Simbolo, allegoria, fantastico nei Drami delle Maschere di Gian Pietro Lucini

[apparso a stampa in «Poetiche», n. 3/2003, pp. 375-389]


                                                                     Il simbolo è l’allegoria organica e interiore: mette radici nelle tenebre


                                                                                             M. Maeterlinck, “La Revue Blanche”, 1889


             Amici io mi spavento di queste vostre significazioni. Voi mi producete in terra, parmi, l’Inferno e il Paradiso


                                                                   G. P. LUCINI, I Drami delle maschere, La Parata dell’Introduzione


Nella lucida Avvertenza che precede La Prima ora della Academia – opera che, edita nel 1902 da Sandron e mai ristampata, a detta di Glauco Viazzi configura, insieme ai Drami delle maschere e alle Revolverate, una sorta di asistematica e quasi preterintenzionale trilogia1- Lucini parla delle sue “innocenti Allegorie”, “limpidissime come il cristallo”, che gli consentono di “raccontarsi sotto altri nomi”.

Sebbene manchi, a tutt’oggi, per quanto possa apparire singolare, una trattazione sistematica concernente la coscienza teorica che i poeti simbolisti ebbero delle forme e dei modi dell’espressione simbolica (a meno che non ci si voglia rifare alla ormai fatalmente invecchiata, ancorché utile sul piano informativo, trattazione del Fiser2), credo si possa affermare che fu comune alle diverse espressioni della coscienza letteraria decadente e simbolista la tendenza ad una contaminazione, per così dire, di simbolo ed allegoria, ad un superamento o ad una attenuazione della nota distinzione, goethiana e romantica, che opponeva alla naturalezza e alla spontaneità del simbolo il carattere costruito, voluto, artificioso, spesso intellettualistico o didascalico, che avrebbe invece contraddistinto l’espressione allegorica. 

Nei simbolisti, dal Baudelaire di Le Cygne al D’Annunzio dell’Allegoria dell’autunno, per menzionare solo due esempi fra i più significativi, se da un lato l’allegoria tende a perdere il proprio tradizionale statuto di fissità semantica e concettuale, di univocità, di decodificabilità, e insieme la propria “verticalità”, la propria attitudine a veicolare sovrasensi morali e anagogici3,  dall’altro lato il simbolo sembra acquistare un carattere “voluto”, talora intellettualistico, concettualmente pregnante, a volte deliberatamente ambiguo (si pensi alla mallarmiana Prose pour Des Esseintes, per non menzionare che l’esempio forse più emblematico). Come scriveva D’Annunzio – paradossalmente vicino, in questo, all’antidannunziano per antonomasia Lucini - nelle Note su Giorgione e su la critica, la “conscienza” del critico “illumina” il simbolo “davanti all’intelletto curioso e ansioso”.

Proprio questa commistione e questa interazione di statuto simbolico e statuto allegorico potrebbero – sia detto per inciso - indurre a rivedere, o almeno ad attenuare, certe prospettive interpretative che vedono, nel panorama italiano primonovecentesco, una transizione, per quanto articolata e sfumata,  da una letteratura basata sul simbolo e sull’analogia,  tendente perciò alla “simultaneità lirica”, all’”atemporalità di un assoluto”, ad un’altra ed opposta letteratura, più ruvida e concreta, fondata invece su di un’espressione allegorica legata “al ritmo del tempo e della storicità” e intesa – in una prospettiva non  lontana da quella, ben nota, del Benjamin di Angelus Novus - quale strumento di una corrosione critica dell’esistente4.

