Corazzini e il male della poesia

(«Atelier», IX, n. 34, giugno 2004, pp. 23-28)

Mi sia concesso, in apertura di questo breve intervento, di derogare per un attimo alla prassi di 'oggettività' e di 'scientificità' che di norma contraddistingue l'esercizio critico - a quelli che negli anni Settanta furono definiti, in modo un po' asettico, «protocolli sperimentali della critica». D'altra parte, come diceva Baudelaire, la critica più «giusta» è proprio quella «parziale» ed «appassionata», e che tale si dichiara apertamente fin dall'inizio, e non si è meno uomini per il fatto di essere critici.

Scrivere finalmente qualcosa su Corazzini equivale, per me, ad assolvere - per citare Renato Serra - un «debito non pagato» e a fare, in pari tempo, «i conti con me stesso». Il lirico apparentemente esile e fragile, e in realtà pervaso da una segreta forza e da una celata profondità, di Piccolo libro inutile fu (accanto a Gozzano e a Montale, a lui accomunati, del resto, da quella «poesia degli oggetti» di cui la critica, da Anceschi a Bonfiglioli, ha esplorato origini e ramificazioni - oggetti còlti apparentemente nella loro deserta nudità, nella loro matericità scabra e desolata, e in realtà avvolti in una luce ambivalente, tacitamente proiettati verso valenze simboliche, e quasi metafisiche, non esplicitamente enunciate, e perciò colme di potenzialità e di fermenti interpretativi) uno dei non molti poeti che, per citare Sereni, «mi appassionarono alla vita», che lessi e rilessi, come rapito, negli anni della mia adolescenza grigia e pensosa. A condurmi a lui - giacché, dice ancora il geniale saggista dei Salons e dell'Art romantique, «la passione avvicina i temperamenti analoghi» - fu, con tutta probabilità, il sentimento della malattia - l'adolescenza stessa è, in fondo, con le sue ansie, le sue esitazioni, i suoi tremori, i suoi tedi, una necessaria e vitale malattia dell'anima. Questo stato interiore si proiettava e si rifletteva all'esterno, sui luoghi, sulle visioni e gli scorci (il paesaggio, come diceva Amiel, e come ripetevano D'Annunzio e Pavese, «est un état d'âme»). I luoghi poetici - ben noti - della sensibilità crepuscolare (le vie deserte e gelide, debolmente illuminate da una luna pallida o da qualche fievole lucerna, i conventi pieni d'ombra e solitudine, gli ospedali con il loro odore greve e le loro tenebre intrise di silenzio, le chiese vuote abitate dal vento, le vecchie case dalle facciate stinte e dai muri lebbrosi) si riflettevano, sotto il mio sguardo schiarito, o velato, dalle mie letture voraci e avventurose, negli scenari e nelle visioni della pianura placida e nebbiosa, della provincia lenta, quieta, avvolta nel suo dolce tedio e nel suo perpetuo indugio, che nemmeno gli entusiasmi e le frenesie degli anni Ottanta erano riusciti a scuotere e sovvertire alla radice (si potrebbe forse, del resto, in sede di geografia letteraria, scrivere la storia di un «crepuscolarismo padano-veneto», da Govoni a certo Moretti a certi esiti del primo Fiumi, per toccare magari anche il sorprendente De Pisis poeta dei Canti della Croara; ma di ciò altra volta).

