Christus Patiens

LA TRAGEDIA GRECA RIVIVE NEL CHRISTUS PATIENS

(«Studi cattolici», LX (1997), n. 434, pp. 276-278)

"Christòs paschon. Latinamente Christus patiens, è un bizzarro centone di motivi tragici sulla Passione di Gesù, attribuito già a s. Gregorio Nazianzeno e riportato dopo le ultime indagini al secolo XI. Ha l'andamento della tragedia greca con cori e dialoghi imitati da Eschilo, Euripide, ecc. dei quali si riproducono interi versi e emistichi. Ne deriva una aria pagana che contrasta stranamente con l'argomento sacro. La Madonna, così accorata ed umana nel Pianto di Jacopone e nello Stabat mater, è qui quasi profanata da un linguaggio che riecheggia il cupo dolore di Ecuba e quello dissennato di Medea".

L'articolo che ho appena riportato per intero dal terzo volume - edito nel 1949 - della monumentale Enciclopedia cattolica può essere ancor oggi utile per illustrare, nella sostanza, l'oggetto di questa breve trattazione e, nel contempo, dare un'idea dell'atteggiamento di imbarazzo, quando non di aperto rifiuto, che, nel corso dei secoli, ha suscitato nel mondo cattolico una delle opere più problematiche e "scomode" di tutta la letteratura cristiana. Bisogna precisare, innanzitutto, che gli studi condotti negli ultimi decenni hanno restituito al Nazianzeno - sulla base di argomentazioni teologiche e filologiche pressoché inoppugnabili - la paternità dell'opera, la cui stesura sarà dunque da collocarsi nel IV secolo, e ne hanno riconosciuto il profondo ed indiscutibile valore poetico, tanto che essa può considerarsi - per riprendere le espressioni di cui si avvale André Tuilier nell'introduzione a quella che resta, a tutt'oggi, la migliore edizione del dramma (1) - "tragedia cristiana per eccellenza", "opera di un pensatore, di un teologo e di un artista".

Il debito contratto dall'autore nei riguardi dei grandi tragici è indubbiamente molto consistente, a tratti addirittura ingombrante: si è calcolato che più di un terzo dei trimetri giambici di cui si compone il dramma è preso di peso, con lievi varianti e spesso a blocchi indivisi, dalle opere dei grandi tragici, e lo stesso autore, nell'epigrafe apposta in limine all'opera, dichiara, a scanso di equivoci, che in essa la Passione è rappresentata kat'Euripiden, "secondo lo stile di Euripide". Per comprendere e "giustificare" una simile operazione è necessario prendere coscienza di un sistema culturale in cui - cito ancora lo studioso francese - si assiste, sì, alla "conversione definitiva del mondo pagano al cristianesimo ufficiale", ma "la tradizione antica è ancor viva in tutti gli àmbiti", e in cui, di conseguenza, l'applicazione della forma tragica alla narrazione evangelica della passione, morte e risurrezione di Cristo non è affatto sentita come "bizzarra" o blasfema.

Clemente Alessandrino, ad esempio, solo poche righe dopo aver sdegnosamente dichiarato di voler lasciare tais ton theatron anoiais, "alle follie dei teatri", gli adulterini e zoomorfi amplessi di Zeus, riconosce che in certi casi "anche la tragedia, distogliendoci dalle apparenze mendaci (ton eidolon), ci insegna a rivolgere lo sguardo verso il cielo" (2); altrove scrive che "anche sulle scene ci viene svelata la verità" (3). Ancor più illuminante è l'ampia metafora teatrale a cui san Giustino fa ricorso per illustrare il concetto di "ipostasi", di manifestazione e personificazione della Divinità e del suo volere: le testimonianze dei profeti risuonano hos apò prosopou, "come da una maschera teatrale"; come il drammaturgo esprime un medesimo messaggio attraverso una pluralità di personaggi, di "maschere" portate sulla scena, così nelle Sacre Scritture un medesimo Theios Logos, una identica e coerente "Parola Divina" si manifesta e si esprime "dietro la maschera", nelle vesti o sotto la specie ora di Dio Padre, ora di Gesù, ora dei Profeti ... (4) Non potrebbero essere più evidenti il riconoscimento e l'accoglimento, in àmbito cristiano, dell'analogia - spontanea, naturale, quasi "archetipica", se pensiamo alla probabile origine rituale e misterica della stessa tragedia greca - tra rappresentazione teatrale e culto religioso. Ma è necessaria un'ulteriore precisazione. Come preannunciano, in forma argutamente chiastica, i primi due trimetri del prologo, gli spettatori riceveranno "pii insegnamenti espressi in forma poetica" dopo aver ascoltato "componimenti poetici con animo pio"; l'efficacia dell'operazione di "riuso" di materiali e motivi classici è preventivamente subordinata alla possibilità di leggere i tragici eusebos, scorgendovi significati e messaggi non inconciliabili con lo spirito cristiano.