Sul piano metodologico, poi, testi come i Drami sollecitano, da parte del critico, un approccio che sappia conciliare, e non opporre, un’attitudine “simbolica”, che procede per “analogie” e per “allusioni”, ad una “allegorica”, che evidenzi i molteplici e dialettici rapporti tra immanenza testuale e contesto storico e semantico5. Alla severa sistematizzazione di un Todorov sarà forse da preferire, o almeno da affiancare, l’approccio “impressionistico” di un Caillois, che, facendo interagire fecondamente e rapportando l’uno all’altra  linguaggio figurativo ed espressione letteraria, annovera tanto il  simbolo  quanto l’allegoria fra le possibili forme attraverso cui gli universi del fantastico possono variamente manifestarsi: il vero “metodo” dell’interprete sarà come “la visione di un enigma riflesso in uno specchio”, e lo condurrà ad addentrarsi in un “labirinto di allegorie”, rincorrendo immagini “infinite”, “analogiche”, a volte “anagogiche”6.

Nell’arte simbolista – scriveva Jean Moréas nel “manifesto” apparso su Le Figaro nel settembre del 1886 – le azioni e i fenomeni non appaiono di per se stessi in quanto tali; essi non sono che “apparences sensibles destinées à représenter  leurs affinités ésotériques avec des Idées primordiales”. Sono, forse, proprio queste “affinità esoteriche” – affinità, si direbbe, quasi in senso magico e alchemico -, evocate per mezzo di uno stile “archétype et complexe”, a rendere la dimensione letteraria e, più in generale, la temperie culturale del simbolismo particolarmente vicine ad una sensibilità e ad una Weltanschauung ascrivibili al cosiddetto fantastico.

In una lettera a Carlo Linati dell’8 aprile del 1908, Gian Pietro Lucini accostava la propria opera alla “flora lombarda che ha le radici in Manzoni e che s’innalza nazionalmente verso Edgardo Poe”7. Con queste parole lo scrittore riconduceva esplicitamente la propria esperienza ad una costellazione di modelli che fondeva la tradizione lombarda – in particolare dossiana e scapigliata, ma anche illuministica – con l’esempio offerto da quello che fu uno dei maestri della modernità letteraria e il caposcuola di tutta una illustre genia di poeti-critici.

Ora, è proprio in alcuni racconti di Poe che, almeno stando alle indicazioni del già citato e ormai classico studio di Todorov, il fantastico e l’allegorico interagiscono sottilmente, in quel limbo d’indecisione e di oscillazione tra reale e irreale, concreto e simbolico, in cui risiede l’essenza stessa del fantastico; ed è la stessa atmosfera “sublunare”, rarefatta e diafana, di testi come Ligeia che ritroviamo, come si avrà modo di vedere tra breve,  nei Drami.

Vero è che, con una rigidità classificatoria che può finanche apparire eccessiva, Todorov colloca, in linea generale, l’allegoria al di fuori del dominio del fantastico, a causa della mera funzionalità didascalica o illustrativa che rivestirebbe in essa il senso letterale, centrale, invece, e tale da non rinviare a null’altro che a se stesso, nel fantastico vero e proprio8. Nondimeno, un racconto come William Wilson sembra conciliare in qualche modo, anche nella prospettiva di Todorov, il letterale e l’allegorico, realizzando quell’”esitazione del lettore” che contraddistingue, a livello ricettivo, la fruizione del fantastico letterario9.

E può tornare utile, a questo riguardo, richiamarsi  alle concezioni di Paul de Man,  che insiste sull’impossibilità di distinguere, almeno su basi prettamente linguistiche, il significato letterale di un testo da quello figurato (tanto che si è potuto parlare, a proposito delle sue concezioni semiologiche,  di “undecidability”); e proprio nell’allegoresi luciniana  - peraltro più in quella delle Revolverate, cariche di tensione deformante e parodica, che in quella più sospesa e rarefatta dei Drami – è dato riscontrare quel valore critico che de Man riconosce all’allegoria, intesa quale strumento utile a smascherare gli infingimenti e gli inganni linguistici propri di quelle che l’ideologia dominante spaccia ed impone come veritiere rappresentazioni del reale10.