Mi sia ora consentito, sempre violando i protocolli, di avvicinarmi al nucleo essenziale del mio discorso facendo riferimento ad alcuni miei versi adolescenziali - del resto, insegnavano Novalis e Schlegel che «la poesia non può essere criticata che dalla poesia», e che il vero giudizio sull'arte dev'essere «esso stesso un'opera d'arte». «Ma per un pianto accosto / l'anima spenta al cuore / testardo, che ancor vive, / lo schermo trema, e i fragili / occhi si rompono». C'era, in questi versi, forse inconsapevole, forse affondata nell'abisso delle letture che si depositano e si stratificano nell'insensibile progredire dei giorni, la reminiscenza della poesia di Corazzini Dolore, una collana di sonetti 'minori', cioè in settenari, esile ma fulgida come la «crocetta d'oro» che si apre, misterioso «tenue lavoro», sul cuore del poeta: «Vedi, la mia / anima è nel mio cuore, / il cuore è nella mia / anima, e se dolore / l'anima un poco sente, / soffre un poco anche il cuore, / bimbo, quietamente» (versi di cui, come suggeriva già Jacomuzzi, si ricorderà forse, pur se in un tono diverso, amaramente ironico, e quasi beffardo, il Gozzano dei Colloqui, che apostrofa, forse riprendendo e abbassando ironicamente un modulo stilistico della tradizione epica, il proprio cuore «monello giocondo / che ride pur anco nel pianto»). Questa dialettica, questo silenzioso dialogo - quasi una moderna e raddolcita psicomachia, "una piccola e iterata sacra rappresentazione dell'anima", come ha scritto benissimo il Mengaldo -, tutto in interiore homine, che intercorre fra thymos e psyche, fra la forza passionale e affettiva che tiene ostinatamente e quasi ingenuamente attaccato alla vita il «cuore fanciullo» e la tensione intellettuale e spirituale che ne scruta e ne vigila i moti e li trasfigura in espressione poetica, è un aspetto essenziale della malattia (intesa non solo o non tanto come ben noto elemento biografico, ma anche come stato interiore, come etimo spirituale, addirittura come vera e propria lettura del reale e dell'umano) che costituisce il nucleo centrale, a livello tematico e forse, come si vedrà, anche espressivo - quasi crociano «sentimento fondamentale» -, della poesia dell'autore. Del resto, in Corazzini, come in Gozzano, è ancora stretto il nesso fra letteratura e vita, assunta, quest'ultima, quasi a materia e alimento, se non pretesto, dell'altra. E si può citare, al riguardo, senza uscire dalla stilizzazione metapoetica del cuore - che può rammentare, sia detto per inciso, l'icona rimbaudiana del «coeur supplicié», del «coeur triste ravalé» a cui si riferiva uno sconvolgente rondel già incluso da Verlaine nei Poètes maudits, o addirittura, prima ancora, la visione onirica, a tutt'oggi in parte involta nel suo impenetrabile enigma, del cuore ardente nel terzo capitolo della Vita nova -, un altro testo della raccolta d'esordio, in cui il cuore appare come una «macchia di sangue» in cui il poeta intinge la sua penna, «eternamente mossa» alle «dolci prove» del poetare. E la fine della poesia, accesa e nutrita dalla malattia fisica ed esistenziale (una malattia che, dirà Svevo, è in fondo la dimensione e la condizione stessa dell'esistenza, della sensibilità e del pensiero), verrà a coincidere con la morte, con lo «schianto stridente» che spezzerà il calamo del poeta e infrangerà la delicata e ricca rete di legami che associa e mette in reciproca comunicazione lo spazio della vita (e della malattia) con quello della scrittura - spazi che si nutrono vicendevolmente e si sovrappongono secondo modalità dinamiche e mutevoli, ma che non possono sussistere l'uno senza l'altro. Siamo alle radici novecentesche di quella che vari studiosi, da Tedesco a Petrucciani, hanno definito come «lirica esistenziale»: poesia calata nella vita, nell'esperienza, nel dolore; versi incisi o scavati nella viva carne, nel vissuto fatto materia e sostanza di scrittura. «Io sono, veramente, malato! / E muoio, un poco, ogni giorno». Versi celebri, in cui la rivisitazione, in chiave dolorosamente intimista, del motivo stoico e senecano del «cotidie morimur» (ma il benemerito Filippo Donini richiamava il lamento di Simonetto nell'atto quarto della dannunziana Fiaccola sotto il moggio, a riprova di quanto siano fittizi certi schemi storiografici che postulano una recisa antitesi fra estetismo e «poesia delle cose», sublime d'en haut e sublime d'en bas, preziosismo ed humilitas, che sono, a ben vedere, le due manifestazioni, certo distinte, ma non inconciliabili, di un medesimo sostrato decadente) si sposa al tema della malattia intesa come fulcro emozionale, e condizione stessa, della poesia, oltre che come nodo essenziale della stessa sofferta esperienza biografica che trasuda dallo struggente, e ancora in massima parte disperso, epistolario. E si veda, sempre per la simbologia del cuore, e ancora nella raccolta d'esordio Dolcezze, la poesia Asfodeli, in cui l'offerta sacrificale del cuore si confonde con quella dei «versi / di fanciullo poeta», e da ogni goccia di sangue sgorgata da quel cuore spunta un asfodelo, «triste giglio del cielo / da l'eterno ammonimento» - fiore che già appariva in Alcyone, cupo simbolo della morte e del disfacimento incombenti sulla luminosa estate della vitalità e del piacere.