Lo stesso prologo - denso di preziose indicazioni di lettura - precisa che la Beata Vergine soffrirà e si lamenterà, nel corso del dramma, metroprepos, "come si conviene ad una madre", ad ogni madre, fosse pure Ecuba, Medea o la ninfa Tersicore, che alla fine del Reso, tragedia di contestata attribuizione euripidea cui l'autore fa spesso riferimento, lamenta con toni struggenti la morte del figlio: un dolore straziante, profondamente sentito, assolutamente umano. Il modello tragico, dunque, poteva essere utilizzato per sottolineare, in implicita ma decisa polemica con le eresie contemporanee, l'autenticità della maternità di Maria e, in parallelo, la piena e profonda umanità di Cristo - due motivi, questi, sintetizzati nel verso (1795) che definisce la Vergine come meter tou diphuous, "madre di colui che ha due nature", umana e divina.

Fatte queste premesse, ci si può accostare ad un momento della tragedia che ha suscitato sconcerto in più studiosi. Il messaggero - cui il Nazianzeno, secondo la prassi dei tragici, assegna la funzione di riferire i fatti che si svolgono al di fuori del luogo raffigurato dalla scena - ha appena informato la Vergine e il pubblico della condanna a morte proclamata da "scribi ed anziani". A quel punto la Madonna pronuncia questi versi, due dei quali sono presi di peso dall'Ippolito di Euripide, ove sono assegnati alla Nutrice (Trophos), inorridita dall'amore incestuoso che Fedra le ha appena confessato di nutrire per il figliastro: "Donne, compartecipi di questa sventura, / donne, non sopporterò ciò che è insopportabile: / scaglierò via, deporrò questo mio corpo, / lascerò, morendo, questa vita: / addio, ormai io non esisto più" (vv. 369-372). A più d'uno un'estrinsecazione tanto esplicita, iperbolica e "gridata" del proprio dolore non è parsa consona, per ovvie ragioni, alla caratterizzazione della Vergine. Senonché, come scrive Trisoglio nel suo commento, "nelle tragedie si tendono i sentimenti fino ai limiti estremi" e "nell'antichità l'assoluta realtà umana di Maria non aveva ancora completamente raggiunto la piena depurazione da ogni ombra di debolezza"; l'altra sua spiegazione ("nei centoni si prendono i versi un po' come si trovano") rischia di risultare piuttosto semplicistica. Bisogna spingersi oltre. Nello stesso Ippolito, pochi versi dopo quelli utilizzati dall'autore del Christus patiens, Fedra enuncia, con nitidezza abbagliante, il principio della libertà e della consapevolezza delle azioni e delle scelte umane, che - presente in nuce nel pensiero greco fin dai famosi versi omerici in cui si dice che Egisto, nel sedurre Clitennestra, agì hypèr moron, "al di là" o "al di fuori" del Fato (6) - sarà ripreso, approfondito ed arricchito, alla luce della Rivelazione, dal Cristianesimo, arrivando a definirsi e precisarsi in termini di "libero arbitrio": "Il bene lo conosciamo e lo vediamo / ma non facciamo nulla, alcuni per inerzia, / altri perché al giusto preferiscono il piacere" (7). Nulla impediva, dunque, di assimilare, con un naturale passaggio logico, lo sgomento della Nutrice davanti all'irresistibile, perversa ed aberrante potenza di Afrodite al doloroso sconcerto della Madre di Dio davanti allo scandalo della croce, liberamente e consapevolmente perpetrato dagli uomini. In questa luce è possibile allora leggere uno dei momenti più alti del nostro dramma, quello in cui il messaggero, dopo aver profetizzato, con toni apocalittici, l'impiccagione di Giuda e la distruzione di Gerusalemme, ammonisce il traditore con i versi che seguono, e che riecheggiano le Baccanti euripidee: "non sarà Dio che ti costringerà ad essere giusto (sophronein): / l'essere giusti, sempre, in ogni caso, / sta nella scelta e nel pensiero dei mortali" (vv. 262-264).

