Il Luogo della Poesia. Riflessioni su Letteratura e Utopia

[«Università Aperta», VI, 1996, n. 5, pp. 8-9]


Nel seguente articolo, esploreremo il discorso pronunciato da Paul Celan, il celebre poeta tedesco di origine ebraica, noto per la sua profonda riflessione sulla letteratura. Celan, nel suo discorso intitolato “Il Meridiano,” introduce una sorprendente analogia tra la ricerca poetica e la rappresentazione cartografica del mondo. Attraverso un’esplorazione critica di questo discorso e alcune importanti opere letterarie, analizzeremo come i concetti di utopia e immaterialità si intreccino in modo sorprendente con la cartografia, rivelando nuove prospettive sulla natura della creazione artistica. Da Platone a Petrarca, esamineremo come alcuni dei pensatori più influenti della storia abbiano concepito le loro utopie come “mondi di carta,” invitando i lettori a riflettere sulla sottile linea tra realtà e immaginazione. Un viaggio affascinante nel cuore della creatività e dell’ideazione artistica ci attende mentre esploriamo le parole di Paul Celan e i loro significati profondi.

“Ricerca topologica? Certamente! Ma alla luce di ciò che della ricerca è oggetto: alla luce dell’U-topia. Cerco il luogo della mia propria origine. Con un dito alquanto impreciso, perché irrequieto, cerco tutto questo sulla carta geografica. Tutti questi luoghi sono introvabili, essi non esistono; ma io so, so dove dovrebbero esserci, e ... qualcosa trovo.  Trovo quello che unisce, quello che può avviare il poema all’incontro. Trovo qualcosa che è - come la lingua - immateriale, eppure è terrestre, planetario, qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso attraverso entrambi i poli: trovo ... un Meridiano”.

Il discorso da cui è tratto il passo appena riportato, intitolato Il meridiano (1), fu pronunciato il 22 ottobre 1960 all’Accademia di Darmstadt da Paul Celan, poeta tedesco di origine ebraica, scampato per miracolo all’Olocausto e stabilitosi poi a Parigi, dove pose fine ai suoi giorni nel 1970, gettandosi nella Senna. L’autore di Papavero e memoria e La rosa di Nessuno - senza dubbio uno dei più oscuri e problematici scrittori del Novecento - dimostra, in queste pagine, di essere un acuto e lucidissimo teorico della letteratura.

L’analogia tra il testo poetico e la carta geografica si rivela, ad un attento esame, meno sconcertante e paradossale di quanto possa inizialmente apparire: il sistema di rappresentazione del reale di cui si avvale la carta - parziale, convenzionale, arbitrario, fatalmente incapace di cogliere le sfumature e i particolari più minuti del dato concreto, tra l’altro perennemente mutevole - è “immateriale come la lingua”, proprio come lo strumento di cui si servono i poeti, come quella materia verbale che spesso essi plasmano, lavorano e cesellano come un oggetto autonomo, fine a se stesso (“qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso”, dice il testo citato), lontano dal reale.

Ampliando genialmente la sua suggestiva metafora, Celan fa della carta il luogo per eccellenza dell’Utopia, dell’ “ou tòpos”, del non-luogo, virtuale, immateriale, vagheggiato ma irrealizzabile, che trova il suo più naturale termine di paragone in una trascrizione scalare e mediata della realtà, in una selva di microrappresentazioni schematiche, in un sistema arbitrario di significanti e significati qual è la rappresentazione cartografica.

Se ora, muovendo da queste premesse, passiamo ad esaminare alcune delle maggiori costruzioni utopiche erette da filosofi e scrittori nel corso della storia del pensiero, non potremo essere sorpresi nel constatare come - consapevolmente o meno - i loro creatori le abbiano immaginate e descritte con tutti i caratteri e le prerogative della rappresentazione cartografica. Citerò, per non dilungarmi eccessivamente, solo gli esempi più clamorosi.

Il primo su cui possiamo soffermarci è offerto dalla più sdtraordinaria Utopia di tutti i tempi: la Repubblica di Platone.