Inoltre, il Poe dei racconti fantastici può offrire a Lucini anche un esempio di possibile fusione tra  l’esplorazione dell’ignoto e dell’incubo, cui sono improntate tante sue cupe pagine, e la severa coscienza critica palesata in scritti come la Filosofia della composizione, e che larga risonanza avrà proprio nel grande simbolismo europeo, dal Baudelaire di La genèse d’un poème fino a Mallarmé. Come osserva Piero Pieri, un autore, anche quando la sua parola si addentra nelle nebbiose terre del sovrumano e del numinoso, è “sempre criticamente consapevole delle sue operazioni letterarie”11. È proprio in quest’ottica che – pur se con riferimento a Palazzeschi – entra in gioco il simbolo come prezioso oggetto di lucida coscienza critica. “Comunicare l’oscurità è possibile solo se su di essa si fa luce attraverso le proprietà del genere, lo stile del modo e il nutrimento dei simboli”12. In altre  parole, come scriveva il giovane Proust delle Journées de lecture, il poeta deve attraversare la notte come l’Angelo delle Tenebre, cioè recandovi la luce.

Venendo ai testi luciniani, pare opportuno soffermarsi, in primo luogo, sul Monologo di Rosaura  e sul corrispettivo Monologo di Florindo, che, pubblicati dapprima nel 1898 presso la Tipografia degli Esercenti, erano destinati a confluire nei Drami delle maschere, editi nella loro interezza solo postumamente, a cura di Viazzi, nel volume citato.

Rosaura snoda il suo tenue discorso nell’”indefinibile momento della notte che sta per cominciare”; dopo che “la sera è morta senza una promessa, / chiusa sacerdotessa del mistero”, ella insegue “giliate apparenze incantate” (e queste “giliate apparenze” possono altresì richiamare alcuni di quegli archetipi simbolisti su cui tornerò fra breve, come i “gigli spiritali” della Ballata quarta dell’Isotteo, o il “fascio di gigli”, “puro emblema”, della Chimera, o, ancora, l’impressionistica “blancheur sanglotante des lys” di cui parla la poesia di Mallarmé Les fleurs).

E quell’”indefinibile momento” rinvia, a sua volta, a certi passi di Poe: basti pensare a William Wilson,  proprio uno dei racconti analizzati da Todorov, il cui io narrante sospetta di aver vissuto  la vicenda in sogno, perso nell’”orrore” e nel “mistero” di una “visione sublunare”. E molto prossime allo spirito di Poe sono anche una sorta di oscillazione, di indecisione tra la vita e la morte, e una certa fascinazione, sottilmente venata di necrofilia, della bellezza pallida, diafana, estenuata, quasi incorporea e disincarnata, che potrebbero far pensare alla “carne senza carne”, alla “sensualità rapita fuor de’ sensi” dell’ultimo D’Annunzio. Florindo avverte “sete di bianche verginità insapore”, “nausea di carni”, “fastidio di luce”, “bisogno di tenebre”, “bisogno di morte”; e il monologo si chiude con una allocuzione a Rosaura, che sugge all’amato “tutta la vita”, e con una didascalia che, con l’enigmatico spegnersi di una lampada, lascia in forse e in dubbio la stessa morte di Florindo.

Questa ambigua bellezza ferale e cadaverica, e soprattutto questa sorta di vincolo amoroso che continua a congiungere vivi e defunti, si incontravano, oltre che in esemplari decadenti quali il Pascoli dei Conviviali (ho in mente soprattutto I Gemelli e i Poemi di Ate) o il Pater di Marius the Epicurean (penso soprattutto alla parte quarta, in cui è narrato il cammino, costellato di sepolcri e di supplizi, animato dall’assidua memoria delle vite ormai spente, che conduce Mario verso il cristianesimo), proprio in Poe: la voce di Lady Ligeia – cito dalla traduzione data da Baudelaire nelle Histoires extraordinaires – è “”une mélodie plus que mortelle”, che veicola “des présomptions et des aspirations que la mortalité n’avait pas connues auparavant” (e si noti che anche in Morella si parla della “musica” insita nella voce della fanciulla, in cui si mischiano “gioia” ed “orrore”).

