La dolce aurora di una vocazione. Per Lucia Montauro



I testi che ho il piacere di introdurre rappresentano una sorta di incunabolo, di scaturigine prima, o di fecondo albore, del discorso poetico che Lucia Montauro dispiegherà poi, nel corso dei decenni, di raccolta in raccolta, restando fedele, pur in uno stile via via più cesellato e affinato, alla propria vocazione inaugurale, alla propria voce e natura («non si cede / voce, leggenda o destino», insegna Montale), eppure dando vita, come osserva Giancarlo Pontiggia, ad un carmen continuum, ad una poésie ininterrompue in cui persistenza e mutamento, coerenza profonda e continuo mutare coesistono e si illuminano a vicenda. 

Ma si tratta, nel contempo, di un giovanile, sommesso e tiepido, journal intime, di un diario sentimentale e insieme postumo: come un altro celebre Diario postumo, anch'esso intriso di luce marina e di solari riverberi, quello di Montale (dove, però, ad essere cantato è un amore senile, impossibile, amaramente ideale, venato di disincanto, eppure anche d'improvvise accensioni, mentre quello della Montauro è semmai un inno infiammato e risoluto al rigoglio di un giovane amore dischiuso al futuro). 

Come in un gioco di echi vaganti, di anticipazioni e riprese, è possibile vedere quanto dell'immaginario appassionato, della mediterranea luminescenza della poesia successiva dell'autrice sia qui già anticipato, e quanto, per converso, di questo albore si sia poi riverberato nelle raccolte edite in vita. 

Ma non si deve credere che l'immediatezza, pur presente e viva, di questa poesia escluda la consapevolezza culturale. 

Anche il richiamo, in esergo, ad alcuni celeberrimi versi di Catullo («Da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum; / dein, cum milia multa fecerimus, / conturbabimus illa, ne sciamus») ha un preciso valore: i gesti d'amore vengono reiterati appassionatamente, quasi indefinitamente, nel tempo – fino a confondersi, a trascendere i limiti di ogni computo razionale, a sfociare in un «non sapere» («ne sciamus») che potrebbe quasi avere, ai nostri occhi, qualcosa di terrestremente, laicamente mistico. 

Catullo, con la sua passionalità che vorrebbe tradursi in un, per quanto contrastato e conflittuale, foedus, in un legame, in un patto incrollabile e indissolubile, è ovviamente uno degli antecedenti più plausibili di questo diario amoroso che sottrae la passione alla sua quasi inevitabile fugacità, la rende assoluta, la cristallizza nella forma poetica per consegnarla alla possibilità dell'eterno. 

Si potrebbero citare anche (sul versante specifico di una sensibilità femminile, degli antecedenti e dei modelli della poesia delle donne) la passionalità e la vivezza magnogreche (coniugate con una finezza e una sottigliezza ellenistiche) di Nosside, che sarà invocata fra i numi tutelari delle raccolte edite in vita. 


῞Αδιον οὐδὲν ἔρωτος· ἃ δ' ὄλβια, δεύτερα πάντα

ἐστίν· ὰπὸ στόματος δ' ἔπτυσα καὶ τὸ μέλι.

Τοῦτο λέγει Νοσσίς· τίνα δ' ἁ Κύπρις οὐκ ἐφίλασεν,

οὐκ οἶδεν κήνα γ' ἅνθεα ποῖα ῥόδα.


«Nulla più dolce dell’amore: tutti i beni gli stanno alle spalle.

Anche il miele la mia bocca rigetta».

Questo dice Nosside. Ma colui che Venere non ha amato

non sa quali rose siano i suoi fiori. 


Come pure Sulpicia, l'unica voce femminile della poesia latina:


Non ego signatis quicquam mandare tabellis,

ne legat id nemo quam meus ante, velim,

sed peccasse iuvat, vultus componere famae

taedet: cum digno digna fuisse ferar.    


Non vorrei affidare nulla a tavolette sigillate,

perché nessuno le legga prima del mio amore.

Ma mi piace aver commesso questa colpa: mi attedia

mostrarmi per ciò che non sono.