Anche questo connubio di vita e letteratura, così come quello di malattia e poesia, aveva radici decadenti. Baudelaire, cantore, nelle Fleurs du Mal, della Muse malade, negli scritti critici parlava (in pagine di cui si sarebbe forse ricordato il D'Annunzio del Piacere) della convalescenza come stato di sospensione e fermento spirituale in cui l'uomo «voit tout en nouveauté», con sguardo traslucido e puro (e proprio un oscuro fratello di Corazzini nella poesia e nel dolore, Yosto Randaccio, pubblicava nel 1909 i Canti della convalescenza, pervasi da quello stato in cui l'anima «è tutta sogno, tutta trasparenza», e il poeta canta «fresco come un rivo»). «Ogni malattia» - scrive D'Annunzio in Della malattia e dell'arte musica, una «favilla» del 1906 in cui è commemorato Giuseppe Giacosa - «è un problema musicale», è, accanto alla morte, una «musa bendata» che conduce a «scoprire in silenzio la spiritualità delle forme», che avvicina l'anima al limite estremo in cui i vincoli della carne si dissolvono e la voce e la melodia si protendono fino ai confini del nulla e della perpetua quiete. «Io mi comunico del silenzio (…) / E i sacerdoti del silenzio sono i romori»: straordinaria interiorizzazione e spiritualizzazione della «musique silencieuse» di Mallarmé e dei simbolisti. Dagli scapigliati (si pensi a Praga, al suo sentirsi uno dei «figli dei padri ammalati» che vegliano «l'agonia di un nume», al suo avvertire, prima di Gozzano, la «vergogna (…) d'esser poeta») fino a Svevo, alla sua «malattia» come «convinzione», alla sua condizione di «uomo abbozzo», quasi esibita e beffardamaente ostentata di contro all'apparente «salute» dei «lottatori» e dei «vincenti», al suo amore-odio per «quella dannosissima cosa che si chiama letteratura», per arrivare, lungo la scia di quella «condizione crepuscolare» e di quella «coscienza letteraria» di cui Natale Tedesco ha indagato, in studi forse non sufficientemente considerati e sfruttati, figure e sviluppi, al «male di vivere» montaliano, e forse anche alla luziana «vicissitudine sospesa» (peraltro pervasa, e come riscattata, dall'anelito a recidere «il duro filamento d'elegia», a rinnovare il discorso poetico fin dai suoi «fondamenti invisibili», mentre nell'ultimo Gozzano resta abortito e incompiuto il proposito, tra l'altro formulato con termini danteschi avvolti dall'alone dubitoso dell'ironia e dell'antifrasi, di «tornare poeta (…) con altra voce»), questa aegritudo pare rappresentare una delle note dominanti dello spirito moderno. Ma si potrebbe risalire à rebours fino alla aegritudo animi di Petrarca nel secondo dialogo del Secretum - una aegritudo a cui si frammischia «aliquid dulcoris», una sorta di dolcezza e di «atra voluptas», e che si traduce anch'essa in poesia, facendosi oggetto e materia dei «sospiri» effusi in «rime sparse» e in «vario stile» -, e prima ancora alla aegra mens, ai mala taedia, al flebile carmen degli elegiaci latini: ho in mente Tibullo, ad esempio la terza elegia del primo libro, in cui la malattia fisica e contingente, ma pregna di risonanze affettive, e la forzata lontananza si traducono nell'evocazione di uno spazio poetico impalpabile e assente, di un eliso fatto di dolci canti e di eteree armonie, insidiato e insieme blandito dallo spettro perenne della morte (e si può pensare, qui, a certi luoghi poetici e onirici corazziniani, dai «piccoli giardini addormentati» di uno dei primi sonetti alla «vigna d'oro» della Morte di Tantalo), o l'Ovidio estremo e dolente dei Tristia (basti rileggere la prima elegia del quarto libro, ove la pagina è «umida fletu», cosparsa di lacrime, e il sacro ufficio dell'arte, a cui il poeta non sa venir meno, ha l'esiziale dolcezza del fiore di loto). Anche Corazzini pubblicò, in un esile volumetto del 1906, un «frammento» di Elegia, i cui endecasillabi dimessi, discorsivi, spezzati, parrebbero quasi far presagire certe inflessioni e certe movenze dello Sbarbaro di Pianissimo, e in cui la vita si confonde con la «chiara morte» in cui l'immaginazione la proietta, e il discorso del poeta non si distingue più dalle «vecchie canzoni» di cui è «dolce non seguire il senso», dalle parole d'amore «tenere, bianche, senza senso quasi», simili a «piccoli dolci» insipidi e friabili.