Si potrebbe forse dire che, come l’Erodiade di Mallarmé, oscillante tra la consistenza di una persona e l’ombra di un’illusione, trincerata nella sua algida purezza, nella sua impassibile bellezza che è simile alla morte, intenta a “sfogliare i pallidi gigli” che nutre dentro di sé, anche la Rosaura amata da Florindo rappresenta una sorta di gelida personificazione dell’arte, e, dunque, la tentazione di negare e rifuggire la vita, con le sue pulsioni e la sua carnalità. Anche in un altro luogo dei Drami prende corpo l’ipotiposi di questa sorta di Venere celeste, la cui “carne” è, misticamente, “uno spirito ingemmato / di sublimi colori”, che aleggia avvolto, dantescamente, da una “musica sacra”  che risuona “di tra i cori dell’enti sibillini”.

Questi richiami confermano tra l’altro che, come osserva Michel Foucault, “l’immaginario (…) si stende tra i segni, da libro a libro. (…) È un fenomeno da biblioteca”. Di conseguenza, nella modernità, “questo luogo di fantasmi non è più la notte, il sonno della ragione, il vuoto incerto spalancato davanti al desiderio”, ma al contrario “la veglia”, la lucida dimensione dell’autocoscienza storica e letteraria13.

Ora, nella strategia con cui Lucini articola la propria visione del fantastico sembrano rivestire un ruolo preponderante, tra gli archetipi simbolisti, quelli rappresentati dalle Fêtes galantes di Verlaine e dalle Complaintes di Laforgue, in particolare la Complainte de cette bonne lune; e basterà confrontare, per averne conferma, la poesia di Laforgue Clair de lune, ove le maschere, sospese tra realtà e simbolo, rappresentazione ed illusione, fondono la loro canzone “au clair de lune, / au calme clair de lune triste et beau” (anadiplosi, quest’ultima, che sembra già far presagire movenze pascoliane),  con l’atmosfera oscillante, rarefatta, “sublunare”, dei Drami. Tanto Rosaura e Florindo, infatti, quanto i personaggi di Verlaine sono “eternamente sospesi tra la consapevolezza (…) e la passiva accettazione delle regole della brigata eterogenea (‘e noi non amiamo questo gioco d’inganno’)”; ma si tratta, nondimeno, di una poesia che “non riduce in  margini esigui o elusivi il suo confronto con il reale”, anzi rende tale confronto “più drammatico ed insistente”14. Come ha scritto benissimo Alberto Bertoni, attraverso la forma del  “dramma”, “ridotto all’ontologia ‘monologica’ d’una esistenza che si verifica soltanto come scrittura”, Lucini “sublima  (…) la dialettica dell’accaduto in una dimensione di atemporalità esemplare e didascalicamente rivoluzionaria”15.

In Lucini – come accade, in modi diversi, anche in un Pirandello, un Nietzsche, un Yeats – il simbolo della “maschera” rappresenta da un lato lo smalto, la simulazione, l’ornamento lieve ed aggraziato, dall’altro la finzione, l’artificio, la convenzione sociale e culturale che si tratta di corrodere e di sottoporre a critica. Come è stato osservato, nell’immaginario decadente la maschera e la marionetta, in antitesi rispetto alla concretezza ruvida e corposa del “personaggio” naturalista, evocano un’aura di incorporea stilizzazione, di decorativismo puro e rarefatto; e non è casuale che, come il Lucini dei Drami, così anche due figure come Kahn e Yeats – tanto diverse, ma entrambe partecipi del clima simbolista -  siano sedotte dalle maschere, gaiamente stilizzate, della Commedia dell’Arte16.

