti e molto divergenti, si ha l’eccesso opposto: non l’eccesso, o lo sbilanciamento verso il polo della cultura e della lingua sublime (con qualche vezzo ricercato e voluto nel lessico e nella forma, talvolta nell’ipotassi), ma al contrario verso l’”abisso” magmatico del vissuto, del sentito, del nodo interiore e problematico. Una prova della portata, della potenziale drammaticità (si vedano i vari contrasti cromatici e simbolici, oppure l’uso frequente dello stacco avversativo e tonale del “ma”, e la presenza dello stesso enjambement a sottolineare la rottura più che la continuità, insieme alla suggestiva disarticolazione e frammentazione della compagine testuale), diciamo insomma una verifica della complessità di questa poesia: poesia, perciò, che non può essere –  lo sostiene a suo modo lo stesso Bertoni –  liquidata sotto la categoria della letterarietà, o dell’esercizio formale fine a se stesso. Del resto, che sia un universo articolato e multifattoriale lo conferma la mobilità dei piani temporali, la stratificazione dell’espressione lirica, dove l’io spesso si fa carico di raccontare il tu, il passato e le emozioni stesse di altre persone, toccando una narratività compressa e rivissuta; e lo conferma ancora il continuo passaggio non solo dal passato al presente, ma anche dal fatto-fenomeno alla sua destrutturazione, alla sua rielaborazione in chiave meditativa, filosofica e spesso gnomico-teologica. Un passaggio dinamico e vivo dal fisico al metafisico, dalla morte umana alla divinità, dall’io al tu, dalla narrazione allo scavo introspettivo o al commento pensoso, e non solo una interazione fra il linguaggio sublime e il concreto, domestico vocabolario quotidiano; queste le direzioni e le forze in gioco, questi i livelli che variamente e sorprendentemente riesce a coinvolgere questa raccolta. 


                                                (Luciano Benini Sforza, «Tratti», XX, 2004, pp. 128-130)


Alberto Bertoni, nella nota di prefazione, sottolinea in via assolutamente preliminare l’iperletterarietà del bolognese Matteo Veronesi, che si misura con il tema dell’orfanità caro a tanta poesia contemporanea (Bonito, ma anche l’ultimo Porta). È una poesia, quella di Veronesi, sorvegliatissima nei ritmi, nei toni, sempre ricca di echi e densa di sovratoni mitici: la madre biologica torna nel grembo della Grande Madre, ma il riscatto giungerà dalla memoria poetica – un esito che ci pare indebitato, più che alla tradizione classica, alle sue rivisitazioni dello Shakespeare sonettistico e del William Carlos Williams di Poem. Il rischio, va da sé, è quello di una poesia troppo conscia e lontana dall’indispensabile “leggerezza”, ma l’intelligenza poetica del giovane autore, oltre all’indubbia capacità di essere spesso personale e convincente  nelle scelte, crediamo siano sufficienti motivi di ottimismo. 


                                                       (Mauro Ferrari, Annuario di poesia,  Roma 2004, p. 255)


Lo scopo di Veronesi non sembra essere quello di offrire una plaquette di versi puramente elegiaca nel segno della tradizione classica, peraltro ricordata nel più tenero e fedele dei modi. Il fine pare essere quello di rendere il dolore trattenuto sempre vivo e reale, dunque quasi un pacato ed umile scandalo agli occhi di un Dio che rimane isolato, lontano nel suo sublime pensiero. 

È questo il nerbo, l’energia velata-svelata della bellezza notturna e glaciale più della morte, ma dirompente e vincitrice. Abbracciato alla bellezza, amara secondo Rimbaud, il Nostro tenta di porsi davanti a Dio con tutta la dolente umanità del poeta, che lo ama da una parte come il credente e lo rifiuta dall’altra come l’ateo, apostata in quanto disarmato. Puntualmente l’autore precisa: “…sola tu come in vita, con quella tua fredda anima / tropo limpida e dura per il mondo / e solo Lui, sordo / ai pianti e agli inni, perso / nella sua quiete deserta, chiuso / nel suo eterno pensarsi” (pag. 46). 

La morte, per il santo appena un trapasso verso la resurrezione, diviene autentica cifra della condizione umana, riserva di senso per l’intero esistere, negata in pari modo dai timori personali, ma anche dall’edonismo imperante. Soltanto dalla gratuità della fede potrebbe, per l’uomo-poeta, essere evocato un rovesciamento di ottica, quello che s’identifica nella “follia della croce”, volontariamente assunta dal Cristo, mistero della condivisione della precarietà umana, ma siamo in un ambito diverso e radicale, quello della Grazia. 

L’analisi letteraria della forma, “morta” perché mirabilmente fermata nel testo, ci conduce, per finire, ad alcune note riguardanti lo stile di Matteo Veronesi: il suo è un discorso filtrato attraverso un monostilismo limpido ed attuale, carezzevole nella sua musica. 


                                                                  (Marzia Alunni, «Pomezia Notizie», gennaio 2004, p. 24)


Può un eccesso di cultura e di consapevolezza critica soffocare il talento poetico di un autore? La questione non è liquidable in una battuta, ma credo che non sia un problema il bagaglio culturale che ciascuno porta con sé, il quale diverrà semmai una ricchezza cui attingere. Il danno viene dal conformismo, dalla volontà di affermazione, dalla mancanza di libertà. Del resto, un poeta deve confrontarsi tanto con il presente quanto con il passato, deve studiare e applicarsi, per raggiungere attraverso la disciplina una semplicità ricca e una compiuta naturalezza. 

Matteo Veronesi, nato a Bologna il 15 marzo 1975, non ha dubbi circa la sua strada poetica: soltanto con un filtro di estrema densità letteraria arriva a fissare sulla pagina versi come quelli citati, inclusi nel volume Quattro poeti. Si tratta di versi che non hanno tempo, scolpiti come sono su una roccia, guardano l’eternità negli occhi, pretendono d’incantare l’abisso come il canto di un novello Orfeo, nascono dalla disperata necessità di esorcizzare il dolore: di anestetizzarlo per mezzo della veste estetica in cui lo si incatena. 

La letteratura diventa così,  entro un orizzonte di senso tragico, un appiglio di sopravvivenza. D’altronde, perché leggiamo poesie? Perché ci ostiniamo a cercare le parole per definire il mistero dell’esistenza, se non proprio per mettere a fuoco il vissuto, per sfilarne il midollo e placare, almeno un poco, la nera bestia che fa capolino, di tanto in tanto in tanto, nella selva oscura della nostra mente? 

Non ci si può ridurre a questo, la vita va vissuta, si potrebbe obiettare. E l’obiezione va sicuramente accolta, ben sapendo che non potrà mai lenire l’estrema considerazione: qualche volta, è la vita stessa che non ti offre alternative. 

Per questo, talvolta scrivere e vivere consuonano, si specchiano, si compenetrano. 


(Marco Merlin,  Mosse nella guerra dei talenti, Santarcangelo di Romagna 2007)