Il Dilemma di Antigone

(“Studi Cattolici”, agosto 2019)


Sembra consuetudine, di fronte alle infrazioni di leggi dello stato compiute in nome della necessità di soccorrere i migranti, citare l'Antigone di Sofocle, e in particolare i celebri versi in cui l'eroina giustifica la propria violazione del divieto di seppellire il fratello richiamandosi ad una legge superiore, non scritta, incisa nel cuore dell'uomo. E sempre la figura di Antigone viene spesso evocata di fronte agli atroci dilemmi etici legati al fine vita.  

« A rivelarmi questo non fu Zeus, né la compagna degli Inferi, Dike, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero, né donde».

Ma la legge non scritta, gli agrapta nomima, che Antigone segue non sono tanto quelli di una superiore ed universale umanità, quanto quelli della stirpe, del ghenos, del clan familiare, contrapposti a quelli dello Stato (lo stesso conflitto fra polis e ghenos è drammatizzato nei Sette a Tebe di Eschilo). Nulla a che vedere con il moderno ideale democratico egualitario umanitario, figlio del pensiero settecentesco. (Le Supplici, semmai, potrebbero  assumere una qualche sfumatura umanitaria e interculturale, dato che inscenano l'accoglienza di donne perseguitate evocando, per di più, alcune ascendenze egizie della civiltà greca. Ma potrebbero forse profilarsi, in tal caso, scomode allusioni all'oppressione della donna in parte del mondo orientale). 

La legge scritta nel cuore suggerisce un interessante parallelo ebraico-cristiano. Il Nuovo Testamento, preannunciato nell'Antico, è precisamente una legge incisa nelle profondità del cuore. «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore» (Geremia, 31, 33). 

Eppure il Cristianesimo darà a Cesare quel che è di Cesare. 

Certo, l'obiezione di coscienza, di fronte al servizio militare (dunque all'obbligo di infliggere la morte in nome di un potere terreno, della Città degli Uomini), diede con il primo Cristianesimo esempi eroici. 

Ma sarà anche un saggio lealismo, un difficile equilibrio fra verità interiore e assoluta e adattamento al contesto storico con le sue condizioni, le sue istituzioni, finanche le sue pressioni, le sue costrizioni, i suoi ricatti, a contraddistinguere via via i primi secoli del nuovo credo, e a garantirne la trasmissione e la sopravvivenza. «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare. Se sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non rifiuto di morire». Queste, negli Atti degli Apostoli, le parole di San Paolo. 

Del moderno egualitarismo democratico, di quello spazio omogeneo, razionale, sovrapersonale, Antigone incarna l'esatto contrario: la legge della stirpe contro quella dello Stato, del sangue contro quella della comunità civile; il cuore, il sentimento, l'istinto, contro la ragione e l'ordine. Qualcuno, oggi, in un'ottica democratica, potrebbe semmai accusarla, se non di razzismo, certo di familismo, di irrazionalismo, di «mentalità patriarcale» per il suo essere essenzialmente sorella del guerriero caduto, ancor prima che donna e individuo. Da lì a farne addirittura una «fascista», ça va sans dire, sarebbe breve il passo.   

Più in generale, porre la coscienza individuale al di sopra della legge, leggere nel proprio cuore leggi non scritte più importanti di quelle scritte, apre sempre quadri ambigui e pericolosi. Leggi interiori e individuali che «nessuno sa quando comparvero, né donde». Non potrebbero, se mal lette e male interpretate, porre le basi per una pericolosa anarchia, per un individualismo devastante?

Pretendere che esista una Verità assoluta non è forse, come oggi ci viene insegnato, dogmatismo? Pretendere poi di leggerla nel proprio cuore e pensare di poter violare, in nome di essa, una legge scritta e condivisa, non è un dogmatismo ancora più estremo, ancora più radicale, insomma un atto supremo di arroganza, di hybris? Nella tragedia di Sofocle, del resto, affiorano, come in sordina, le umili ragioni della sorella Ismene, «incapace (amechanos) di violare la volontà comune».

Non insegna proprio Socrate, in Platone (i Greci, con i loro straordinari chiaroscuri, non vanno scomodati solo in un senso), che alle Leggi si deve comunque ubbidire, anche se sono o paiono inique? A chi spetta l'«interpretazione autentica»? Non c'è nulla al di sopra della coscienza individuale? Chi e come può decidere, per tutti, che una legge è ingiusta, e dunque va violata, o la si può violare? 

L'ideale umanitario imporrebbe, certo, di accogliere tutti i migranti. Dalla Libia potrebbero arrivarne (si calcola) altri settecentomila. Accoglierli tutti è realisticamente possibile? Il conflitto fra ideale e reale, fra essere e dover essere, è stato raramente altrettanto aspro. 

La Svizzera accolse gli Ebrei che fuggivano dai nazisti. Li accolse fino ad un certo limite. Poi chiuse le frontiere, in base al principio – si disse – della «barca piena». Fra le motivazioni, «timori di possibili disordini sociali e politici». (Timori, va detto, non così irrazionali, in ogni epoca e in ogni circostanza, davanti all'ipotesi di un'immigrazione fluviale, incontrollata e indiscriminata). «Rimane oscuro il numero esatto di coloro che la Svizzera avrebbe potuto salvare dalla deportazione e dalla morte». Così conclude, con agghiacciante laconicità, nella sua relazione ufficiale, la Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera (uek.ch/it) investita dell'ingrato ma inevitabile compito di fare i conti con il passato. 

