Antologia da "Controra" (1990)

Scelta antologica (con varianti) dalla raccolta Controra, Grafiche Veronesi, San Làzzaro di Sàvena 1990


Io vedrò il mio prodigio

se una mattina chiara

mi toglierò sudato dal giaciglio

e scoprirò d’aver sognato sempre.

E sarò forse un feto nascituro

che ucciderà un’inetta levatrice –

il nulla colmo allora

mi abbaglierà con occhi di ubriaco.

E sbratterò dalle polveri morte

quei veli bianchi e crespi e crepitanti

degli album di famiglia

e scorrerò le foto

quelle pallide foto di provincia

che rinchiudiamo in fragili cornici

poco sorpreso di trovarle vuote.


DOMENICA


Che potrò dire di te

tedioso antico giorno

che rinchiudi

il cielo nei cortili?

Forse che ubriachi

di voli le torme dei colombi

nella tromba dei quartieri

forse che non credo più deserte

di queste le sere dell’inferno

di queste che trafiggono le ombre

e un’altra corre lungo i muri freddi

delle chiese nuove.

Che potrò dire di te, ora ch’è sera

ora che il tedio si intride di tristezza

ora che l’ombra sconfessa la vaghezza, ogni cimento

si disfa o ricomincia, ed io non so

chi sono e chi non sono.


SOLILOQUIO DELL’UBRIACO


C’è un lume confitto nel vuoto

e qui una candela vicina

col lume che alluma l’ignoto

la bella fiammella divina

col vetro che tetro indovina

un qualche barlume remoto

la mano che getta le carte

è un’ombra che muove le dita

e il vetro più tetro l’invita

a scorrer con mano leggera

le lame del lume che il vuoto

trafigge e socchiude l’ignoto


PER ATHOS CORTICELLI *


Nello studio diserto dai clamori

della gente riversa sulle spiagge

piegato sulle vecchie carte opache

sulle controre miti, i volti tenui

i fiori tramortiti dietro i vetri

mi dice che a Bologna è oramai solo

con l’aria roca e immensa tra le cupole

coi comignoli sparsi e coi mercati

assolati –

quel sordo che mi esorta

alla parola, e cauto mi ripete

che la realtà non è che ombra dell’ombra

mi chiede perché ha perso la memoria.

Io muto gli domando a cosa serve.


* Il pittore Athos Corticelli, ora scomparso e, forse ingiustamente, dimenticato, teneva, nella sostanziale indifferenza della gente, un atelier a Lido degli Estensi, sede delle tediose, ma ora inspiegabilmente dolci nel ricordo, vacanze estive della mia infanzia. Per quel che la memoria dei miei occhi può ancora mettere a fuoco, fermava sulla tela barche, spiagge, marine, con forme nette, pure, per così dire silenziose e deserte, che ora potrebbero farmi pensare al primo Morandi, o al Carrà metafisico. Aveva un figlio, alto, pallido, come consunto da un chiuso tormento, tutto dedito alla conservazione, e quasi al culto, dell’opera del padre. Egli stesso effondeva la sua melanconia in acquarelli delicati e puri, per quanto un po’ trascurati nei contorni e nel tratto. Scomparve prematuramente, preso e travolto da un destino tragico. Nemmeno di lui la storia serba traccia (nota 2005).






VIALE DANTE




Sostavano i colombi

sui tavoli di pietra

della gelateria che si chiamava

Al Polo o qualcos’altro

di alto e gelido aveva sull’insegna

si sbriciolavano le foglie morte

sotto il passo irritato delle donne

tra file di cancelli

strisciavano automobili assonnate

turbava il marciapiede

che la moda tingeva con il passo

identico dei tempi

lo sferragliare di una motoretta.

In questi pomeriggi fatti d’ore

io camminavo solo nel giardino

fissando una locusta, un vecchio muro

una pozzanghera che si accendeva

per gioco di apparenze.


****************



Ho schiuso cautamente la finestra

perché la notte entrasse nella stanza

con l’odore del fieno e con la falce

confitta in mezzo al campo e in mezzo al cielo.

E sono stato un pallido bambino

che ha giocato al Diluvio Universale

e pavido ha richiuso la finestra.




PER ME



La giostra canta all’ultima miseria

coi pagliacci e i cavalli ed i colori

del suo raggiato tremolio d’asteria

agli zuccheri amari ed agli umori


d’inverno che non cedono alla brina

ai dolci implastichiti dietro i vetri

al fiume ch’odi, dall’erbosa china


e non vedi, nascosto, ai giorni tetri

e a te, remoto, che non ti rinvieni

tra forme vane e vincoli terreni