“(Le anime dei defunti) prendevano la via della pianura di Lete in un caldo insopportabile, da togliere il fiato: in effetti in questi luoghi” - vale a dire nell’Iperuranio, la sede delle Idee, definito altrove (2) “senza colore, privo di figura e non visibile”, cioè ancora una volta “immateriale come la lingua” - “non si troverebbe nessun albero nè alcun prodotto della terra. Alla sera posero le tende sulle sponde del fiume Amelete, la cui acqua nessun recipiente riesce a contenere” (3). Viene spontaneo immaginare questo oltremondo, in cui - in un’atmosfera onirica, rarefatta ed immateriale - gli alberi non offrono frescura né recano frutti e l’acqua dei fiumi, diafana ed evanescente, non può essere raccolta, come un fittizio “mondo di carta”, una carta geografica, in cui è impossibile pungersi il dito toccando le cime dei monti o bagnarselo seguendo il corso dei fiumi. Analogo può essere l’approccio ad alcuni passi del secondo libro dell’Utopia di Tommaso Moro, la cui parte iniziale è dedicata alla descrizione topografica dell’isola, sede di un’ideale società perfetta. Essa si configura come una lingua di terra a forma di “luna nuova”, con un’astratta perfezione geometrica difficilmente ravvisabile in natura; il suo visitatore, Raffaele Itlodeo, si imbatte poi nel fiume Anidro (“senz’acqua”, come ci si può ben aspettare dal principale fiume di una terra che in tempi remoti si chiamò Abraxa, cioè, secondo una fantastica etimologia, “paese su cui non piove”), scopre che il principe, da quelle parti, è chiamato Ademo (“senza popolo”), e così via. Chiudo la mia brevissima e lacunosa rassegna con un autore certamente inferiore ai due appena citati, ma comunque interessante per il nostro discorso: alludo a Diodoro Siculo, la cui fiabesca Isola del Sole “era di forma circolare ed aveva il perimetro di circa cinquemila stadi” (4), proprio come se i suoi contorni fossero stati tracciati dall’infallibile compasso del cartografo.

Per concludere - per far sì, direbbe Celan, che il meridiano si ricongiunga con se stesso - senza lasciare il discorso troppo nel vago, riesce assai comodo, e direi naturale, far riferimento a quello che è forse il poeta italiano più profondamente imbevuto di platonismo - giacché tutti gli autori di Utopie hanno dovuto, chi più chi meno, fare i conti con il grande modello platonico, archetipo di ogni forma di pensiero fondata sull’astrazione, l’idealizzazione, il riferimento al trascendente e all’immateriale -; alludo, ovviamente, a Petrarca.

In uno scritto che ha goduto di larga fortuna, Preliminari sulla lingua del Petrarca (5), Gianfranco Contini, proponendosi - sarà un caso? - di analizzare “topograficamente” l’oggetto del suo studio, arriva a conclusioni che interessano molto da vicino il nostro discorso. Il poeta, a suo dire, “si è chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti alla mutabilità della storia”; “nessuna natura in quanto tale è presente in Petrarca”, anche le sue “verdi fronde” non danno ombra e le sue “chiare e fresche e dolci acque” non lavano né dissetano. La realtà, attraverso l’astrazione di un linguaggio dolce, puro, levigato, di un lessico limitato e selettivo fino all’esasperazione - proprio nel saggio citato si incontra la simpatica immagine di un “Jockey Club lessicale” -, viene cristallizzata e trasfigurata in un “corteo di sostanze emblematiche”, in una galleria di modelli ideali, nella diffusa, rarefatta atmosfera di un “dover essere” linguistico ed ontologico - “profumo di parole più che parole”, come è stato scritto.


L’erbetta verde, e i fior di color mille

sparsi sotto quell’elce antiqua e negra,

pregan pur che ‘l bel pè li prema o tocchi;

e ‘l ciel di vaghe e lucide faville 

s’accende intorno, e ‘n vista si rallegra

d’esser fatto seren da sì belli occhi.


Come notò, tra i primi, un critico d’eccezione, Ugo Foscolo - anch’egli, in un’opera non a caso pervasa da reminiscenze petrarchesche come le Grazie, supremo e sublime cantore del Bello ideale -, “il Petrarca affoga spesso la realtà in tanto lusso di decorazioni ideali, che mentre ci affisiamo nelle sue immagini le ci scompaiono. (...) I fiori ‘vaghi d’essere calcati dal bel piede’, il cielo ‘che si rabbella della sua presenza’, l’atmosfera ‘che nuovo splendore impronta dagli occhi suoi’, sono mere visioni che ne tentano d’avventurarci con lui dietro a non conseguibile chimera” (7).

In siffatta “non conseguibile chimera” sta l’eterno bagliore, ammaliante ma irraggiungibile, dell’Utopia.

                                               

                                                                           Matteo Veronesi


NOTE


1) P. CELAN, Il Meridiano, in La verità della poesia, Torino, Einaudi, 1993, pp. 17 e 20-21.

2) PLATONE, Fedro, 247 D.

3) PLATONE, Repubblica, X 621 A.

4) DIODORO SICULO, Biblioteca storica, II, 55.

5) In Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 175, 177, 179 e 180-81.

6) F. PETRARCA, Canzoniere, CXCII.

7) U. FOSCOLO, Parallelo fra Dante e il Petrarca, in Opere - volume II (Prose polemiche e critiche), Milano, Rizzoli, 1966, pp. 542-43.