Così il termine hybris, che nella tragedia greca - e, in particolare, nel secondo stasimo dell'Agamennone di Eschilo, a cui il Nazianzeno allude testualmente, e che esprime una fiduciosa e riverente concezione della giustizia divina - designava la colpa inconsapevole e prenatale, che dai padri si trasmette ai figli, affliggendo il ghenos, la "famiglia" o la "stirpe", nel dramma cristiano - in cui per ghenos si intende l'intero "genere umano" - passa a designare il peccato originale - péché originel, traduce giustamente Tuilier -: "sempre l'antica hybris ama generarne di nuova" (v. 39). Di conseguenza la folle e cieca perfidia con cui il Sinedrio condanna Gesù può essere assimilata all'Ate, all'"accecamento", alla sciagurata follia indotta dal castigo divino: Hybris chiama Ate, secondo un ordine cosmico ed immutabile. "Qualunque sia il contesto, greco, cristiano, o senza alcuna etichetta, la tragedia sembra condurre sempre ad un'epifania della legge, di ciò che è e deve essere" (6).

Beninteso, la concezione cristiana dell'uomo e della Divinità approfondisce, modifica e supera quella tragica: al risolutivo, e spesso inatteso e frettoloso, intervento del deus ex machina che spesso, nelle tragedie euripidee - specialmente nelle più tarde -, risolve in extremis una situazione altrimenti priva di sbocchi, nel dramma cristiano possono sostituirsi la pienezza, il glorioso fulgore e, soprattutto, la reale ed effettiva storicità della Risurrezione. Inoltre nel Christus patiens l'Umano e il Divino, "pur restando assolutamente distinti, risultano stretti in una sorprendente vocazione alla convivenza, mentre là", nella tragedia greca, "apparivano antagonisti nei fini e negli interessi e si avvertivano estranei alla profondità della loro natura" (8).

Ciò non toglie, né impedisce di credere, che i semi del Verbo, saggiamente sparsi dal logos spermatikòs nelle più diverse ed impensate ere dell'avventura umana, possano aver raggiunto e fecondato, pur se in modo ancor parziale ed aurorale, anche i versi dei grandi tragici, come suggeriscono gli stessi Padri della Chiesa.

Matteo Veronesi

NOTE

1) GREGOIRE DE NAZIANZE, La Passion de Christe - tragédie (n. 149 della collana Sources Chrétiennes), a cura di A. Tuilier, Les Editions du Cerf, Parigi 1969. L'unica edizione italiana esistente è quella - priva del testo greco - curata da Francesco Trisoglio (La passione di Cristo, Città Nuova Editrice, Roma 1990).

2) CLEMENTE ALESANDRINO, Stromati, V, XIV, 112, 4.

3) ID., Protrettico ai Greci, VII, 74, 1.

4) GIUSTINO, Apologia prima, 36, 1-2.

5) OMERO, Odissea, I, vv. 31 e segg.

6) N. FRYE, Anatomia della critica - teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, Einaudi, Torino 1969, p. 277.

7) EURIPIDE, Ippolito, vv. 380-382.

8) F. TRISOGLIO, Forma e sviluppi del monologo nella tragedia classica e nel "Christus patiens", "Civiltà classica e cristiana", anno I (1980), n.1, pp. 7-48.