E sarà da sottolineare, per quanto attiene a questo influsso incrociato di Verlaine e Laforgue (con più specifico riferimento, peraltro, all’Intermezzo dell’Arlecchinata), la probabile mediazione culturale di Vittorio Pica, figura di traduttore e divulgatore che incise in una qualche misura, negli anni napoletani, anche su D’Annunzio17. Nel Verso libero, Lucini ricorda la figura di Pica, negando però quel diretto influsso di Laforgue che era stato ipotizzato dal critico napoletano, e riconducendo piuttosto le consonanze fra la propria opera e il poeta delle Complaintes ad una comune temperie culturale, ad un “contagio” che “era nell’aria”18. Quanto, del resto, Lucini fosse consapevole della profonda consonanza  tra le posizioni di Pica e la poetica dell’estetismo europeo, è confermato da ciò che l’autore scriveva a Felice Cameroni in una lettera del 29 febbraio 1898, in cui si sottolineava come il tempestivo e compartecipe divulgatore di All’avanguardia e di Arte aristocratica fosse fautore di una sorta di wildiano “edonismo” estetico19.

Sempre restando nell’àmbito dei richiami intertestuali e interdiscorsivi, è interessante segnalare, nei Drami, gli espliciti riferimenti ad Ibsen e a Maeterlinck, maestri del teatro simbolista europeo. Proprio in Quando noi morti ci destiamo (peraltro posteriore alle citate edizioni dei Monologhi) del primo e in pièces come Pelléas et Mélisande o L’Intruse del secondo è dato ravvisare alcune delle componenti essenziali del fantastico: l’oscillazione irrisolta tra reale ed irreale, l’”esitazione” tra il contesto materiale e il sovrasenso simbolico. Ad esempio in Quando noi morti ci destiamo (tra l’altro avvicinabile, per l’idea della donna come “instrumento dell’arte”, al Fuoco dannunziano, dello stesso 1900)  l’esitazione è tra esistenza  e forma, esperienza e stilizzazione artistica, vita e morte. In Lucini, peraltro, le “Maschere di Ibsen” vedono “il mar libero e infinito / molto più in là dei fjords”, hanno la “nostalgia della divina libertà del mare”. Proprio il richiamo alla simbologia del fiordo suggerisce altri possibili raffronti con drammi ibseniani, stavolta anteriori all’edizione dei Monologhi. Ad esempio, nell’atto III di Hedda Gabler l’acqua gelida e il vento del fiordo dove  Lövborg asserisce di aver gettato il manoscritto dell’opera in cui ha trasfuso, insieme al proprio genio, l’amore e la stessa identità profonda di Thea Elvsted rappresentano forse la vasta e lucente purezza della natura, che sopravanza ed annienta i sofismi oziosi e i velleitari disegni dell’ingegno umano. Nell’atto IV di John Gabriel Borkman, poi, il “fumo delle navi laggiù nel fiordo”, le “catene di montagne, laggiù, lontano”, “che digradano in cerchio e si sovrappongono” (e si noti, qui, anche il modo in cui, nel teatro simbolista, la parola riesce, con il suo valore evocativo, a suggerire e dipingere spazi e visioni che travalicano largamente le pareti e i fondali della scena), fanno da corona al “tenebroso regno di ghiaccio”, “grande, immenso, inesauribile”, alla “corte di potenza e di splendore” cui il protagonista ha immolato la “vita d’amore” di Ella Rentheim.  E si può concludere questa breve rassegna di riferimenti ibseniani con La donna del mare, dramma tutto attraversato dalla dialettica   - in parte antitetica rispetto alle valenze simboliche ravvisate in Hedda Gabler - tra lo spazio angusto e soffocante del fiordo e le vaste distese del mare, mobile simbolo dell’”infinito”, dello “sconfinato”, dell’”irraggiungibile”, a cui infine l’eroina spontaneamente rinuncia, legata com’è alla sua natura, ormai acquisita ed interiorizzata, di creatura terrestre. Del resto, che Lucini vedesse nel drammaturgo norvegese un autore per certi versi a lui affine è comprovato da ciò che ne scriveva  introducendo l’edizione italiana dei Poemetti e liriche, pubblicati da Carabba nel 1914: “sotto le larve dei suoi personaggi” era dato scorgere “individualità simboliche” (e lo stesso Ibsen, nella prima poesia del volume, Un’epistola, scriveva che, nelle parole di un poeta, “ogni frase è simbolo ed immagine”); nella sua opera, in accordo con la poetica simbolista dell’analogia, della corrispondenza, della suggestione, “fumi e profumi e parole” erano adibiti a “conchiudere un’anima di pensiero vagante, un’armonia profonda e non del tutto afferrabile”; un’arte, quella di Ibsen (ed è ciò che forse più importa nell’economia della presente indagine), improntata a “modi  di coscienza critica” ora  “persuasa”, ora “dubitosa”. 

