Antologia da "La buona solitudine" (1991, poi 1993)
Avevo un amico che non credeva in niente, mi disse
che tutti gli uomini sono profeti ed ogni
volo di mosca può cambiare il mondo, e intanto beveva
il caffè, scriveva qualche cosa su un foglietto, guardava
tranquillo il passeggio sotto i portici – io non seppi
cosa rispondere, nulla è sicuro, scoppia
una rivoluzione e qualcuno nasce o muore
in ogni istante, i tempi cambiano, ma il cambiare
dei tempi è sempre uguale, indicibile, quasi
io non so più neppure se si è vivi
IL CONDOMINIO
Qui le stanze hanno i muri sottili, potrei,
quando il tedio fosse atroce, accostarvi l’orecchio
e sentire, nell’aria assonnata, il canto
di una donna fra gli scrosci dell’acqua,
il pianto di un bambino che risuona
nei pianerottoli sordi, una radio
che sparge intorno una voce lontana.
Ascolterei quasi ridendo quello
che da bambino udivo con il dolce
timore dell’attesa. E sarei come
un vecchio che sorride
della vita e del tempo che ritorna.
A PALAZZO GANDOLFI, UNA SERA
Una ragazza ritta nella corta
gonna legge versi in cui sono fissate
le pallide passioni dei suoi anni –
ti ho sentita
vegliare, anima mia, su vuoti affanni
come queste caduchi, ed anche più
di queste vani.
Anch’io, tra i pochi, ascolto
questa trepida voce che si spande
per queste antiche stanze, e come per mistero
inviolabile mi scendono le lacrime.
Estate 1989
***
Io me ne vado triste, a tormentare
gli occhi di cinema deserti, e sogno s’apra
nella via fredda il muro polveroso
e la pietra mi abbracci come un padre
Ma per un pianto accosto
l’anima spenta al cuore ancora vivo -
lo schermo trema, e i fragili
occhi si rompono
IL GIARDINO CHIUSO
Nel giardino c’è un uomo, la figliola
bagna le dita nella fredda luce
della recente piova sulle foglie.
E ride l’occhiazzurra bimba, schiude
la bella madre i rosei labbri al canto.
E l’uomo prende una matita incerta,
traccia quei visi sulla carta, un attimo
prima che il tempo li confonda. E tutto
è in quella tremula felicità.
***
Ho schiuso cautamente la finestra
perché la notte entrasse nella stanza
con l’odore del fieno e con la falce
confitta in mezzo al campo e in mezzo al cielo.
E sono stato un pallido bambino
che ha giocato al Diluvio Universale
e pavido ha richiuso la finestra.
POCO PRIMA DELL’ALBA
Il sonno arriva come un nero demone
che m’impedisca di scrivere, mi sfili
la penna dalle dita e mi segni
le carte di disegni osceni, m’urli
in mezzo a un roco riso qualche nome
eterno per rimprovero o per scherno
– e un gallo canta di là dal prato ma forse
non c’è nessuno da svegliare, forse
ogni cosa è svanita con la luna
che indugiava alta, tra le nubi, senza
ch’io lo sentissi, mentre
io stavo curvo sopra oscuri scritti
vigilando il possibile prodigio –
ora che do pace alle affocate iridi, mi lascio
sconfiggere dal peso delle palpebre
dolenti, ancora e sempre troppo presto
Poco a poco la casa si desta, mi sembra
di udire già dalle stanze remote
un passo timido, forse è soltanto il gatto
che si insinua nei noti pertugi
o lo spettro lieve di un ladro
che nel primo chiarore si muove non visto
Ora si chiuda questo fumo che mi affonda
nell’abisso del guanciale, la caligine
che dolcemente m’entra nelle vene -
non voglio che l’aurora mi sorprenda
con la sua luce docile a mostrarmi
il rivivere ansioso d’ogni vita
come al principio, la vacua lontananza
dei vivi colli, il primo sole, i primi
canti che scuotono l’aria, la fuga
delle nottole sotto le alte travi
e le forme che mute si rivelano
Quanti mattini pallidi mi videro
andarmene di casa per le gite
della scuola, confondermi con gli altri in qualche treno –
e una stazione di provincia ansiosa
d’ingoiarmi mi rese il saluto
delle banchine sporche e delle vuote
sale d’attesa, a lungo torturò
i miei occhi che bruciavano per il sonno troppo breve
mentre ai miei sogni ancora vivi si mischiavano
canzonette e bestemmie, il gracchiare di qualcuno
che mi chiamava poeta e rideva
a fatica di me e dei miei versi
Quante volte mi levai con una mano
di pietra che mi stringeva il cuore, atteso
a qualche grande prova, e me ne andai
malcerto verso chiuse porte – amico
il buon clavigero mi conduceva a forza
tra le risa dei miei nemici, poi, violando
con la sicura mano il chiavistello,
scandì questo mio nome che dal tutto
e dal nulla mi distingue, questo nome effimero che mai
in nessun luogo mi saprà precedere, e con quelle
parole tenui e assorte nella tetra
questua di un moto di risposta
o anche soltanto di una nuda eco
che mormorano all’estremo i moribondi
io farfugliai qualcosa nel silenzio
Quante volte il sonno m’ha abbracciato
che già a levante un brivido d’albedine
correva i nervi del cielo come ora,
tra le nubi gelide sorrideva l’astro, il vento
muoveva interminati prati, appena
era finita in un sospiro occulto
la notte favorevole ai segreti
e la luna nella superna quiete
s’era disciolta con l’esiguo corno
E ancora poserò la mente stanca
che a poco vale, appena a una vertigine
meschina di parole e numeri, non certo
a vincere dell’alba il breve indugio, il bilico
infinito dell’incubo e dell’ombra
UN MATRIMONIO, FORSE
Non ricordo che la corsa tra le querce
nel riso d’un Aprile irraggiungibile, la morsa
delle erbe attorno alle mie tenere
caviglie di fanciullo, il sole timido
sul limitare della chiesa, la sposa con la bianca
chiostra dei denti e il suo tiepido segreto – ma troppo
nera è la notte intorno al fioco lume
della memoria, oggi, forse un raro
sorriso di ragazza tra barlumi
d’acque chiare, quel giorno oppure un altro
dei molti che fuggirono, l’arrivo
dei parenti, l’odore dell’incenso, un riso incerto