E si è arrivati, per questa via, all'altro aspetto fondamentale di questa ipotesi interpretativa, vale a dire quello dei risvolti stilistici ed espressivi dell'aegritudo - quasi una sorta di «malattia del linguaggio», non però nel senso in cui Calvino parlava, stigmatizzando certi asettici e quasi inumani usi espressivi del giornalismo e della burocrazia, di «antilingua» e di «peste del linguaggio», ma piuttosto nel senso di una «canzone morta» (per citare Spleen, nelle Aureole), omologo italiano della chanson grise dei simbolisti, che, discostandosi dall'uso corrente e comune, e protendendosi verso un senso altro, o anche verso un'assenza di senso (la vecchia canzone «senza senso quasi»), rappresenta, in certo modo, l'altra faccia, non già sublime e tragica come il «Verbe» e il «Livre» di Mallarmé, ma ugualmente intensa e feconda, della «poésie pure» simbolista. E si possono citare, a riprova, versi celebri come quelli di Per organo di Barberia, che, se riletti in questa luce, acquisiscono nuove valenze e nuove sfumature. «Elemosina triste / di vecchie arie sperdute, / vanità di un'offerta / che nessuno raccoglie» (già, si noti, L'agnello, un testo corazziniano disperso pubblicato sul Capitan Fracassa del 13 dicembre 1902, parlava dell'estremo «pianto» della vittima sacrificale, «che nessuno raccoglie», e La filotea delle campane, nella govoniana Armonia in grigio et in silenzio, definisce il canto delle «campane argentine» di un «lontano convento» come «elemosina bianca / d'azimo su la stanca / anima piena di dolore»). La malattia - stato di sospensione e di perenne attesa, sorta di sfumatura indefinibile, di limbo interiore - si riflette anche sul linguaggio, sulla stessa tessitura stilistica di una poesia volutamente «inutile», dimessa, smorzata, che addirittura nega di essere tale, salvo poi affermare una propria paradossale poeticità grigia e tenue, antitetica a quella ufficiale e pubblicamente riconosciuta. Limitandosi a Per organo, il testo forse maggiormente caratterizzato in tal senso, la dizione poetica appare davvero, con il tenore indefinito e rarefatto di certe similitudini e metafore che pongono, secondo il verbo simbolista, «la musique avant toute chose» (« (…) e sono come uccelli / di un cielo musicale. / Ariette d'ospedale / che ci sembra domandino / un'eco in elemosina»), con la natura polivalente e quasi inafferrabile di certi referenti («singhiozzi quel tuo brindisi / folle di agonizzanti»), una sorta di anelito e di afflato scorporati, disincarnati, elevati al cielo, simili - per citare le importanti pagine di Solmi premesse alle Liriche ricciardiane del '59 e rifuse in Scrittori negli anni - ad un «musicale sospiro» senza domani, ad un «trasognato lamento» (e si noti, tornando al motivo del cuore, che, pur se in un diverso e più aspro registro, già l'«orgue de Barbarie» a cui Laforgue dedicava una delle Complaintes «vuotava il suo cuore» nel ferale silenzio di una «forêt d'automne, / quand le soleil en song sang s'abandonne»). Come scriveva Fausto Maria Martini nello struggente ricordo di Corazzini premesso, nel '21, alle postume Liriche, «la sua poesia non era se non l'ombra proiettata sul volto di giovinetto esangue dalla morte imminente». Questa coscienza poetica, questa consapevolezza letteraria della aegritudo, si manifesta in modo quasi più evidente nei crepuscolari minori. Proprio Martini, in Senza ragione……., nelle Poesie provinciali (quasi una riscrittura e un sottile abbassamento, in chiave crepuscolare, dell'ode foscoliana All'amica risanata), parla di una poesia come «tenera infermiera», come «dono di serenità» confezionato con l'«arte triste» della parola poetica. Giulio Gianelli, il cantore gracile ed effimero di Intimi vangeli, ritrae il «dolce infermo» che «agonizza» nella sua anima, facendo di quest'ultima un «limbo (…) lunge ai rumori», una sorta di smorto eden popolato dall'abbandono e dall'inazione. Anche in Moretti si avverte questa sorta di corrispondenza fra malattia esistenziale ed esercizio poetico, anzi, a voler essere più precisi, fra l'humor melancholicus di antichissima memoria e l'intento stesso, la stessa motivazione al poetare - quella che Dante, e D'Annunzio dopo di lui, chiamarono «voluntade di dire» -: basti confrontare, fin dagli incipit, La Malinconia, in Poesie scritte col lapis («Vorrei cantare tutte l'ore grigie / in questa solitudine remota………»), e Valigie, in Poesie di tutti i giorni («Voglio cantare tutte l'ore grigie / in questa solitudine pensosa»), ove il passaggio dal condizionale all'indicativo sembra accentuare questa voluntas dicendi (si veda, qui retoricamente abbassata di registro proprio dalla malattia crepuscolare, la risolutezza del Dante petroso: «Così nel mio parlar voglio esser aspro»).