Analogamente le “Maschere di Maeterlinck”, “cieche e sorde” (e come non ricordare, qui, il capitolo sul silenzio nel Trésor des humbles, o certe scene de L’Intruse, come sospese in una silenziosa attesa),  inseguono il “sogno” e l’”invisibile”; e si può citare, per rendere il discorso meno vago, il “rayon de lune” che, accompagnando il sopraggiungere  dell’Intrusa, cioè della Morte giunta a ghermire la Madre, “pénètre par un coin des vitraux et répond, ça et là, quelques lueurs étranges”, o i surreali chiaroscuri, sospesi tra il chiaro di luna e la “meravigliosa tenebra”, che in Pelléas et Mélisande (atto III, scena IV) contornano la fantastica epifania di Melisenda, “così bella che pare stia per morire”. Lucini, nel passo citato in esergo, si spaventa delle “significazioni” che queste maschere portano con sé, e che producono in terra “l’Inferno e il Paradiso” (ed è scontato, a questo punto, il rinvio all’indistinzione decadente di “Enfer” e “Ciel”). E questo impiego del simbolo della maschera al fine di fissare e sintetizzare in modo emblematico una concezione estetica o un credo letterario trova preciso riscontro in uno dei testi chiave della teoresi simbolista, vale a dire Le Livre des Masques di Remy de Gourmont, che di Lucini fu, tra l’altro, estimatore e corrispondente20. L’idea di una scrittura critica intesa come come galleria di “portraits” si lega strettamente alla concezione di un’arte simbolica che, come leggiamo nell’introduzione del Livre,  sottrae gli uomini all’opaca caducità della materia, “en leur donnant, en échange de leur pauvre âme malade, le trésor d’une immortelle idée”. 

Si è accennato alla componente di autocoscienza letteraria che configurano i richiami intertestuali e i risvolti metapoetici finora evidenziati. “Molte volte” – scriveva Lucini  in quella sorta di autobiografia  intellettuale o di prezioso referto di autocoscienza letteraria e filosofica che è la Gnosi del Melibeo, edita postuma, nel 1930, per le cure di Terenzio Grandi – “mi sorprendo nell’attitudine mentale di volermi spiegare  il senso, direi istintivo, della mia precarietà”21. Lucini, del resto, come egli stesso afferma (non lontanissimo, in questo, dall’ultimo D’Annunzio, intento a scrivere “di sé a se stesso” e “a chiarezza di sé”) nel Commiato del Gian Pietro da Core, il romanzo rampollato dal germe della novella Spirito ribelle, “ama parlare con se stesso su quanto ha fatto e sognare, per sé, su quanto farà”, e “vedersi netta e distinta davanti la sostanza ed il perché dell’opera sua”22.

