Testi apparsi su "Poesia"
(Testi apparsi in «Poesia», IX, 1996, n. 101, p. 69)
Una tensione metafisica […] si è via via affinata in un linguaggio sdegnosamente inattuale, come congelato nell’alveo della tradizione (dai crepuscolari a Montale) a cui Matteo ama rifarsi. Una vena di commozione senza esasperazione attraversa tutta la sua poesia, trovando nella ricerca di un improbabile, classico equilibrio un efficace dispositivo di crescita. La breve selezione che proponiamo vuole essere l’indicazione di un percorso inquieto, capace di volgere la sofferenza personale in espressione del male comune.
(Antonello Satta Centanin)
QUASI UNA DICHIARAZIONE DI POETICA
La lingua della postmodernità, la lingua che parliamo e che ci parla, perpetuamente attraversandoci ed invadendoci, quasi plasmando e modellando, indipendentemente dal nostro volere, i nostri pensieri e i nostri sentimenti – questa povera lingua strumentalizzata dalla comunicazione di massa, insudiciata dalla politica, appiattita dalla burocrazia, deturpata e annichilita dalle avanguardie –, non è più, non può più essere veramente “nostra”.
A maggior ragione, dunque, chi abbia l’ardire e l’umiltà di impugnare oggi la penna e cominciare, con mano tremula, a stendere anche un solo verso, mentre scopre – per usare le insostituibili e, una volta tanto, necessarie parole di Harold Bloom – che “la poesia sta dentro di lui”, al tempo stesso “esperisce la miseria e lo splendore di essere trovato da poesie – grandi poesie – fuori di lui”.
La lingua – quella pura e vera, quella del poeta – non potrà più trovare sostegno e ragione in se stessa, ma al di fuori di sé, magari – quasi per una sorta di “ritorno alle origini” – proprio nelle sue più limpide e riposte scaturigini, nella sua “tradizione” e nelle sue “regole”.
Anch’io, come un grande poeta del nostro secolo, “amai trite parole che nessuno osava”, senza pudore e senza rimorsi.
La lingua della poesia resta, sempre e comunque, una lingua morta. Proprio la ferale, marmorea, frigida rigidezza della sua dignità e della sua perfezione – proprio questo suo essere “morta” – si fa garante, con paradosso soltanto apparente, dell’estrema, ostinata possibilità di una sua sopravvivenza.
QUOTIDIANITÀ
Sfuggono alle finestre serrate
rapaci grida di sole
argentee della polvere che posa
sulle piastre scabre del muro.
I piatti sporchi del desco
i tozzi del pane lasciato
i panni stesi nei cortili annosi
fradici dei giorni versati.
Le ore vuote, i cieli identici
le frecce inutili d’una vecchia sveglia
il tempo che soffia
nel silenzio le sue note eterne.
(da Poesie, 1988)
Nella stazione grigia, nella nebbia
della banchina stridula di foglie
se vedi una carrozza vuota sulla
rotaia lameggiante, non salirvi
perché vedresti il cielo troppo chiaro
e saresti stordito dalle cose.
***
Avevo un amico che non credeva in niente, mi disse
che tutti gli uomini sono profeti ed ogni
volo di mosca può cambiare il mondo, e intanto beveva
il caffè, scriveva qualche cosa su un foglietto, guardava
tranquillo il passeggio sotto i portici – io non seppi
cosa rispondere, nulla è sicuro, scoppia
una rivoluzione e qualcuno nasce o muore
in ogni istante, i tempi cambiano, ma il cambiare
dei tempi è sempre uguale, indicibile, quasi
io non so più neppure se si è vivi
(da La buona solitudine, 1993)
DAVANTI AL LICEO, UNA MATTINA D'AUTUNNO
La studentessa bionda esce da scuola
ridendo, corre incontro al ragazzo che l'attende
fermo dall'altra parte della strada -
egli la bacia lungamente, stringe
a sé il bel corpo, dolcemente, dice
brevi parole, scioglie tra le dita
il morbido intrigo dei capelli -
poi l'auto parte, corre via, si perde
E il sabato mattina è un riso azzurro
che suona per le vie, chiaro lavacro
d'aria e luce che piove sulle piazze -
l'autunno odora nelle foglie morte
abbandonate al margine dei viali
e nell'ombra profonda dei cortili
PIPISTRELLI
In certe notti d'estate, se passo
in bicicletta svelto sotto gli alberi
che inonda il chiaro pianto della luna
e mi sorprende un fruscio tra le alte fronde, un fremito
d'ali veloce nel buio, allora
indovino il vostro antico terrore
Vispi signori della notte
che un tenue rumore spaventa, una lama
di luce che fende innocente
il buio del viale, illudete gentili
la mia debolezza, portatemi un poco col vostro
aereo tumulto nel dolce
oblio dei solai, nel chiuso degli antichi giardini, nel sonno
altero che forse nasconde
la miseria del giorno
***
per Lindita
“La mia città è bellissima, sul mare” –
mi scrive una ragazza
da un paese lontano, il cui nome
suona remoto e straniero come un sogno –
una traccia sbiadita, sulle carte
“La mia città è bellissima, sul mare” –
d’estate il cielo versa nel suo grembo
come un lago di luce
che abbacina i miei versi, e li cancella
Matteo Veronesi