Sarà la guerra, sotto le mentite e ingannevoli spoglie degli ideali di eroismo, rivalsa, palingenesi epocale dopo la fine della belle époque - il «colpo di tuono» che, nella Montagna incantata di Thomas Mann, scuote Hans Castorp dalla torpida voluttà di una malattia che è sospensione del tempo, distanza dal mondo, sogno consapevole di sé -, a spazzare via i dolci lamenti e il melodioso dolore della malattia crepuscolare, espressione estrema e marcata di quella aegritudo che è forse consustanziale all'uomo, parte essenziale del suo essere-nel-mondo, e da cui, forse, solo l'immenso ordigno di cui parlava Svevo, con tragica ironia, nella chiusa della Coscienza di Zeno potrà liberare il creato per sempre. Nino Oxilia, morto al fronte, nella raccolta Gli orti, edita postuma nel '18, saluta, «mentre rulla il tamburo», i poeti crepuscolari caduti «sul limitare del tempo», simili alla «nuvola che passa», e il cui nome - come suona, si noti, anche l'epigrafe del Keats al Cimitero degli Inglesi - «fu scritto sull'acqua», e preconizza - non lontano dal vero - un mondo in cui «le provincie diverranno un regno» governato non dagli «inutili re di cartapesta» di Dialoghi di Marionette, ma da forze ben più crudeli e più cieche. E Corazzini riappare (che altro è, in fondo, la poesia, se non un solare rito negromantico, una via di parole e di luce che ci mette in comunicazione con i morti, se non, come dice Sereni, un «perpetuo vivere nei morti») nei versi di Aegri somnia (ancora la poesia come malattia e come sogno), una lirica di Enzo Marcellusi confluita in Intensità. Gozzano e Corazzini vegliano una morta «bella d'una bellezza senza esempio» - della stessa «Bellezza della morte», «angela degli avelli», che aveva invocato il Gianelli. «Al canto dei convalescenti, / il suo corpo vapora con l'incenso». Simile la sorte della poesia, che, come la malattia e come la vita, dilegua con la morte, e svapora in essenza impalpabile - in «molteplici cerchi di fumo, / aboliti in altri cerchi», dice Mallarmé.

Ora, mentre scrivo, la neve è scesa ad avvolgere, con il suo silenzio gelido e puro, la quiete della domenica mattina: quiete calata sulla quiete, silenzio sul silenzio. Sento intorno a me (mi induce a sentirla la «fede letteraria», che, come dice Gozzano, «fa la vita simile alla morte», e nel contempo le dà, paradossalmente, un senso, una ragione, un'anima) proprio la «tetra dolcezza della neve» cantata da Corazzini, l'anima «bianchissima e leggera» di un invernale «cielo morto» («le Ciel est mort», cantava il giovane Mallarmé, che pur si ostinava, «hanté», ad inseguire «l'Azur»), dispersa «per il nudo orto», per lo spoglio giardino («Non ho rosai, non ne ho avuti mai / nel mio triste orto») di un'esistenza esile e segnata. Mi piace credere che la «tetra dolcezza» della malattia crepuscolare, sublimata, e come scorporata, nella levità e nel candore di una parola poetica in apparenza spoglia e povera, ma pervasa nel profondo da una calda e segreta forza vitale, sappia ancora abbracciare il lettore d'oggi.

Matteo Veronesi