Si potrebbe dire, riprendendo alcune note pagine del saggio pirandelliano  sull’Umorismo, che la maschera ha, in Lucini, una funzione di “forma del sentimento”, che razionalizza e domina il “libero movimento della vita interiore” (e non sarà casuale che, nelle pagine finali del Verso libero, nell’estensivo ed eclettico canone dei “simbolisti” che hanno contribuito al rinnovamento della letteratura, figuri, collocato quasi emblematicamente tra Govoni e Pica, proprio Pirandello). “Sempre restiamo immote, atti enigmatici”, cantano le maschere, “segni della vicenda imperatrice”, “muti nella coscienza, orba vigilatrice”. Non siamo lontani, mi pare, dalla prospettiva di un Focillon, di un Lukács, di un Simmel,  intenti, nello stesso giro di anni, ad indagare proprio il dialettico rapporto intercorrente tra il fluire incessante della vita e le sue fisse e statiche manifestazioni e formalizzazioni esteriori. Può valere, al riguardo, ciò che scriveva Lukács circa il fatto che “la vita è per il poeta soltanto materia grezza”, a cui “solo la naturale potenza delle sue mani può dare forma”, cioè “limite e significato”, ricavando “simboli” da evanescenti “apparenze incorporee”23.

Ci si può accostare, ora, al Viatico che accompagna i Drami. “Io” – scrive Lucini – “ho domandato al Libro” – assolutizzato ed ipostatizzato in un modo che ricorda Mallarmé – “di rivelarmi e quasi di concretare per me i movimenti che avrei desiderato di fare. (…) Così io vidi attraverso il cristallo dei miei concetti” (e abbiamo già visto come Lucini meditasse sulle proprie allegorie “trasparenti” e “limpidissime come il cristallo”, avvicinabili in certo modo al “lago ghiacciato”, al “lac dur oublié”, emblema di uno sforzo di autocoscienza critica tanto strenuo e spasmodico da paralizzare la creazione, in cui è rimasto imprigionato il Cigno di Mallarmé).

E con una movenza che rinvia in generale al topos decadente del ritratto, e in particolare, forse, al Ritratto ovale di Poe, allegoria (o simbolo?) dell’arte che sugge alla vita linfa e respiro, Lucini afferma di avere ricavato “la Maschera e il Drama” dal “ritratto sconosciuto di una giovanetta morta cent’anni fa” (e come non ricordare, qui, anche le dagherrotipìe e le stampe di quel Gozzano con cui Lucini intrattenne un breve scambio epistolare24.

Maschera, in definitiva, come simbolo che rinvia, sostanzialmente, a se stesso, al cerchio chiuso e fatato di una sempiterna letterarietà – ma che, nel contempo, sembra alludere dialetticamente, per sineddoche o preterizione, per rispecchiamento o negazione, a ciò che è esterno. E maschera, anche, come “lucido cristallo” dell’autocoscienza letteraria, che fin nella notte profonda del fantastico seguita ad affondare la sua lama di luce.

Come scriverà Calvino nelle fondamentali pagine teoriche di Cibernetica e fantasmi, dal “mare del non dicibile” emergono a tratti “simboli rubati”. È la letteratura a “riscattarli”, “annettendoli al linguaggio della veglia”. 


                                                                                                                             Matteo Veronesi


1 G. VIAZZI, Introduzione a G. P. LUCINI, I Drami delle maschere,  Guanda, Parma 1973, p. XVI. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni contenute in questo studio.

2 E. FISER, Le symbole littéraire, Corti, Paris s. a., soprattutto le pp. 69 sgg. Al concetto di “simbolo” nelle teorizzazioni simboliste non dedicano che un breve accenno sia U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, sia T. TODOROV, Teorie del simbolo, a cura di C. De Vecchi, Garzanti, Milano 1991, sia - tra i molti altri - E. FRANZINI - M. MAZZOCUT-MIS, Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, Bruno Mondadori, Milano 1996. 

3 Si può vedere, per l’indole “orizzontale” e polisemica del simbolismo moderno, U. ECO, L’Epistola XIII,  l’allegorismo medievale, il simbolismo moderno, in ID., Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985, pp. 215 sgg.

4 R. LUPERINI, L’allegoria del moderno,  Editori Riuniti, Roma 1990, p. 281 sgg.

5  Si veda, per una distinzione di queste due modalità di analisi,  ibidem, p. 58.  “La critica simbolica” – scrive Luperini -  “procede per allusioni, rifugge dalle argomentazioni, vuole essere istantanea; predilige la nota in margine al testo, in un rapporto di analogia con esso, che si spinge sino alla sua ripetizione e mimesi”; l’allegoria, al contrario, e con essa la critica allegorica, “non presuppongono alcuna originaria affinità metafisica, quale postula invece il simbolo, ma piuttosto una coordinazione istituita mediante una convenzione e dunque una verità relativa, storicamente e socialmente determinata”.