Si dirà che io amai chi di me era degno.  


Dove, come nella poesia della Montauro, non c'è differenza fra il sentimento amoroso e l'espressione poetica, tra il fuoco interiore della passione e la necessità di riversarlo nei segni della scrittura, incisi come nella carne viva. Il virtuoso e sacro peccato dell'espressione poetica femminile non può rimanere sepolto nell'ombra. Esso è essenziale e vitale. 

L'amore è intriso, in chiave elegiaca, del senso della perdita. Un amore che si vuole e si sogna eterno arriva ad immaginarsi effimero, e risorto, paradossalmente, oltre il proprio stesso immaginato tramonto, per dare voce alla propria repentina intensità. 


Quando altre mani ti accarezzeranno

ed io sarò una cosa del passato

vorrei ti ricordassi di colei

che solamente un cuore possedeva

e te l’avea donato.


L'amore «è il desiderio di morire amandoti». Qui l'amore, pur intensamente umano,  rasenta venature mistiche, echeggiando quasi il desiderio dell'anima di annullarsi in Dio. 


Infine mi sveglio

fremente ancora per le carezze sognate

e cerco invano la tua cara immagine.


L'accesa sensualità, pur vibrante e fremente, quasi sfuma nell'immaterialità del sogno e nella sublimazione della visione poetica (un po' come l'«alta specie» e l'«imago» dell'impossibile amore leopardiano,  o addirittura, in Petrarca, l'evanescere di volti luoghi contorni nella materia tremolante del tempo rievocato: «et l'imagine trovo di quel giorno / che 'l pensier mio figura»), destinata a svanire se non vi fosse, appunto, la forma verbale a fermarla, plasmarla e farla consistere, impregnandosi essa stessa di un sensuale e quasi fisico vibrio. 

Come, in modi e toni diversi, in Cardarelli («Dovevamo saperlo che l'amore / brucia la vita e fa volare il tempo») o in Montale («Ahimè, non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani»), il tempo si relativizza, si dilata e si contrae, sembra quasi sgretolarsi, raccolto e dissolto nel cerchio breve e vasto del cuore e dell'anima (quasi come il tempo agostiniano inteso come distentio animae, o come la «durata reale» di Bergson). 


Perché ore d’amore fuggite via così

quando un minuto d’attesa sembra eterno

per colui che attende?   


Versi in cui, fra l'altro, già si prospetta quel meraviglioso contrappunto fonosemantico fra sonorità aperte, morbide e dolci – «ore d'amore» – e altre più nette, dure, marcate, definite – «un minuto d’attesa sembra eterno», a scandire e rimarcare l'incedere del tempo – che attraverserà tutta la poesia dell'autrice.        

Ma forse il messaggio essenziale, e insieme esistenziale, di questa raccolta risiede nella specularità, nella reciprocità dei sentimenti fra i due innamorati, le quali si traducono in strutture stilistiche analogamente parallele e rispondenti.


Io penso a te come a una cosa mia

vivo di te e per me tu vivi.


(...)


Troppo simili i nostri pensieri

pari nei baci l’ardore.


(...)


E quando, come ora, siamo lontani

le parole riecheggiano le parole

come a riempire il vuoto della solitudine. 


E forse non c'è, infine, migliore commento di alcuni versi di Camoens, intrisi di echi neoplatonici:


Transforma-se o amador na cousa amada,

por virtude do muito imaginar;

não tenho logo mais que desejar,

pois em mim tenho a parte desejada.


Con un singolare rovesciamento dei ruoli fra uomo e donna, secondo un antico topos della lirica amorosa, l'innamorata porta perennemente nel cuore l'immagine dell'amato, anche quand'egli è lontano. E proprio quell'immagine, quell'intimo globo di luce, è fonte della poesia. 

Questa rispondenza, questo rispecchiamento di due anime, eternati dalla forma poetica, attraverso queste pagine riemerse ora dal passato, ma così intensamente vive, continuano a parlarci, e a persuaderci della loro predestinata e superiore necessità.  


                                                                                                            Matteo Veronesi