Ma non è forse quella vasta e densa oscurità (nel senso di cupezza come d'inconoscibilità, di sinistra minaccia come di difficoltà di comprensione) a dominare, a sovrastare, in parte a vanificare, la conoscenza della storia, specie nelle sue stagioni ‒ direbbe Nolte ‒ di più tragica e immane dismisura?  

La Svizzera avrebbe potuto e dovuto accoglierli tutti? Forse sì, in quelle circostanze. 

Ma la percezione, la prospettiva di allora sono, possono essere, le stesse nostre, di oggi, a posteriori? È possibile giudicare la Svizzera di allora (e in generale il passato) con il nostro metro (o con un presunto metro assoluto, sovrastorico), e, analogamente, il presente nello specchio del passato (magari con paragoni quantomeno arditi fra gli orrori più o meno accertati del passato e quelli veri o presunti del presente)? Non è anacronismo, antistoricismo, idealismo astratto? 

Certo, abbiamo oggi, di ciò che accade nei lager libici, notizie più certe di quelle che si avevano all'epoca su quelli nazisti. Ma il problema del principio di realtà contrapposto all'ideale, della reale applicabilità del nobile principio universale per cui tutti i perseguitati andrebbero accolti e aiutati, non è meno arduo.

La tradizione cattolica, se da un lato riconosce l'importanza delle leggi non scritte, della Legge Naturale, dall'altro pone ad essa un limite. Secondo Tommaso d'Aquino, «dopo che a Dio, l'uomo è debitore ai genitori e alla patria. E quindi come spetta alla religione prestare culto a Dio, così subito dopo spetta alla pietà prestare ossequi ai genitori e alla patria». Il ius naturale, innato ed universale, non esclude il rispetto delle leggi dello stato.   

Benedetto XV, nel Bonum sane del 1920, paventava ‒ con uno sguardo che può apparire profetico com'è spesso, straordinariamente, in materia storica e sociale, quello del magistero pontificio ‒ il sopraggiungere, caldeggiato da certe utopie (che facilmente, è noto, si deformano in distopie), «di una certa repubblica universale, la quale sia fondata sulla uguaglianza assoluta degli uomini e sulla comunione dei beni, e nella quale non vi sia più distinzione alcuna di nazionalità, non si riconosca l’autorità del potere pubblico sui cittadini, né di Dio sugli uomini riuniti in civile consorzio. Cose tutte che, se fossero attuate, darebbero luogo a tremende convulsioni sociali». 

Una Babele indistinta e indecifrabile di identità, culture, valori, un mondo senza più distinzioni né confini (geografici come culturali), territori, coordinate, rappresenterebbero davvero una società più giusta e più umana di quella attuale? Non rischierebbero di essere l'ennesima, straniante utopia tramutata, in modo più o meno deformante, in realtà? 

Tertulliano, nell'Apologeticum, dovette porsi in modo angoscioso il problema dell'ubbidienza alle leggi di un Impero che perseguitava la sua fede. «Experimentis illuminantibus tenebras antiquitatis», man mano che l'esperienza rischiarava le tenebre dell'antichità, emergevano le assurdità, le contraddizioni, le lacune, le ingiustizie delle vecchie leggi, e la necessità di cambiarle. Proprio la luce di una Verità eterna, «peregrina in terris», straniera sulla terra, come decaduta, esule e smarrita, nei labirinti del tempo e della contingenza, faceva risaltare quella tormentosa relatività, quell'inadeguatezza perenne e logorante, delle molteplici e contraddittorie leggi umane a paragone della Legge eterna. «Quot adhuc vobis repurgandae latent leges!». Nelle pieghe profonde delle leggi e delle loro interpretazioni si nascondono fosche lacune d'ingiustizia. Le leggi devono essere, quasi come in un lavacro rituale, periodicamente «repurgatae», purificate, rinnovate. 

Paradossalmente, la relatività, la difformità, l'arbitrarietà delle leggi umane, che erano già state sottolineate, ora con demistificante ironia, ora con dialettica tensione tragica, dalla Sofistica e da Euripide, con il Cristianesimo risaltavano anche e proprio, in controluce, nella prospettiva assoluta di una Legge e di una Verità eterne. 

Difficile dire fino a che punto la coscienza individuale possa permettersi di trascendere o aggirare o scorciare il lungo cammino che tende alla forse irraggiungibile coincidenza fra legge particolare e Legge universale, giustizia terrena e Giustizia perenne. 

Né fino a che punto i popoli e le culture possano essere salvaguardati nella loro dignità attraverso una loro nebulosa indistinzione; che condurrebbe semmai alla loro dissoluzione, e trasformerebbe ogni possibile dialogo culturale in un fruscio indistricabile, in un perpetuo indecifrabile mormorio.

 

                                                                                 (Matteo Veronesi )