6 R. CAILLOIS, Nel cuore del fantastico,  Feltrinelli, Milano 1984, pp. 99 sgg.

7 La lettera in questione fu pubblicata da Giancarlo Vigorelli in Ritratto di Gian Pietro Lucini, in “Primato”, III (1942), n. 4, p. 84.

8 Vedi T. TODOROV, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 2000, p. 63 (peraltro ogni forma di poesia, per il suo carattere incentrato più sull’elaborazione formale e sulla cifra stilistica che  sul significato letterale e fattuale, viene dal semiologo esclusa dalle regioni, invero ben altrimenti vaste e sfaccettate, del fantastico).

9 Ibidem, p. 76.

10 Il rinvio è, ovviamente, a P. DE MAN, Allegories of reading,  Yale University Press, New York 1979.

11 P. PIERI, Il simbolico nel fantastico, in P. PIERI, L. WEBER, S. BELLOTTO, Il fantastico tra simbolismo e avanguardia, dispense per l’anno accademico 2002-2003, Università degli Studi di Bologna,  p. 33 (ora in questo numero di Poetiche). 

12 Ibidem, p. 15

13 M. FOUCAULT, Un “fantastico” da biblioteca, in ID., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971,  pp. 137-138.

14 R. MINORE, nota alle Fêtes galantes, in P. VERLAINE, Poesie, Newton Compton, Roma 1989, pp. 86-87.

15 A. BERTONI, Lucini e l’anomalia del romanzo, in “Lingua e stile”, XVI (1981), n. 1,  pp. 35-61.

16 Si può vedere, al riguardo, R. TESSARI, La Maschera, lo Scheletro, la Luna. Cenni sulla valenza della maschera nella teatrologia simbolista, in  Miti e figure dell’immaginario simbolista, a cura di S. Sinisi, Costa e Nolan, Genova 1992, pp. 183 sgg.

17 Per quanto concerne Pica, non è opportuno, a mio avviso, modificare il giudizio, equilibratamente riduttivo, che ne dà Luigi De Nardis nelle pagine a lui dedicate in ID., L’usignolo e il fantasma.. Saggi francesi sulla civiltà letteraria dell’Ottocento, Cisalpino, Milano 1970.  Da segnalare il recentissimo N. D’ANTUONO, Vittorio Pica. Un visionario tra Napoli e l’Europa, Carocci, Roma 2002, che documenta con  scrupolo e acutezza  ammirevoli  il respiro europeo della formazione dell’autore e i complessi risvolti psicologici sottesi alla sua opera. Per i rapporti con D’Annunzio, si può vedere M. BOLLINA, Un lettore d’eccezione (Vittorio Pica e Gabriele D’Annunzio), in “Il Verri”, settima serie, n. 7-8,  pp. 151-167. 

18 G. P. LUCINI, Il Verso libero,  Argalia, Urbino 1971, p. 93.

19 La lettera si trova in G. P. LUCINI, Prose e  canzoni amare, cit., pp. 436-437.

20 Ibidem, p. 440.

21 Il passo è riportato, come esempio della percezione e della rappresentazione dell’io nell’immaginario della décadence, da Viazzi nella citata introduzione ai Drami, p. XV e n. 26.

22 Cito da Narratori settentrionali dell’Ottocento, UTET, Torino 1974, p. 1057.

23 G. LUKÁCS, L’anima e le forme, SE, Firenze 1991, p. 71. 

24 La relativa documentazione in G. GOZZANO, Poesie e prose, a cura di A. De Marchi, Garzanti, Milano 1961 (in particolare la lettera numerata come 47).